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Scavare il linguaggio: l’insegnamento di Paolo Virno – di Christian Marazzi
La notte del 7 novembre 2025 è scomparso Paolo Virno. Filosofo e intellettuale critico e militante, appartente a Potere Operaio, negli anni Settanta fu indagato nell'ambito dell'inchiesta 7 aprile e poi scagionato da tutte le accuse. È stato redattore di Luogo Comune, rivista che per prima ha scandagliato le trasformazione del lavoro dopo la [...]
Sullo scolasticidio. Il progetto politico sulla scuola italiana: dal pensiero critico all’obbedienza
Il 16 ottobre 2025, il giorno dopo l’ennesimo femminicidio – quello di Pamela Genini -, arriva l’emendamento della Lega nel ddl Valditara. Il testo vieta i progetti di educazione sessuo-affettiva nelle scuole primarie e secondarie di primo grado e richiede il consenso preventivo dei genitori nelle scuole secondarie di secondo grado. In un momento storico in cui il dibattito sull’educazione all’affettività per contrastare una cultura patriarcale e violenta è centrale, il governo presenta un disegno di legge completamente scollegato dalle esigenze concrete della società e della comunità educante. La preoccupazione e lo sconcerto del personale della scuola alla notizia confliggono con le dichiarazioni del ministro: le nuove Indicazioni Nazionali prevedono l’educazione sessuale e affettiva, ma solo da un punto di vista “biologico”. Chi lavora quotidianamente con bambine e adolescenti sa che la sessualità non è solo una questione biologica, ma di identità. Un’identità che non sempre, ci si sente liberi di dichiarare perché scandalizza più una donna che si dichiara lesbica che un uomo che infligge coltellate sul corpo della compagna. Chi vive la scuola tutti i giorni sa che l’affettività riguarda competenze differenti da quelle che si possono acquisire durante l’ora di scienze leggendo un paragrafo sugli apparati riproduttivi. Educare alla sessualità e all’affettività significa educare al consenso e al rispetto di tutte le identità, riconoscere le proprie emozioni, decostruire pregiudizi e diseguaglianze. Al contrario, eliminarne l’insegnamento significa normalizzare odio e violenza. Tuttavia, la legittimazione tacita di una cultura patriarcale e violenta, favorita anche da una scuola che non prepara all’educazione sessuale e affettiva, non è da imputare solo a questo governo. È  dai primi anni 2000 che l’OMS chiede l’introduzione della “Comprehensive Sexuality Education” (CSE) nelle scuole di ogni ordine e grado come parte integrante dei diritti umani, della salute pubblica e dell’educazione alla cittadinanza responsabile, ma in Italia non è mai esistito un programma nazionale obbligatorio sull’insegnamento dell’educazione sessuo-affettiva. Sono previsti dei progetti extracurriculari da attuare a discrezione delle scuole. L’Italia rientra infatti insieme a Ungheria, Romania, Bulgaria e Grecia tra i Paesi europei in cui l’educazione sessuo-affettiva non è obbligatoria ed è fortemente limitata o del tutto assente. In tutti gli altri paesi europei l’insegnamento è regolamentato e strutturato; tra gli esempi più avanzati vi è l’Olanda in cui sono presenti programmi educativi sull’approccio affettivo e relazionale già a quattro anni. È invece da imputare a questo governo l’intenzione di costruire uno stato autoritario a colpi di decreti che si configurano come manifesti politici in cui i nemici sono chiari. Si è partiti nel 2022, con la legge “anti-rave” che criminalizza chi si organizza per praticare soluzioni alternative dal basso e modelli di vita accessibili compensando un welfare inesistente. Si è poi passati, con la legge “sicurezza”, alla repressione feroce di  migranti, occupanti di case, tutti coloro a cui questo governo ha deciso di negare il diritto ad una vita dignitosa creando un clima di paura contro qualsiasi forma di protesta. Ora, l’obiettivo è intervenire direttamente sui contenuti educativi per crescere generazioni obbedienti. Era chiaro sin dall’insediamento di questo governo il progetto politico sulla scuola. Il primo passo è stato fatto passando da “Ministero della Pubblica Istruzione” a “Ministero dell’istruzione e del Merito”. Ciò ha significato cancellare il servizio pubblico a favore di una meritocrazia fittizia, promuovere una scuola che non considera le differenze alimentando frustrazioni nei più giovani mentre si è sempre più lontani dal tutelare uguaglianza e diritti. L’intervento successivo è stato sui contenuti disciplinari attraverso la pubblicazione delle Nuove Indicazioni Nazionali. Anche in questo caso, il contenuto è molto lontano da una scuola che formi cittadine per una società inclusiva ed interculturale e privilegia la conoscenza dell’Occidente rispetto alle altre civiltà. Le mobilitazioni e gli scioperi di questi ultimi mesi, a partire dall’iniziativa del “minuto di silenzio per Gaza” il primo giorno di scuola, hanno subito evidenti tentativi di boicottaggio e intimidazione tramite comunicazioni riservate degli uffici scolastici, delegittimazione dei collegi docenti, precettazioni di scioperi legittimi. Per la prima volta dopo anni la scuola è stata di nuovo protagonista delle piazze schierandosi apertamente contro il genocidio in Palestina e contro la complicità del governo ed ecco allora imbastire i preparativi per nuove forme di repressione. Il 25 settembre è stato assegnato in Senato il ddl Gasparri. Un disegno di legge in cui compaiono obblighi formativi su cultura ebraica, Israele e antisemitismo; sanzioni per il personale – dal provvedimento scritto fino al demansionamento e alla destituzione – ; modifiche al codice penale che vedono l’antisemitismo e l’antisionismo – che non sono affatto sinonimi – come aggravante. In questo quadro, il tassello in più che mette il ddl Valditara è depotenziare la funzione centrale della scuola in uno stato democratico e svuotare il ruolo educativo delle docenti. È in tutto questo che si configura lo scolasticidio, termine coniato per indicare la distruzione sistematica delle scuole palestinesi. Sebbene neanche lontanamente paragonabile, ciò che accade a Gaza è la vetrina delle politiche autoritarie ed escludenti dell’occidente, anche quelle scolastiche. Lo scolasticidio è nello smantellamento del servizio pubblico a favore della privatizzazione e del merito;  nella prospettiva classista ed escludente della scuola; nel depotenziamento dei luoghi di democrazia; nei corsi di formazione a pagamento per ottenere il ruolo; nel precariato; nella repressione delle docenti e delle studentesse; nell’attacco alla libertà d’insegnamento; nella promozione dell’obbedienza invece che dello sviluppo del pensiero critico; nell’intervento delle forze dell’ordine al posto di interventi didattici ed educativi. Nell’intersezione tra la svolta autoritaria dell’occidente e l’oppressione del popolo palestinese si colloca la militarizzazione della scuola e della società, per crescere cittadini obbedienti in barba ai capisaldi di uno stato di diritto e ai principi costituzionali di cui la scuola pubblica è portavoce. Fare politiche distanti dai bisogni reali significa alimentare frustrazione nei più fragili e indifferenza nei più forti. Chi invece, adulto o giovane, crede ancora che un mondo migliore sia possibile e necessario a partire dall’educazione, sa che la risposta del governo sarà sempre e solo repressione. Fonti: Nuove Indicazioni Nazionali Pubblicato il testo delle “Nuove indicazioni per la scuola dell’infanzia e primo ciclo di istruzione 2025” – Materiali per il dibattito pubblico – Pubblicato il testo delle “Nuove indicazioni per la scuola dell’infanzia e primo ciclo di istruzione 2025” – Materiali per il dibattito pubblico – MIM WHO Comprehensive sexuality education DDL Gasparri Parlamento Italiano – Disegno di legge S. 1627 – 19ª Legislatura | Senato della Repubblica DDL Valditara Disegno di legge Fulvia Difonte, Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle università, Milano
Cultura per non colti
