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Dedicato a chi vede la violenza degli oppressi, ma chiude gli occhi di fronte alla violenza degli oppressori
La preoccupazione di vedere le cose obiettivamente costituisce la scusa legittima di questa politica d’immobilismo. Ma l’atteggiamento classico dell’intellettuale colonizzato e dei dirigenti dei partiti nazionalisti non è, in realtà, obiettivo. Di fatto, essi non sono sicuri che quella violenza impaziente della masse sia il mezzo più efficace per difendere […] L'articolo Dedicato a chi vede la violenza degli oppressi, ma chiude gli occhi di fronte alla violenza degli oppressori su Contropiano.
Genova 2001, il “decreto sicurezza” prima del ddl
Quando si parla di Genova, a più di vent’anni di distanza, si rischia spesso di rimuovere la sua natura più profonda: Genova non fu un incidente, né un eccesso, né una parentesi chiusa. Fu, al contrario, la manifestazione acuta di un conflitto strutturale, il punto di convergenza fra un ciclo […] L'articolo Genova 2001, il “decreto sicurezza” prima del ddl su Contropiano.
Violenza, nonviolenza, uso della forza
Viviamo in un mondo sempre più pieno di conflitti: personali, sociali, tra stati, internazionali. In questo momento sembra che i conflitti stiano aumentando e che non ci sia modo di porre fine alla violenza. Questo sistema, sociale, economico e mentale, dice, magari di contrabbando, che la soluzione alla violenza è la violenza: più controllo, più sistemi di allarme, più leggi repressive rispetto al preteso aumento della delinquenza, per fare un esempio facile. I movimenti nonviolenti non la pensano così perché, in primo luogo, si interrogano sulla radice ultima della nonviolenza. Per esempio Pat Patfoort sottolinea come la violenza visibile (la violenza fisica per esempio) sia preceduta da una più crudele violenza invisibile (violenza psicologica, economica, religiosa) e che sia necessario rintracciare il percorso e le concatenazioni che portano all’atto violento. Il Movimento Umanista sempre ha definito la violenza come la limitazione dell’intenzionalità umana e che, in questo senso, la violenza fisica sia sono uno degli aspetti di un fenomeno che riguarda l’economia, le relazioni umane, la discriminazione, l’orientamento sessuale, la credenza religiosa. Un’altra puntualizzazione importante è chiarire che la violenza non è sinonimo di forza e che l’uso della forza, nei suoi molteplici aspetti può perfettamente essere un’azione nonviolenta: la forza di una manifestazione, della disobbedienza civile, dell’interposizione nonviolenta tra due forze violente, lo sciopero, il boicottaggio, la difesa con ogni mezzo a disposizione da un’aggressione (tutte espressioni e lotte che già Aldo Capitini segnalava nel suo Le Tecniche della Nonviolenza, opportunamente ripubblicato da Manni). A livello sociale esistono enti di vario tipo a cui la società ha demandato l’uso della forza in certe occasioni regolate dalla Legge: questo patto sociale è posto sotto revisione dalla nonviolenza perché ben sappiamo che con la scusa dell’Ordine Pubblico si sono violati e si violano Diritti Umani, si giustificano dittature e stai d’emergenza. Però sembra ragionevole che con gli opportuni correttivi esistano enti che si occupano legittimamente di esercitare la forza (non la violenza) nelle occasioni opportune: arrestare i ladri, proteggere le persone indifese ecc. Il caro amico Peppe Sini propone sempre un corso di nonviolenza alle Forze dell’Ordine. Un tema importante riguarda invece quando forze sociali sia opportuno che usino la forza in determinati contesti sociali. L’esempio concreto e storico sono le lotte armate di liberazione dei popoli, le insurrezioni contro i dittatori, le varie forme di Resistenza. Su questo c’è molta confusione, differenza di opinioni anche tra le persone che si riferiscono alla nonviolenza; anche c’è molto giustificazionismo e un background storico che agisce su ognuno di noi, con i suoi miti (Che Guevara per esempio). Cominciamo col dire che anche chi usa abitualmente le armi ha una sua etica e delle leggi da seguire, alla fine potrebbe bastare la Convenzione di Ginevra. Ma l’aspetto da chiarire è se, a partire dal rispetto della Convenzione di Ginevra, un’azione militare possa essere considerata un’azione nonviolenta. Inoltre considerare se, in determinate situazioni, non sarebbe stato possibile una soluzione diversa. Per esempio molti studiosi nonviolenti hanno sviluppato il concetto di Difesa Popolare Nonviolenta che è un insieme di azioni non armate di resistenza civile, boicottaggio, non collaborazione in cui si difende un territorio o una sovranità popolare senza ricorrere alle armi. All’inizio dell’invasione russa in Ucraina molti pacifisti si sono chiesti cosa sarebbe successo se invece della risposta armata si fosse proposta una pacifica resistenza passiva, o forme di mediazione o perfino una resa incondizionata: Putin sarebbe veramente arrivato a Kiev? Atlante delle Guerre ha documentato questi tentativi. Evidentemente nella storia abbiamo una serie di esempi di liberazione del territorio effettuati con l’uso delle armi e i movimenti di liberazione dei popoli rivendicano quegli esempi. In Italia il riferimento è alla Resistenza che ha innegabilmente avuto una parte di lotta militare armata anche se quello non è stato l’unico aspetto. Al tempo stesso abbiamo esempi contrari di movimenti di liberazione armati che scelsero di abbandonare la lotta armata e scegliere la nonviolenza: il caso storico più significativo è stato quello di Nelson Mandela e