L’ambigua fascinazione della cacciaÈ SEMPRE PIÙ NECESSARIO UN CONTRASTO NETTO ALLA VIOLENZA MA IN TUTTE LE SUE
FORME, INTRECCIATE LE UNE ALLE ALTRE IN UNA CONSEQUENZIALITÀ SPESSO INDIRETTA,
EPPURE RICOSTRUIBILE, SE SOLO LO SI VOGLIA. DI SICURO, ALL’INTERNO DI UN
DISCORSO SULLA VIOLENZA – LA SUA GENESI, LE SUE MANIFESTAZIONI, I MODI PER
CONTRASTARLA – NON È PIÙ POSSIBILE PRESCINDERE DA CONSIDERAZIONI CHE RIGUARDINO
LA PRATICA CRUDELE DELLA CACCIA
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“Il diritto di uccidere un cervo o una mucca è l’unica cosa sulla quale l’intera
umanità sia fraternamente concorde, anche nel corso delle guerre più
sanguinose”1
La critica alla caccia non si limita oggi a particolari modi o tempi, ma è
globale nel senso che ne mette in discussione la stessa essenza, la sua liceità,
tanto che alcune associazioni hanno promosso una raccolta firme, grazie a cui
verrà portata in senato una Proposta di Legge per la sua abolizione. Abolizione,
non limitazione nel tempo e nello spazio, nel rilascio di autorizzazioni o nel
numero delle specie cacciabili. Abolizione, perché nulla di ciò che questa
attività comporta può essere considerato accettabile. Proprio come nulla di
accettabile può essere rintracciato nelle guerre, quelle alle quali ci eravamo
illusi, nel mondo occidentale, di avere posto fine: le avevamo in realtà solo
spostate un po’ più in là, in tutti quei paesi da cui è stato semplice fare
filtrare solo rare informazioni, facilmente stipabili nel grande magazzino del
rimosso. Per poi risvegliarci un giorno dal torpore e prendere atto che i
governi, il nostro e gli altri, non avevano mai interrotto una smisurata
produzione di armi. Perché, oggi si sentenzia, si vis pacem para bellum:
ignorando la replica all’antico enunciato, secondo cui, invece, se vuoi la pace
è la pace che devi preparare. Elementare Watson.
E se la pace la vuoi preparare, è necessario un contrasto netto e preciso alla
violenza in tutte le sue forme, intrecciate le une alle altre in una
consequenzialità spesso indiretta, ma ricostruibile, se solo lo si voglia. È lo
psicologo Stephen Pinker ad affermare che, se la si vuole combattere, bisogna
prima di tutto riconoscerla, al di là delle mistificazioni a cui è sottoposta, e
poi avversarla in tutte le sue manifestazioni “dalle sculacciate educative date
ai bambini alle dichiarazioni di guerra tra le nazioni”2 . Innegabile che la
necessità dell’abolizione della caccia, che è regno assoluto di crudeltà e
disumanità, occupi un posto d’onore nella ricerca, visionaria o meno che sia, di
un mondo pacificato.
La caccia: la migliore educazione alle pratiche di guerra3
Per altro esiste un particolare puntuale parallelismo colto in ogni epoca tra
caccia e guerra: ”La guerra è la continuazione della caccia”, diceva Lev
Tolstoj, e la caccia è sempre stata considerata una raffigurazione ritualizzata
della guerra, un suo sostituto ugualmente sanguinario, ma molto più rassicurante
vista la mancata controffensiva del nemico immaginario.
Se in tempi molto lontani la sua crudezza poteva trovare giustificazione nella
lotta per la sopravvivenza umana, oggi neppure i suoi cultori si sognerebbero
mai di sostenerlo; se comportava coraggio, audacia, forza fisica, oggi comporta
se mai esercizio di pusillanimità, data la smisurata sproporzione di forze in
campo e la non belligeranza degli animali che, nemici inconsapevoli di esserlo,
hanno nella fuga l’unica disperata possibilità di salvezza. E, per gli
occidentali, si risolve tutta in attività di svago e ricerca di piacere,
alternativa ad una partita a tennis o a calcetto, per intenderci.
