La piramide è inutile

Comune-info - Monday, September 1, 2025

Alla base si trova Gaia: la Terra vivente, ferita ma che respira. Su di essa ci sono le relazioni sociali che scegliamo di creare ogni giorno che sono però catturate dalla macchina della mercificazione. A coronamento di tutto, c’è infatti il campo del dominio: un’architettura brutale di controllo, che impone l’accumulazione ad ogni costo. Ogni strato piega quello sottostante: Gaia viene estratta, le relazioni mercificate, i bisogni disciplinati. Ma la vita resiste. “Ogni atto di mutuo soccorso, ogni seme piantato senza logiche di mercato, incrina le fondamenta del comando e del dominio – scrive Massimo De Angelis – Siamo impigliati nella piramide, ma siamo anche Gaia che mormora al suo interno… La lotta non è solo contro lo sfruttamento. È per la rinascita del comune come orizzonte vivo e insurrezionale, tessuto dal basso…”

Nelle foto di questa pagina, alcuni momenti de “Il pane e le rose: la comunità della Notte verde” : oltre quattrocento persone hanno scelto di darsi appuntamento, a inizio agosto, tra gli orti della Casa delle agricolture di Castigliore d’Otranto, sedersi alle lunghe tavolate, spezzare il pane insieme, parlare, ballare, cantare, come lancio della Notte verde promossa dal 29 al 31 agosto (dialoghi, concerti, laboratori, mostre, mercato)

I – La piramide è inutile, eppure…

Quando nel suo discorso di apertura del 31° anniversario della rivolta zapatista il Subcomandante Moisés afferma che “la piramide è inutile”, parla dal punto di vista della riproduzione della vita. Le sue parole non sono ingenue, ma il frutto di trent’anni di lotta, di autogoverno, di autonomia, di invenzione territoriale. È la voce di chi ha visto la piramide dal basso, l’ha combattuta dai suoi fianchi e ora ne riconosce l’inutilità dall’alto: dal punto di vista di una vita comune già messa in atto attraverso la memoria, la resistenza e nuove forme di comunanza. Eppure, se dicessi lo stesso in una strada europea, verrei liquidato come pazzo, tanto è profondo il nostro coinvolgimento nella corsa della piramide. La sopravvivenza stessa ci lega al suo ritmo; le sue strutture non sono solo esterne ma anche interne, plasmando i nostri giudizi e desideri. I governi criminalizzano sempre più coloro che bloccano il flusso — per la Palestina, per il lavoro o per Gaia — difendendo l’incessante corsa della piramide.

La piramide non è solo una gerarchia di ricchezza o di potere. È l’architettura del dominio capitalista che dà forma alla cooperazione sociale. Non si limita a stratificare, ma organizza la vita stessa in un macro-sistema che preserva il proprio dominio, dà forma alla cooperazione sociale in senso lato, costituisce il comune come condizione di vita.

Così, il comune è ambivalente: sia lo spazio di emancipazione che dichiara inutile la piramide, sia la cooperazione sociale catturata dalla piramide. Ed è proprio in questa ambivalenza, un ambivalenza che attraversa i nostri corpi e il nostro operare nel mondo, che si svolge la lotta.

II – La piramide come stratificazione della prassi del valore

Per capire perché la piramide persiste – anche quando divora i fondamenti della vita stessa – dobbiamo cambiare prospettiva. Dobbiamo smettere di vederla solo come una gerarchia congelata di classi o privilegi, e riconoscerla come un sistema mutevole in cui siamo tutti invischiati, anche se in misura diversa: un macchinario che cattura, organizza, stratifica e ripropone le energie stesse della vita per la propria riproduzione, la riproduzione del capitale.

Dal suolo intriso di sangue della continua accumulazione primitiva alle prigioni algoritmiche dell’odierna griglia planetaria, la piramide del capitale cerca di organizzare la pulsazione della cooperazione sociale in strati di domini di prassi del valore: stratificando, degradando, subordinando la vita stessa alla riproduzione incessante del profitto. Gli antropologi ci dicono che il valore è il significato che le persone danno alle loro azioni, e le azioni si verificano sempre in contesti di registri di valore predominanti. La Piramide è quindi una macchina sociale complessa che attraverso le sue operazioni ordina verticalmente i domini sistemici di questi registri di valore, cosicché alcune prassi del valore sono più importanti di altre.