dell’African National Congress dove l’abbandono della armi e la scelta della mobilitazione internazionale nonviolenta, del boicottaggio sono risultati vincenti. Un caso attuale di grande importanza è quello di Ocalan e del PKK che, nonostante le avverse condizioni in cui da tanto versa il popolo kurdo, ha deciso di imboccare una via almeno non armata alla risoluzione del conflitto. Esiste una letteratura denigratoria della nonviolenza che parla di collusione col potere, di giustificazionismo, di posizioni moderate inefficaci, di tradimenti ideali ecc. Si tratta di critiche basate su fatti realmente accaduti ma che mi pare non colgano il tema di fondo: la collusione, la giustificazione, il tradimento possono essere praticati indipendentemente dalla metodologia e dall’adesione morale a una o a un’altra ideologia e, purtroppo, appartengono a tutti i campi; queste pratiche non sono altro che manifestazioni, a volte sottili o dissimulate, di quella violenza di cui stiamo parlando: a maggior ragione spingono a favore di una soluzione nonviolenta che sia integrale, autentica, senza se e senza ma. Il mondo futuro, un mondo migliore, va costruito con mattoni solidi e coerenti con le aspirazioni che manifestiamo e che sono l’immagine tracciante che ci guida. Uno di questi mattoni, ideali e metodologici, è la nonviolenza, l’altro certamente la centralità e il valore di ogni essere umano. Olivier Turquet
Un ragazzino appena diciottenne
-------------------------------------------------------------------------------- Foto di pixabay.com -------------------------------------------------------------------------------- La città di Genova si stringe attorno al carcere cittadino e affronta con forza il drammatico episodio accaduto all’istituto penale Marassi all’inizio di questo mese. Su iniziativa del Garante regionale dei diritti dei detenuti, oltre duecento persone tra operatori sociali, avvocati, medici, insegnanti, semplici cittadini hanno firmato un appello per farsi carico di un percorso di accompagnamento per il giovane seviziato per giorni nel buio di quelle mura. Un ragazzino appena diciottenne entrato in carcere in attesa di giudizio sarebbe stato sequestrato da quattro detenuti per due giorni, tra il primo e il 3 di giugno, e sottoposto a brutali sevizie che andrebbero dalla violenza fisica a quella sessuale, dalle ustioni con olio bollente ai tatuaggi sulla faccia. La dinamica dei fatti si chiarirà con le indagini, ma certo è che il ragazzo è oggi traumatizzato e che il cappellano del carcere ha affermato di non aver mai visto nulla di simile in vent’anni di servizio. “Non possiamo lasciarlo solo”, dice oggi la città di Genova attraverso l’appello promosso dal Garante. E chiede che le istituzioni si facciano carico del percorso di riabilitazione fisica e psicologica del giovane, oggi agli arresti domiciliari in una struttura esterna protetta. I fatti, come detto, si chiariranno (auspicabilmente al più presto). Ma possiamo già da ora interrogarci su alcune questioni che riguardano in generale lo stato delle nostre carceri. La vita interna è oggi allo sbando e l’episodio genovese ce lo dimostra in tutta la sua crudezza. “Il carcere trasparente” era il titolo del primo Rapporto in assoluto che l’associazione Antigone pubblicò all’inizio delle attività del proprio Osservatorio sulle condizioni di detenzione di Italia. In quel titolo era racchiusa una grande parte della nostra filosofia: è la trasparenza delle carceri che previene gli abusi, le violenze dell’istituzione ma anche le distorsioni violente della vita quotidiana che possono arrivare a creare dinamiche come quella tragica avvenuta nella casa circondariale genovese. Trasparenza significa tante cose diverse. Un carcere trasparente è un carcere che non ha paura di farsi attraversare dal territorio esterno, un carcere in cui la città entra con vigore, e non invece dove si ritrova solamente a firmare appelli una volta che il danno è oramai avvenuto. Oggi le carceri italiane sono sempre più chiuse. Si cancellano attività, si ostacolano percorsi. Ma trasparenza significa anche che, al proprio interno, la vita carceraria deve fondarsi sulla conoscenza delle dinamiche sociali – di quella società complessa che la comunità penitenziaria costituisce – e non solamente sull’interposizione di barriere fisiche. I muri non costruiscono sicurezza. Gli organismi internazionali parlano di sorveglianza dinamica per riferirsi a quell’approccio alla sicurezza penitenziaria che la fonda sulla conoscenza delle interazioni, sulla prossimità, sul vivere i reparti detentivi. Se i poliziotti e gli educatori conoscono le dinamiche interne, se il direttore non governa il carcere dalla propria scrivania ma piuttosto scende nelle sezioni, avranno allora ben più possibilità di riuscire a intercettare e a prevenire episodi come quello di Marassi. Un’autentica sicurezza non si può costruire solamente con cancelli e sbarre. Bisogna conoscere le relazioni che si creano nella popolazione detenuta. Oggi invece il modello carcerario imposto è poco trasparente e chiuso, tragicamente chiuso. La carcerazione si concretizza in chiusura in celle affollate e insane, ozio forzato, vita senza stimoli. Ciò è sempre l’anticamera del degrado. Fatti come quelli che sarebbero avvenuti a Genova non devono sorprenderci ma devono indignarci. Serve prevenirli con un approccio educativo, conoscitivo e non chiudendo le persone in celle senza spazio come fossero bestie. -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Un ragazzino appena diciottenne proviene da Comune-info.