Le vittime di tanto accanimento sono a volte uccellini di pochi centimetri di
lunghezza e pochi grammi di peso, letteralmente disintegrati dai pallini, ma
anche quelli che piace considerare feroci non hanno scampo davanti alle armi in
dotazione del moderno cacciatore, novello Rambo, che si avvia alla guerra
unilateralmente dichiarata con fucile in spalla e portamunizioni in vista,
invaso da grande fascinazione anche per tuta, cinturoni stretti, stivali o
scarponi, per attraversare terreni un po’ umidi manco fossero le paludi del
Vietnam. Così bardato, trasforma la propria identità in un’altra fittizia,
definita dall’abbigliamento e dai temibili accessori, grazie a cui anche un
fisico più adatto alla tranquillità di uno sportello postale, così travestito,
può ambire ad una sua rivincita macha, pronta allo sterminio, al servizio di
virile quanto farlocco autocompiacimento.
Spara, spara, spara qui…
È indiscutibile che il vero motore della caccia si scalda e rimbomba là dove
albergano forme di aggressività e violenza, tanto virulente da lasciare sul
terreno vere e proprie carneficine, frutto di un crescendo di esaltazione e
delirio fuori controllo, che, nei territori di caccia, porta a non saturare mai
la pulsione a uccidere. Pulsione di cui non ci si vergogna, ma che è anzi fonte
di vanto, a giudicare da tante foto di fine battuta che, sui social, immortalano
stuoli di vittime stese intorno al sedicente eroe tronfio e soddisfatto.
Sanno bene i legislatori che questa passione è talmente travolgente da non poter
essere controllata da chi la sperimenta e da richiedere di conseguenza un
controllo esterno, quello delle leggi appunto, le quali, per quanto permissive,
non possono astenersi dal porre freni a quello che altrimenti sarebbe uno
sterminio ancora più smisurato di quelli attualmente tollerati. Lo fanno,
stabilendo limiti ai giorni e agli orari consentiti, nonché al numero di
individui e alle specie da bersagliare. Limiti, come si evince dalla lettura dei
siti venatori, vissuti con insofferenza, con rabbiosa inquietudine, perché il
divieto di sparare, come succede in amari tempi di caccia chiusa, provoca
malessere, una sorta di crisi di astinenza, tenuta a bada dalla certezza che
l’attesa impaziente avrà presto fine: il momento in cui, finalmente, la caccia
si riaprirà si avvicina giorno dopo giorno, ponendo fine all’inquieto count
down: “Mi manca l’inebriante profumo, quell’aroma di polvere da sparo torrefatta
che si sprigiona dalle canne della doppietta quando la si apre, e nell’aria
volano ancora le piume del fagiano”4.
Il numero dei cacciatori, in caduta libera in Italia tanto che oggi rappresenta
circa lo 0,7% della popolazione, vede una netta prevalenza di persone anziane,
tra i 65 e i 78 anni, che preoccupa non poco le associazioni, incapaci di
capire, anche se non dovrebbe essere così difficile riuscirci, le ragioni di un
tale disamore da parte delle nuove generazioni, quelle colpevolmente impregnate
di ecologismo, di animalismo, a volte addirittura di antispecismo. Al momento,
cercano di contrastare l’assottigliarsi delle loro fila, dilatando l’attivismo
degli irriducibili, anche quelli un po’ ammaccati dalle ingiurie della vita. Tra
loro, i più ricchi suppliscono alle inefficienze senili andando in terre
lontane, dove sarà sempre possibile, dai rassicuranti sedili di un elicottero,
affidare il compito ambito a un giovane del luogo, dalla mira precisa, che
colpirà in subappalto l’animale in fuga, elefante, tigre o leone che sia.
L’attempato ma non domato cacciatore, scambiando con un po’ di malafede il
potere del denaro con quello dell’efficienza personale, mira precisa e braccio
fermo, trarrà ancora grandi soddisfazioni, proprio come se lo avesse colpito
lui, nel vederlo accasciarsi e poi morire, emozioni tanto più travolgenti quanto
più la vittima sarà raro o addirittura in estinzione: è un vezzo da classe
sociale particolarmente elevata uccidere qualcuno (loro sembrano pensare
qualcosa) di unico o pregiato.
