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PRATO: IN RISPOSTA ALL’AGGRESSIONE PADRONALE, OPERAI DELL’ALBA SRL E SUDD COBAS ANNUNCIANO UN CORTEO PER SABATO 20 SETTEMBRE
Dopo la violenza squadrista e padronale, martedì 16 settembre 2025 a Prato, contro gli operai in lotta e i sindacalisti Sudd Cobas fuori dalla stireria Alba srl, che lavora per conto di numerosi brand di alta moda del cosiddetto Made in Italy, lavoratori e sindacato hanno annunciato per sabato 20 settembre 2025 una manifestazione di piazza (appuntamento alle ore 15 in Porta del Serraglio, a Prato) dietro la parola d’ordine “Tocca uno, tocca tutti. Diritti e diginità nelle filiere del Made in Italy”. La decisione è stata presa durante una partecipata assemblea con lavoratori, sindacalisti e solidali. Ai microfoni di Radio Onda d’Urto è intervenuto Arturo Gambassi, sindacalista del Sudd Cobas. Ascolta o scarica.
Un percorso didattico di storia ed educazione civica su Israele e Palestina
Le persone che lavorano come docenti a scuola e si sentono professionalmente ed eticamente impegnate nella formazione della conoscenza e nella costruzione di un mondo di pace si pongono in questo momento l’interrogativo su come parlare di tutto ciò che sta accadendo nei territori israeliano e palestinese. Ecco come cercherei di parlarne io – per la crescita delle studentesse, degli studenti… e mia, che pure ho già una visione abbastanza ben definita su nascita, processo, torti e ragioni di quel conflitto (Storia). Non parlerei di questa mia visione e non certo per sottrarmi alle responsabilità personali che l’insegnamento necessariamente implica; piuttosto, direi, per impedirmi la possibilità di manipolazione – involontaria, è ovvio – delle mie classi, per evitare di fare ciò che vorrei che docenti che hanno una visione ben diversa dalla mia non facessero, cioè raccontare la ‘propria’ storia ognuno alle proprie classi. Perché so che il mio racconto (come, analogamente, anche il racconto degli ‘altri’) dipende dalla mia biografia – dalle mie esperienze, dalle persone che ho incontrato, dai libri sui quali sono stato educato e da quelli che mi è capitato di leggere per iniziativa personale (e che forse, a un certo punto, ho ricercato tra quelli all’interno della mia bolla culturale), dai miei presupposti e dalle mie speranze. Allora, qual è la responsabilità che mi assumo? E’ quella (pesante, faticosa, onesta) di cercare di farmi, con la classe, un’idea ancora più ricca di quale possa essere la storia di questo conflitto – fermo restando che l’etica impone intanto di riconoscere sempre le vittime, specialmente tutte quelle innocenti, a qualsiasi popolo esse appartengano. E come farmi un’idea più ricca di quella che ho adesso, per quanto essa derivi anche dall’aver letto non pochi libri? E, poiché forse vale lo stesso per l”altro’ docente, quello che racconta in classe la storia che io considero sbagliata, e le classi non sono il giocattolo dei loro docenti (sia pure in buona fede), come sfuggire al “paradosso del Buono”, che rischia di operare come il “Cattivo”, cioè presentando la sua narrazione come quella corretta? ll modo che vedo è quello di prendersi in mano, a titolo esemplificativo, due libri, uno di un filo israeliano e uno di un filo palestinese (attenzione: non ho detto “di un israeliano e di un palestinese”), e vedere in classe come raccontano quella storia, con quali presupposti, con quale ‘punteggiatura’ cronologica, con quali diverse interpretazioni di uno stesso “fatto” etc. Per ragioni di tempo scolastico – o universitario – non posso farlo con la classe? Posso farlo forse per conto mio e poi raccontare le due versioni, mostrando cosa sottolinea l’una e cosa l’altra, cosa omette l’una e cosa l’altra, quali implicazioni, nel modo di raccontare, ha ciascuna di esse, per esempio in termini di ‘educazione’ all’odio e rendermi conto del fatto che la violenza attualmente al massimo può derivare anche dai libri su cui gli stessi attori del conflitto hanno studiato… E potrei scoprire l’esistenza di una realtà frastagliata all’interno di ogni ‘fronte’, con gruppi che lavorano per la pace sia nell’uno sia nell’altro. Ne verrebbe fuori una complessità inaspettata che invita a non esprimere giudizi sommari e dicotomici, come invece siamo stati sempre abituati a fare: tutto il Male da una parte, tutto il Bene dall’altra. La quale sarebbe ancora più complessa e “giusta” se, senza fissare l’attenzione solo su israeliani e palestinesi, mettesse in campo costantemente anche il ruolo delle terze parti, quelle non direttamente coinvolte nel conflitto armato, ma che forse hanno contribuito in grandissima parte sia (attivamente) alla sua nascita sia (attivamente e passivamente) alla sua continuazione. Un elemento ulteriore, e preliminare dal punto di vista logico, che, anche senza bisogno di citare Marc Bloch, mi pare indispensabile che i docenti chiariscano – a se stessi innanzitutto e alla classe poi – è che “comprendere non significa giustificare” (una delle confusioni più diffuse trasversalmente, tra i ragazzi di 12 anni, tra i docenti, tra i giornalisti e tra gli intellettuali che vanno per la maggiore). Per semplificare: comprendere le ragioni degli oppressori, oltre che quelle degli oppressi, non ha nulla a che fare con la giustificazione dell’oppressione. Comprendere anche le ragioni dell’oppressore (anche per come le espone lui) significa darsi la possibilità di pensare il conflitto in termini non moralizzanti (basati sulla “propria” morale e sulle “proprie” informazioni) e capire, e abituare a capire, come le “percezioni” (anche sbagliate) delle parti in conflitto influiscano sul loro modo di agire, e come dunque i popoli e i governi potrebbero ‘lavorare’ su quelle percezioni in maniera proficua incontrandosi, per mettere in crisi l’idea dell’inevitabile ricorso alla violenza. Questo per l’aspetto storico. Invece, per una concreta soluzione all’orrore odierno (Educazione civica), proporrei di trascurare momentaneamente la Storia e di chiedersi: se avessi tutti i miei amici più cari, la mia famiglia e i miei parenti equamente distribuiti a Gaza e in Israele – alcuni dei quali magari impegnati lì e qui contro la violenza della propria parte verso l’altra – cosa proporrei, cosa vorrei che avvenisse? Andrea Cozzo, Università di Palermo, Dipartimento Culture e Società Bibliografia minima 2024. Marzano, Questa terra è nostra da sempre, Roma-Bari 2024. 