CPR: TRA VIOLENZA, ABUSI E CRIMINALIZZAZIONE DELLE PROTESTE. DA GRADISCA D’ISONZO L’ENNESIMO VIDEO REPRESSIVO CONTRO UN MIGRANTE RECLUSO
I Centri di Permanenza per il Rimpatrio (CPR) in Italia continuano a essere teatri di violenza, sofferenza, abbandono e degrado. Le strutture, destinate alla detenzione di migranti in attesa di rimpatrio, sono ormai da tempo oggetto di segnalazioni che denunciano l’assenza di condizioni igieniche adeguate, la scarsa qualità del cibo e la mancanza di assistenza sanitaria. Il centro di Gradisca d’Isonzo (Gorizia) è stato protagonista in particolare di numerose rivolte negli ultimi tempi. La risposta è stata una repressione dura e sistematica come testimonia un video filtrato dall’interno e diffuso dalle Rete Mai più Lager – No ai CPR che mostra un uomo in biancheria intima che corre tra le celle, inseguito da agenti in tenuta antisommossa: una volta raggiunto, viene circondato e portato di peso in una stanza separata. Quando torna davanti al cellular che sta riprendendo, il migrante è a terra, con il volto insanguinato. Questi episodi non sono isolati e si verificano in molte altre strutture del Paese, come il CPR di Palazzo San Gervasio e quello di Macomer in Sardegna, dove le difficoltà per i detenuti sono simili. Le proteste all’interno dei CPR, solitamente nate per denunciare le loro condizioni di vita, sono ora criminalizzate dal Decreto Sicurezza, che ha introdotto il reato di “rivolta” in questi contesti. La legge ha amplificato la paura di chi si trova già in una situazione di vulnerabilità, impedendo molte volte la possibilità di manifestare disappunto. Ai microfoni di Radio Onda d’Urto l’intervento di Nicola Cocco, medico della Rete Mai più Lager – No ai CPR e della SIMM – Società Italiana di Medicina delle Migrazioni. Ascolta o scarica.
Il cacciatore uccide sempre per giocare
-------------------------------------------------------------------------------- Il 31 maggio, Danilo Baldini, referente LAC Marche (Lega Anticaccia), e da anni attivista animalista, ha trovato nel campo adiacente la sua abitazione a Matelica (MC), la carcassa di una capriola con la testa mozzata. “In un primo momento si era pensato a un incidente – osserva la Lac in una nota – visto che in questo periodo si svolgono le falciature del fieno e dell’erba e siccome i piccoli dei caprioli, per non farli localizzare dai predatori, vengono lasciati dalle loro madri in mezzo all’erba alta, spesso purtroppo finiscono maciullati dalle falciatrici. Ma questa ipotesi è stata subito scartata, sia perché la carcassa della povera bestiola si trovava in un punto dove non vi era stato il taglio dell’erba, sia perché le falciature nei terreni vicini erano avvenute molti giorni prima, mentre la povera capriola era stata uccisa da poche ore, visto che ancora sanguinava e non presentava nessuna altra ferita nel resto del corpo e del tutto priva di morsicature o strappi che potrebbero far pensare ad una predazione da parte di un lupo, il quale non si sarebbe limitato a mangiare la testa. La conferma ufficiale che la decapitazione della capriola fosse opera di mano “umana” è arrivata, poche ore dopo il ritrovamento, da parte del di Angelo Giuliani, responsabile scientifico ed operativo del CRAS Marche, che era stato subito allertato, insieme ai Carabinieri Forestali di Fabriano, poi intervenuti sul posto per un sopralluogo. Peraltro trattandosi di una femmina, è venuta meno anche l’idea che l’animale fosse stato decapitato con lo scopo di tenersi la testa come un “trofeo” di caccia visto che, a differenza del maschio, la femmina di capriolo è priva di corna. Quindi resta solo l’ipotesi dell’atto di intimidazione o di ‘avvertimento’”. L’esame autoptico e le indagini dell’autorità giudiziaria, nei prossimi giorni stabiliranno con precisione la dinamica dei fatti. Danilo Baldini da anni è in prima linea su temi che riguardano la difesa degli ecosistemi, e non è la prima volta che si trova ad essere intimidito e minacciato. Per chi si espone come fa lui, quando si è vittima di certi fatti, non si ha certo bisogno della chiusura delle indagini per sapere chi possa essere stato. Anche perché se per la legge è molto probabile che alla fine si sarà trattato di ‘ignoti’, chi subisce sa ‘a pelle’ chi siano i ‘noti’. Ma quanto è accaduto va letto in un clima generale che nelle Marche, e probabilmente non solo, si respira relativamente all’attività venatoria. Da quando la destra è al governo della Regione, per ragioni di ricerca o consolidamento del consenso, i partiti di governo hanno fatto della questione venatoria uno dei temi operativi e comunicativi principali. C’è quasi una sorta di competizione tra le componenti della coalizione, (FDI, Lega e FI) a chi ‘promette’ di più ai cacciatori. Non che il centrosinistra sia stato meglio negli anni passati, specie in casa Pd e in quel che resta del partito socialista, dove ai voti dei cacciatori ci si è sempre tenuto. Lo sa bene l’ex assessore alla caccia Moreno Pieroni, che fu il primo a inaugurare scambi epistolari diretti con i cacciatori. Ma dalla conquista Regione, avvenuta nel 2020, sarebbe stato difficile aspettarsi qualcosa di meglio, quando l’assessore regionale all’ambiente, Stefano Aguzzi, ex PCI ma da anni in FI, è un irriducibile cacciatore che non si dimentica di fare gli auguri istituzionali di buon anno ai suoi particolari elettori; o quando l’attuale presidente