Non è, questo approccio critico all’essenza stessa della caccia, frutto di
un’analisi artefatta, di una interpretazione prevenuta: è anzi totalmente in
sintonia con il pensiero dei cacciatori stessi, quale emerge persino negli
stralci di conoscenza di sé che loro stessi offrono, nei loro siti5 quando si
confrontano con entusiasmo, cuore in mano, su tutto ciò che l’attività che li
affratella smuove in loro: eccoli allora a celebrare la “magia della caccia”, a
pregustare “una palpitante avventura”, a esaltare la “passione”, a crogiolarsi
nell’”euforia”, ad abbandonarsi all’ebbrezza”: stati d’animo emotivamente
alterati, che anticipano il piacere di trovarsi davanti al sangue degli animali
colpiti, alle urla di quelli solo feriti, alla fuga impazzita di quelli che
ancora sperano. Se non altro si deve dar loro atto di ottime competenze
introspettive, nell’auto riconoscimento di emozioni e stati d’animo, già
preannunciati da titoli di articoli quali Il sapore della caccia che sono tutto
un pregustare, un sentire sensorialmente il gusto stuzzicante della morte
cruenta, che infliggeranno alle povere bestie.
Premono il grilletto. E la natura scompare6
Per altro è un grande scrittore, Lev Tolstoj, cultore della caccia prima di
diventarne acerrimo nemico, a ricordare, in una sorta di racconto catartico, di
avere tante volte sperimentato quelle che lui stesso definiva la delizia e la
voluttà davanti alle bestie agonizzanti, la soddisfazione nell’essere stato
artefice di tanto dolore 7.
C’è di che rimanere basiti davanti a ciò che può albergare nella psiche umana: e
allora, alla ricerca dell’origine di quel vuoto etico che è il brodo di cultura
della passione venatoria, bisogna addentrarsi ancora di più nelle emozioni e nei
pensieri dei suoi cultori; si viene allora a contatto con elementi che
dovrebbero essere fonte di grande preoccupazione: perché nei loro comportamenti
prepotenti e brutali la fa da padrona quella assenza di empatia che esonda in
psicopatia nel piacere dichiarato di essere artefici della sofferenza e della
morte di esseri senzienti. Soprattutto appare virulenta una forma grave di
sadismo, nell’accezione psicologicamente corretta del termine, che lo definisce
quale “tratto del carattere proprio di chi si compiace della crudeltà”8, tratto
a volte innato, spesso collegato a risposte culturalmente apprese; sadismo che
si crogiola nel piacere generato dal provocare dolore o dal senso di potenza
personale che deriva dalla capacità di sopraffare l’altro. Nulla di nuovo sotto
il sole, visto che già lo psichiatra Karl Manninger (1893-1990) affermava che il
sadismo potesse assumere una forma socialmente accettabile nella caccia,
rappresentante delle energie distruttive e crudeli dell’uomo verso le creature
più indifese9.
Mentre altri studiosi si spingono ad ipotizzare una particolare forma di questa
componente del carattere, strettamente connessa alla sessualità10. Dice la
psicologa Margaret Brooke-Williams: “Si tratta di una riscoperta della virilità
e del senso di potenza maschile sopito dalla vita urbana. Questo sentimento di
potenza offre temporaneo sollievo al disagio psicologico dei cacciatori”. Teoria
suffragata dallo psicologo sociale Rob Alpha secondo cui nella pulsione sessuale
e nella compulsione a cacciare e uccidere vengono attivate le stesse aree
cerebrali. Per altro lo stesso Sigmund Freud si riferiva a volte al sadismo per
indicare la fusione di sessualità e violenza.
È possibile trovare ispirazione per altri approfondimenti in resoconti quali
un’illuminante intervista su l’Adige.it (02.09.2012) a un’esponente femminile
del mondo venatorio, tale contessa Maria Luisa Pompeati, della stirpe dei von
Ferrari Kellerhof: sulla scia dei suoi colleghi maschi, definisce la caccia un
atto d’amore, una passione intensissima che l’ha accompagnata nella crescita.
