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Per una politica della possibilità qui e ora
PROTEGGERE IL SENSO DI ATTIVITÀ MARGINALIZZATE DALL’ECONOMIA CAPITALISTA (IL LAVORO DI CURA, L’AUTOPRODUZIONE, L’AGRICOLTURA DI SUSSISTENZA, IL VOLONTARIATO, LE PRATICHE COMUNITARIE), RICONOSCERE L’IMPORTANZA DI UNA “POLITICA DELLA POSSIBILITÀ” QUI E ORA, VIVERE LA RICERCA COME ESPERIMENTO E NON SOLO MOMENTO VALUTATIVO, PENSARE IL CAMBIAMENTO SEMPRE A PARTIRE DAL CAMBIAMENTO DI SÉ. SONO PASSATI OLTRE TRE DECENNI DA QUANDO IL PENSIERO DI J.K. GIBSON-GRAHAM HA COMINCIATO A SCUOTERE LE FONDAMENTA DELLA RICERCA E DELLA PRATICA MARXISTA DA UNA PROSPETTIVA FEMMINISTA POST-STRUTTURALISTA. J.K. GIBSON-GRAHAM È LO PSEUDONIMO ACCADEMICO SCELTO DALLE GEOGRAFE ECONOMICHE KATHERINE GIBSON E JULIE GRAHAM. OLTRE IL CAPITALOCENTRISMO. PER UNA POLITICA DELLA POSSIBILITÀ QUI E ORA (MIMESIS ED.) È IL LIBRO CHE RACCOGLIE ALCUNI SUOI SCRITTI PIÙ SIGNIFICATIVI E INTRODUCE PER LA PRIMA VOLTA IN ITALIA IL PENSIERO DI J.K. GIBSON-GRAHAM. L’INTRODUZIONE DI OLTRE IL CAPITALOCENTRISMO Laboratorio di intreccio di materiali naturali presso Cascina Rapello (in una frazione di Airuno a 15 km da Lecco), un angolo di mondo di cui si prende cura la cooperativa Liberi sogni -------------------------------------------------------------------------------- Sono passati ormai oltre tre decenni da quando il lavoro di J.K. Gibson-Graham ha iniziato a scuotere le fondamenta della ricerca e della pratica marxista da una prospettiva femminista post-strutturalista. J.K. Gibson-Graham è lo pseudonimo accademico scelto dalle geografe economiche Katherine Gibson e Julie Graham. Le due si sono conosciute negli anni Settanta durante il dottorato alla Clark University, in Massachusetts e sono presto diventate amiche. Da questa amicizia è nata un’intesa intellettuale profonda che avrebbe dato origine a una delle collaborazioni più longeve e influenti nell’ambito del pensiero geografico contemporaneo. Le tesi dottorali di entrambe si basavano sull’economia politica marxista per analizzare i processi di ristrutturazione economica che stavano portando al declino di alcune regioni industriali “tradizionali” in Australia (Gibson) e negli Stati Uniti (Graham). Dopo il conseguimento del dottorato, Gibson è tornata a lavorare in Australia (prima all’Università Nazionale Australiana, poi all’Università di Sydney, alla Monash e infine alla Western Sydney) mentre Graham ha continuato il suo percorso negli Stati Uniti, all’Università del Massachusetts ad Amherst, dove è rimasta fino alla sua morta nel 2010, dopo essere anche stata a capo del Dipartimento di Geoscienze. Nonostante la notevole distanza fisica in tempi precedenti a Internet, l’impegno condiviso nei confronti dell’economia politica e della sperimentazione intellettuale è proseguito senza interruzioni per oltre trent’anni. Come affermato da loro stesse, “abbiamo percorso un cammino personale che si arricchisce continuamente, man mano che emergono nuove sfide nel relazionarsi e nel pensare/scrivere insieme”. Il risultato di questi sforzi è stata una geografia economica femminista post-strutturalista teoricamente sofisticata che ha messo al centro il ruolo del soggetto e la capacità trasformativa dei processi di ricerca, trasformando profondamente il dibattito su economia e sviluppo all’interno della geografia e delle scienze sociali più in generale. Il primo articolo co-firmato da Gibson e Graham (ma non ancora con lo pseudonimo Gibson-Graham) del 1986 era un intervento teorico marxista che sviluppava la loro teoria sulla ristrutturazione economica includendo nuove forme di migrazione internazionale di lavoro a contratto. In quegli anni, l’influenza dell’analisi strutturale marxista stava cominciando a essere messa in discussione all’interno della geografia economica; per Gibson e Graham, l’incontro col femminismo post-strutturalista e l’economia marxista anti-essenzialista di Stephen Resnick e Richard Wolff, colleghi di Graham ad Amherst, sembra aver rappresentato un punto di svolta fondamentale verso il tentativo di riteorizzare capitalismo e classe. La firma unica di “Gibson-Graham” è nata in una stanza di dormitorio durante una conferenza femminista alla Rutgers University nel 1992. Da qui ha preso vita il loro primo articolo a firma Gibson-Graham, dal titolo memorabile Waiting for the revolution, or how to smash capitalism while working at home in your spare time (“Aspettando la rivoluzione, o come distruggere il capitalismo lavorando da casa nel tempo libero”), pubblicato sulla prestigiosa rivista Rethinking Marxism nel 1993. È proprio con la traduzione di questo testo che si apre la presente antologia, il cui obiettivo principale è introdurre il pubblico in lingua italiana ad alcuni dei principali concetti e contributi analitici proposti da Gibson-Graham nel corso della sua prolifica produzione teorica. Sebbene il lavoro di Gibson-Graham abbia avuto un’influenza notevole su numerosi dibattiti contemporanei in diversi ambiti disciplinari non solo in lingua inglese, ma anche in italiano (tra i più recenti, si veda ad esempio quello sul pluriverso), esso non è tuttavia disponibile in traduzione italiana. La presente antologia rappresenta quindi il tentativo di rimediare a questa mancanza, raccogliendo una serie di contributi pubblicati tra il 1993 e il 2010, inclusi alcuni dei capitoli contenuti all’interno delle due monografie che hanno reso Gibson-Graham maggiormente nota a livello internazionale: The End of Capitalism (As We Knew It) del 1996 e A Postcapitalist Politics del 2006. Come la stessa Gibson-Graham osserva nell’introduzione alla seconda edizione, la prima edizione di The End of Capitalism è stata pubblicata nel pieno dell’ossessione accademica per la globalizzazione capitalista, e rappresentava una sfida profonda alle forme accettate di marxismo e neo-marxismo che allora dominavano la geografia economica. Del resto, come si evince dalla sua biografia, Gibson-Graham stessa era profondamente immersa in queste tradizioni intellettuali e disciplinari, e questo si rifletteva nel suo interesse per la teorizzazione della classe sociale, emerso già nei primi lavori firmati con lo pseudonimo collettivo. Il libro si proponeva di sfidare i discorsi teorici basati su forze economiche disincarnate, sull’egemonia capitalista e