
La ribellione chiamata ascolto
Comune-info - Wednesday, October 8, 2025Etichettare e soprattutto disumanizzare sono azioni compiute attraverso il linguaggio. Quelli che sono in alto lo sanno bene: le parole non descrivono il mondo, servono a crearlo, servono anche a costruire consenso attraverso la paura. Del resto, ha spiegato Hannah Arendt, ogni potere autoritario ha bisogno di trasformare gruppi umani in bersagli. Per questo oggi chi difende la Flotilla è definito “terrorista” e i corpi che protestano nelle strade vengono ridotti a rumore. Rompere con la cultura politica di quelli che sono in alto significa allora non replicare la loro grammatica. Significa dare spazio a una parola che non cancella la complessità e che dice il conflitto senza disumanizzare. Ma vuol dire prima di tutto fare ovunque esercizio di ascolto vero. “È un lavoro paziente, lento, spesso invisibile, ma essenziale…”, scrive Emilia De Rienzo
Napoli, 22 settembre. Foto di Ferdinando KaiserQuando un politico definisce qualcuno “clandestino”, “parassita” o “buonista”, non sta semplicemente descrivendo il mondo: lo sta creando. È questo l’insegnamento centrale della teoria degli atti linguistici di John Austin: certe parole non rappresentano la realtà, la fanno. Promettere, condannare, etichettare — e soprattutto disumanizzare — sono azioni compiute attraverso il linguaggio. E quel linguaggio, poco a poco, diventa pensiero comune.
La cattiveria politica, oggi, è precisamente questo: un atto performativo che trasforma esseri umani in categorie, semina diffidenza, autorizza violenza. Non è rabbia spontanea, è calcolo. Serve a costruire consenso attraverso la paura (leggi anche questo articolo di Marco Revell, La paura), a dividere il corpo sociale in “noi” e “loro”, a indicare un nemico che semplifichi l’angoscia collettiva. A dominare è a imporre il proprio pensiero. Un pensiero rigido, senza se e senza ma.
La parola ha potere simbolico
Le radici filosofiche di un fenomeno attuale Hannah Arendt, l’aveva analizzato. In Le origini del totalitarismo, ha mostrato che ogni potere autoritario ha bisogno di trasformare gruppi umani in bersagli. L’odio politico è un collante più potente della speranza per masse disorientate. Quando la politica diventa teatro dell’odio, rinuncia al pensiero.
George Orwell lo ha reso narrativa in 1984: chi controlla il linguaggio controlla il pensiero. Pierre Bourdieu ha dato a questo intuito dignità sociologica, mostrando che la parola ha potere simbolico: ferisce, esclude, stabilisce gerarchie. Judith Butler, invece, ha parlato di hate speech: parole che non descrivono ma fanno male, rendendo chi le subisce “vulnerabile nel linguaggio stesso”.
La realtà capovolta
Un esempio lampante di come la cattiveria politica riscriva la realtà si manifesta nei discorsi sulle recenti manifestazioni e sulla Flottilla umanitaria. Chi denuncia violenze, occupazioni o genocidi viene dipinto come minaccia, estremista, persino “terrorista”. Al contrario, chi perpetra efferatezze non viene condannato, è reso parte di un ordine che non si discute. Le manifestazioni non vengono raccontate come gesti a favore della giustizia, ma come atti contro qualcosa, contro l’ordine, contro la sicurezza, contro “noi”. I corpi che protestano vengono ridotti a rumore, a urlo privo di argomenti, a disordine da contenere. Si cancella la motivazione, si distorce il senso, si nega la dignità del dissenso. È qui che la cattiveria politica mostra il suo potere più profondo: non si limita a ferire, ma confonde, spaventa, capovolge. Trasforma la denuncia in pericolo, la solidarietà in sospetto, la richiesta di diritti in minaccia da punire e sanzionare. Non è solo linguaggio violento, è una macchina che produce ingiustizia e la fa apparire normale.
Il problema è che il linguaggio dell’odio non resta confinato. Sui social, nei talk show, nelle piazze digitali, diventa contagioso. La cattiveria politica è un linguaggio che fa, e chi lo usa, anche solo per reagire, ne porta il segno.
Una parola che dice il conflitto senza disumanizzare
Chi sceglie un linguaggio diverso può sembrare debole, poco incisivo, incapace di “bucare lo schermo”. Ma quella calma e quella misura, in realtà, non sono segno di debolezza: sono resistenza alla violenza simbolica. La politica, se vuole restare democratica, deve tornare a essere cura della parola, una parola che non ferisce, che non cancella la complessità, che dice il conflitto senza disumanizzare.
E noi, in basso, possiamo e dobbiamo fare la nostra parte. Non basta delegare: bisogna contagiare con la capacità di ascolto, con un dialogo che sappia accogliere le ragioni dell’altro senza annullarle o ridurle a nemico. Ogni conversazione rispettosa, ogni momento in cui ci fermiamo a capire invece di reagire d’impulso, diventa un piccolo argine alla logica dell’odio.
È un lavoro paziente, lento, spesso invisibile, ma essenziale. Norberto Bobbio individuava proprio qui la differenza tra democrazia e autoritarismo: nel modo in cui si tratta l’avversario. Nella democrazia, l’avversario è qualcuno con cui discutere; nell’autoritarismo, qualcuno da annientare. La democrazia vive di conflitto regolato, non di guerra tra nemici. La cattiveria prospera solo dove le persone smettono di parlare e ascoltare davvero. Recuperare questa pratica quotidiana significa ricostruire uno spazio democratico prima che sia troppo tardi.
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