SIAMO IN GRADO DI TRASFORMARE BIBLIOTECHE E TEATRI SPESSO SEMIVUOTI? COME RIVITALIZZARE LA VITA SCOLASTICA? POSSIAMO PARTECIPARE IN MODO DIVERSO A UN CONVEGNO? FORSE ABBIAMO BISOGNO DI ASCOLTARE GLI OUTSIDER PER CAPIRE COME RAGIONA CHI RESTA AI MARGINI O NON ENTRA. “COME SAREBBE UNA SCUOLA FATTA DA CHI L’HA SOFFERTA O L’HA ODIATA, OVVERO DOVE A INSEGNARE FOSSE PROPRIO CHI PATIVA INSUCCESSI SCOLASTICI, UMILIAZIONI DAI DOCENTI O DAI COMPAGNI, SENSO DI INUTILITÀ DI QUEL TEMPO SEDUTO AL BANCO – SCRIVE STEFANO LAFFI – O COME SAREBBE UN MUSEO CURATO DA NON L’HA MAI AMATO, SI ANNOIAVA A MORTE DA BAMBINO NELLE VISITE GUIDATE E SOLO DOPO HA IMPARATO A DIALOGARE CON LE OPERE, MAGARI DA SOLO NELLA SUA STANZA. UNA SELEZIONE DEL PERSONALE PER TITOLI ALLA ROVESCIA: POTREBBERO ESSERE LORO I DEPOSITARI DELLE ALTERNATIVE AL PRESENTE…”. IN QUESTO TESTO, TRATTO DAL LIBRO IMMAGINA (FELTRINELLI), UN MAGNIFICO QUADERNO DI APPUNTI, LAFFI RACCONTA COSA È ACCADUTO QUANDO HA PROVATO A RIPENSARE UNA BIBLIOTECA CON UN GRUPPO DI ADOLESCENTI NON FREQUENTATORI. DI CERTO, SUGGERISCE QUEL LIBRO, POSSIAMO TUTTI RE-IMPARARE A IMMAGINARE PER CAMBIARE L’ORDINE DELLE COSE, DISEGNARE UN PRESENTE DIVERSO A COMINCIARE DAI DISSENSI, CONDIVIDERE NUOVE DOMANDE: POSSIAMO IMPARARE MOLTO, IN UN MONDO PIENO DI IMMAGINI MA PRIVO DI IMMAGINAZIONE, DA CHI PRATICA L’ARTE, DA CHI SI RIBELLA, DA CHI RIPENSA LA VITA DI OGNI GIORNO. SICURAMENTE DAI BAMBINI E DALLA BAMBINE Uno dei frutti colorati del Laboratorio d’arte “L’ultimo fiore d’autunno”, promosso nei giorni scorsi alla Casa del bambino di Castel Volturno, meraviglioso centro educativo comunitario di un territorio difficile della provincia di Caserta -------------------------------------------------------------------------------- Partiamo da un dato preoccupante: il pubblico sembra sempre più distante dall’offerta culturale tradizionale. Si legge sempre meno, si frequenta sempre meno il cinema e il teatro, si investe sempre meno in cultura, aumenta l’abbandono scolastico. Certo, oggi molti consumi culturali avvengono online, ma questo non risolve il destino delle istituzioni culturali fisiche. Negli anni si è tentato di innovare: musei che escono dalle loro sedi, bibliobus, teatro a domicilio, cinema nei cortili. Eppure, il problema di base rimane: come rivitalizzare scuole, biblioteche e teatri spesso semivuoti? Se ragiono con l’emisfero sinistro, affino l’offerta, arricchisco il patrimonio, diversifico i prezzi, vario la programmazione… insomma valorizzo quello che faccio, cerco di far apprezzare e comunicare il valore della cultura, convinto della mia missione. È tuttavia improbabile che le soluzioni offerte dal pensiero analitico degli esperti aprano le porte a chi non pensa nemmeno di entrare. Proviamo a ribaltare tutti gli elementi, a considerare gli altri personaggi della storia, a guardare dal di fuori: forse abbiamo bisogno di ascoltare gli outsider, di capire come ragiona chi non ci crede, chi non entra, chi non sa. È il contrario di quello che succede oggi, dove tutto è per addetti ai lavori, appassionati già convinti, e lo capisci dagli applausi ai convegni o agli spettacoli. A una mostra o a un’opera teatrale sul soccorso ai migranti verranno coloro che già ne riconoscono il valore, ma così non si allarga la consapevolezza, e la cultura rischia di trasformarsi in un’operazione consolatoria, per sentirsi “dalla parte giusta”. Peraltro, con una certa probabilità che alla mostra o allo spettacolo i migranti non vengano. Il confronto con gli outsider, invece, va fatto senza nessuna presunzione di superiorità, anzi, proprio a partire dalle buone ragioni che essi hanno per non avvicinarsi ai luoghi della cultura, per non partecipare, per non esserci. Questo per scoprire perché quei luoghi, visti da fuori, risultano supponenti, discriminanti, incomprensibili, inaccessibili, costosi, percepiti come poco utili da chi conduce una vita stretta da mille altre necessità. Diversi adolescenti che abbandonano la scuola si chiedono a che cosa serva, perché nel frattempo frequentano corsi sul Web e seguono tutorial per sperimentare altro; in altre parole, rifiutano la scuola, non lo studio. E se cambiassimo radicalmente il modo di concepire queste istituzioni? Come sarebbe una scuola fatta da chi l’ha sofferta o l’ha odiata, ovvero dove a insegnare fosse proprio chi pativa insuccessi scolastici, umiliazioni dai docenti o dai compagni, senso di inutilità di quel tempo seduto al banco. O come sarebbe un museo curato da non l’ha mai amato, si annoiava a morte da bambino nelle visite guidate e solo dopo ha imparato a dialogare con le opere, magari da solo nella sua stanza. Una selezione del personale per titoli alla rovescia: potrebbero essere loro i depositari delle alternative al presente. Ho provato a ripensare una biblioteca insieme a un gruppo di giovani non frequentatori. Ecco che cosa è emerso. 1. Lo spazio esterno conta quanto quello interno: per loro, il “fuori” è fondamentale: è lì che ci si incontra, si chiacchiera, si sta insieme. La biblioteca deve essere prima di tutto un “medium di relazioni”, un luogo dove si va per gli amici, non solo per i libri. I volumi diventano quasi un pretesto, un alibi. Questa chiave obbligata, per dirla con Rodari, del “medium di relazioni” vale sempre con le fasce di età giovanili: qualsiasi proposta – scolastica o extrascolastica – avrà valore solo se consentirà di stare insieme. Ma, in fondo, la formula “medium di relazioni” non è un’ottima definizione di cultura? E allora, tanto per fare un esempio, perché imporre il silenzio in biblioteca e non creare piuttosto aree di parola, dove studiare insieme? Insomma, perché non fare della biblioteca, della scuola o del museo – quindi dei loro spazi, dei loro arredi, delle loro regole – dei luoghi di amicizia, che è certamente un valore più universale e più immediatamente accessibile rispetto alla lettura di libri? 2. Superare la soglia invisibile: l’ingresso tradizionale, con il bibliotecario in attesa, crea ansia. Meglio iniziare con uno spazio neutro: un bar, un’area ristoro. Insomma, uno spazio neutro che non divida il mondo fra lettori e non-lettori, e sia quindi più accogliente, metta voglia di entrare o almeno tolga il disagio nel farlo. Attenzione: sono le aziende più innovative a dotarsi di aree ristoro, a considerarle decisive nella generazione di idee, e quel gruppo di progettazione di non-lettori sta sposando senza saperlo quella stessa soluzione. Di più, è il capitale relazionale quello che risulta oggi decisivo per le giovani generazioni nel procurarsi opportunità – lavoro, casa, viaggi …– quindi quello scambio di vedute al caffè diviene anche strategicamente prezioso. 3. A ogni età il suo spazio e i suoi arredi: in una pianta dell’edificio che alla fine risulterà esagonale, a spicchi, la prima sala dopo l’ingresso informale è quella di lettura, a scaffale aperto, con divani e angoli morbidi, con arredi fatti da materiali di recupero. Insistono che non ci siano tavoli ma solo sedute comode, perché la vista dei tavoli evoca in loro studio e fatica, mentre la lettura avviene in un’altra posizione. Accettano di convivere in quella che sentono “la loro sala” anche con anziani dediti alla lettura di giornali e riviste, mentre preferiscono che le mamme con bambini stiano in un’altra sala: forse vogliono rimarcare la distanza da quella situazione, anagraficamente vicina ma assai lontana nel loro immaginario. Le due sale che seguono in questa forma esagonale sono la sala studio tradizionale – tavoli, prese, wi-fi – e quella della playstation, per la fascia dei preadolescenti, più eventuali giochi da tavolo: quest’ultima deve essere di uso esclusivo e insonorizzata, perché “accanto a chi gioca non si può fare altro”, spiegano loro. 4. Uno spazio per produrre cultura, non solo consumarla: la sorpresa finale è uno spazio espositivo, per artisti emergenti del territorio, giovani produttori di cultura, non solo consumatori. Pensano di meritare uno spazio in biblioteca, in cui poter esporre quadri, testi musicali o altre opere di coetanei. Chiedono che questa sala sia a vetri, ben visibile da fuori, sostengono che quella sarà una buona leva per fare entrare giovani in biblioteca. Così ripenso al fatto che, in effetti, la cultura non li rispecchia mai: nei musei, a teatro, in biblioteca, al cinema non si trova mai qualcosa fatto da un coetaneo. L’ultima sala sembra suggerirci una chiave. Forse la loro diserzione dipende dal loro esilio, dal non sentirsi parte di quella scena. Se l’adolescenza vedesse riconosciuto il suo potenziale, anche nella produzione culturale, si sentirebbe più a casa in tutti quei luoghi nei quali le si chiede sempre di tacere, ascoltare, guardare. -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Cultura per non colti proviene da Comune-info.