della commissione agricoltura alla Camera, ma assessore alla caccia in giunta regionale fino al 2022, il leghista Mirco Carloni, ha storici rapporti con le associazioni venatorie, e ha fondato l’attività politica grazie al consenso dei cacciatori; tra l’altro la rinomata e storica “Osteria della Peppa di Fano, della famiglia dell’onorevole Carloni, vanta una consolidata proposta gastronomica a base di cacciagione (cinghiale, capriolo, cervo). Una politica regionale spalleggiata e sostenuta da Coldiretti, che ha fatto del problema dei cinghiali la propria missione corporativa, dimenticando i veri e gravi problemi degli agricoltori di questa regione, dovuti alla crisi climatica: la mancanza d’acqua, siccità, ondate di calore a alluvioni. Spiace molto che un sindacato agricolo, che ha fatto la storia del movimento contadino, sia divenuto in questi la claque del ministro Lollobrigida. L’azione  di lobbing politica, spesso trasversale,  quindi da anni soffia eccitando le associazioni venatorie, sempre più alla ricerca di fondi e di cacciatori: un’estrema minoranza di cittadini maschi adulti italiani che è capace di condizionare un governo nazionale, e unitamente a questo i governi regionali. Prendendo come riferimento le Marche, meno di un milione e mezzo di abitanti, i cacciatori sono meno di 17.000, l’1,14% della popolazione. La categoria di cittadini a cui ci stiamo riferendo, di cui oltre il 70% ha un età sopra i 65 anni e solo il 5% ha meno di 35, sono i cacciatori. Mentre, rispetto ai quasi 59 milioni abitanti del nostro Paese, stiamo parlando di circa 470.000 italiani, lo 0,79% della popolazione. Eppure questa corporazione, che si ostina ad uscire di casa all’alba per sparare a degli esseri viventi, a loro detta per passione e divertimento, e autodefinendosi ‘custodi delle biodiversità’, ha un forza di lobbing che difficilmente è riscontrabile in qualsiasi altra categoria. E la politica nazionale e regionale, di destra, centro e sinistra, è disposta a molto pur di ingraziarsi e fidelizzare il voto dei cacciatori e delle loro famiglie. Questo perché la caccia è un affare, un business che riguarda non solo l’attività venatoria in senso stretto, ma l’industria delle armi (non a caso ad esempio Fiocchi Fiocchi uno dei maggiori produttori di armi in Italia, è eurodeputato eletto con Fratelli d’Italia), e quella della ristorazione (dal cinghiale alle specie volatili). Ma il “colpo di grazia”, per usare un’espressione in tema, agli ecosistemi naturali lo darà, se approvato, il disegno di legge presentato dal governo Meloni, che rischia di aggravare la macelleria italiana che ogni anno l’attività venatoria causa in Italia, senza contare l’inquinamento da piombo nell’ambiente (certificato da rapporti ISPRA) e le vittima umane collaterali. Infatti, purtroppo, oltre a sparare a specie animali senzienti, i cacciatori si sparano anche tra di loro, creando gravi incidenti anche a persone estranee. Complessivamente, nel periodo dal 1° settembre 2024 al 30 gennaio 2025, sono stati registrati 62 incidenti, di cui 14 mortali. Sul fronte dei feriti, nel 2024 si è registrato un calo, con 34 feriti rispetto ai 53 dell’anno precedente.  La proposta di legge, che intende stravolgere la L. 157/92, prevede il prolungamento della stagione di caccia all’intero mese di febbraio (per alcune specie a oggi si interrompe a fine gennaio, per poche altre a metà febbraio), nel pieno della stagione di migrazione preriproduttiva di molte specie, mentre altre sono già in riproduzione. C’è la possibilità di cacciare anche in aree dove finora era in larga parte vietato, come le aree demaniali, (ad esempio spiagge, zone umide, praterie), mettendo i cacciatori negli stessi spazi di chi fa trekking, ciclismo, passeggiate, o raccolta funghi. Tra le novità c’è l’autorizzazione per nuovi appostamenti fissi, cioè nuove aree occupate in maniera permanente dai cacciatori, in cui si concentreranno enormi quantità di piombo nell’ambiente, o il fatto che si potrà cacciare anche dopo il tramonto, quando è impossibile distinguere un animale dall’altro (o accertarsi che non ci siano persone in giro). Il governo vuole riaprire gli impianti di cattura dei richiami vivi, cioè gli animali la cui condizione di vita verrà trasformata in modo permanente in esca, eliminando ogni limite nel possesso di uccelli da richiamo provenienti da allevamento. Si vuole riconoscere la licenza di caccia a cittadini stranieri, senza alcuna formazione sulle regole italiane, in un’idea di turismo distorta e coloniale. Si vuole consentire la braccata sui terreni innevati così da poter seguire le tracce degli animali. Insomma, si va verso un ritorno al più greve istinto umano paleolitico. In questi giorni le associazioni ambientaliste e animaliste si stanno mobilitando, considerato che poi in Italia, i cacciatori sono invisi alla stragrande maggioranza della popolazione: dati Eurispes 2024 raccontano di un 73% degli italiani contrario alla caccia. Ma le lobby e il denaro che gira intorno a questo mondo continua a tenere sottomessa la politica. Ed è anche il motivo perché dall’inizio degli anni Novanta del secolo scorso, ogni iniziativa referendaria per abrogare la L. 157/92 è naufragato, ed i migliori boicottatori furono i partiti di sinistra, dal PDS fino al PD.  -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Il cacciatore uccide sempre per giocare proviene da Comune-info.