Alla base si trova Gaia: la Terra vivente, ferita ma che respira, presupposto della vita e di tutte le pratiche di produzione di valori. Su di essa, il campo relazionale della vita: solidarietà umane e non umane, legami di cura e sostentamento. Sopra, il campo dei valori d’uso: strumenti, servizi e conoscenze immaginati e realizzati per nutrire la vita. Questi, a loro volta, sono catturati dalla macchina del valore di scambio: la ricchezza della vita appiattita in merci, i ritmi della vita frammentati in equivalenze astratte, la prassi sociale vivente e incarnata ridotta a strumento di arricchimento, gli interi processi vitali soggetti alle misure del capitale delle cose. E, a coronamento di tutto, il campo del comando e del dominio: un’architettura brutale di controllo, che impone l’accumulazione ad ogni costo.

Ogni strato piega quello sottostante: Gaia viene estratta, le relazioni mercificate, i bisogni disciplinati.

La piramide non si limita a schiacciare, ma si nutre delle energie della vita, catturandole e pervertendole. Tutto cambia nella cooperazione sociale configurata dalla piramide, in modo che non cambi nulla di veramente sostanziale. Ma la vita resiste. Ogni atto di mutuo soccorso, ogni seme piantato senza logiche di mercato, incrina le fondamenta del comando e del dominio. Siamo impigliati nella piramide, ma siamo anche Gaia che mormora al suo interno, e siamo il bagliore della cooperazione insurrezionale. La lotta non è solo contro lo sfruttamento. È per la rinascita del comune come orizzonte vivo e insurrezionale, tessuto dal basso.

III – Gaia

Alla base della piramide, Gaia respira: non una risorsa passiva, ma una rete di vita auto-organizzata. È la matrice di tutta la cooperazione sociale e l’obiettivo della cattura sistemica del capitale.

La cattura di Gaia da parte del capitale non è un semplice saccheggio della “natura”. È un assalto organizzato alle precondizioni materiali della vita stessa, un riorientamento sistemico dei flussi di energia autopoietica di Gaia verso la riproduzione del profitto. Attraverso l’estrazione senza fine e l’imposizione della propria forma di metabolismo sociale, il capitale sequestra le forze vitali della Terra — il suo potere di tessere e sostenere l’ordine — e le trasforma in motori del caos, disperdendo il collasso in corpi, terre ed ecosistemi, in modo da poter continuare a sostenere il proprio ordine di dominio sulle rovine.

La conquista di Gaia è inseparabile dalla conquista del lavoro. Dalle miniere alle fabbriche intelligenti dell’era digitale, i flussi di energia e le vite umane sono piegati insieme dallo stesso imperativo: accelerare l’accumulazione, esternalizzare i costi, spostare i punti di rottura. La prassi umana è disciplinata non solo attraverso i salari e i mercati, ma anche attraverso il comando fossilizzato sui flussi metabolici: l’incendio delle foreste, lo sradicamento delle comunità, l’accelerazione infinita dell’esaurimento sociale.

Il riorientamento è una necessità politica e anche la termodinamica è dalla nostra parte: sostenere la complessità contro il collasso.

Nel respiro di Gaia si agitano ancora i semi di un altro mondo. Ma richiedono una prassi che ricordi: che non siamo fuori da Gaia, né lei fuori da noi; che il comune non è una risorsa, ma un orizzonte vivente; che l’impero entropico del capitale può, e deve, essere annullato attraverso ogni atto di rinnovamento relazionale, di cura metabolica, di comunanza insurrezionale, e della loro articolazione in organizzazioni più dense ed efficaci.