Lucia Fortini: “La scuola è presidio di libertà e luogo di speranza”
Intervista di Antonella Musella all’Assessora alla Scuola, alle Politiche Sociali e alle Politiche Giovanili della Regione Campania L’incontro con l’assessora Lucia Fortini nasce dalla volontà di dare voce a un sentire comune: il desiderio di ritrovare l’aspetto umano nelle pratiche sociali e politiche. L’intervista si inserisce in una ricerca più ampia sul modo in cui l’azione umana agisce all’interno delle comunità e delle relazioni tra gli individui, una riflessione sullo stato dell’arte dei sentimenti affettivi e del legame sociale. Vorrei riflettere con lei sui ragazzi nati e cresciuti nei quartieri più difficili e problematici di Napoli. In molti si chiedono se sia davvero possibile un riscatto educativo e sociale, e se oggi si possa ancora guardare al mondo con uno sguardo umano. In particolare, quale forma può assumere il legame tra la comunità educante e l’azione politica, intesa come arte del governare con lo scopo di costruire una comunità viva, aperta e solidale? Quando penso ai ragazzi che crescono in quartieri difficili, penso prima di tutto al coraggio: il coraggio di credere in sé stessi anche quando tutto intorno sembra dire il contrario. Il riscatto educativo e sociale è possibile, ma non è mai un processo individuale: è un cammino che si costruisce insieme, grazie a una comunità che non si arrende, a istituzioni che non si limitano a osservare ma osservare, a educatori che restano punti fermi anche nelle situazioni più complesse. È in questo spirito che abbiamo costruito percorsi come Scuola Viva , un programma che ha riaperto le scuole al territorio anche nel pomeriggio, restituendo spazi di vita e di apprendimento a migliaia di ragazzi, anche nei contesti più fragili. L’obiettivo è dare concretezza alla speranza, combattere la dispersione scolastica con attività educative, laboratori, sport, arte e inclusione. La politica, quando è autentica, è servizio: è la capacità di unire, di ascoltare, di dare forma a possibilità nuove. È lì che la comunità educante e l’azione politica si incontrano, nel costruire futuro. Governare, per me, significa custodire questa speranza e tradurla in scelte concrete che rendono la vita dei giovani più giusta e piena di opportunità. In una sua recente riflessione, lei ha definito la scuola “presidio di libertà” e “luogo di protesta”. Questa idea restituisce fiducia nella possibilità che la scuola sia ancora un luogo di cultura. In che modo, secondo lei, la scuola può favorire un pensiero critico sulla realtà? E come può rinascere oggi un pensiero collettivo in una società così frammentata? La parola “collettivo” ha perso un po’ del suo significato, come se fosse un’eco di tempi lontani. Ma oggi più che mai dobbiamo recuperarla. Quando dico che la scuola è “presidio di libertà” e “luogo di protesta”, intendo dire che è lo spazio in cui si impara a pensare, a discutere, a scegliere. È un luogo dove si esercita la libertà ogni giorno, nella curiosità e nel rispetto reciproco. Un pensiero critico nasce solo dove c’è fiducia e libertà di parola. La scuola deve aiutare i ragazzi a leggere la realtà con occhi propri, a costruire opinioni, a cercare il senso profondo delle cose. Per questo la Regione Campania ha voluto sostenere con forza il diritto allo studio in tutte le sue forme: dal trasporto gratuito per gli studenti, che consente a tanti di raggiungere la scuola senza pesare sulle famiglie, al programma Io Studio , che sostiene economicamente chi rischia di restare indietro. Il pensiero collettivo, oggi, è la capacità di tenere insieme le differenze e di condividere una direzione comune: quella del bene di tutti. Credo ancora che si possano costruire relazioni eque, sane e democratiche, perché lo vedo ogni giorno nei docenti che non smettono di credere nei loro studenti e nei ragazzi che scelgono di mettersi in gioco, anche quando è più difficile. Un argomento molto delicato è quello del diritto allo studio per studenti che vivono situazioni di vulnerabilità o condizioni di neurodivergenza e disabilità. Un processo inclusivo presuppone una profonda accoglienza da parte dell’ambiente circostante. Se gli adulti non sono pronti a incontrare la fragilità, quali strumenti o atteggiamenti possono essere utili per affrontarla? Il diritto allo studio non è solo una norma: è un principio morale. Ogni bambino e ogni ragazzo deve poter trovare nella scuola un luogo che lo accolga per ciò che è, non per ciò che si pretende da lui. Questo vale ancora di più per chi vive una condizione di debolezza o di neurodivergenza, per chi ha bisogno di un’attenzione speciale. L’inclusione non è un progetto, ma un modo di essere. Gli adulti devono essere preparati e competenti, ma anche capaci di empatia. La formazione e gli strumenti sono fondamentali, ma è lo sguardo che cambia tutto: vedere la persona, non la difficoltà. Io credo che nella mente e nel cuore della comunità ci sia spazio per accogliere, se impariamo a non aver paura della diversità. L’inclusione è una scelta di civiltà, non un gesto di bontà. È il modo in cui una comunità dimostra di essere viva e giusta. E la scuola, ancora una volta, resta il luogo dove questa umanità può nascere e rinnovarsi ogni giorno. Le politiche messe in campo dalla Regione Campania, ricorda Fortini, nascono da un’idea semplice ma profonda: nessun ragazzo deve sentirsi solo. Scuola Viva , Io Studio , il trasporto gratuito, i progetti per l’inclusione e per l’educazione civica sono tasselli di una stessa visione: una scuola aperta, equa, accogliente. «Credo che la vera rivoluzione passi da qui – concludono – da una scuola che non si limita a trasmettere conoscenze, ma che insegna a vivere insieme, a riconoscersi, a rispettarsi. Perché un Paese che investe nei suoi ragazzi è un Paese che sceglie il futuro.» Antonella Musella
È sempre più difficile criticare e criticarci
-------------------------------------------------------------------------------- Bologna, 3 ottobre -------------------------------------------------------------------------------- Libertà e democrazia è poter dire a Michele Santoro, agli organizzatori ed ai partecipanti del corteo che chi esalta, con striscioni e manifestazioni il 7 ottobre, sbaglia e insiste a compiere lo stesso errore che ha portato Hamas a compiere quell’assalto e a rendere legittimo – agli occhi di Israele e di buona parte del mondo – quell’orrore che è avvenuto dopo. Se resistenza è contro-violenza della vittima, il cerchio si chiude sempre e soltanto nella guerra. Libertà e democrazia è poter dire a Liliana Segre che sbaglia quando non ammette il genocidio e prosegue a dare più valore a quel che accade o è accaduto agli ebrei piuttosto che ad altri o continua a minimizzare quel che il governo israeliano sta perpetrando da sempre contro tutti i popoli arabi, proseguendo sulla strada già tracciata dalla Bibbia e dal sionismo, che è sempre stato un movimento di colonizzazione forzata di territori abitati da altri. Libertà e democrazia è poter dire a Francesca Albanese che sbaglia quando non accetta le parole del sindaco di Reggio Emilia, che mette sullo stesso piano il conseguimento del cessate il fuoco e la liberazione degli ostaggi. Il valore della vita e della morte hanno lo stesso peso per ciascun essere umano, che sia amico o nemico, che si sia in uno o in mille. Essere politicamente non equidistanti non può vuol dire essere umanamente discriminanti, e fare graduatorie tra chi vale di più o di meno (a meno che non si voglia fare come il governo Netanyahu o gli israeliani che manifestano solo per i loro familiari). Libertà e democrazia è poter dire ai coraggiosi attivisti delle Flotille che sarebbe stato più coerente ed efficace stare in cella qualche giorno di più, farsi processare, proseguire a dar disturbo, e non accettare di farsi espellere così rapidamente. Visto quel che sono stati capaci di fare e di rischiare (e tanto di cappello a loro, e grazie di cuore), avrei provato ad insistere ancora. Oggi invece è sempre più difficile criticare e criticarci; proseguiamo a confondere rifiuto e disconferma, ammonizione e squalifica, riconciliazione e buonismo. Ognuno deve stare rintanato nel suo schieramento, come dei tifosi di calcio che vedono solo i rigori a favore e non quelli per gli avversari. Sono un tifoso di calcio, ma solo allo stadio. E se la mia squadra gioca male e merita di perdere, di solito, lo riconosco. Libertà e democrazia vivono soprattutto di questo e se questo non c’è più libertà e democrazia restano solo parole vuote e agonizzanti. -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE QUESTO ARTICOLO DI RAUL ZIBECHI: > L’autocritica zapatista -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo È sempre più difficile criticare e criticarci proviene da Comune-info.