ABUSI IN DIVISA: 16 AGENTI A PROCESSO PER I PESTAGGI ALLA QUESTURA DI VERONA
Sono diventati 16 i poliziotti indagati per torture e lesioni che sarebbero avvenute all’interno della Questura di Verona tra agosto e novembre 2022. Nove gli agenti che, dalla scorsa settimana, hanno allungato la lista degli indagati e che compariranno in udienza preliminare il prossimo 22 settembre 2025. L’indagine è partita dopo che i due cittadini fermati per “accertamenti”, hanno denunciato le violenze subite in diversi locali della Polizia in lungadige Galtarossa, in particolare in una stanza denominata “Acquario”. Le immagini delle violenze, già diffuse lo scorso giugno, mostrano tra l’altro i poliziotti delle volanti mentre trascinano un fermato a terra tra le sue urine o mentre sferrano pugni. Due i giudizi immediati già concordati tramite patteggiamento, per altri otto agenti l’inchiesta si era chiusa con l’archiviazione delle accuse. Nell’intervista la ricostruzione della vicenda e il commento di Daniele Todesco, dell’Osservatorio Migranti di Verona, che punta il dito anche sulla gestione della sicurezza in città, in seguito alla recente istituzione delle zone rosse. Ascolta o scarica
Pericolose rimozioni
MENTRE IL PARLAMENTO FA DIVENTARE UN REATO IL DISSENSO, A ROMA, IL PORTAVOCE DELLA RETE NO DL SICUREZZA E ASSESSORE MUNICIPALE, LUCA BLASI, VIENE MANGANELLATO NEL CORSO DI UNA MEDIAZIONE TRA MANIFESTANTI E POLIZIOTTI. INTANTO A MONZA VIENE NOMINATO QUESTORE UN POLIZIOTTO CONDANNATO A TRE ANNI E OTTO MESI NEL PROCESSO DIAZ. TUTTO QUESTO ACCADE IN UN PAESE NEL QUALE LE FORZE DI POLIZIA – I LORO VERTICI MA ANCHE I LORO SINDACATI – NON HANNO VOLUTO AFFRONTARE IL CASO GENOVA 2001 PER QUEL CHE È STATO E PER QUANTO LASCIAVA INTRAVEDERE. UN PAESE CHE 2020, CON LE VIOLENZE CONTRO I DETENUTI NEL CARCERE DI SANTA MARIA CAPUA A VETERE, HA PRESO ATTO CHE LA TORTURA FA PARTE DELLA NOSTRA STORIA E DEL NOSTRO PRESENTE. “IN UNA SITUAZIONE COSÌ CRITICA – SCRIVE LORENZO GUADAGNUCCI – AVREMMO BISOGNO DI FORZE DI POLIZIA AUTENTICAMENTE DEMOCRATICHE NELLA VITA INTERNA E NELLA DIALETTICA COL RESTO DELLA SOCIETÀ, IN GRADO DI SOTTRARSI ALLE INGERENZE DEL POTERE POLITICO, CAPACI DI ISPIRARSI SOLO ED ESCLUSIVAMENTE AI DETTAMI E ALLO SPIRITO DELLA COSTITUZIONE. NON ABBIAMO NIENTE DEL GENERE…” Foto di Ferdinando Kaiser -------------------------------------------------------------------------------- Vorrei partire in questa mia breve riflessione dalla definizione che lo staff di Amnesty International ha scelto per annunciare il mio intervento (durante la giornata di riflessione promossa a Roma in occasione dei cinquant’anni di Amnenesty international): “Vittima di tortura durante il G8 di Genova”. In effetti è così, la notte del 21 luglio 2001 mi trovai fra i 92 malcapitati presenti alla scuola Diaz al momento dell’irruzione della polizia di stato. Fummo picchiati selvaggiamente e subito dopo arrestati con accuse inventate, molto fantasiose anche sul piano strettamente giudiziario – primo caso nella storia di arresto in flagranza per associazione a delinquere (finalizzata nel nostro caso alla devastazione e al saccheggio) – e sulla base di false ricostruzioni dei fatti e perfino con prove costruite ad hoc: le due bombe molotov introdotte nella scuola dalla stessa polizia. E tuttavia è solo dal 2015 che parliamo della vicenda Diaz come di un caso di tortura. Da quando l’Italia, su nostro ricorso, fu condannata dalla Corte europea per i diritti umani per non avere fatto giustizia, nonostante le condanne inflitte in via definita a una decina di funzionari e dirigenti di polizia. La Corte di Strasburgo, per la prima volta, definì come tortura la “macelleria messicana” alla scuola Diaz, secondo la colorita rappresentazione che ne diede uno dei funzionari responsabili dell’intervento. Fino al 2015 si parlava di blitz, di irruzione, o di pestaggio e spedizione punitiva, oppure – in modo metaforico – appunto di macelleria messicana o ancora di tonnara, come ebbi a scrivere io stesso nel mio libro Noi della Diaz. Non so perché non abbiamo parlato fin da subito di tortura, e perché nemmeno i media lo abbiano mai fatto prima del 2015: eppure l’operazione Diaz, violentissima, durò ben due ore, in un luogo chiuso nel pieno controllo della polizia, insomma aveva tutti i crismi di un caso di tortura, secondo la definizione accettata a livello internazionale. Forse l’omissione è avvenuta perché la tortura è istintivamente associata alle carceri, a persone detenute e sottoposte a violenze nel rapporto molti a uno, col torturato solo in una stanza chiusa di fronte ai suoi aguzzini, o forse