IV – I Procomuni: Vita ai margini

Alle fondamenta tremanti della cooperazione sociale, sotto le architetture torreggianti del comando, dello scambio e della produzione industriale, e appena al di sopra del livello di Gaia, pulsa il livello dei procomuni — il fondamento relazionale dove la vita insiste nel vivere altrimenti. Qui, il respiro di Gaia si addensa nelle relazioni umane: pasti condivisi, sguardi, litigi, atti di cura e di resistenza, il quotidiano turbolento e luminoso in cui i valori relazionali non vengono elaborati per il profitto e non come strumenti, ma sono espressione della dinamica della stessa vita. Questa non è la vita dell’astrazione, ma della presenza; non il ciclo meccanico della produzione, ma la tessitura di legami sociali diretti, fragili e fragorosi, o intensi e silenziosi ma essenziali.

Il procomune è il terreno dove i valori relazionali sono vissuti, incarnati, contestati, dove la prossimità, il sostentamento e la solidarietà emergono non come ideali, ma come modi necessari per resistere e prosperare insieme. È il punto di partenza della riproduzione sociale: le architetture vernacolari e quotidiane di fiducia, cura, conflitto e riconoscimento reciproco che precedono, superano e spesso resistono alle logiche del mercato e dello Stato.

Eppure, i procomuni non galleggiano al di sopra della storia. Sono saturati dalle tensioni sistemiche del capitalismo — catturato, pressato, rimodellato. Quello che Ivan Illich chiamava il vernacolare — quella dimensione della vita radicata nell’autoproduzione e nei legami reciproci — sopravvive, ma sotto assedio: frammentato dalla mercificazione, compresso dai ritmi algoritmici, perseguitato dalla presenza tossica degli ordini patriarcali, coloniali e capitalistici. Il vernacolare, nel suo cuore, è sempre stato il terreno della casa e del sostentamento — la tessitura quotidiana della vita attraverso abilità condivise, cura reciproca e vicinanza ai mezzi di sopravvivenza.

La casa, un tempo più strettamente legata al sostentamento condiviso e alla vicinanza —anche se raramente priva di esclusioni e gerarchie — oggi non è più un rifugio stabile, ma una costellazione mutevole e precaria, che si estende tra quartieri, reti globali e piattaforme, intessuta di cura e sorveglianza.

Il sostentamento, in questo paesaggio, non è più una semplice questione di soddisfazione dei bisogni. È una prassi complessa: una lotta per mantenere le condizioni incarnate, emotive e relazionali della vita contro un mondo che misura il valore solo attraverso la circolazione delle merci, la produttività e la crescita astratta. È un campo di tensione incarnata in cui la sufficienza — vivere bene entro i limiti di Gaia — si scontra con l’imperativo capitalista dell’accumulazione infinita.

Il procomune produce le proprie forme di valore: relazionale, affettivo, simbolico. Genera spazi vernacolari dove i ritmi della presenza reciproca sfidano le quantificazioni del capitale.

Il procomune non è un’utopia o un puro esterno. È un livello sistemico in cui il valore oscilla tra la cattura e l’autonomia.

Recuperare il procomune non è nostalgia: è coltivare un nuovo metabolismo della vita condivisa entro i limiti di Gaia, una politica di prossimità, cura e rigenerazione.

V – Il meso-livello: Lotta per l’uso

Il sostentamento richiede valori d’uso. Il meso-livello è il cuore pulsante della cooperazione sociale, dove i corpi, le conoscenze e le energie convergono non solo per vivere, ma per creare, riparare, trasformare il mondo materiale e immateriale per gli altri.

Qui l’utilità è l’astro cardinale: il lavoro, l’arte e l’industria, la cura e il servizio cercano di soddisfare i bisogni della vita, non ancora del tutto catturati, non ancora del tutto corrotti. Questo livello è il terreno del valore d’uso, un terreno strutturato dalla pluralità di pratiche che tengono insieme il mondo – fare, insegnare, curare, crescere – ma già oscurato dalle esigenze della piramide superiore.