sull’omogeneizzazione legata alla globalizzazione. Ispirata in particolare dagli approcci anti-essenzialisti al marxismo, Gibson-Graham voleva mettere in discussione l’essenzialismo e il riduzionismo dei discorsi economici sia tradizionali che marxisti, decostruendo l’economia per dimostrare che non si tratta di uno spazio chiuso con un’identità capitalista fissa, ma può essere aperta ad altre interpretazioni. Per realizzare tale obiettivo, influenzata dalla teoria femminista di Elizabeth Grosz sul fallocentrismo, Gibson-Graham ha introdotto il concetto di capitalocentrismo, il quale descrive il binarismo dominante del discorso economico che tende ad assegnare caratteristiche positive di unità e totalità al capitalismo, mentre le pratiche economiche non-capitaliste vengono subordinate al capitalismo, in quanto mancanti o insufficienti e comunque sempre ricondotte nell’orbita del capitalismo. Secondo Gibson-Graham, il discorso capitalocentrico finisce per ridurre e cancellare la differenza economica, per cui ogni pratica viene ricondotta all’unità capitalista. Il capitalocentrismo si presenta quindi come una modalità, una struttura o una tendenza a organizzare la differenza economica in un modo tale per cui le categorie, le pratiche, i soggetti e gli spazi capitalisti (ad esempio, il lavoro salariato, la proprietà privata, l’impresa capitalista) vengono considerati più reali, centrali, coerenti e determinanti rispetto ad altri (come il lavoro domestico, l’agricoltura di sussistenza familiare, il lavoro schiavistico, le cooperative di produzione, la cura, il mercato nero, i beni comuni, il lavoro forzato). Avvicinarsi a queste differenze realmente esistenti senza presumere che esse debbano necessariamente allinearsi secondo logiche predeterminate o identità che le surdeterminano è al centro dell’ormai celebre strategia di Gibson-Graham di “leggere per differenza piuttosto che per dominanza” (si vedano i capitoli 4 e 6). Sfidare il capitalocentrismo significa, quindi, per Gibson-Graham, rendere visibile la molteplicità di processi di classe capitalisti e non-capitalisti presenti all’interno di qualsiasi formazione economica. Contestando la coerenza e la permanenza del capitalismo attraverso la teorizzazione dell’economia come molteplicità di forme coesistenti — tra le altre, feudalesimi, schiavitù, produzione indipendente di merci, produzione domestica e varie forme di capitalismo — il suo lavoro mira ad aprire spazi concettuali non solo per molteplici letture dell’economia, ma anche per una vasta gamma di lotte politiche. Un esercizio intellettuale di tale portata richiede uno sforzo concettuale importante, che ha portato, forse più di qualunque altro contributo, all’introduzione di approcci nuovi, combinati in maniera creativa, nell’ambito della geografia economica. Ciò ha significato andare ben al di là della tendenza diffusa a confrontarsi con visioni eterodosse dell’economia, promuovendo un intervento teorico primario radicale. Ecco, quindi, che in The End of Capitalism, trovano spazio, accanto ad Althusser, Engels e Marx, anche Derrida, Foucault, Grosz, Irigaray, Haraway e Sedgwick. Se questi nomi potevano essere familiari a chi si occupava di geografia culturale, essi erano profondamente lontani dai programmi di studio sull’economia e lo sviluppo. Sulla scia di tali influenze, la decostruzione era lo strumento metodologico principale adottato nel libro al fine di rompere le narrazioni consolidate che plasmavano l’analisi e la politica della sinistra. Questa fase iniziale segnava l’inizio di un progetto intellettuale più ampio, culminato nell’ambizione di produrre un linguaggio e una politica della differenza economica. Ciò ha comportato, innanzitutto, la rottura con le concezioni egemoniche del capitalismo come descrittore economico e sociale predeterminato, aprendo la strada alla ridefinizione di concetti chiave del marxismo come quelli di classe e surplus. Tale progetto si è basato fortemente sulla “teoria debole” (weak theory) così come concettualizzata da Sedgwick in opposizione alla “teoria forte” (strong theory). Secondo Gibson-Graham, la teoria forte rappresenta un approccio distaccato e critico, caratterizzato da una posizione paranoica in cui la diversità viene appiattita nell’uguaglianza, spinta dalla necessità di rendere generalizzabile e universale la conoscenza generata dai processi di ricerca. La “forza” di tale teoria non proviene dalla sua efficacia ma dall’ampiezza e dal tipo di dominio che essa organizza. Laddove la teoria debole è vista come “poco più che una descrizione” che si occupa solo di fenomeni vicini o situati, la teoria forte ordina fenomeni vicini e lontani in un unico sistema, riconducendoli a un’unica causa comune. Estendendo la propria portata, la teoria forte assume una posizione sempre più anticipatoria, finendo per rivelare poco più che i risultati già presunti. Ne consegue che “tutto finisce per significare la stessa cosa, solitamente qualcosa di grande e minaccioso”. Nel caso della ricerca sulle pratiche economiche, questo si traduce nel liquidare come insignificanti le pratiche definite “alternative” solo perché non rientrano nei modelli dominanti. Tuttavia, il progetto di Gibson-Graham non si è limitato a decostruire il capitalocentrismo del linguaggio, portando alla luce la diversità di pratiche e soggettività economiche che già esistono qui e ora. Esso ha fornito gli strumenti (pratici) per realizzare quella che Gibson-Graham ha definito “politica della possibilità”. Tale progetto inizia a essere realizzato appieno in A Postcapitalist Politics, dove Gibson-Graham propone di abbandonare le narrazioni cupe di sfruttamento capitalista e impotenza per promuovere pratiche di pensiero critico che ripensino le economie come multiple e differenziate, creando nuovi spazi per l’azione collettiva e nuove possibilità di soggettivazione che conducano alla realizzazione della politica della possibilità. A Postcapitalist Politics rappresenta quindi l’invito alla comunità accademica a riconoscere il potere costitutivo dei propri approcci analitici e a comprendere che, attraverso il proprio lavoro, essa contribuisce a creare e a mettere in scena i mondi che si abitano. Il progetto ontologico sull’economia diversa che viene a delinearsi si fonda su un orientamento sperimentale alla ricerca (nella forma della