Riferisce della sensazione meravigliosa del momento dell’uccisione, in cui
l’animale diventa tuo per sempre. Perché, dice, la caccia è il momento
culminante di una passione intensissima che la lega all’animale, che lei vuole
possedere: dopo averlo centrato, corre da lui, prende la sua testa tra le mani,
l’accarezza e lo bacia. Mangiarlo è, in seguito, l’ultimo atto del possesso. È
lecito ipotizzare che alcuni gesti quali l’accarezzare e il baciare la vittima
appartengano piuttosto a particolari vezzi della femminilità della contessa e
non siano particolarmente diffusi tra i cultori della caccia, ma di certo vi
risuona l’eco delle convinzioni di Rob Alpha. A parte ciò, tutto il resto è
normale cronaca emotiva di una battuta di caccia.
Dalla parte delle vittime
In tutto questo, non emergono pensieri per gli animali, che pagheranno il prezzo
di quelle battute di caccia, che definire arte (per venatoria che sia) è quanto
meno un azzardo linguistico. Sono loro i grandi assenti, gli invitati di pietra
alla grande kermesse venatoria, al delirio dell’uccidi più che puoi: assenti
sono il cervo senza scampo che chiede grazia con le sue lacrime, nelle parole di
Montaigne; la cerva che assiste il maschio ferito, con la testa levata al cielo
e l’espressione piena di cordoglio, in quelle di Tolstoj; quelli che sentiamo
ansimare nei filmati dai luoghi della carneficina: volpi stanate da buche
profonde, rifugio vano da cani che le estraggono strappando loro la pelle, e
aprono la strada al cacciatore di turno, appostato nei dintorni, armato del suo
fucile e della sua viltà.
È un guardiacaccia, Giancarlo Ferron 11, che racconta di caprioli in fuga,
inseguiti per giorni, che corrono con la schiuma alla bocca, senza più fiato,
tremanti e sfiniti con la bocca spalancata per la fame d’aria; racconta di
cacciatori che hanno due o tre mute di cani, per sostituire quella sfiancata
nell’inseguimento di un capriolo, che lui però di sostituti non ne ha; ancora
racconta di animali che si suicidano buttandosi dalle rocce, pur di sottrarsi
allo sbranamento annunciato dai latrati che si fanno più vicini.
Che nessun animale possa sottrarsi alla furia omicida dei cacciatori, elefanti o
uccellini di pochi grammi lo dice bene un bambino nel colorito spirito
napoletano quando constata che “sparerebbero pure alla colomba dello Spirito
santo”12 compendiando così l’incontenibile impulso ad andare ad ammazzare esseri
di ogni genere e taglia, giovani o vecchi, che volino o corrano: purchÉ
respirino.
La caccia. Un vero suicidio morale13
Descrizioni tormentate sono anche quelle di Lev Tolstoj, quando, da cacciatore
da molto tempo pentito, ricorda con tormento lo spasimo pieno di terrore delle
sue vittime in agonia, la sopraffazione del più forte sul più debole, l’assalto
di molti a uno solo, del forte contro il debole, della sottrazione dei piccoli
alle madri e viceversa: un universo di azioni tanto orribili da indurlo a
definire la caccia un vero suicidio morale.
Parlando di conseguenze nefaste dell’attività venatoria si può continuare con i
morti e feriti di ogni stagione, di cui mantiene un accurato conteggio
l’Associazione Vittime della Caccia14 vittime che sfilano a passi felpati nei
trafiletti dei giornali, così da poco disturbare governi e partiti, sempre in
tutt’altre faccende affaccendati e magari un po’ imbarazzati. Perché si tratta
non di malasorte, ma delle inevitabili conseguenze di un’attività che comporta
l’uso continuo di armi, per moltissimi giorni all’anno, e svariate ore
quotidiane, in uno stato d’animo in continua tensione. Quando imperizia,
imprudenza, mancato controllo emotivo, deliri di onnipotenza, possono contare
sul possesso di un fucile caricato a pallettoni, che l’esito possa essere
mortifero non può certo meravigliare.
L’uomo e il cane: un’amicizia unilaterale
E che dire delle altre vittime oscurate, i cani, trasformati in aiutanti killer
mediante un addestramento vigoroso, notoriamente trattati come oggetti d’uso,
tenuti normalmente in gabbie da cui escono solo per andare a servire il loro
padrone, maltrattati, crudelmente puniti? Le cronache raccontano dell’abbandono
e della soppressione dei “soggetti” non idonei e di quelli da annoverare tra le
vittime accidentali di colpi sparati a casaccio.