La ribellione chiamata ascolto
ETICHETTARE E SOPRATTUTTO DISUMANIZZARE SONO AZIONI COMPIUTE ATTRAVERSO IL LINGUAGGIO. QUELLI CHE SONO IN ALTO LO SANNO BENE: LE PAROLE NON DESCRIVONO IL MONDO, SERVONO A CREARLO, SERVONO ANCHE A COSTRUIRE CONSENSO ATTRAVERSO LA PAURA. DEL RESTO, HA SPIEGATO HANNAH ARENDT, OGNI POTERE AUTORITARIO HA BISOGNO DI TRASFORMARE GRUPPI UMANI IN BERSAGLI. PER QUESTO OGGI CHI DIFENDE LA FLOTILLA È DEFINITO “TERRORISTA” E I CORPI CHE PROTESTANO NELLE STRADE VENGONO RIDOTTI A RUMORE. ROMPERE CON LA CULTURA POLITICA DI QUELLI CHE SONO IN ALTO SIGNIFICA ALLORA NON REPLICARE LA LORO GRAMMATICA. SIGNIFICA DARE SPAZIO A UNA PAROLA CHE NON CANCELLA LA COMPLESSITÀ E CHE DICE IL CONFLITTO SENZA DISUMANIZZARE. MA VUOL DIRE PRIMA DI TUTTO FARE OVUNQUE ESERCIZIO DI ASCOLTO VERO. “È UN LAVORO PAZIENTE, LENTO, SPESSO INVISIBILE, MA ESSENZIALE…”, SCRIVE EMILIA DE RIENZO Napoli, 22 settembre. Foto di Ferdinando Kaiser -------------------------------------------------------------------------------- Quando un politico definisce qualcuno “clandestino”, “parassita” o “buonista”, non sta semplicemente descrivendo il mondo: lo sta creando. È questo l’insegnamento centrale della teoria degli atti linguistici di John Austin: certe parole non rappresentano la realtà, la fanno. Promettere, condannare, etichettare — e soprattutto disumanizzare — sono azioni compiute attraverso il linguaggio. E quel linguaggio, poco a poco, diventa pensiero comune. La cattiveria politica, oggi, è precisamente questo: un atto performativo che trasforma esseri umani in categorie, semina diffidenza, autorizza violenza. Non è rabbia spontanea, è calcolo. Serve a costruire consenso attraverso la paura (leggi anche questo articolo di Marco Revell, La paura), a dividere il corpo sociale in “noi” e “loro”, a indicare un nemico che semplifichi l’angoscia collettiva. A dominare è a imporre il proprio pensiero. Un pensiero rigido, senza se e senza ma. La parola ha potere simbolico Le radici filosofiche di un fenomeno attuale Hannah Arendt, l’aveva analizzato. In Le origini del totalitarismo, ha mostrato che ogni potere autoritario ha bisogno di trasformare gruppi umani in bersagli. L’odio politico è un collante più potente della speranza per masse disorientate. Quando la politica diventa teatro dell’odio, rinuncia al pensiero. George Orwell lo ha reso narrativa in 1984: chi controlla il linguaggio controlla il pensiero. Pierre Bourdieu ha dato a questo intuito dignità sociologica, mostrando che la parola ha potere simbolico: ferisce, esclude, stabilisce gerarchie. Judith Butler, invece, ha parlato di hate speech: parole che non descrivono ma fanno male, rendendo chi le subisce “vulnerabile nel linguaggio stesso”. La realtà capovolta Un esempio lampante di come la cattiveria politica riscriva la realtà si manifesta nei discorsi sulle recenti manifestazioni e sulla Flottilla umanitaria. Chi denuncia violenze, occupazioni o genocidi viene dipinto come minaccia, estremista, persino “terrorista”. Al contrario, chi perpetra efferatezze non viene condannato, è reso parte di un ordine che non si discute. Le manifestazioni non vengono raccontate come gesti a favore della giustizia, ma come atti contro qualcosa, contro l’ordine, contro la sicurezza, contro “noi”. I corpi che protestano vengono ridotti a rumore, a urlo privo di argomenti, a disordine da contenere. Si cancella la motivazione, si distorce il senso, si nega la dignità del dissenso. È qui che la cattiveria politica mostra il suo potere più profondo: non si limita a ferire, ma confonde, spaventa, capovolge. Trasforma la denuncia in pericolo, la solidarietà in sospetto, la richiesta di diritti in minaccia da punire e sanzionare. Non è solo linguaggio violento, è una macchina che produce ingiustizia e la fa apparire normale. Il problema è che il linguaggio dell’odio non resta confinato. Sui social, nei talk show, nelle piazze digitali, diventa contagioso. La cattiveria politica è un linguaggio che fa, e chi lo usa, anche solo per reagire, ne porta il segno. Una parola che dice il conflitto senza disumanizzare Chi sceglie un linguaggio diverso può sembrare debole, poco incisivo, incapace di “bucare lo schermo”. Ma quella calma e quella misura, in realtà, non sono segno di debolezza: sono resistenza alla violenza simbolica. La politica, se vuole restare democratica, deve tornare a essere cura della parola, una parola che non ferisce, che non cancella la complessità, che dice il conflitto senza disumanizzare. E noi, in basso, possiamo e dobbiamo fare la nostra parte. Non basta delegare: bisogna contagiare con la capacità di ascolto, con un dialogo che sappia accogliere le ragioni dell’altro senza annullarle o ridurle a nemico. Ogni conversazione rispettosa, ogni momento in cui ci fermiamo a capire invece di reagire d’impulso, diventa un piccolo argine alla logica dell’odio. È un lavoro paziente, lento, spesso invisibile, ma essenziale. Norberto Bobbio individuava proprio qui la differenza tra democrazia e autoritarismo: nel modo in cui si tratta l’avversario. Nella democrazia, l’avversario è qualcuno con cui discutere; nell’autoritarismo, qualcuno da annientare. La democrazia vive di conflitto regolato, non di guerra tra nemici. La cattiveria prospera solo dove le persone smettono di parlare e ascoltare davvero. Recuperare questa pratica quotidiana significa ricostruire uno spazio democratico prima che sia troppo tardi. -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo La ribellione chiamata ascolto proviene da Comune-info.
La risposta giusta – di Effimera
La giornata di manifestazioni che ha attraversato Milano il 6 settembre 2025, in risposta allo sgombero del centro sociale Leoncavallo, è stata un avvenimento di grande valore che ha spezzato, almeno per un attimo, la narrazione negativa che ci circonda da ogni lato con i suoi corollari di impotenza e di paura. A nostro [...]
La piramide è inutile
ALLA BASE SI TROVA GAIA: LA TERRA VIVENTE, FERITA MA CHE RESPIRA. SU DI ESSA CI SONO LE RELAZIONI SOCIALI CHE SCEGLIAMO DI CREARE OGNI GIORNO CHE SONO PERÒ CATTURATE DALLA MACCHINA DELLA MERCIFICAZIONE. A CORONAMENTO DI TUTTO, C’È INFATTI IL CAMPO DEL DOMINIO: UN’ARCHITETTURA BRUTALE DI CONTROLLO, CHE IMPONE L’ACCUMULAZIONE AD OGNI COSTO. OGNI STRATO PIEGA QUELLO SOTTOSTANTE: GAIA VIENE ESTRATTA, LE RELAZIONI MERCIFICATE, I BISOGNI DISCIPLINATI. MA LA VITA RESISTE. “OGNI ATTO DI MUTUO SOCCORSO, OGNI SEME PIANTATO SENZA LOGICHE DI MERCATO, INCRINA LE FONDAMENTA DEL COMANDO E DEL DOMINIO – SCRIVE MASSIMO DE ANGELIS – SIAMO IMPIGLIATI NELLA PIRAMIDE, MA SIAMO ANCHE GAIA CHE MORMORA AL SUO INTERNO… LA LOTTA NON È SOLO CONTRO LO SFRUTTAMENTO. È PER LA RINASCITA DEL COMUNE COME ORIZZONTE VIVO E INSURREZIONALE, TESSUTO DAL BASSO…” Nelle foto di questa pagina, alcuni momenti de “Il pane e le rose: la comunità della Notte verde” : oltre quattrocento persone hanno scelto di darsi appuntamento, a inizio agosto, tra gli orti della Casa delle agricolture di Castigliore d’Otranto, sedersi alle lunghe tavolate, spezzare il pane insieme, parlare, ballare, cantare, come lancio della Notte verde promossa dal 29 al 31 agosto (dialoghi, concerti, laboratori, mostre, mercato) -------------------------------------------------------------------------------- I – La piramide è inutile, eppure… Quando nel suo discorso di apertura del 31° anniversario della rivolta zapatista il Subcomandante Moisés afferma che “la piramide è inutile”, parla dal punto di vista della riproduzione della vita. Le sue parole non sono ingenue, ma il frutto di trent’anni di lotta, di autogoverno, di autonomia, di invenzione territoriale. È la voce di chi ha visto la piramide dal basso, l’ha combattuta dai suoi fianchi e ora ne riconosce l’inutilità dall’alto: dal punto di vista di una vita comune già messa in atto attraverso la memoria, la resistenza e nuove forme di comunanza. Eppure, se dicessi lo stesso in una strada europea, verrei liquidato come pazzo, tanto è profondo il nostro coinvolgimento nella corsa della piramide. La sopravvivenza stessa ci lega al suo ritmo; le sue strutture non sono solo esterne ma anche interne, plasmando i nostri giudizi e desideri. I governi criminalizzano sempre più coloro che bloccano il flusso — per la Palestina, per il lavoro o per Gaia — difendendo l’incessante corsa della piramide. La piramide non è solo una gerarchia di ricchezza o di potere. È l’architettura del dominio capitalista che dà forma alla cooperazione sociale. Non si limita a stratificare, ma organizza la vita stessa in un macro-sistema che preserva il proprio dominio, dà forma alla cooperazione sociale in senso lato, costituisce il comune come condizione di vita. Così, il comune è ambivalente: sia lo spazio di emancipazione che dichiara inutile la piramide, sia la cooperazione sociale catturata dalla piramide. Ed è proprio in questa ambivalenza, un ambivalenza che attraversa i nostri corpi e il nostro operare nel mondo, che si svolge la lotta. II – La piramide come stratificazione della prassi del valore Per capire perché la piramide persiste – anche quando divora i fondamenti della vita stessa – dobbiamo cambiare prospettiva. Dobbiamo smettere di vederla solo come una gerarchia congelata di classi o privilegi, e riconoscerla come un sistema mutevole in cui siamo tutti invischiati, anche se in misura diversa: un macchinario che cattura, organizza, stratifica e ripropone le energie stesse della vita per la propria riproduzione, la riproduzione del capitale. Dal suolo intriso di sangue della continua accumulazione primitiva alle prigioni algoritmiche dell’odierna griglia planetaria, la piramide del capitale cerca di organizzare la pulsazione della cooperazione sociale in strati di domini di prassi del valore: stratificando, degradando, subordinando la vita stessa alla riproduzione incessante del profitto. Gli antropologi ci dicono che il valore è il significato che le persone danno alle loro azioni, e le azioni si verificano sempre in contesti di registri