ricerca-azione). Nelle parole di Gibson-Graham, quest’orientamento sperimentale si caratterizza per un interesse verso l’apprendimento piuttosto che verso il giudizio. Trattare qualcosa come un esperimento sociale significa aprirsi a ciò che esso ha da insegnarci, un’attitudine molto diversa dal compito critico di valutare se qualcosa sia buono o cattivo, forte o debole, mainstream o alternativo. L’approccio sperimentale riconosce che ciò che stiamo osservando è in cammino verso qualcos’altro, e si interroga su come poter partecipare a questo processo di divenire. Questo non significa che le nostre raffinate capacità critiche non abbiano un ruolo nella ricerca, ma che la loro espressione passa in secondo piano rispetto all’orientamento sperimentale. In linea con l’influenza del femminismo post-strutturalista e della teoria queer, tale orientamento sperimentale (alla ricerca e alla pratica politica) non può che passare per il soggetto, ovvero non esiste cambiamento possibile che non parta dal cambiamento di sé. Infatti, recita uno dei passaggi del capitolo Coltivare soggetti per un’economia di comunità: “Se cambiare noi stesse significa cambiare i nostri mondi, e la relazione è reciproca, allora il progetto di fare la storia non è mai qualcosa di lontano, ma è sempre qui, ai margini dei nostri corpi che sentono, pensano, provano emozioni e si muovono”. Per produrre cambiamento, questo processo di soggettivazione deve essere, per Gibson-Graham, collettivo e basato sul riconoscimento imprescindibile del nostro essere in relazione con altri esseri umani e non umani per la difesa e la riproduzione dei beni comuni. In questo modo, il lavoro di Gibson-Graham offre strumenti fondamentali per teorizzare e praticare l’alternativa qui e ora partendo da sé, abbracciando gioia, sperimentazione, ottimismo e possibilità. -------------------------------------------------------------------------------- [Cesare Di Feliciantonio 
e Antonella Clare Vitiello] -------------------------------------------------------------------------------- Riferimenti bibliografici Gibson-Graham J.K., The End of Capitalism (As We Knew It), University of Minnesota Press, Minneapolis 1996. Gibson-Graham J.K., A Postcapitalist Politics, University of Minnesota Press, Minneapolis 2006. Gibson-Graham J.K., Diverse economies: performative practices for ‘other worlds’, in “Progress in Human Geography”, XXXII, n. 5, 2008, pp. 613-632. Gibson K., Graham J., Situating migrants in theory: the case of Filipino migrant contract construction workers, in “Capital and Class”, XXIX, n. 1, 1986, pp. 130-149. Kothari A., Salleh A., Escobar A., Demaria F., Acosta A. (a cura di), Pluriverso. Dizionario del post-sviluppo, ed. it. a cura di M. Benegiamo, A. Dal Gobbo, E. Leonardi, S. Torre, Orthotes, Napoli 2021 Sedgwick E.K., Touching feeling: Affect, pedagogy, performativity, Duke University Press, Durham 2003. -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Per una politica della possibilità qui e ora proviene da Comune-info.
Affrontare la tormenta
PRENDENDO SPUNTO DALL’ARTICOLO DI RAÚL ZIBECHI, CREATE DUE, TRE, MOLTE ARCHE, CHE UNISCANO RESISTENZA, PROTEZIONE COLLETTIVA DALLA TORMENTA E CREAZIONE DI UN MONDO NON CAPITALISTA, ALDO ZANCHETTA RAGIONA SUL VIOLENTO CAOS GLOBALE, SUL DOMINIO DELLO SVILUPPO CHE CONTINUA A CONDIZIONARE ANCHE PARTITI E MOVIMENTI PROGRESSISTI E SUL BISOGNO DI CAPOVOLGERE IL NOSTRO MODO DI PENSARE PER RICONOSCERE ALTRI MONDI GIÀ ESISTENTI CAPACI DI PROTEGGERE LA COMPLESSITÀ DEL SISTEMA UMANO E LE SUE CONNESSIONI CON L’AMBIENTE MATERIALE E IMMATERIALE Unsplash.com -------------------------------------------------------------------------------- La tormenta: così gli indigeni maya zapatisti del Chiapas definiscono l’attuale caotica situazione mondiale. Essa cresce di intensità ed ogni giorno “è più grande di sempre”, usando un’espressione sgrammaticata creata per la “narrazione” del risaldamento climatico in corso. Difficile farne una descrizione complessiva abbastanza veritiera perché si presenta in modi diversi nei vari punti della “selva”, e contraddittorie sono le “narrazioni” che ne fanno i vari osservatori. Molti, i cosiddetti “esperti”, si affannano a elaborare previsioni sulla sua evoluzione, che si dimostrano puntualmente errate nel momento in cui si passa dal “futuro” al “presente”. Inoltre queste “narrazioni” hanno, per molti di loro, finalità precise: aumentare le paure e il disorientamento per perseguire meglio, nel caos che ne consegue, i propri interessi, fra loro in genere conflittuali. Quello che segue è un tentativo di intelligibilità azzardato, frammentato e mutevole, dato l’accelerarsi e accavallarsi frenetico degli avvenimenti. Lo condivido cercando dialogo e correzioni. Costruire due, tre, molte arche «Per questo ci tocca proteggerci come possiamo, sulla base delle nostre risorse, prima di tutto attraverso i lavori collettivi, la minga, il tequio1, che permettono allo stesso tempo di creare nuove realtà e difenderle. Ma la cosa più importante è la certezza che non ci si può aspettare nulla da governi o Stati. Seguendo il consiglio di Che Guevara quando il popolo vietnamita resistette all’invasione e alla guerra degli Stati Uniti “creare due, tre, molti Vietnam”), credo che si tratti di costruire arche, molte arche, che uniscano resistenza, protezione collettiva dalla tormenta e creazione di un mondo non capitalista. Non è una ricetta, né una linea da seguire. È semplicemente una verifica di ciò che la gente sta facendo». Questo è un brano di un articolo di Raúl Zibechi apparso su Comune il 27 giugno, significativo perché l’idea dell’arca, come dirò dopo, negli stessi giorni era venuta anche a me come metafora da usare in un incontro programmato fra persone amiche con le quali da un anno sto lavorando per costruire un’arca.2 Alle soglie di una nuova era Un’era, quella “moderna”, sta chiudendosi con il fallimento dell’utopico perseguimento dell’organizzazione della società umana secondo un modello capitalista ritenuto l’unico corretto nella sua ultima formulazione neoliberista e globalista, (ricordate il libro di Francis Fukuyama La fine della storia e l’ultimo uomo?). A questo fallimento sta facendo seguito l’intensificarsi della tormenta con un susseguirsi di violenze che superano ogni precedente immaginazione, mentre un’altra era sta aprendosi