A completamento, è una novella cacciatrice, Catia, a fornire nella sua
intervista15 on line un grazioso particolare, quello tanto diffuso da meritare
un termine ad hoc, la frustata, vale a dire una fucilata che abitualmente i
cacciatori sparano nel sedere di cani disobbedienti o lenti nell’apprendimento
(“la famosa frustata” dice), metodo di addestramento da cui lei però si vanta di
smarcarsi.
I bambini ci guardano16
Caccia che allunga le sue ombre lunghe anche in un campo colpevolmente
trascurato, quello delle ricadute su bambini e ragazzi, che certo per legge a
caccia non ci possono andare, almeno in Italia dove l’età minima è di 18 anni,
ma che, sempre dalla lettura delle chat dei cacciatori, risulta che non
raramente “accompagnino”, perché questo è permesso, i grandi, senza sparare, fin
da età davvero improbabili: nove, dieci, undici anni, con qualche eccezione,
udite udite, per bambini (accidentalmente anche bambine) di quattro anni. Grandi
che non stanno più nella pelle per insegnare alla discendenza il mestiere e,
impazienti, vogliono nell’attesa condividere le dilaganti emozioni. Potrebbe
sembrare roba da marziani, ma non è necessario espatriare su un altro pianeta,
perché è sufficiente oltrepassare la Manica: là, tutta la famiglia reale,
generazione dopo generazione, ha goduto di un tirocinio precocissimo a quello
che ritengono sport of the kings. Ahimè, non solo dei re. Il problema è che
neppure il velocissimo srotolamento dei tempi, con tutti i cambiamenti che si
succedono alla velocità della luce, pare intaccare la loro idolatria per la
tradizione, per mortifera che sia: l’ultima vittima è l’ancora innocente (?)
principe George, che risulta avere partecipato alla caccia al gallo cedrone a
sette anni (con papà) e pare si appresti ad uccidere il suo primo cervo ora che
ne ha compiuti dodici.
Che dire? Quasi meglio tornare alle cose di casa nostra: e provare a riflettere
che figli o nipoti di cacciatori crescono alla presenza costante di una, ma più
spesso più armi, presenza che, nella sua normalità, non provoca inquietudine, ma
assuefazione: tutto normale, un po’ come il portaombrelli o le piante da
arredamento. Normale sarà anche l’attenzione di cui le vedranno oggetto da parte
del cacciatore di famiglia, che le maneggerà con cura (almeno si spera), quali
oggetti di culto, preziosi ferri del mestiere, capaci di trasformare in realtà
il sogno sognato del prossimo trofeo. E normali, nella loro ripetitività,
saranno i comportamenti, i rituali di accompagnamento: levatacce antesignane,
rientri appagati se con accettabile numero di vittime, o malcelati malumori per
uno scarso bottino. E si conosceranno gli stati d’animo: l’ansia dell’attesa, i
racconti grondanti eccitazione per l’avvistamento dell’animale da colpire, il
non dargli tregua fissandolo nell’occhio del mirino o inseguendolo insieme ai
cani godendo del suo terror panico. E finalmente colpirlo.
Ora, banale ricordare che i bambini imparano ciò che viene loro insegnato, che
il giusto e lo sbagliato, il bene e il male sono concetti che prendono forma in
funzione delle convinzioni e dell’accezione che i grandi di riferimento danno
alle situazioni. E i primi anni di vita sono fondamentali per creare le proprie
rappresentazioni del mondo e dei valori della vita, frutto del modellamento
educativo, basilare nella strutturazione del carattere e della personalità.
Anche l’empatia, vale a dire la capacità di identificarsi con le emozioni e gli
stati d’animo dell’altro e di sentirli riverberare su di sé, condizionando il
proprio comportamento, dipenderà in grande parte dalla possibilità di
apprenderla se presente come modello a cui affidarsi. Se tale modello è
strutturato sulla crudeltà verso creature deboli, sul piacere nel provocare loro
dolore e morte, il piano educativo produrrà speculari contraccolpi psicologici
nei più giovani.