È al meso-livello che i bisogni concreti della vita si traducono in beni e servizi e dove ogni atto – dalla costruzione di un ponte alla consegna di un pasto – oscilla tra due orizzonti: servire la vita o servire il capitale. Al suo meglio, il meso-livello incarna l’efficacia – l’arte di creare ciò che serve, con abilità, con senso, con dignità. Anche l’efficienza ha un potenziale liberatorio: la capacità di ridurre al minimo la fatica inutile, di liberare tempo ed energia per la vita. Ma sotto il comando del capitale, l’efficienza muta: non è più uno strumento di liberazione, ma di estrazione della vita — una costrizione a fare di più con meno, più velocemente, più a buon mercato, più a lungo, fino a quando ciò che viene creato non sostiene più, ma accelera l’esaurimento, lo spreco di esseri umani e il controllo.

Così, il meso-livello è un campo di guerra sul significato di ciò che è lavoro utile, di ciò che è prodotto utile: utile per chi? Utile per cosa? Un’altra estensione del conflitto sulla misura delle cose. Artefattura, agricoltura, salute, educazione, cura, persino politica, ogni sfera è lacerata: nutrirà e arricchirà il campo relazionale dei procomuni o alimenterà l’appetito del meta-livello per il profitto e il dominio? Anche quando le mani costruiscono per il sostentamento, la mano invisibile del mercato distorce le intenzioni; anche quando gli insegnanti e i guaritori si sforzano di nutrire, il calcolo della produttività per il profitto rode il loro lavoro.

Il vernacolare del sostentamento — l’arte tacita di coltivare il cibo, di curare i corpi, di creare solidarietà — persiste qui nel meso-livello, ma sotto assedio. Il capitale non si limita a sfruttare il lavoro, ma cattura la grammatica stessa dell’utilità, riscrivendo la relazione tra bisogno e valore, in modo che l’essere utile diventi, impercettibilmente, soprattutto utile all’accumulazione.

Così, al meso-livello, ogni atto di cooperazione si trova a un bivio, dove l’ordine piramidale dei valori decide il percorso da seguire. Un’azienda agricola può alimentare l’autonomia o riprodurre la dipendenza al business agroalimentare. Una scuola può accendere il pensiero critico o standardizzare la conformità. Un ospedale può servire al rinnovamento della vita o amministrare l’usa e getta.

Il meso-livello è quindi un livello sistemico di produzione di valore d’uso plasmato da forze in conflitto tra loro, tra i flussi rigenerativi di Gaia e la ricerca di sostentamento affettivo e materiale dei pro-comuni e la fame entropica del capitale. Lottare per il meso-livello significa lottare per il significato del lavoro, del sostentamento, dell’utilità stessa. È rifiutare che la misura della vita sia ridotta alla redditività; è rivendicare l’efficacia non come servo del dominio, ma come gesto di cura, artigianato di sopravvivenza, industrial di sostentamento, semenzaio di un altro mondo. È la battaglia per ciò che conta come vita.

VI – Il meta-livello: Cogliere la misura della vita

Al di sopra del meso-livello, opera il meta-livello, non come un trono visibile, ma come un ambiente pervasivo. È immanente, si infiltra nelle vene della cooperazione sociale, piegando il lavoro, la cura, il sostentamento, persino il desiderio stesso alla logica irrequieta dell’accumulazione. Qui le misure della vita sono ricodificate dal valore di scambio: il denaro genera denaro; la vita si piega all’espansione infinita della circolazione del capitale.

L’utilità non viene abolita, ma ricodificata, subordinata: conta solo nella misura in cui alimenta la voglia di espansione del capitale. I campi di produzione, cura e significato vengono riconfigurati: scuole, fattorie, ospedali, case, fabbriche e strade – tutte riorientate intorno al mandato della redditività. Attraverso la mano invisibile dei flussi di investimento, della finanza speculativa e della progettazione delle infrastrutture, il meta-livello comanda senza sembrare di comandare. Ricodifica la libertà stessa: trasforma la circolazione, la competizione e la sopravvivenza in necessità mascherate da scelte. Riscrive la grammatica stessa della cooperazione, ricodificando la cura in lavoro salariato, la solidarietà in fedeltà al consumo, il sostentamento in opportunità speculative e Gaia in imprese sostenibili, e tutte subordinate alla priorità del profitto.