in una situazione appunto metaforica di tormenta. Nell’articolo citato, Zibechi ha scritto: «Il mondo che conoscevamo sta giungendo al termine. Prima che un altro mondo possa nascere, vivremo un caos sistemico che durerà decenni. Solo l’organizzazione collettiva può illuminare quel futuro». Questo è accaduto nei precedenti cambiamenti di era che conosciamo, ogni volta in maniera più drammatica e lunga. Questa volta però la situazione presenta un aspetto nuovo particolarmente drammatico: non solo la transizione da un modello di civiltà ad un altro, ma la possibile fine dello stesso genere umano. Umanità a rischio di estinzione Questa ipotesi venne analizzata da Ivan Illich nel VII capitolo del libro Descolarizzare la società, intitolato Rinascita dell’uomo epimeteico. Egli non fu il primo a porsi tale problema, che era già stato sollevato in tempi passati, ma solo all’interno di una ristretta cerchia di pensatori e nella prospettiva di una catastrofe cosmica, subita e non causata dall’uomo. La novità introdotta da Illich fu l’idea che questa fine potesse essere auto-generata e che fosse necessario sottoporre il problema al dibattito pubblico perché si cercasse un rimedio per evitarla. Non dovrebbe essere questo il problema oggi più grave, da affrontare prioritariamente? Estinzione tout court, o veloce, dovuta al «pulsante di Hiroshima» premuto da un militare, oppure lenta, causata da «istituzioni non militari» che, senza pulsanti da premere, «creano bisogni più rapidamente che soddisfazioni e nel tentativo di appagare i bisogni che esse stesse suscitano, consumano la Terra»3, rendendola inabitabile al genere umano. Ma possibile anche per trasformazione: «Gli stregoni rimpiazzano le levatrici e promettono di trasformare l’uomo in qualche altra cosa: programmato geneticamente, purificato farmacologicamente e capace di restare malato molto più a lungo. L’ideale contemporaneo è un mondo totalmente asettico, dove ogni contatto fra gli uomini, o tra gli uomini e il loro ambiente, sia frutto di previsioni e manipolazioni».4 Quest’ultima è una fotografia esatta del modello a cui attualmente si sta lavorando, scattata con un anticipo di cinquant’anni. Lo sviluppo, storia di una credenza occidentale5 Questa estinzione avverrà se una forza antropologica propria degli esseri umani, la speranza, non verrà risvegliata come forza sociale capace di far passare le persone dallo stato di attesa passiva a cui sono state abituate dal mito dello “sviluppo” a una assunzione nelle proprie mani di una responsabilità attiva. Il mito dello “sviluppo” era stato lanciato in orbita nel punto IV del “discorso al caminetto” fatto dal presidente statunitense Truman nel dicembre 1949 in occasione della sua rielezione. Sviluppo che, grazie alla forza trainante del progresso tecnologico, avrebbe generato una disponibilità crescente di beni materiali atti a soddisfare i “bisogni”, sia quelli primari (cibo, abitazione. salute …) che quelli indotti (questi ultimi illimitati e in parte convertiti in “diritti”).6 Questo è il clima mentale in cui viviamo più o meno tutti, sia gli affezionati a questo sistema sia, in misura ridotta e inconscia, gli stessi suoi critici, perché questo è l’ethos, lo stato d’animo del tempo in cui stiamo vivendo.7 «L’uomo ha conquistato il potere frustrante di chiedere qualunque cosa perché non riesce a immaginare niente che non possa essergli fornito da un’istituzione».8 Le cose, come oggi sappiamo, non sono andate esattamente così: lo “sviluppo” ha creato una serie di danni “collaterali” tutt’altro che trascurabili e purtroppo crescenti, che preannunziano un futuro oscuro del quale – incredibile dictu! – ha dato una prospezione, estrapolata al 2071, Klaus Schwab,9 membro fra i più autorevoli dell’élite mondiale, presente in forze al World Government Summit (WGS),10 tenutosi a Doha, nel Qatar, dal 13 al 15 febbraio 2023, con lo slogan «Shaping Future Governments» (Plasmare i governi futuri): «Le proiezioni prevedono un futuro distopico di cambiamenti climatici catastrofici, migrazioni di massa, licenziamenti di massa dovuti all’automazione, conseguenti disordini sociali e la fusione di esseri umani e tecnologia».11 Come fotografo del futuro anche Schwab non è male, bisogna riconoscerlo. Ma il suo obiettivo era quello di convincere del fatto che i problemi collaterali dovuti al progresso tecnologico potevano e dovevano essere curati con un’ulteriore dose dello stesso progresso, come giù aveva intuito e denunciato Illich in un brano che riporteremo più avanti. Questo summit vide anche quello che secondo alcuni fu uno “scontro” e secondo altri uno “scambio” fra Schwab e un altro esponente autorevole dell’élite, Elon Musk, il quale, secondo il resoconto pubblicato sul sito Money.it, avrebbe detto che «troppa unità potrebbe far crollare l’intero sistema. “So che questo si chiama Vertice del governo mondiale, ma penso che dovremmo essere un po’ preoccupati nell’andare troppo nella direzione di un unico governo mondiale… Questo perché un unico governo mondiale potrebbe comportare un “collasso della civiltà”. Se, infatti, si avesse una “singola civiltà”, il ‘crollo’ di quest’ultima coinvolgerebbe l’intero sistema e nulla ne resterebbe al di fuori».12 Un discorso certamente sensato, inatteso dato il personaggio, che secondo i maligni lo avrebbe fatto a proprio vantaggio per rallentare l’avanzamento di alcuni progetti sponsorizzati anche da altri e rispetto ai quali i suoi erano in ritardo. E infatti è stato subito dimenticato. Il progresso tecnologico Una delle attese oggi più consistenti generata dalla credenza nel progresso tecnologico che promette di colmare i difetti collaterali da esso generati, secondo i suoi fautori è rappresentata dalla AI, l’Artificial Intelligence. Il processo della sua crescita e affermazione è in corso con velocità inaspettata, generando a un tempo speranze e timori che stanno dando luogo a un dibattito intenso. Uno dei punti di arrivo agognati dai suoi fan è l’uomo transumano, dalla vita prolungata anche fino a duecento anni, ma addirittura eterna nella sua versione cyber. In effetti oggi la vita nelle parti più “progredite” del mondo è prolungata a scapito di chi vive nelle altre parti (e a quale prezzo!).13 Personalmente non faccio parte di questi fan e nemmeno li comprendo. Trovo significativo quanto riportato recentemente