perché prevalevano nei media e nella società italiano il pudore, o perfino la paura, nel dover riconoscere che in Italia si era potuto praticarla in modo così plateale, in una scuola adibita a dormitorio, contro decine di persone inermi, utilizzando reparti specializzati e alla presenza fisica di quasi tutti i dirigenti di rango più alto della polizia di stato. Anch’io ho avuto bisogno di un po’ di tempo per accettare questa definizione: vittima di tortura. Ma poi ho capito – studiando un po’ – che la tortura fa parte della nostra storia e del nostro presente. Al G8 di Genova fu praticata su larga scala: alla Diaz, nella caserma di polizia di Bolzaneto – oggetto di uno specifico processo – e anche nella centrale operativa dei carabinieri, a Forte San Giuliano, per quanto su quest’ultimo caso non ci siano state inchieste della magistratura. Le torture a Genova hanno coinvolto centinaia e centinaia di agenti di tutte le forze dell’ordine – polizia di stato, carabinieri, polizia penitenziaria – come autori o come agenti necessariamente consapevoli di quel che avveniva attorno a loro, e qui mi riferiscono in particolare alla caserma di Bolzaneto, dove le torture fisiche e psicologiche andarono avanti per ben tre giorni. Le torture al G8 di Genova hanno avuto due principali caratteristiche. Hanno colpito non carcerati ma gente comune, attivisti, manifestanti qualunque, persone fermate per strada sostanzialmente a casaccio, e sono state praticate per ragioni prettamente politiche, cioè per colpire e mettere fuori gioco un movimento nascente, giudicato politicamente pericoloso – per la fase espansiva che stava attraversando – dall’establishment internazionale. Un’operazione di verità Le torture al G8 di Genova sono state un’operazione di verità. Hanno mostrato il lato oscuro delle nostre forze dell’ordine, un lato che avevamo dimenticato, o che fingevamo di non vedere; i fatti del luglio 2001 hanno chiarito che la tortura è una pratica che accompagna tutta la storia delle polizie dell’Italia repubblicana: a Genova fu praticata su larga scala e su cittadini qualunque, ma fu possibile perché c’era una “tradizione” pregressa. Il G8 di Genova è stato anche un disastro per la gestione dell’ordine pubblico, che fu colpevolmente militarizzata, con esiti fallimentari: l’uccisione a colpi di pistola di un ragazzo di 23 anni, centinaia di arresti arbitrari e illegittimi, una catena di abusi e violenze di strada da parte delle forze di polizia. Il G8 di Genova è stato inoltre un festival del falso in atto pubblico, con innumerevoli verbali infedeli consegnati alla magistratura, il festival della menzogna messa nero su bianco su carta intestata. Le violenze di Genova ci hanno fatto poi capire che la riforma del 1981, quella che aveva smilitarizzato la polizia di stato, quella che aveva introdotto la nozione di “polizia democratica”, ad appena vent’anni dalla sua introduzione era già evaporata. Ci hanno fatto capire che la pratica della tortura è una presenza costante, e incombente, nella vita delle forze dell’ordine, e che perciò andrebbe portata alla luce, dovrebbe essere discussa e combattuta insieme con gli agenti e nel discorso pubblico, invece di negarla, di sottovalutarla, di fingere che non ci sia. Voglio ricordare che a Genova, alla scuola Diaz, alcuni agenti usarono perfino strumenti portati alla bisogna, non solo i manganelli in dotazione – fra l’altro erano i tonfa, classificati come armi potenzialmente letali dalla stessa polizia – ma anche mazze fuori ordinanza, e manganelli elettrici, che io stesso ho provato sulla mia schiena. E voglio anche ricordare che le varie tecniche di tortura praticate a Bolzaneto – il “comitato di accoglienza” con le due file di agenti a colpire i detenuti, costretti a passare in mezzo, con sputi, calci, pugni; la posizione del cigno; le nudità imposte; i segni a pennarello sul viso; e poi gli insulti, le derisioni, le minacce (sulle ragazze anche minacce di violenza sessuale) e via elencando – fecero sorgere il legittimo dubbio che ci fosse una competenza specifica, una pratica diffusa, una trasmissione “professionale” di tali tecniche fra una generazione e l’altra di agenti. Un dubbio legittimo. Di tutto questo non si è mai parlato. Le forze di polizia – i loro vertici ma anche i loro sindacati – non hanno voluto affrontare il caso Genova per quel che è stato e per quanto lasciava intravedere. Non hanno voluto un’operazione di verità, di presa di coscienza, di ripudio degli abusi e quindi di ripartenza su nuove basi, con trasparenza, in dialogo col resto della società. Le forze di polizia si sono arroccate, anche