E così cattura i campi della vita, non solo attraverso la forza bruta, ma strutturando l’ambiente in cui la stessa cooperazione sociale viene immaginata, organizzata e resa operativa. L’efficienza, quella preziosa arte di fare di più con meno, potrebbe essere una forza liberatrice— liberando tempo per la vita, per la cura, per la creazione. Ma nelle grinfie del capitale, diventa un’arma di estrazione: una corsa senza fine, un’ascia che scava sempre più a fondo nei tessuti dei procomuni, pretendendo di più da meno, fino a sprecare i corpi umani e il corpo della terra.

Attraverso la superficie levigata della razionalità del mercato, il meta-livello conduce una guerra globale contro la prassi quotidiana di mantenimento della vita. Arma i campi vitali della riproduzione sociale — cibo, cura, casa, salute, istruzione, cultura, territorio — trasformandoli in campi di battaglia dove le comunità sono costrette a competere per la sopravvivenza. Questa guerra non si combatte su una mappa fissa. Le gerarchie tra i diversi territori della vita cambiano continuamente. In un luogo, i corpi sono resi economici per servire meglio la cooperazione sociale fondata sul profitto; in un altro, sono scartati come eccedenze, in un altro ancora, la “bella vita” è riconfezionata in un simulacro patinato — una coreografia di piaceri di plastica che galleggia su un mare di stanchezza e ansia. Le catene di cura si estendono attraverso gli oceani, trascinando madri e figlie da un continente per prendersi cura degli abbandonati in un altro. I quartieri urbani e le zone rurali sono alternativamente inondati di investimenti o svuotati di vita, a seconda delle esigenze del capitale.

Questa instabilità non è un malfunzionamento, ma una tattica. Rimodulando costantemente il valore della vita tra le varie geografie, il sistema disorganizza le solidarietà, frammenta le resistenze e mantiene l’estrazione di energia vitale, anche se accelera l’entropia del mondo di cui si nutre. Così, la cooperazione sociale è piegata: non verso la fioritura della vita, ma verso la riproduzione infinita di quella che gli inglese chiamano la rat race, — la corsa dei topi— un movimento frenetico attraverso spazi in cui la sopravvivenza non è più garantita e in cui la riproduzione della vita è sacrificata alla riproduzione del capitale.

Riconoscere il meta-livello significa riconoscere la cattura sistemica della vita da parte di una logica macchinica che non conosce limiti, che perseguirà l’accumulazione fino alla rovina collettiva. Ma è anche riconoscere la necessità sistemica di un’altra coerenza: una coerenza che intrecci Gaia, i procomuni e il meso-livello in un contro-sistema vivente, che osi rifiutare le misure del capitale, che si impegni a ripristinare il terreno della vita contro l’entropia capitalista. La questione non è se questo intreccio sia necessario. La questione è se e come possiamo costituirla prima che i roghi dell’accumulazione consumino il mondo stesso che rende possibile la vita.

VII – Il mega-livello: Impulsi di dominio

All’apice della piramide, il mega-livello non presiede semplicemente, ma pulsa. Non è un trono statico, ma un campo di battaglia di forze: un campo turbolento in cui le forze del comando si scontrano sia all’interno — tra gli Stati, le imprese, i centri di potere finanziario e le élite che si contendono la posizione — sia all’esterno — contro le rivolte, le fratture e le correnti insurrezionali che sorgono dal basso.

Qui il comando capitalista non respira attraverso un’architettura rigida, ma attraverso sinfonie instabili di aggiustamenti, spostamenti e ricalibrazioni, un metabolismo irrequieto del potere. Il mega-livello non è isolato dalle turbolenze sottostanti: è costantemente scosso dalle rotture metaboliche di Gaia, dalle forze insurrezionali dei procomuni, dalle fratture e dalle crisi della riproduzione sociale attraverso i meso- e i meta-livelli. Ogni impulso del mega-livello è un tentativo di assorbire, deviare, spostare o reimporre l’ordine sulle instabilità che il capitale stesso genera incessantemente dentro la cooperazione sociale.