da Pierluigi Fagan in uno dei suoi frequenti brevi e densi scritti, intitolato L’erosione della mente: il prezzo biologico e culturale della delega cognitiva: «La nostra mente è la funzione dell’organo detto cervello, il quale è la centrale del sistema nervoso ramificato. Il cervello è fatto di molte cellule non interconnesse che ancora non abbiamo del tutto capito quali funzioni presiedono e di un sistema fortemente interconnesso di cellule che si scambiano impulsi chimici ed elettrici. Il tipo e grado di interconnessione cerebrale fa un cervello più abile in alcuni compiti piuttosto che altri. In linea generale, meno interconnessioni, più limitata l’attività mentale, più limitato il comportamento del soggetto e le sue capacità. Il MIT ha fatto un esperimento sul funzionamento cerebro-mentale di tre gruppi diversi. Si trattava di scrivere un breve componimento a soggetto. Un gruppo doveva usare solo le proprie capacità mentali, il secondo poteva usare Internet e Google, il terzo si affidava ai sistemi automatici di scrittura. Monitorati nello svolgimento dell’esperimento, quelli del secondo gruppo hanno mostrato una connettività cerebrale inferiore di circa il 40% rispetto al primo. Il terzo del 55%. Storicamente, sappiamo che poiché la biologia si fonda sul principio dell’uso e riuso di certe strutture e funzioni, meno le si usa meno saranno efficienti ed infine scompariranno. In pratica, tutto il nostro progresso nel sollevarci dalle fatiche funzionali del dover far qualcosa, modifica la nostra stessa complessione biologica».14 Vorrei qui riportare una frase che è scolpita come punto di riferimento nella mia ancorché ormai fragile memoria: «Forse, prima di lasciare alla scienza moderna l’ultima parola sull’evoluzione dell’homo sapiens abbiamo bisogno di ascoltare altre culture e di sperimentare alcuni degli altri modi di ‘essere’ umani».15 Sulla diversità di questi mondi già esistenti e non statici, ma in continua propria evoluzione, è particolarmente rilevante (lo è stato almeno per me) uno studio scientifico dell’etnopsichiatra Piero Coppo16, da uno scritto del quale cito un lungo periodo relativo a questa diversità: «Altre storie, quelle di altri popoli, hanno sviluppato altre prerogative, altre potenze. Le etnografie illustrano modalità di esserci nel mondo a noi aliene, che tengono conto molto più della complessità del sistema umano e delle sue connessioni con l’ambiente materiale e immateriale in cui evolve di quanto non faccia il modello che abbiamo ereditato e da cui, a partire dall’Ottocento e dal Novecento, si sono costituite le discipline della psiche insieme al loro oggetto, il soggetto psicologico. Volendo intenderci con altri, dobbiamo quindi trovare un minimo comun denominatore che sia genericamente umano, per concepire psiche. Possiamo, per esempio, pensarla come quella parte della sfera immateriale, invisibile e sovraindividuale alla quale i singoli che vi sono immersi hanno accesso, che li nutre e che loro nutrono. Questa dimensione e i suoi contenuti si particolarizzano progressivamente localizzandosi nello spazio e nel tempo, fino a costituire quel particolare aggregato di cultura e psiche condiviso da uno specifico gruppo, che contribuisce a differenziarlo dai gruppi vicini, agglomerato che poi si incarna ulteriormente individualizzandosi in una particolare forma, nel singolo».17 Krisis Parlando di questo periodo di “transizione”, tipico come si è visto di ogni passaggio d’era, e dei problemi appena descritti, Illich ne aveva dato questa descrizione: «Il vocabolo crisi indica oggi il momento in cui medici, diplomatici, banchieri e tecnici sociali di vario genere prendono il sopravvento e vengono sospese le libertà. Come i malati, i paesi diventano casi critici. “Crisi”, la parola greca che in tutte le lingue moderne ha voluto dire ‘scelta’ o ‘punto di svolta’, ora sta a significare: Guidatore, dacci dentro! Evoca cioè una minaccia sinistra, ma contenibile mediante un sovrappiù di denaro, di manodopera e di tecnica gestionale. Le cure intensive per i moribondi, la tutela burocratica per le vittime della discriminazione, la fissazione nucleare per i divoratori di energia sono, a questo riguardo, risposte tipiche. Così intesa, la crisi torna sempre a vantaggio degli amministratori e dei commissari, e specialmente di quei recuperatori che si mantengono con i sottoprodotti della crescita di ieri: gli educatori che campano sull’alienazione della società, i medici che prosperano grazie ai tipi di lavoro e di tempo libero che hanno distrutto la salute, i politici che ingrassano sulla distribuzione di un’assistenza finanziata in primo luogo dagli stessi assistiti. La crisi intesa come necessità di accelerare non solo mette più potenza a disposizione del conducente, e fa stringere ancora di più la cintura di sicurezza dei passeggeri; ma giustifica anche la rapina dello spazio, del tempo e delle risorse, a beneficio delle ruote motorizzate e a detrimento delle persone che vorrebbero servirsi delle proprie gambe. Ma ‘crisi’ non ha necessariamente questo significato. Non comporta necessariamente una corsa precipitosa verso l’escalation del controllo. Può invece indicare l’attimo della scelta, quel momento meraviglioso in cui la gente all’improvviso si rende conto delle gabbie nelle quali si è rinchiusa e della possibilità di vivere in maniera diversa. Ed è questa la crisi, nel senso appunto di scelta, di fronte alla quale si trova oggi il mondo intero».18 Si tratta di una descrizione che a chi scrive sembra realistica e opportuna dopo quanto già detto a proposito della sollecitazione a fare della speranza una forza sociale attiva di contrasto al “progresso”, parola della quale oggi conosciamo meglio il significato. Arche, ponti ma anche loro costruttori A questo punto, dopo aver scritto varie cose che si presentano a prima vista frammentate e scollegate, faccio una pausa di riflessione e verifica delle dimenticanze, iniziando con la ricapitolazione veloce di quanto scritto. All’inizio è riportata la citazione tratta dell’articolo di Zibechi sulla necessità di costruire arche per scampare alla tormenta. Arche, per restare nella metafora, predisposte per una navigazione lunga e avventurosa, condotte da timonieri esperti nel resistere al canto lusingatorio delle astute sirene governative. Traducendo in termini reali, queste