di valore predominanti. La Piramide è quindi una macchina sociale complessa che attraverso le sue operazioni ordina verticalmente i domini sistemici di questi registri di valore, cosicché alcune prassi del valore sono più importanti di altre. Alla base si trova Gaia: la Terra vivente, ferita ma che respira, presupposto della vita e di tutte le pratiche di produzione di valori. Su di essa, il campo relazionale della vita: solidarietà umane e non umane, legami di cura e sostentamento. Sopra, il campo dei valori d’uso: strumenti, servizi e conoscenze immaginati e realizzati per nutrire la vita. Questi, a loro volta, sono catturati dalla macchina del valore di scambio: la ricchezza della vita appiattita in merci, i ritmi della vita frammentati in equivalenze astratte, la prassi sociale vivente e incarnata ridotta a strumento di arricchimento, gli interi processi vitali soggetti alle misure del capitale delle cose. E, a coronamento di tutto, il campo del comando e del dominio: un’architettura brutale di controllo, che impone l’accumulazione ad ogni costo. Ogni strato piega quello sottostante: Gaia viene estratta, le relazioni mercificate, i bisogni disciplinati. La piramide non si limita a schiacciare, ma si nutre delle energie della vita, catturandole e pervertendole. Tutto cambia nella cooperazione sociale configurata dalla piramide, in modo che non cambi nulla di veramente sostanziale. Ma la vita resiste. Ogni atto di mutuo soccorso, ogni seme piantato senza logiche di mercato, incrina le fondamenta del comando e del dominio. Siamo impigliati nella piramide, ma siamo anche Gaia che mormora al suo interno, e siamo il bagliore della cooperazione insurrezionale. La lotta non è solo contro lo sfruttamento. È per la rinascita del comune come orizzonte vivo e insurrezionale, tessuto dal basso. III – Gaia Alla base della piramide, Gaia respira: non una risorsa passiva, ma una rete di vita auto-organizzata. È la matrice di tutta la cooperazione sociale e l’obiettivo della cattura sistemica del capitale. La cattura di Gaia da parte del capitale non è un semplice saccheggio della “natura”. È un assalto organizzato alle precondizioni materiali della vita stessa, un riorientamento sistemico dei flussi di energia autopoietica di Gaia verso la riproduzione del profitto. Attraverso l’estrazione senza fine e l’imposizione della propria forma di metabolismo sociale, il capitale sequestra le forze vitali della Terra — il suo potere di tessere e sostenere l’ordine — e le trasforma in motori del caos, disperdendo il collasso in corpi, terre ed ecosistemi, in modo da poter continuare a sostenere il proprio ordine di dominio sulle rovine. La conquista di Gaia è inseparabile dalla conquista del lavoro. Dalle miniere alle fabbriche intelligenti dell’era digitale, i flussi di energia e le vite umane sono piegati insieme dallo stesso imperativo: accelerare l’accumulazione, esternalizzare i costi, spostare i punti di rottura. La prassi umana è disciplinata non solo attraverso i salari e i mercati, ma anche attraverso il comando fossilizzato sui flussi metabolici: l’incendio delle foreste, lo sradicamento delle comunità, l’accelerazione infinita dell’esaurimento sociale. Il riorientamento è una necessità politica e anche la termodinamica è dalla nostra parte: sostenere la complessità contro il collasso. Nel respiro di Gaia si agitano ancora i semi di un altro mondo. Ma richiedono una prassi che ricordi: che non siamo fuori da Gaia, né lei fuori da noi; che il comune non è una risorsa, ma un orizzonte vivente; che l’impero entropico del capitale può, e deve, essere annullato attraverso ogni atto di rinnovamento relazionale, di cura metabolica, di comunanza insurrezionale, e della loro articolazione in organizzazioni più dense ed efficaci. IV – I Procomuni: Vita ai margini Alle fondamenta tremanti della cooperazione sociale, sotto le architetture torreggianti del comando, dello scambio e della produzione industriale, e appena al di sopra del livello di Gaia, pulsa il livello dei procomuni — il fondamento relazionale dove la vita insiste nel vivere altrimenti. Qui, il respiro di Gaia si addensa nelle relazioni umane: pasti condivisi, sguardi, litigi, atti di cura e di resistenza, il quotidiano turbolento e luminoso in cui i valori relazionali non vengono elaborati per il profitto e non come strumenti, ma sono espressione della dinamica della stessa vita. Questa non è la vita dell’astrazione, ma della presenza; non il ciclo meccanico della produzione, ma la tessitura di legami sociali diretti, fragili e fragorosi, o intensi e silenziosi ma essenziali. Il procomune è il terreno dove i valori relazionali sono vissuti, incarnati, contestati, dove la prossimità, il sostentamento e la solidarietà emergono non come ideali, ma come modi necessari per resistere e prosperare insieme. È il punto di partenza della riproduzione sociale: le architetture vernacolari e quotidiane di fiducia, cura, conflitto e riconoscimento reciproco che precedono, superano e spesso resistono alle logiche del mercato e dello Stato. Eppure, i procomuni non galleggiano al di sopra della storia. Sono saturati dalle tensioni sistemiche del capitalismo — catturato, pressato, rimodellato. Quello che Ivan Illich chiamava il vernacolare — quella dimensione della vita radicata nell’autoproduzione e nei legami reciproci — sopravvive, ma sotto assedio: frammentato dalla mercificazione, compresso dai ritmi algoritmici, perseguitato dalla presenza tossica degli ordini patriarcali, coloniali e capitalistici. Il vernacolare, nel suo cuore, è sempre stato il terreno della casa e del sostentamento — la tessitura quotidiana della vita attraverso abilità condivise, cura reciproca e vicinanza ai mezzi di sopravvivenza. La casa, un tempo più strettamente legata al sostentamento condiviso e alla vicinanza —anche se raramente priva di esclusioni e gerarchie — oggi non è più un rifugio stabile, ma una costellazione mutevole e precaria, che si estende tra quartieri, reti globali e piattaforme, intessuta di cura e sorveglianza. Il sostentamento, in questo paesaggio, non è più una semplice questione di soddisfazione dei bisogni. È una prassi complessa: una lotta per mantenere le condizioni incarnate, emotive e relazionali della vita contro un mondo che misura il valore solo attraverso la circolazione delle merci, la produttività e la crescita astratta. È un campo di tensione incarnata in cui la sufficienza — vivere bene entro i limiti di Gaia — si scontra con l’imperativo capitalista dell’accumulazione infinita. Il procomune produce le proprie forme di valore: relazionale, affettivo, simbolico. Genera spazi vernacolari dove i ritmi della presenza reciproca sfidano le quantificazioni del capitale. Il procomune non è un’utopia o un puro esterno. È un livello sistemico in cui il valore oscilla tra la cattura e l’autonomia. Recuperare il procomune non è nostalgia: è coltivare un nuovo metabolismo della vita condivisa entro i limiti di Gaia, una politica di prossimità, cura e rigenerazione. V – Il meso-livello: Lotta per l’uso Il sostentamento richiede valori d’uso. Il meso-livello è il cuore pulsante della cooperazione sociale, dove i corpi, le conoscenze e le energie convergono non solo per vivere, ma per creare, riparare, trasformare il mondo materiale e immateriale per gli altri. Qui l’utilità è l’astro cardinale: il lavoro, l’arte e l’industria, la cura e il servizio cercano di soddisfare i bisogni della vita, non ancora del tutto catturati, non ancora del tutto corrotti. Questo livello è il terreno del valore d’uso, un terreno strutturato dalla pluralità di pratiche che tengono insieme il mondo – fare, insegnare, curare, crescere – ma già oscurato dalle esigenze della piramide superiore. È al meso-livello che i bisogni concreti della vita si traducono in beni e servizi e dove ogni atto – dalla costruzione di un ponte alla consegna di un pasto – oscilla tra due orizzonti: servire la vita o servire il capitale. Al suo meglio, il meso-livello incarna l’efficacia – l’arte di creare ciò che serve, con abilità, con senso, con dignità. Anche l’efficienza ha un potenziale liberatorio: la capacità di ridurre al minimo la fatica inutile, di liberare tempo ed energia per la vita. Ma sotto il comando del capitale, l’efficienza muta: non è più uno strumento di liberazione, ma di estrazione della vita — una costrizione a fare di più con meno, più velocemente, più a buon mercato, più a lungo, fino a quando ciò che viene creato non sostiene più, ma accelera l’esaurimento, lo spreco di esseri umani e il controllo. Così, il meso-livello è un campo di guerra sul significato di ciò che è lavoro utile, di ciò che è prodotto utile: utile per chi? Utile per cosa? Un’altra estensione del conflitto sulla misura delle cose. Artefattura, agricoltura, salute, educazione, cura, persino politica, ogni sfera è lacerata: nutrirà e arricchirà il campo relazionale dei procomuni o alimenterà l’appetito del meta-livello per il profitto e il dominio? Anche quando le mani costruiscono per il sostentamento, la mano invisibile del mercato distorce le intenzioni; anche quando gli insegnanti e i guaritori si sforzano di nutrire, il calcolo della produttività per il profitto rode il loro lavoro. Il vernacolare del sostentamento — l’arte tacita di coltivare il cibo, di curare i corpi, di creare solidarietà — persiste qui nel meso-livello, ma sotto assedio. Il capitale non si limita a sfruttare il lavoro, ma cattura la grammatica stessa dell’utilità, riscrivendo la relazione tra bisogno e valore, in modo che l’essere utile diventi, impercettibilmente, soprattutto utile all’accumulazione. Così, al meso-livello, ogni atto di cooperazione si trova a un bivio, dove l’ordine piramidale dei valori decide il percorso da seguire. Un’azienda agricola può alimentare l’autonomia o riprodurre la dipendenza al business agroalimentare. Una scuola può accendere il pensiero critico o standardizzare la conformità. Un ospedale può servire al rinnovamento della vita o