rispetto alle inchieste della magistratura, affrontate con spirito omertoso e non collaborativo, al punto – cito dalla sentenza Diaz della Corte di Strasburgo – che la polizia di stato ha “ostacolato impunemente” l’azione della magistratura. La sentenza della Corte, come sappiamo, è stata subita quasi come un affronto e disapplicata nelle sue parti più significative, dove chiedeva il licenziamento dei condannati in via definitiva e l’introduzione dei codici identificativi obbligatori per gli agenti in servizio di ordine pubblico. La stessa legge sulla tortura del 2017 è stata approvata in un clima ostile, senza alcun serio dibattito interno alle forze di polizia, che l’hanno vissuta come un’impropria invasione di campo, dimostrando tutta la propria immaturità democratica. Un ponte fra passato e futuro Perciò oggi, a quasi venticinque anni dal G8 di Genova, tocca dire che il luglio genovese, anziché un punto di rottura e di frattura quale poteva essere, un’occasione cioè per un cambio di passo, è stato in verità un ponte fra passato e futuro, nel segno della continuità, e se vogliamo – visto quanto quei fatti sono stati plateali – una legittimazione anticipata del futuro, una sorta di annuncio che quanto accaduto sarebbe stato destinato a ripetersi. Come altro leggere quanto avvenuto in questi venticinque anni, i tanti troppi casi di abuso di potere e di violenza di polizia, in che altro modo interpretare le sconvolgenti, ma non sorprendenti, immagini registrate nel carcere di Santa Maria Capua a Vetere, immagini che invito a guardare rileggendo, simultaneamente, le testimonianze dei torturati di Bolzaneto: le immagini del 2020 corrispondono alle testimonianze del 2001, sono sovrapponibili. Santa Maria Capua a Vetere sembra, anzi è Bolzaneto: allora non vi fu alcuna vera autocritica e l’orrore si è immancabilmente ripetuto tale e quale. Genova G8 poteva essere un momento oscuro, una caduta grave e forse gravissima della legalità e dell’etica costituzionale nelle forze dell’ordine, ma era una caduta rimediabile, poteva essere una pagina nera da superare attraverso una seria assunzione di responsabilità. Dobbiamo invece considerarla un biglietto da visita, un precedente, una storia che non cessa di produrre effetti. Genova G8 non è finita Genova G8 è ancora nelle notizie di cronaca. E fa impressione, in questi giorni, sentire dell’ex capo della polizia e di un suo storico stretto collaboratore, Gianni De Gennaro e Francesco Gratteri (condannato quest’ultimo a quattro anni nel processo Diaz), nel frattempo diventati uno manager e l’altro consulente di importanti aziende private costruttrici, fa impressione saperli chiamati in causa per la vicenda del pm Michele Prestipino, cioè per i presunti scambi di informazioni riservate sulla vicenda del Ponte di Messina, il tutto sulla base di intercettazioni disposte per indagare su un depistaggio successivo alla strage di via D’Amelio (1993) e sulla scomparsa dell’agenda rossa di Paolo Borsellino, per i quali i sospetti sono concentrati su un defunto (nel 2002) funzionario, Arnaldo La Barbera, che partecipò, come dirigente più alto in grado (era il vice di De Gennaro), all’operazione Diaz. La cronaca ci consegna anche la nomina a questore di Monza di Filippo Ferri, un altro condannato – a 3 anni e 8 mesi – nel processo Diaz. Tutto questo allarma, specie in una fase storica come l’attuale, attraversata da evidenti pulsioni autoritarie, ben rappresentate dal recente decreto sicurezza. In una situazione così critica avremmo bisogno di forze di polizia autenticamente democratiche nella vita interna e nella dialettica col resto della società, in grado di sottrarsi alle ingerenze del potere politico, capaci di ispirarsi solo ed esclusivamente ai dettami e allo spirito della costituzione. Non abbiamo niente del genere e la preoccupazione è quindi legittima, perché siamo coscienti di non avere una soluzione a portata di mano, in un paese che dimostra di avere rimosso l’esperienza del G8 di Genova e che sembra assecondare le tensioni autoritarie in atto. Io non ho indicazioni da dare: dico solo che dobbiamo stare molto attenti, e ricordare, ricordare sempre tutto. -------------------------------------------------------------------------------- L’ultimo libro di Lorenzo Guadagnucci è Un’altra memoria (Altreconomia), da poco nelle librerie (di cui parla in questa intervista). Nell’archivio di Comune i suoi articoli sono leggibili qui. Ha aderito alla campagna Partire dalla speranza e non dalla paura -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Pericolose rimozioni proviene da Comune-info.