sirene sono esperte nelle arti della cooptazione, nel creare caos e diffondere narrazioni ingannevoli, travestire la rapina in beneficenza, fingere ravvedimenti e, in caso estremo, usare violenza a man salva.19 Metafore, sia la tormenta che le arche. La metafora è una figura retorica efficace e utile in casi come questo perché parla all’immaginazione, cioè al “senti-pensare”20, più che alla pura razionalità, cosa questa che può talora sconfinare nell’astrazione o in una pura registrazione di conoscenza in una zona dormiente della memoria, senza generare un’azione conseguente. Sono tanti i motivi razionali che la preannunciavano, questa tormenta, e che avrebbero dovuto spingerci a operare per evitare il suo formarsi. Ma non abbiamo fatto niente di concreto per evitarla. Costruire arche e ponti, quindi, capaci di resistere alla tormenta. Perché questo avvenga, è necessaria una conoscenza specifica che certamente la «gente comune» non ha appreso nelle scuole del “sistema”, destinate a formare gestori acritici e zelanti di esso. Per questo, avverte Zibechi, occorre non aspettarsi aiuti dall’alto ma darsi da fare qua in basso, dove ci troviamo, aiutandoci reciprocamente e organizzandoci. “Organizzare la speranza”, che è una forza sociale, aveva detto un altro esperto lottatore antisistema, Gustavo Esteva, che il sistema lo conosceva bene avendone salito le scale fin quasi alla stanza del comando, pensando che così avrebbe potuto cambiare il suo mondo, quello messicano, prima di rendersi conto che così non sarebbe stato e decidere di de-professionalizzarsi e di schierarsi con la «gente comune», appunto. La sua visione politica, una volta uscito dalle stanze del potere, era divenuta chiara: il «mondo nuovo» lo avrebbero costruito coloro che dal sistema avevano ricevuto bastonate ed erano stati incatenati a una vita di miserie: i popoli indigeni, gli emigranti, le donne che avevano preso coscienza dell’esistenza del patriarcato, i senza lavoro, e con loro alcuni altri, mossi da antichi ideali. E aveva preso atto che le forze rivoluzionarie organizzate in cui si era creduto erano cambiate, perché avevano perduto la fiducia in se stesse, erano scese a patti con le élites del sistema. Queste, in sintesi, le sue conclusioni: le sinistre organizzate nei partiti, come pure i movimenti sociali, ormai hanno cambiato natura, e quindi obiettivi e strategie. Non è più possibile contare su di loro per un reale cambiamento radicale del sistema. E neppure si può contare sulle élites, che da tempo si sono ritagliate il proprio angolino nel sistema. Quelle che si vogliono ancora “progressiste” si sono messe l’anima in pace con l’assunzione della scappatoia del «riformismo», ma mantenendo un linguaggio di sinistra dissociato dalla pratica. Dopo aver parlato di tormenta e di suoi responsabili, di costruire arche e ponti per resisterle, dobbiamo parlare anche dei loro costruttori. Sarà fatto. Aldo Zanchetta, dall’’arca del “tiglio di Gragnano” (Aldo Zanchetta ha aderito alla campagna Partire dalla speranza e non dalla paura) -------------------------------------------------------------------------------- Note 1 Minga, tequio: termini indigeni per definire i lavori comunitari collettivi. 2 https://comune-info.net/create-due-tre-molte-arche/ > Create due, tre, molte arche 3 Illich I., Descolarizzare la società, Mondadori, Milano, 2019 [1971],p. 172. 4 Ibidem, p. 173. 5 Gilbert Rist, Lo sviluppo. Storia di una credenza occidentale, Bollati Boringhieri editore, Torino, 1997. 6 Riporto volentieri il pensiero del Mahatma Gandhi sui “diritti”: «Tutti i diritti degni di essere meritati e conservati sono quelli dati dal dovere compiuto. Così, lo stesso diritto alla vita ci viene soltanto quando adempiamo al dovere di cittadini del mondo. Secondo questo principio fondamentale, è probabilmente abbastanza facile definire i doveri dell’Uomo e della Donna e collegare ogni diritto a un dovere corrispondente che conviene compiere in precedenza. Si potrebbe dimostrare che ogni altro diritto è solo un’usurpazione per cui non val la pena di lottare» (risposta di Gandhi, interpellato dall’UNESCO sull’argomento). 7 Vedi Stefano Boni, Homo comfort. Il superamento tecnologico della fatica e le sue conseguenze, Elèuthera 2014. 8 Ivan Illich, ibidem, p. 171. 9 Klaus Schwab, creatore e all’epoca ancora presidente del World Economic Forum di Davos (WEF). 10 WGS, Global Government Summit, una piattaforma globale di scambio di conoscenze interno all’élite del sistema dedicata a plasmare il futuro del governo unico mondiale, auspicato per il 2071. I partecipanti all’evento comprendevano oltre 300 relatori e 10.000 presenze, tra cui 250 ministri di governo e rappresentanti di 80 organizzazioni internazionali, regionali e governative, tra cui le Nazioni Unite, il World Economic Forum (WEF), l’Organizzazione Mondiale della Sanità, la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale. 11 https://childrenshealthdefense.org/defender/musk-contro-schwab-al-world-government-summit-scontro-su-due-visioni-del-futuro/?%20lang=it 12 https://www.money.it/wgs-lo-scontro-tra-musk-e-schwab-al-vertice-mondialista-delle-elite-tecnocratiche 13 Per vederne alcuni aspetti che più demenziali non si può, si può leggere l’inchiesta condotta dallo scrittore scozzese O’Connell (Essere una macchina, Adelphi 2017), in cui si narra delle cliniche criogeniche ove malati terminali ricchi si fanno ibernare in attesa che la scienza abbia trovato il modo di guarirli. 14 https://www.money.it/l-erosione-della-mente-il-prezzo-biologico-e-culturale-della-delega-cognitiva 15 Scott Eastham, Visioni del mondo in collisione. La sfida dell’ingegneria genetica, in InterCulture n. 2, 2005, Città Aperta ed., p. 30. 16 Piero Coppo, Le ragioni degli altri. Raffaello Cortina ed., Milano, 2013. 17 Ibidem, p. 164. Lo stesso Coppo fa una osservazione: «Questa constatazione permette di uscire dalla scelta obbligata tra la fede in un solo dio-creatore e il pensiero o il relativismo culturale acritico, offrendo l’opportunità di un salto epistemologico importante che consente di passare in forze da una cosmologia universale a una pluri-versa. Oggi è cioè possibile, sulla scelta delle nuove teorie sulla complessità, sui sistemi acentrici e sull’autorganizzazione [ … ], accedere a una prospettiva tendenzialmente meta-culturale che permetta di sostenere, con uno sguardo dall’alto, l’esistenza e la coesistenza nello stesso spazio e tempo di molti mondi più o meno compatibili tra loro, sopportando la mancanza di un vertice che li riassuma in uno solo, in un solo edificio e destino che sarebbero, d’altra parte, inevitabilmente caotici e incoerenti» (Ibidem, pp. 191.192). 