amministrare l’usa e getta. Il meso-livello è quindi un livello sistemico di produzione di valore d’uso plasmato da forze in conflitto tra loro, tra i flussi rigenerativi di Gaia e la ricerca di sostentamento affettivo e materiale dei pro-comuni e la fame entropica del capitale. Lottare per il meso-livello significa lottare per il significato del lavoro, del sostentamento, dell’utilità stessa. È rifiutare che la misura della vita sia ridotta alla redditività; è rivendicare l’efficacia non come servo del dominio, ma come gesto di cura, artigianato di sopravvivenza, industrial di sostentamento, semenzaio di un altro mondo. È la battaglia per ciò che conta come vita. VI – Il meta-livello: Cogliere la misura della vita Al di sopra del meso-livello, opera il meta-livello, non come un trono visibile, ma come un ambiente pervasivo. È immanente, si infiltra nelle vene della cooperazione sociale, piegando il lavoro, la cura, il sostentamento, persino il desiderio stesso alla logica irrequieta dell’accumulazione. Qui le misure della vita sono ricodificate dal valore di scambio: il denaro genera denaro; la vita si piega all’espansione infinita della circolazione del capitale. L’utilità non viene abolita, ma ricodificata, subordinata: conta solo nella misura in cui alimenta la voglia di espansione del capitale. I campi di produzione, cura e significato vengono riconfigurati: scuole, fattorie, ospedali, case, fabbriche e strade – tutte riorientate intorno al mandato della redditività. Attraverso la mano invisibile dei flussi di investimento, della finanza speculativa e della progettazione delle infrastrutture, il meta-livello comanda senza sembrare di comandare. Ricodifica la libertà stessa: trasforma la circolazione, la competizione e la sopravvivenza in necessità mascherate da scelte. Riscrive la grammatica stessa della cooperazione, ricodificando la cura in lavoro salariato, la solidarietà in fedeltà al consumo, il sostentamento in opportunità speculative e Gaia in imprese sostenibili, e tutte subordinate alla priorità del profitto. E così cattura i campi della vita, non solo attraverso la forza bruta, ma strutturando l’ambiente in cui la stessa cooperazione sociale viene immaginata, organizzata e resa operativa. L’efficienza, quella preziosa arte di fare di più con meno, potrebbe essere una forza liberatrice— liberando tempo per la vita, per la cura, per la creazione. Ma nelle grinfie del capitale, diventa un’arma di estrazione: una corsa senza fine, un’ascia che scava sempre più a fondo nei tessuti dei procomuni, pretendendo di più da meno, fino a sprecare i corpi umani e il corpo della terra. Attraverso la superficie levigata della razionalità del mercato, il meta-livello conduce una guerra globale contro la prassi quotidiana di mantenimento della vita. Arma i campi vitali della riproduzione sociale — cibo, cura, casa, salute, istruzione, cultura, territorio — trasformandoli in campi di battaglia dove le comunità sono costrette a competere per la sopravvivenza. Questa guerra non si combatte su una mappa fissa. Le gerarchie tra i diversi territori della vita cambiano continuamente. In un luogo, i corpi sono resi economici per servire meglio la cooperazione sociale fondata sul profitto; in un altro, sono scartati come eccedenze, in un altro ancora, la “bella vita” è riconfezionata in un simulacro patinato — una coreografia di piaceri di plastica che galleggia su un mare di stanchezza e ansia. Le catene di cura si estendono attraverso gli oceani, trascinando madri e figlie da un continente per prendersi cura degli abbandonati in un altro. I quartieri urbani e le zone rurali sono alternativamente inondati di investimenti o svuotati di vita, a seconda delle esigenze del capitale. Questa instabilità non è un malfunzionamento, ma una tattica. Rimodulando costantemente il valore della vita tra le varie geografie, il sistema disorganizza le solidarietà, frammenta le resistenze e mantiene l’estrazione di energia vitale, anche se accelera l’entropia del mondo di cui si nutre. Così, la cooperazione sociale è piegata: non verso la fioritura della vita, ma verso la riproduzione infinita di quella che gli inglese chiamano la rat race, — la corsa dei topi— un movimento frenetico attraverso spazi in cui la sopravvivenza non è più garantita e in cui la riproduzione della vita è sacrificata alla riproduzione del capitale. Riconoscere il meta-livello significa riconoscere la cattura sistemica della vita da parte di una logica macchinica che non conosce limiti, che perseguirà l’accumulazione fino alla rovina collettiva. Ma è anche riconoscere la necessità sistemica di un’altra coerenza: una coerenza che intrecci Gaia, i procomuni e il meso-livello in un contro-sistema vivente, che osi rifiutare le misure del capitale, che si impegni a ripristinare il terreno della vita contro l’entropia capitalista. La questione non è se questo intreccio sia necessario. La questione è se e come possiamo costituirla prima che i roghi dell’accumulazione consumino il mondo stesso che rende possibile la vita. VII – Il mega-livello: Impulsi di dominio All’apice della piramide, il mega-livello non presiede semplicemente, ma pulsa. Non è un trono statico, ma un campo di battaglia di forze: un campo turbolento in cui le forze del comando si scontrano sia all’interno — tra gli Stati, le imprese, i centri di potere finanziario e le élite che si contendono la posizione — sia all’esterno — contro le rivolte, le fratture e le correnti insurrezionali che sorgono dal basso. Qui il comando capitalista non respira attraverso un’architettura rigida, ma attraverso sinfonie instabili di aggiustamenti, spostamenti e ricalibrazioni, un metabolismo irrequieto del potere. Il mega-livello non è isolato dalle turbolenze sottostanti: è costantemente scosso dalle rotture metaboliche di Gaia, dalle forze insurrezionali dei procomuni, dalle fratture e dalle crisi della riproduzione sociale attraverso i meso- e i meta-livelli. Ogni impulso del mega-livello è un tentativo di assorbire, deviare, spostare o reimporre l’ordine sulle instabilità che il capitale stesso genera incessantemente dentro la cooperazione sociale. Periodicamente, questi impulsi si condensano in architetture di ordine globale: egemonie, sistemi di governance, imperialismi, quadri transitori per incanalare e disciplinare i vasti flussi di cooperazione e di vita. Ma nessun ordine è permanente. Ogni consolidamento si sfilaccia sotto il peso delle sue contraddizioni, degli squilibri nel comando che si generano ad effetto delle mutate geografie di potere rese possibili dalle dinamiche del meta-livello, cosi che le strutture visibili di comando vacillano, si frammentano, e tentano di riconfigurarsi a prezzo di nuove guerre e instabilità. Ciò che non vacilla, tuttavia, è l’imperativo: la spinta capitalista a imporre un ordine del profitto sulla cooperazione sociale sopravvive a ogni crollo. Muta attraverso le crisi, improvvisa attraverso le rotture, e cerca nuovi strumenti tra le rovine. Il meta-scopo è semplice: garantire che, qualunque cosa bruci, qualunque cosa si sgretoli, qualsiasi corpo bruci, l’accumulazione del capitale continui a modellare i ritmi della vita. La funzione del comando, nel profondo, è quella di preservare l’autoriproduzione del capitale, la sua autopoiesi. Autopoiesi — letteralmente “autoproduzione” — significa che il sistema non si limita a reagire alle crisi, ma si riorganizza attraverso di esse, riconfigurando i suoi elementi per mantenere la propria continuità anche quando corrode il terreno sotto di sé. In questo modo il sistema respira entropia nel mondo per continuare a respirare accumulazione in se stesso. Il dominio al meta-livello non è sostenuto dalla stabilità, ma dalla gestione dell’instabilità che produce. Crisi, rotture, rivolte: non sono anomalie, ma energie da reindirizzare, fratture da ritessere nella continuità del dominio. Ma là dove il capitale cerca di stringere il controllo, possono pulsare ritmi di vita alternativi; dove il comando ricalibra le soglie, la vita può infrangerle con una fare e agire in comune insurrezionale. VIII – Verso un controciclo vivente Oggi la piramide trema con crepe crescenti. I ritmi dell’accumulazione sono diventati aritmici, destabilizzati dalla febbre planetaria, dalla precarietà economica e dalle agitazioni sociali. L’apice del capitale — il mega-livello del comando globale — si affanna a gestire le crisi che ha creato, spingendo le contraddizioni in avanti nel tempo e in basso nello spazio, divorando il domani per sopravvivere all’oggi, volendo normalizzarci al genocidio, alla guerra, alla distruzione ambientale. La principale contraddizione della piramide emerge dallo scontro tra due forme di riproduzione antagoniste. Da un lato, la riproduzione della vita — radicata in Gaia, nei procomuni e nei campi quotidiani di cooperazione sociale per il sostentamento al meso-livello — cerca di sostenere corpi, comunità ed ecosistemi. Dall’altro, la riproduzione del capitale — guidata dalle logiche di valore del livelli meta e mega — agisce per catturare, frammentare e strumentalizzare la vita per l’espansione infinita del regno del valore di scambio al di sopra di tutto il resto. La piramide del capitale mantiene la sua coerenza intrecciando e classificando queste diverse forme di riproduzione in un unico sistema autopoietico: una gerarchia di prassi del valore che si autoriproduce e che adatta costantemente le sue forme per preservare il suo dominio, che riorganizza costantemente la cooperazione sociale per proteggere il regno del valore di scambio sulla vita. Ma i sistemi autopoietici non dipendono solo dall’intenzione cosciente dei soggetti che vi partecipano; persistono grazie alla loro organizzazione interna autoreferenziale che articola i corpi attraverso pratiche di valore. Il capitalismo, il patriarcato e il capitalismo razziale si riproducono attraverso strutture autoreferenziali — gerarchie, norme ed esclusioni — che persistono anche quando i singoli attori