Periodicamente, questi impulsi si condensano in architetture di ordine globale: egemonie, sistemi di governance, imperialismi, quadri transitori per incanalare e disciplinare i vasti flussi di cooperazione e di vita. Ma nessun ordine è permanente. Ogni consolidamento si sfilaccia sotto il peso delle sue contraddizioni, degli squilibri nel comando che si generano ad effetto delle mutate geografie di potere rese possibili dalle dinamiche del meta-livello, cosi che le strutture visibili di comando vacillano, si frammentano, e tentano di riconfigurarsi a prezzo di nuove guerre e instabilità. Ciò che non vacilla, tuttavia, è l’imperativo: la spinta capitalista a imporre un ordine del profitto sulla cooperazione sociale sopravvive a ogni crollo. Muta attraverso le crisi, improvvisa attraverso le rotture, e cerca nuovi strumenti tra le rovine.

Il meta-scopo è semplice: garantire che, qualunque cosa bruci, qualunque cosa si sgretoli, qualsiasi corpo bruci, l’accumulazione del capitale continui a modellare i ritmi della vita. La funzione del comando, nel profondo, è quella di preservare l’autoriproduzione del capitale, la sua autopoiesi. Autopoiesi — letteralmente “autoproduzione” — significa che il sistema non si limita a reagire alle crisi, ma si riorganizza attraverso di esse, riconfigurando i suoi elementi per mantenere la propria continuità anche quando corrode il terreno sotto di sé. In questo modo il sistema respira entropia nel mondo per continuare a respirare accumulazione in se stesso. Il dominio al meta-livello non è sostenuto dalla stabilità, ma dalla gestione dell’instabilità che produce. Crisi, rotture, rivolte: non sono anomalie, ma energie da reindirizzare, fratture da ritessere nella continuità del dominio.

Ma là dove il capitale cerca di stringere il controllo, possono pulsare ritmi di vita alternativi; dove il comando ricalibra le soglie, la vita può infrangerle con una fare e agire in comune insurrezionale.

VIII – Verso un controciclo vivente

Oggi la piramide trema con crepe crescenti. I ritmi dell’accumulazione sono diventati aritmici, destabilizzati dalla febbre planetaria, dalla precarietà economica e dalle agitazioni sociali. L’apice del capitale — il mega-livello del comando globale — si affanna a gestire le crisi che ha creato, spingendo le contraddizioni in avanti nel tempo e in basso nello spazio, divorando il domani per sopravvivere all’oggi, volendo normalizzarci al genocidio, alla guerra, alla distruzione ambientale.

La principale contraddizione della piramide emerge dallo scontro tra due forme di riproduzione antagoniste. Da un lato, la riproduzione della vita — radicata in Gaia, nei procomuni e nei campi quotidiani di cooperazione sociale per il sostentamento al meso-livello — cerca di sostenere corpi, comunità ed ecosistemi. Dall’altro, la riproduzione del capitale — guidata dalle logiche di valore del livelli meta e mega — agisce per catturare, frammentare e strumentalizzare la vita per l’espansione infinita del regno del valore di scambio al di sopra di tutto il resto.

La piramide del capitale mantiene la sua coerenza intrecciando e classificando queste diverse forme di riproduzione in un unico sistema autopoietico: una gerarchia di prassi del valore che si autoriproduce e che adatta costantemente le sue forme per preservare il suo dominio, che riorganizza costantemente la cooperazione sociale per proteggere il regno del valore di scambio sulla vita. Ma i sistemi autopoietici non dipendono solo dall’intenzione cosciente dei soggetti che vi partecipano; persistono grazie alla loro organizzazione interna autoreferenziale che articola i corpi attraverso pratiche di valore. Il capitalismo, il patriarcato e il capitalismo razziale si riproducono attraverso strutture autoreferenziali — gerarchie, norme ed esclusioni — che persistono anche quando i singoli attori resistono, adattando il dominio a ogni frattura e rivolta.