18 Ivan Illich (2005 [1978]), Disoccupazione creativa. Un nuovo equilibrio tra le attività svincolate dalle leggi di mercato e il diritto all’impiego, trad. it. E. Capriolo, Boroli, Milano, pp. 20-21. 19 Matthieu Amiech, L’industria del complottismo. social network, menzogne di Stato e ricostruzione del vivente, Edizioni Malamente, Urbino 2024. 20 Il senti-pensare è la fusione di due modi di percepire e interpretare la realtà a partire dalla riflessione e dall’emotività dando luogo a una concomitanza di pensiero e di azione, fino alla convergenza in un unico atto di conoscenza e di azione. Il senti-pensare è l’incontro intensamente consapevole tra sentimento e ragione. -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE QUESTO ARTICOLO DI STEFANIA CONSIGLIERE: > Altri mondi reali -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Affrontare la tormenta proviene da Comune-info.
L’induzione all’astensione è reato per ogni carica pubblica, ricordiamolo!
L’induzione all’astensione si verifica quando un soggetto, sfruttando la sua posizione pubblica o di potere, tenta di dissuadere gli elettori dal partecipare alle elezioni. L’articolo 98 del Testo Unico delle Leggi Elettorali per la Camera specifica che il reato può essere commesso da pubblici ufficiali, ministri di culto e chiunque altro sia investito di un potere o di una funzione pubblica: “Il pubblico ufficiale, l’incaricato di un pubblico servizio, l’esercente di un servizio di pubblica necessità, il ministro di qualsiasi culto, chiunque investito di un pubblico potere o funzione civile o militare, abusando delle proprie attribuzioni e nell’esercizio di esse, si adopera a costringere gli elettori a firmare una dichiarazione di presentazione di candidati od a vincolare i suffragi degli elettori a favore od in pregiudizio di determinate liste o di determinati candidati o ad indurli all’astensione, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni (…)” La legge prevede dunque una pena di reclusione da 6 mesi a 3 anni per chi induce all’astensione. La legge 352 del 25 maggio 1970, detta “Norme sui referendum previsti dalla Costituzione e sulla iniziativa legislativa del popolo“, disciplina le modalità di attuazione dei referendum previsti dalla Costituzione e le procedure per l’iniziativa legislativa popolare. All’articolo 51 afferma chiaramente: “Le disposizioni penali, contenute nel Titolo VII del testo unico delle leggi per la elezione della Camera dei deputati, si applicano anche con riferimento alle disposizioni della presente legge. Le sanzioni previste dagli articoli 96, 97 e 98 del suddetto testo unico si applicano anche quando i fatti negli articoli stessi contemplati riguardino le firme per richiesta di referendum o per proposte di leggi, o voti o astensioni di voto relativamente ai referendum disciplinati nei Titoli I, II e III della presente legge. Le sanzioni previste dall’articolo 103 del suddetto testo unico si applicano anche quando i fatti previsti nell’articolo medesimo riguardino espressioni di voto relative all’oggetto del referendum (1).” In Italia, in vista dei referendum abrogativi dell’8 e del 9 giugno proposti dalla CGIL, il centrodestra (maggioranza di governo) ha invitato i propri elettori all’astensione. Fratelli d’Italia ha dato indicazioni precise con una comunicazione inviata ai parlamentari titolata “Referendum, scegliamo l’astensione”, in cui si afferma che non votare è un modo per esprimere dissenso verso un’iniziativa considerata “di parte”, promossa dalla sinistra. Fin qua nulla di illecito, ma – come sottolineano chiaramente le leggi sopracitate – il problema sorge quando a indurre all’astensione sono cariche pubbliche come l’attuale Presidente del Senato Ignazio (che il 9 maggio all’incontro “Spazio Cultura” a Firenze, è intervenuto a proposito dei cinque referendum abrogativi dell’8 e 9 giugno su lavoro e cittadinanza, dichiarando: “Io continuo a dire che ci penso, però di una cosa sono sicuro: farò propaganda affinché la gente se ne stia a casa”); come il Vicepresidente del Consiglio Antonio Tajani, che continua a predicare l’astensione; e la Presidente del Consiglio Giorgia Meloni (che fino a pochi giorni fa ha parlato di astensione, mentre in questi giorni ha corretto il tiro dichiarando: «Vado a votare ma non ritiro la scheda» ). Questi stanno inducendo all’astensione quando invece dovrebbero invitare la cittadinanza a recarsi alle urne indipendentemente dal voto che andranno ad esprimere, proprio perchè hanno giurato sulla Costituzione. Quando vediamo Meloni, i suoi Ministri, La Russa, che inducono all’astensione, come cittadini avremmo il diritto di denunciarli alla Procura della Repubblica ai sensi dell’art. 51 della legge 352 del 25 maggio 1970 e dell’articolo 98 del Testo Unico delle Leggi Elettorali per la Camera che recitano chiaramente: “…chiunque investito di un pubblico potere o funzione civile o militare, abusando delle proprie funzioni all’interno di esse, si adopera (…) ad indurli all’astensione, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni (…)”. Un conto è la libertà di espressione in quanto cittadino (sia esso membro privato o esponente di partito o associazione), un conto è essere cittadino che riveste cariche pubbliche e induce a non andare a votare. Un conto è, come carica istituzionale, esprimersi per il SÌ e il NO; un conto è, come carica istituzionale, esprimersi per l’astensione. Esprimersi o per il SI’, o per il NO o per l’astensione come semplici cittadini è lecito; esprimersi per il SI’ o per il NO ricoprendo cariche pubbliche (ministri e membri del governo, Presidente del Consiglio, Presidente della Repubblica, presidente della Camera, Presidente del Senato, prefetti, militari, leader religiosi, leader politici, figure civiche) è lecito; esprimersi per l’astensione ricoprendo cariche pubbliche è illegale. La distinzione cambia ed è necessaria proprio perchè le responsabilità sono diverse e questi atteggiamenti non devono passare impuniti. Forse si dimenticano che