resistono, adattando il dominio a ogni frattura e rivolta. Il cambiamento sociale è quindi una questione di costruzione di organizzazioni che siano efficaci a ridurre la nostra dipendenza dal meta e mega livello e che allo stesso tempo ridisegnano la cooperazione sociale su basi diverse, dove Gaia, i procomuni e il meso-livello diventano molto più importanti del meta-livello e del livello del comando. Il comando, infatti, deve essere subordinato alla riproduzione della vita e non al di sopra di essa. Come impariamo dagli zapatisti, il comando non deve imporre dall’alto, ma servire dal basso — un sotto-comando, con il compito di facilitare le condizioni per la fioritura collettiva piuttosto che dettarne la forma. Un comando fondato non sulla proprietà privata, ma sulla non proprietà, el comun, il comune. Durante i festeggiamenti per i 31 anni della rivolta zapatista, una frase è risuonata più forte di tutte le altre: il comune (el común) — una sfida radicale al fondamento più profondo del capitalismo: la proprietà privata dei mezzi di esistenza. Dopo la rivolta del 1994, gli zapatisti hanno recuperato vasti tratti di terra abbandonati dai finqueros, i proprietari terrieri che avevano sfruttato le comunità indigene per generazioni. Tuttavia, queste terre sono rimaste sospese in un vuoto giuridico, generando dispute infinite su chi potesse rivendicarle di diritto. Contro questa logica di possesso, lo zapatismo propone qualcosa di completamente diverso: la non proprietà. Accanto al lavoro individuale e collettivo, ora si pratica il lavoro comune: terre senza padroni, che non appartengono a nessuno e quindi a tutti; terre che non possono essere vendute, non possono essere comprate, possono solo essere lavorate e condivise. I loro frutti appartengono a coloro che li curano, non come merce, ma come sostentamento. Ancora più radicalmente, queste terre non sono chiuse ai soli zapatisti. Sono aperte ai compagni, ai migranti, ai rifugiati, agli stranieri, a chiunque accetti di rispettare le assemblee e di percorrere il cammino del bene comune. Ma questo cammino non è semplice. Il comune non può sopravvivere senza un’etica collettiva che sostituisca la gerarchia della piramide del capitale e che si costruisca non attraverso decreti, ma attraverso il lavoro ruvido e luminoso della pratica quotidiana del comune: una giustizia che nasca dal dialogo e dal consenso; un sistema sanitario inteso come diritto universale, non come prodotto di mercato; un’educazione radicata nei bisogni del popolo, non nelle fantasie di una nazione omogeneizzata; il senso che il “bene comune” è l’unica vera strada per la prosperità individuale e collettiva; un rispetto, una dignità, che non possono essere legiferati, ma solo vissuti. Sebbene il comune in Chiapas, come in molti altri casi, nasca da una storia e da un territorio specifici, la sua risonanza va ben oltre: parla a tutti coloro che, in tutto il mondo, cercano di smantellare la piramide dal basso. Per sfidare la piramide del capitale, la nostra resistenza deve tessere una nuova forma di coerenza trasversale ai molteplici luoghi della cooperazione sociale: un arazzo vivente di comunanza e lotta, fare e agire in comune radicato nei terreni della riproduzione sociale, i campi in cui pulsa l’energia del rinnovamento collettivo, della crescita soggettiva, della gioia e del dolore condivisi, e in cui possono prendere forma altre forme di cooperazione sociale. Il comune, in questo senso, non è più una semplice condizione di vita alienata dentro la piramide del capitale, ma un diverso modo di ri-produzione della vita e delle sue condizioni. Come ci ricorda il Subcomandante Moisés, l’inutilità della piramide si rivela solo dal punto di vista della lotta: dal comune che resiste alla cattura, dalla vita che rifiuta il dominio. Dichiararla inutile non è un’illusione, ma il primo atto di tessere un altro presente e un altro futuro. Contro e oltre la condizione differenziata ma comune della nostra alienazione, il comune è una prassi da costruire su un altro ordine delle pratiche di valore. -------------------------------------------------------------------------------- Pubblicato su Revista Crítica Anticapitalista n.3 di Comunizar, rivista sorella di Comune. -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo La piramide è inutile proviene da Comune-info.
Per una politica della possibilità qui e ora
PROTEGGERE IL SENSO DI ATTIVITÀ MARGINALIZZATE DALL’ECONOMIA CAPITALISTA (IL LAVORO DI CURA, L’AUTOPRODUZIONE, L’AGRICOLTURA DI SUSSISTENZA, IL VOLONTARIATO, LE PRATICHE COMUNITARIE), RICONOSCERE L’IMPORTANZA DI UNA “POLITICA DELLA POSSIBILITÀ” QUI E ORA, VIVERE LA RICERCA COME ESPERIMENTO E NON SOLO MOMENTO VALUTATIVO, PENSARE IL CAMBIAMENTO SEMPRE A PARTIRE DAL CAMBIAMENTO DI SÉ. SONO PASSATI OLTRE TRE DECENNI DA QUANDO IL PENSIERO DI J.K. GIBSON-GRAHAM HA COMINCIATO A SCUOTERE LE FONDAMENTA DELLA RICERCA E DELLA PRATICA MARXISTA DA UNA PROSPETTIVA FEMMINISTA POST-STRUTTURALISTA. J.K. GIBSON-GRAHAM È LO PSEUDONIMO ACCADEMICO SCELTO DALLE GEOGRAFE ECONOMICHE KATHERINE GIBSON E JULIE GRAHAM. OLTRE IL CAPITALOCENTRISMO. PER UNA POLITICA DELLA POSSIBILITÀ QUI E ORA (MIMESIS ED.) È IL LIBRO CHE RACCOGLIE ALCUNI SUOI SCRITTI PIÙ SIGNIFICATIVI E INTRODUCE PER LA PRIMA VOLTA IN ITALIA IL PENSIERO DI J.K. GIBSON-GRAHAM. L’INTRODUZIONE DI OLTRE IL CAPITALOCENTRISMO Laboratorio di intreccio di materiali naturali presso Cascina Rapello (in una frazione di Airuno a 15 km da Lecco), un angolo di mondo di cui si prende cura la cooperativa Liberi sogni -------------------------------------------------------------------------------- Sono passati ormai oltre tre decenni da quando il lavoro di J.K. Gibson-Graham ha iniziato a scuotere le fondamenta della ricerca e della pratica marxista da una prospettiva femminista post-strutturalista. J.K. Gibson-Graham è lo pseudonimo accademico scelto dalle geografe economiche Katherine Gibson e Julie Graham. Le due si sono conosciute negli anni Settanta durante il dottorato alla Clark University, in Massachusetts e sono presto diventate amiche. Da questa amicizia è nata un’intesa intellettuale profonda che avrebbe dato origine a una delle collaborazioni più longeve e influenti nell’ambito del pensiero geografico contemporaneo. Le tesi dottorali di entrambe si basavano sull’economia politica marxista per analizzare i processi di ristrutturazione economica che stavano portando al declino di alcune regioni industriali “tradizionali” in Australia (Gibson) e negli Stati Uniti (Graham). Dopo il conseguimento del dottorato, Gibson è tornata a lavorare in Australia (prima all’Università Nazionale Australiana, poi all’Università di Sydney, alla Monash e infine alla Western Sydney) mentre Graham ha continuato il suo percorso negli Stati Uniti, all’Università del Massachusetts ad Amherst, dove è rimasta fino alla sua morta nel 2010, dopo essere anche stata a capo del Dipartimento di Geoscienze. Nonostante la notevole distanza fisica in tempi precedenti a Internet, l’impegno condiviso nei confronti dell’economia politica e della sperimentazione intellettuale è proseguito senza interruzioni per oltre trent’anni. Come affermato da loro stesse, “abbiamo percorso un cammino personale che si arricchisce continuamente, man mano che emergono nuove sfide nel relazionarsi e nel pensare/scrivere insieme”. Il risultato di questi sforzi è stata una geografia economica femminista post-strutturalista teoricamente sofisticata che ha messo al centro il ruolo del soggetto e la capacità trasformativa dei processi di ricerca, trasformando profondamente il dibattito su economia e sviluppo all’interno della geografia e delle scienze sociali più in generale. Il primo articolo co-firmato da Gibson e Graham (ma non ancora con lo pseudonimo Gibson-Graham) del 1986 era un intervento teorico marxista che sviluppava la loro teoria sulla ristrutturazione economica includendo nuove forme di migrazione internazionale di lavoro a contratto. In quegli anni, l’influenza dell’analisi strutturale marxista stava cominciando a essere messa in discussione all’interno della geografia economica; per Gibson e Graham, l’incontro col femminismo post-strutturalista e l’economia marxista anti-essenzialista di Stephen Resnick e Richard Wolff, colleghi di Graham ad Amherst, sembra aver rappresentato un punto di svolta fondamentale verso il tentativo di riteorizzare capitalismo e classe. La firma unica di “Gibson-Graham” è nata in una stanza di dormitorio durante una conferenza femminista alla Rutgers University nel 1992. Da qui ha preso vita il loro primo articolo a firma Gibson-Graham, dal titolo memorabile Waiting for the revolution, or how to smash capitalism while working at home in your spare time (“Aspettando la rivoluzione, o come distruggere il capitalismo lavorando da casa nel tempo libero”), pubblicato sulla prestigiosa rivista Rethinking Marxism nel 1993. È proprio con la traduzione di questo testo che si apre la presente antologia, il cui obiettivo principale è introdurre il pubblico in lingua italiana ad alcuni dei principali concetti e contributi analitici proposti da Gibson-Graham nel corso della sua prolifica produzione teorica. Sebbene il lavoro di Gibson-Graham abbia avuto un’influenza notevole su numerosi dibattiti contemporanei in diversi ambiti disciplinari non solo in lingua inglese, ma anche in italiano (tra i più recenti, si veda ad esempio quello sul pluriverso), esso non è tuttavia disponibile in traduzione italiana. La presente antologia rappresenta quindi il tentativo di rimediare a questa mancanza, raccogliendo una serie di contributi pubblicati tra il 1993 e il 2010, inclusi alcuni dei capitoli contenuti all’interno delle due monografie che hanno reso Gibson-Graham maggiormente nota a livello internazionale: The End of Capitalism (As We Knew It) del 1996 e A Postcapitalist Politics del 2006. Come la stessa Gibson-Graham osserva nell’introduzione alla seconda edizione, la prima edizione di The End of Capitalism è stata