Il patriarcato precede la colonizzazione
STUDIARE LA MASCOLINITÀ È COMPRENDERE IL POTERE. STUDIARE GLI STUPRI DI GUERRA È RICONOSCERE LA VIOLENZA COME ULTIMA RISORSA DISPONIBILE PER COLORO CHE NON POSSONO “PROVARE” IL LORO POTERE IN ALTRI MODI. STUDIARE IL PATRIARCATO È RIPENSARE LA STORIA E METTERE IN DISCUSSIONE L’AFFERMAZIONE CHE IL PATRIARCATO SIA UN’INVENZIONE DELLA COLONIZZAZIONE: IL PRIMO HA SECOLI DI STORIA, ANCHE SE LA COLONIZZAZIONE, NON C’È DUBBIO, L’HA INTENSIFICATO E RICONFIGURATO. APPUNTI DI UNA CONVERSAZIONE CON L’ANTROPOLOGA FEMMINISTA ARGENTINA RITA SEGATO Messico, Chiapas (Selva Lacandona). Foto di Massimo Tennenini -------------------------------------------------------------------------------- Invitata dal Coordinamento di Scienze Umane dell’UNAM e dal Programma Universitario di Studi sulla Democrazia, Giustizia e Società (PUEDJS), l’antropologa e scrittrice Rita Segato ha tenuto una conversazione pubblica nella quale ha condiviso alcune delle chiavi del suo recente pensiero. L’incontro, realizzato nel quadro dell’ottantesimo anniversario del Consiglio Tecnico delle Scienze Umane, ha visto la partecipazione di Miguel Armando López Leyva, coordinatore delle Scienze Umanistiche; John M. Ackerman, direttore del PUEDJS; Amneris Chaparro, titolare del Centro di Ricerche e Studi di Genere, e Leticia Flores Farfán, coordinatrice del Corso di Laurea in Studi di Genere. Il potere della parola “Nominare è tracciare la rotta della storia”, ha detto Rita Segato all’inizio della sua conversazione all’UNAM. Con umorismo e critica, la pensatrice femminista, nota a livello internazionale per i suoi studi su genere, violenza e colonialità, ha aperto uno spazio di riflessione collettiva che è stato, nelle sue parole, un esercizio di pensiero vivo. “Le discipline umanistiche sono le più potenti che ci siano, anche se ci fanno credere il contrario. Creando vocabolario, scegliendo quali esperienze nominare e quali no, le scienze umane disegnano il percorso della storia. Sono più importanti della politica“. Una vita tra le lingue Anche se è argentina, Segato ha costruito la sua carriera accademica in Brasile, che ha segnato profondamente la circolazione della sua opera. “Nessuno legge in portoghese. Ci sono pochissimi lettori. È come se ci fosse una riserva di mercato teorica: se uno si chiama John Smith, lo traducono; se si chiama Juan Pérez, no”. In questo senso, ha apprezzato profondamente che la sua parola abbia trovato risonanza in tanti paesi dell’America Latina e, in particolare, in Messico. Da Tilcara, nella valle di Humahuaca, dove vive con il suo compagno, Segato ha difeso uno sguardo critico e decolonizzatore della teoria e della pratica accademica. Per questo, quando è stata invitata all’UNAM, ha proposto che il formato fosse quello di una conversazione aperta: “Quando converso penso meglio, penso cose che prima non avevo pensato”. È importante sottolineare che la sessione si è tenuta nell’ambito del “Seminario permanente (Re)pensando la democrazia nel XXI secolo” del PUEDJS. Frontiera delle civiltà “Il Messico non è il confine tra il Messico e gli Stati Uniti. È il confine tra un’intera civiltà e il nord”, ha detto con enfasi. Nella sua visione, il Messico ha una posizione geopolitica e simbolica unica nel continente: “È il paese più importante dell’America Latina, e lo dico sempre. Ha un ruolo chiave nella disputa civile che stiamo vivendo”. Questa affermazione non è solo geografica: è politica. Per Segato, la storia dei popoli dell’America Latina è attraversata da molteplici forme di colonialismo e il Messico, con la sua ricchezza culturale, storica e demografica, è un attore centrale nella disputa per il senso dell’umano. Mascolinità, il suo tema di studio Anche se ampiamente nota come femminista, Segato ha chiarito che il suo oggetto di studio non è la femminilità, ma la mascolinità come forma strutturale del potere; “comprenderla è capire il potere, il patriarcato è la struttura fondante di tutte le forme di espropriazione, di valore, di prestigio”. -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE QUESTO ARTICOLO DI RAUL ZIBECHI: > Demolire il mandato di mascolinità -------------------------------------------------------------------------------- Da questa prospettiva, ha messo in discussione le teorie che affermano che il patriarcato è stato un’invenzione della colonizzazione: “Non può essere sostenuto né dai dati antropologici né dalla storia. Il patriarcato precede la colonizzazione, anche se questa l’ha intensificato e riconfigurato”. Attraverso esempi etnografici, ha spiegato come le “case degli uomini” -spazi di formazione maschile nelle diverse culture tribali – esistevano nei cinque continenti, molto prima del contatto coloniale. Dallo stupro alla guerra Uno dei concetti più profondi e trasformativi di Segato è quello del mandato di mascolinità, che ha spiegato come si è evoluto dalla sua idea iniziale del “mandato di stupro”, che descrive l’esigenza di dimostrare la mascolinità attraverso la violenza sessuale. “Abbiamo intervistato molti giovani condannati per stupro in Brasile. Tutti ripetevano una narrazione: dovevano provare qualcosa, dimostrare qualcosa agli altri. Quel qualcosa è la mascolinità”. Secondo Segato, la violenza è spesso l’ultima risorsa disponibile per coloro che non possono “provare” il loro potere in altri modi. “Sempre meno uomini hanno accesso ad un patrimonio, ad un posto nell’economia. Allora non resta che la violenza”. Con acutezza, umorismo e impegno, Rita Segato ha lasciato una lezione profonda: nominare, scrivere, parlare non sono atti neutri. Sono atti politici che modellano il futuro. -------------------------------------------------------------------------------- Fonte: Desinformémonos (traduzione di Comune). Publicado originalmente en Gaceta UNAM -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE QUESTO ARTICOLO DI CRISTINA FORMICA: > Lasciarsi alle spalle il patriarcato -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Il patriarcato precede la colonizzazione proviene da Comune-info.
Non c’è mai tregua alla violenza in Messico
Negli ultimi giorni di Aprile 2025, il Messico è stato attraversato da un’ondata di violenza generalizzata e coordinata che ha colpito duramente vari stati del paese, tra cui Michoacán, Jalisco, Guanajuato, Guerrero e Chiapas. Questi eventi non rappresentano episodi isolati di criminalità o scontri tra “narcos”, come spesso sostenuto dalle autorità, ma piuttosto un attacco […]