l’articolo 48 della Costituzione italiana dichiara che il voto è un dovere civico. Forse si dimenticano che, come cariche pubbliche, devono seguire prima i dettami della Costituzione e poi scegliere per se stessi. “Referendum popolare” vuol dire volontà e partecipazione popolare. Proprio in questi momenti si dovrebbe rilanciare l’importanza del voto perchè è l’unico mezzo che abbiamo per poter decidere noi cittadini, senza delegare ad altri. Oggi sta sempre più passando culturalmente l’idea che gli strumenti di “democrazia diretta” come i referendum sono uno spreco di denaro pubblico, che noi cittadini “eleggiamo il Parlamento” e “sono loro che devono decidere su queste cose” perchè “sono pagati per farlo”. Queste narrazioni tossiche sono intrise di una “cultura del delegare” e della “deresponsabilizzazione”, oltre che di indifferenza verso la “cosa pubblica” e di grande individualismo. Se i partigiani avessero ragionato in questo modo non ci sarebbe stata la Resistenza, se i nostri Padri e le nostre Madri Costituenti avessero pensato in questo modo molto probabilmente non avremmo avuto la Costituzione che – seppur trascurata – abbiamo oggi. Quando parliamo di “spreco di denaro pubblico” associato agli strumenti della democrazia diretta, ci dimentichiamo il ReamEurope di 800 miliardi di euro e i circa 70 milioni di euro che spendiamo ogni giorno per stare in un’organizzazione come la NATO. Soldi che vanno a togliere risorse al welfare state, alle pensioni, agli ammortizzatori sociali, al lavoro, alle tutele e a i diritti. In Italia i referendum sono stati strumenti fondamentali per prendere decisioni dal basso laddove la classe politica – per interesse o ignavia – non era in grado di prenderle: vedasi il divorzio, la legalizzazione dell’aborto, l’acqua pubblica, il nucleare (quest’ultimi vinti e disattesi vergognosamente dalla tessa classe politica), la vittoria del NO alle vergognose riforme costituzionali del governo Renzi nel 2016. L’astensione in questi anni è stata sdoganata come una legittima scelta politica che si concretizza molto orwellianamente e paradossalmente nello “scegliere di non scegliere”. In realtà – se è vero che l’astensione è sintomo politico di una post-democrazia che sta mantenendo il suo aspetto formale e perdendo il suo aspetto sostanziale – è anche vero che il sintomo più grave di una progressiva depoliticizzazione della cittadinanza italiana che ha paura a definirsi; che ha paura di dire ciò che pensa; che prima di esprimere la propria opinione premette il fatto di essere “apolitico” o addirittura “anti-politica” (cosa impossibile, in quanto l’essere umano è un animale socio-politico). L’astensione è lo specchio non solo di una rabbia collettiva che non si canalizza, ma anche lo specchio di un problema culturale: una cittadinanza che non si informa, che non si interessa alla cosa pubblica, che non capisce i potenziali strumenti decisionali di cui si può avvalere e soprattutto che rimane indifferente perchè “intanto manovra sempre il manovratore”. Un cittadinanza che – per motivi storici e culturali – si ritrova priva di una visione di mondo, di spazi in cui confrontarsi e formulare pensiero critico, e di una cultura politica in grado di collocare le categorie della politica senza andare in preda a paranoie. Ciò che impressiona è che la stessa cittadinanza che è completamente disorientata di fronte ad un mondo in continuo cambiamento che non sa più definire è la stessa cittadinanza che beneficerebbe dell’esito positivo di questi referendum su lavoro, diritti e tutele. E’ purtroppo anche la stessa cittadinanza a cui la destra si rivolge per non andare a votare. La destra sta usando oggi l’astensione per sabotare il referendum come strumento di “democrazia diretta” al fine di delegittimare chiunque ne parli e di impedire il superamento del quorum. Già in precedenti appuntamenti referendari si era avuta una diversità di vedute sul problema da parte della dottrina e di commentatori vari, soprattutto da quando ha preso avvio quella che è stata definita «ondata astensionista», la quale tra il 1997 e il 2003 ha vanificato ben quattro appuntamenti consecutivi con le urne1) . Tuttavia stavolta la conflittualità sul punto appare sensibilmente maggiore, in virtù del fatto che i contrari all’abrogazione delle disposizioni coinvolte – decidendo di avvalersi ex-ante della previsione di cui all’articolo 75 della nostra Costituzione, in base alla quale la deliberazione referendaria non è valida se non ha partecipato al voto la maggioranza degli aventi diritto – anziché schierarsi per il “no” hanno optato per una linea astensionista generalizzata, con lo scopo dichiarato di impedire il raggiungimento del quorum e di far fallire la consultazione. Questo è imperdonabile perchè, per paura di perdere, si vuole influenzare anche quella fetta di popolazione che avrebbe votato NO verso il non-voto. Come se andare alle urne fosse tempo sprecato. Bisogna far capire che l’astensione non è neutralità, ma è un compromesso al ribasso perchè saranno sempre gli altri a decidere al nostro posto. Per questi motivi l’8 e 9 giugno 2025 rechiamoci alle urne, facciamo sentire la nostra voce e il nostro pensiero (se ancora lo abbiamo) e votiamo 5 SI’ per la democrazia, per i diritti e per un Paese più giusto.   Consiglio la lettura del fascicolo Referendum abrogativo: se l’astensionismo è legittimo, a seggi aperti i dati sull’affluenza non devono essere resi noti del costituzionalista Gianluca Braga, pubblicato il 7 giugno 2005 in vista dei referendum abrogativi del 12 e del 13 giugno 2005 (che vedevano il corpo elettorale chiamato ad esprimersi in merito a quattro quesiti inerenti la legge 19 febbraio 2004, n. 40 in materia di procreazione medicalmente assistita). A distanza di 20 anni le sue riflessioni sul tema dell’astensionismo nei referendum abrogativi è più attuale che mai e può essere di grande spunto anche oggi per pensare criticamente sulla liceità di sabotare uno strumento democratico.   (1) La competenza in riferimento alle fattispecie punite a norma del presente articolo è stata attribuita al giudice di pace, ai sensi di quanto disposto dall’art. 4, D.Lgs. 28 agosto 2000, n. 274, con la decorrenza indicata nell’art. 65 dello stesso decreto. Per la misura delle sanzioni vedi l’art. 52 del suddetto D.Lgs. n. 274 del 2000. Lorenzo Poli