In estrema sintesi, non esiste dubbio che la violenza contro gli animali vada
nella direzione dell’introiezione di modelli aggressivi e prevaricatori, basati
sul diritto della forza. Vale la pena ricordare che, dal 2005 la Violenza
Assistita, quella quindi non subita in prima persona, ma come testimone di
quella agita su altri o percepita o anche solo sentita raccontare è
ufficialmente entrata nel novero delle violenze sfavorevoli infantili,
sfavorevoli rispetto a un sano ed armonico sviluppo della personalità. E quella
agita sugli animali è a tutti gli effetti inserita tra le forme prese in
considerazione: al di là delle teorizzazioni, emerge in modo drammatico dai
racconti di adulti che mai hanno potuto dimenticare lo strazio vissuto da
piccoli assistendo allo scempio su un animale, spesso ad opera dello stesso
padre. Non basta tutta una vita per dimenticare, ma neppure per sfoltire un
dolore che, nel momento del racconto, esplode con tutta la virulenza di un
dramma appena accaduto.
La caccia come tarlo sociale
Insomma: ce ne è davvero abbastanza per riflettere seriamente sulla caccia come
tarlo sociale e agire di conseguenza: perché la sua struttura portante è, in
estrema sintesi, il piacere di praticare violenza contro individui inermi.
“Quando capiremo, a fatti e non a parole, che le scelte esercitate contro gli
animali sono anche scelte contro di noi?”17.
Viviamo in tempi cupissimi, dove anche noi, abitanti di un mondo occidentale che
in molti pensavamo in costante crescita verso l’estensione dei diritti, ci siamo
ritrovati davanti al baratro di un’umanità disumanizzata. Siamo qui a chiederci
come tutto quello che sta succedendo stia davvero succedendo: troppo per essere
anche solo pensato, perché il pensiero stesso si ribella al farsi contaminare
dal regno dell’odio, dal dilagare dell’indecenza e di una crudeltà che nessuna
specie vivente potrebbe mai ideare. Nessuna tranne la nostra, che è la più
devastante, crudele e pericolosa. Che mai, nemmeno in nessun periodo di pace, ha
smesso di sentirsi in diritto di praticare alla luce del sole le più orrende
forme di supplizio sugli altri animali e, in modo variamente occulto, sugli
altri esseri umani.
Oggi il mondo tutto sembra allargarsi a normalizzare ogni forma di indecente
prepotenza, contro chiunque, senza neppure più vergognarsene; il mondo
venatorio, in contemporanea, pretende un po’ di spazio in più: molti più
uccellini da accecare per richiamare i loro conspecifici davanti al cacciatore
lì pronto ad impallinarne quanti potrà; licenza di sparare agli uccelli
migratori, esausti per viaggi interminabili; ribaltamento di sentenze del TAR
per consentire il massacro anche nei valichi di montagna. E poi orsi, lupi,
nutrie: tutti trasformati in bersagli, con la benedizione delle autorità, in una
moderna riedizione di quel Far West dove era la colt ad accogliere ogni estraneo
sgradito.
Ci si aspetterebbe che i cacciatori, numericamente in dissesto, le loro
straricche lobbies, quei politici afasici e indifferenti a un volere popolare
dichiaratamente contrario, prendessero consapevolezza dell’insostenibilità
morale dell’attività venatoria.
A tutti noi il compito di riconoscere le mistificazioni in atto, implicitamente
sostenute in modi diversi: per esempio con la vendita stessa delle armi accanto
agli sci o ai costumi da bagno nei negozi sportivi, giusto per sdoganare l’idea
che farsi una nuotata o massacrare un cinghiale è solo una questione di gusti
individuali. Mistificazioni sorrette anche attraverso richieste dei cacciatori
per entrare nelle scuole nella veste di testimonial della natura e, udite udite,
difensori degli animali. Che vanno ad uccidere perché li amano. Doveroso
interrogarsi sulla confusione cognitiva generata nei più giovani nel momento in
cui viene loro proposta l’equazione amore-uccisione, che oggi più che mai è il
mantra giustificativo di tanti femminicidi.
“Stiamo causando la distruzione. Dei nostri compagni animali… Ricercando
null’altro che il nostro benessere E il nostro divertimento”18.