Il cambiamento sociale è quindi una questione di costruzione di organizzazioni che siano efficaci a ridurre la nostra dipendenza dal meta e mega livello e che allo stesso tempo ridisegnano la cooperazione sociale su basi diverse, dove Gaia, i procomuni e il meso-livello diventano molto più importanti del meta-livello e del livello del comando. Il comando, infatti, deve essere subordinato alla riproduzione della vita e non al di sopra di essa. Come impariamo dagli zapatisti, il comando non deve imporre dall’alto, ma servire dal basso — un sotto-comando, con il compito di facilitare le condizioni per la fioritura collettiva piuttosto che dettarne la forma. Un comando fondato non sulla proprietà privata, ma sulla non proprietà, el comun, il comune.

Durante i festeggiamenti per i 31 anni della rivolta zapatista, una frase è risuonata più forte di tutte le altre: il comune (el común) — una sfida radicale al fondamento più profondo del capitalismo: la proprietà privata dei mezzi di esistenza. Dopo la rivolta del 1994, gli zapatisti hanno recuperato vasti tratti di terra abbandonati dai finqueros, i proprietari terrieri che avevano sfruttato le comunità indigene per generazioni. Tuttavia, queste terre sono rimaste sospese in un vuoto giuridico, generando dispute infinite su chi potesse rivendicarle di diritto. Contro questa logica di possesso, lo zapatismo propone qualcosa di completamente diverso: la non proprietà. Accanto al lavoro individuale e collettivo, ora si pratica il lavoro comune: terre senza padroni, che non appartengono a nessuno e quindi a tutti; terre che non possono essere vendute, non possono essere comprate, possono solo essere lavorate e condivise. I loro frutti appartengono a coloro che li curano, non come merce, ma come sostentamento. Ancora più radicalmente, queste terre non sono chiuse ai soli zapatisti. Sono aperte ai compagni, ai migranti, ai rifugiati, agli stranieri, a chiunque accetti di rispettare le assemblee e di percorrere il cammino del bene comune. Ma questo cammino non è semplice. Il comune non può sopravvivere senza un’etica collettiva che sostituisca la gerarchia della piramide del capitale e che si costruisca non attraverso decreti, ma attraverso il lavoro ruvido e luminoso della pratica quotidiana del comune: una giustizia che nasca dal dialogo e dal consenso; un sistema sanitario inteso come diritto universale, non come prodotto di mercato; un’educazione radicata nei bisogni del popolo, non nelle fantasie di una nazione omogeneizzata; il senso che il “bene comune” è l’unica vera strada per la prosperità individuale e collettiva; un rispetto, una dignità, che non possono essere legiferati, ma solo vissuti.

Sebbene il comune in Chiapas, come in molti altri casi, nasca da una storia e da un territorio specifici, la sua risonanza va ben oltre: parla a tutti coloro che, in tutto il mondo, cercano di smantellare la piramide dal basso. Per sfidare la piramide del capitale, la nostra resistenza deve tessere una nuova forma di coerenza trasversale ai molteplici luoghi della cooperazione sociale: un arazzo vivente di comunanza e lotta, fare e agire in comune radicato nei terreni della riproduzione sociale, i campi in cui pulsa l’energia del rinnovamento collettivo, della crescita soggettiva, della gioia e del dolore condivisi, e in cui possono prendere forma altre forme di cooperazione sociale.

Il comune, in questo senso, non è più una semplice condizione di vita alienata dentro la piramide del capitale, ma un diverso modo di ri-produzione della vita e delle sue condizioni. Come ci ricorda il Subcomandante Moisés, l’inutilità della piramide si rivela solo dal punto di vista della lotta: dal comune che resiste alla cattura, dalla vita che rifiuta il dominio. Dichiararla inutile non è un’illusione, ma il primo atto di tessere un altro presente e un altro futuro. Contro e oltre la condizione differenziata ma comune della nostra alienazione, il comune è una prassi da costruire su un altro ordine delle pratiche di valore.

Pubblicato su Revista Crítica Anticapitalista n.3 di Comunizar, rivista sorella di Comune.

L'articolo La piramide è inutile proviene da Comune-info.