pubblicata nel pieno dell’ossessione accademica per la globalizzazione capitalista, e rappresentava una sfida profonda alle forme accettate di marxismo e neo-marxismo che allora dominavano la geografia economica. Del resto, come si evince dalla sua biografia, Gibson-Graham stessa era profondamente immersa in queste tradizioni intellettuali e disciplinari, e questo si rifletteva nel suo interesse per la teorizzazione della classe sociale, emerso già nei primi lavori firmati con lo pseudonimo collettivo. Il libro si proponeva di sfidare i discorsi teorici basati su forze economiche disincarnate, sull’egemonia capitalista e sull’omogeneizzazione legata alla globalizzazione. Ispirata in particolare dagli approcci anti-essenzialisti al marxismo, Gibson-Graham voleva mettere in discussione l’essenzialismo e il riduzionismo dei discorsi economici sia tradizionali che marxisti, decostruendo l’economia per dimostrare che non si tratta di uno spazio chiuso con un’identità capitalista fissa, ma può essere aperta ad altre interpretazioni. Per realizzare tale obiettivo, influenzata dalla teoria femminista di Elizabeth Grosz sul fallocentrismo, Gibson-Graham ha introdotto il concetto di capitalocentrismo, il quale descrive il binarismo dominante del discorso economico che tende ad assegnare caratteristiche positive di unità e totalità al capitalismo, mentre le pratiche economiche non-capitaliste vengono subordinate al capitalismo, in quanto mancanti o insufficienti e comunque sempre ricondotte nell’orbita del capitalismo. Secondo Gibson-Graham, il discorso capitalocentrico finisce per ridurre e cancellare la differenza economica, per cui ogni pratica viene ricondotta all’unità capitalista. Il capitalocentrismo si presenta quindi come una modalità, una struttura o una tendenza a organizzare la differenza economica in un modo tale per cui le categorie, le pratiche, i soggetti e gli spazi capitalisti (ad esempio, il lavoro salariato, la proprietà privata, l’impresa capitalista) vengono considerati più reali, centrali, coerenti e determinanti rispetto ad altri (come il lavoro domestico, l’agricoltura di sussistenza familiare, il lavoro schiavistico, le cooperative di produzione, la cura, il mercato nero, i beni comuni, il lavoro forzato). Avvicinarsi a queste differenze realmente esistenti senza presumere che esse debbano necessariamente allinearsi secondo logiche predeterminate o identità che le surdeterminano è al centro dell’ormai celebre strategia di Gibson-Graham di “leggere per differenza piuttosto che per dominanza” (si vedano i capitoli 4 e 6). Sfidare il capitalocentrismo significa, quindi, per Gibson-Graham, rendere visibile la molteplicità di processi di classe capitalisti e non-capitalisti presenti all’interno di qualsiasi formazione economica. Contestando la coerenza e la permanenza del capitalismo attraverso la teorizzazione dell’economia come molteplicità di forme coesistenti — tra le altre, feudalesimi, schiavitù, produzione indipendente di merci, produzione domestica e varie forme di capitalismo — il suo lavoro mira ad aprire spazi concettuali non solo per molteplici letture dell’economia, ma anche per una vasta gamma di lotte politiche. Un esercizio intellettuale di tale portata richiede uno sforzo concettuale importante, che ha portato, forse più di qualunque altro contributo, all’introduzione di approcci nuovi, combinati in maniera creativa, nell’ambito della geografia economica. Ciò ha significato andare ben al di là della tendenza diffusa a confrontarsi con visioni eterodosse dell’economia, promuovendo un intervento teorico primario radicale. Ecco, quindi, che in The End of Capitalism, trovano spazio, accanto ad Althusser, Engels e Marx, anche Derrida, Foucault, Grosz, Irigaray, Haraway e Sedgwick. Se questi nomi potevano essere familiari a chi si occupava di geografia culturale, essi erano profondamente lontani dai programmi di studio sull’economia e lo sviluppo. Sulla scia di tali influenze, la decostruzione era lo strumento metodologico principale adottato nel libro al fine di rompere le narrazioni consolidate che plasmavano l’analisi e la politica della sinistra. Questa fase iniziale segnava l’inizio di un progetto intellettuale più ampio, culminato nell’ambizione di produrre un linguaggio e una politica della differenza economica. Ciò ha comportato, innanzitutto, la rottura con le concezioni egemoniche del capitalismo come descrittore economico e sociale predeterminato, aprendo la strada alla ridefinizione di concetti chiave del marxismo come quelli di classe e surplus. Tale progetto si è basato fortemente sulla “teoria debole” (weak theory) così come concettualizzata da Sedgwick in opposizione alla “teoria forte” (strong theory). Secondo Gibson-Graham, la teoria forte rappresenta un approccio distaccato e critico, caratterizzato da una posizione paranoica in cui la diversità viene appiattita nell’uguaglianza, spinta dalla necessità di rendere generalizzabile e universale la conoscenza generata dai processi di ricerca. La “forza” di tale teoria non proviene dalla sua efficacia ma dall’ampiezza e dal tipo di dominio che essa organizza. Laddove la teoria debole è vista come “poco più che una descrizione” che si occupa solo di fenomeni vicini o situati, la teoria forte ordina fenomeni vicini e lontani in un unico sistema, riconducendoli a un’unica causa comune. Estendendo la propria portata, la teoria forte assume una posizione sempre più anticipatoria, finendo per rivelare poco più che i risultati già presunti. Ne consegue che “tutto finisce per significare la stessa cosa, solitamente qualcosa di grande e minaccioso”. Nel caso della ricerca sulle pratiche economiche, questo si traduce nel liquidare come insignificanti le pratiche definite “alternative” solo perché non rientrano nei modelli dominanti. Tuttavia, il progetto di Gibson-Graham non si è limitato a decostruire il capitalocentrismo del linguaggio, portando alla luce la diversità di pratiche e soggettività economiche che già esistono qui e ora. Esso ha fornito gli strumenti (pratici) per realizzare quella che Gibson-Graham ha definito “politica della possibilità”. Tale progetto inizia a essere realizzato appieno in A Postcapitalist Politics, dove Gibson-Graham propone di abbandonare le narrazioni cupe di sfruttamento capitalista e impotenza per promuovere pratiche di pensiero critico che ripensino le economie come multiple e differenziate, creando nuovi spazi per l’azione collettiva e nuove possibilità di soggettivazione che conducano alla realizzazione della politica della possibilità. A Postcapitalist Politics rappresenta quindi l’invito alla comunità accademica a riconoscere il potere costitutivo dei propri approcci analitici e a comprendere che, attraverso il proprio lavoro, essa contribuisce a creare e a mettere in scena i mondi che si abitano. Il progetto ontologico sull’economia diversa che viene a delinearsi si fonda su un orientamento sperimentale alla ricerca (nella forma della ricerca-azione). Nelle parole di Gibson-Graham, quest’orientamento sperimentale si caratterizza per un interesse verso l’apprendimento piuttosto che verso il giudizio. Trattare qualcosa come un esperimento sociale significa aprirsi a ciò che esso ha da insegnarci, un’attitudine molto diversa dal compito critico di valutare se qualcosa sia buono o cattivo, forte o debole, mainstream o alternativo. L’approccio sperimentale riconosce che ciò che stiamo osservando è in cammino verso qualcos’altro, e si interroga su come poter partecipare a questo processo di divenire. Questo non significa che le nostre raffinate capacità critiche non abbiano un ruolo nella ricerca, ma che la loro espressione passa in secondo piano rispetto all’orientamento sperimentale. In linea con l’influenza del femminismo post-strutturalista e della teoria queer, tale orientamento sperimentale (alla ricerca e alla pratica politica) non può che passare per il soggetto, ovvero non esiste cambiamento possibile che non parta dal cambiamento di sé. Infatti, recita uno dei passaggi del capitolo Coltivare soggetti per un’economia di comunità: “Se cambiare noi stesse significa cambiare i nostri mondi, e la relazione è reciproca, allora il progetto di fare la storia non è mai qualcosa di lontano, ma è sempre qui, ai margini dei nostri corpi che sentono, pensano, provano emozioni e si muovono”. Per produrre cambiamento, questo processo di soggettivazione deve essere, per Gibson-Graham, collettivo e basato sul riconoscimento imprescindibile del nostro essere in relazione con altri esseri umani e non umani per la difesa e la riproduzione dei beni comuni. In questo modo, il lavoro di Gibson-Graham offre strumenti fondamentali per teorizzare e praticare l’alternativa qui e ora partendo da sé, abbracciando gioia, sperimentazione, ottimismo e possibilità. -------------------------------------------------------------------------------- [Cesare Di Feliciantonio 
e Antonella Clare Vitiello] -------------------------------------------------------------------------------- Riferimenti bibliografici Gibson-Graham J.K., The End of Capitalism (As We Knew It), University of Minnesota Press, Minneapolis 1996. Gibson-Graham J.K., A Postcapitalist Politics, University of Minnesota Press, Minneapolis 2006. Gibson-Graham J.K., Diverse economies: performative practices for ‘other worlds’, in “Progress in Human Geography”, XXXII, n. 5, 2008, pp. 613-632. Gibson K., Graham J., Situating migrants in theory: the case of Filipino migrant contract construction workers, in “Capital and Class”, XXIX, n. 1, 1986, pp. 130-149. Kothari A., Salleh A., Escobar A., Demaria F., Acosta A. (a cura di), Pluriverso. Dizionario del post-sviluppo, ed. it. a cura di M. Benegiamo, A. Dal Gobbo, E. Leonardi, S. Torre, Orthotes, Napoli 2021 Sedgwick E.K., Touching feeling: Affect, pedagogy, performativity, Duke University Press, Durham 2003. -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Per una politica della possibilità qui e ora proviene da Comune-info.