Insomma, all’interno di un discorso sulla violenza, la sua genesi, le sue
manifestazioni, i modi per contrastarla, non è più possibile prescindere da
considerazioni che riguardino la pratica della caccia. Se si ritiene
fondamentale che l’educazione abbia come obiettivo primario l’insegnamento del
rispetto per l’altro, la presa in carico dei diritti di ognuno, la convinzione
che il senso di giustizia sia fondamentale nella gestione di relazioni positive,
è davvero impensabile proteggere, difendere, connotare positivamente
comportamenti sadici, violenti e crudeli a danno di esseri indifesi.
Non è superfluo ricordare la posizione di Albert Scheiwtzer, Nobel per la pace
1953, che sosteneva che la compassione, sulla quale si devono basare tutte le
filosofie morali, può raggiungere la massima estensione e profondità solo se
riguarda tutti gli esseri viventi e non solo gli esseri umani.
Gandhi, uno dei massimi esponenti del pacifismo, non pensò in nessun momento che
la grandiosità degli obiettivi che andava perseguendo lo autorizzasse a mettere
in secondo piano il dovere del rispetto per gli altri animali, da praticare
costantemente anche attraverso scelte alimentari, avanzatissime per i suoi
tempi.
Aldo Capitini, filosofo della non violenza, sosteneva che se si fosse imparato a
non uccidere gli animali, a maggior ragione si sarebbe risparmiata l’uccisione
di uomini: e lo diceva all’alba della seconda guerra mondiale, facendo tutto ciò
che era in suo potere per provare a scongiurare il delirio di violenza che di lì
a poco si sarebbe comunque scatenato.
Insomma e per concludere: l’attività venatoria è indiscutibilmente territorio di
crudeltà. Riconoscere questa elementare verità, è passo doveroso. Che dovrebbe
condurre alla strada che Freud, nel carteggio del 1932 con Einstein, indicava
per agire contro la guerra, con parole che si attagliano perfettamente anche
alla caccia. Le forze che esistono, dice Freud, che vanno costruite e
riconosciute, sono le relazioni d’amore e i legami emotivi che si stabiliscono
grazie anche a meccanismi di identificazione con l’altro. È necessario
indignarsi contro la guerra (e contro la caccia, aggiungo) perché ogni uomo,
ogni essere senziente ha diritto alla vita, perché la guerra (come la caccia)
“annienta vite piene di promesse, pone i singoli individui in posizioni che li
disonorano”. Per ricercare uno stato di pace, fra le persone, i popoli, le
specie, che forse è esistito, che forse è desiderio di qualcosa di mai
interamente vissuto, ma di cui vi è infinita nostalgia perché, dice Anna Maria
Ortesei, da quel bene assoluto ci siamo allontanati “per deviazione, errore,
stranezza o forse malattia” .
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Sull’argomento ho scritto nei miei libri i capitoli:
Bang…bang…: io sparo a te. In “Noi abbiamo un sogno”. Bompiani 2006
Finchè non lo vedrai esangue, In “In direzione contraria” Sonda 2009
Ai cacciatori il posto d’onore. In “Sulla cattiva strada, Sonda 2014
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1 Milan Kundera, L’insostenibile leggerezza dell’essere;
2 Stephen Pinker, Il declino della violenza
3 Senofonte, Il Cinegetico
4 https://brotture.net/tag/caccia
5 www.bighunter.net
6 Marcello D’Orta , Nessun porco è signorina
7 Lev Tolstoj, Contro la caccia e il mangiar carne
8 Umberto Galimberti, Nuovo Dizionario di Psicologia
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Www.feelguide.com/2016/11/07/hunting-linked-to=psychosexual-inadequancy-the=5-phases-of-sexual-frustration
10 www.animals24-7.org
11 Giancarlo Ferron, Il suicidio del capriolo
12 Nessun porco è signorina, Op. cit.
13 Lev Tolstoj, Op. cit.
14 https://www.vittimedellacaccia.org
15 http://www.sabinemiddelhaufeshundundnatur.net/ale/caccia_intervista.htm
16 Titolo del film di Vittorio De Sica, I bambini ci guardano
17 Danilo Mainardi
18 Yuval Noah Harari, Da animali a dei
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