2025. Podeh, S. Alayan (Eds.), Multiple Alterities. Views of Others in Textbooks of the Middle East, London 2018. 2026. Sandri, Città santa e lacerata. Gerusalemme per ebrei, cristiani, musulmani, Saronno 2001. Redazione Palermo
La politica della violenza e il futuro di Zohran Mamdani
Il tragico assassinio dell’attivista di destra Charlie Kirk ha scosso il panorama politico americano. Innanzitutto chiariamo una cosa: un atto di violenza del genere è assolutamente orribile e indifendibile. Come persona che crede profondamente nella nonviolenza gandhiana, lo condanno con la massima fermezza. Nessun disaccordo politico, per quanto profondo, dovrebbe mai sfociare in violenza fisica. La violenza non solo ruba una vita, ma danneggia anche la democrazia stessa. Ma una volta superato lo shock iniziale e il dolore, dobbiamo anche porci alcune domande difficili: come viene presentato questo crimine dai potenti mezzi di comunicazione e dai politici dell’establishment? E quale effetto potrebbe avere sul futuro di candidati progressisti come Zohran Mamdani, che ora è sotto i riflettori come serio contendente per la carica di sindaco di New York City? Da vittima a simbolo: la costruzione mediatica di Kirk Alcuni grandi media hanno già iniziato a elevare Kirk a figura simbolica, un martire dell’estrema destra, dipinto come un difensore quasi santo della “libertà” e dei “valori tradizionali”. Per una contorta ironia, coloro che hanno tratto il massimo vantaggio dalla politica divisiva e spesso incendiaria di Kirk ora stanno per ottenere ulteriori vantaggi politici dalla sua morte. Da morto, Kirk diventa più utile per loro di quanto non lo sia mai stato in vita. Il quadro è chiaro: Kirk è presentato come una vittima di una società che, secondo loro, è diventata “troppo radicale”, “troppo violenta” e “troppo intollerante”. Questa narrazione non è casuale, ma ha uno scopo ben preciso: associare l’ascesa della politica progressista al caos e alla violenza, indipendentemente da chi abbia commesso il crimine o quali fossero le reali motivazioni. La legge e l’ordine come arma politica L’establishment usa da tempo la retorica “legge e ordine” come arma politica. Da Nixon negli anni Sessanta a Giuliani negli anni Novanta, il tema è stato sempre lo stesso: la paura vende. Amplificando la criminalità – reale o esagerata – chi detiene il potere crea un senso di insicurezza tra la gente comune, che poi giustifica misure repressive e scoraggia la sperimentazione politica. In questo caso, l’assassinio di Kirk rischia di diventare l’ultimo strumento di questo arsenale. I leader progressisti come Mamdani, che parlano di giustizia economica, uguaglianza razziale e socialismo democratico, potrebbero essere dipinti come parte del problema: troppo “radicali”, troppo “indulgenti nei confronti della criminalità” o addirittura indirettamente responsabili di alimentare un “clima di violenza”. Nessuna di queste accuse avrebbe un fondamento fattuale, ma nel mondo della manipolazione mediatica, la percezione spesso conta più della verità. La sfida di Mamdani: rimanere fedele ai propri valori Zohran Mamdani è emerso come una rara voce di autentico socialismo democratico nella politica cittadina americana. La sua campagna per la carica di sindaco trova riscontro nei newyorkesi stanchi dell’aumento vertiginoso degli affitti, della crescente disuguaglianza e del controllo delle aziende sul governo cittadino. Tuttavia, proprio per questo motivo, l’establishment lo vede come una minaccia. All’indomani dell’assassinio di Kirk, la sfida di Mamdani sarà duplice. In primo luogo, dovrà prendere inequivocabilmente le distanze – insieme all’intero movimento progressista – da qualsiasi associazione con la violenza. Ciò è essenziale non solo dal punto di vista etico, ma anche politico. Deve ricordare ai newyorkesi che la tradizione della sinistra è radicata nella nonviolenza, nella solidarietà e nell’organizzazione di base, non nello spargimento di sangue. In secondo luogo, Mamdani deve smascherare l’ipocrisia dei politici dell’establishment e dei loro alleati nei media. Mentre versano lacrime di coccodrillo per Kirk, rimangono in silenzio sulla violenza sistematica: sfratti di massa, brutalità della polizia, profilazione razziale, detenzione degli immigrati, distruzione dell’ambiente. La violenza della povertà e della disuguaglianza uccide molte più persone di qualsiasi assassinio politico. Eppure quelle vittime raramente vengono trasformate in martiri nei programmi televisivi in prima serata. Questo danneggerà le sue prospettive? La domanda rimane: l’assassinio di Kirk danneggerà le possibilità di Mamdani di diventare sindaco? La risposta dipende in gran parte dall’efficacia con cui lui e i suoi alleati riusciranno a controllare la narrazione. Se prevarrà la visione dell’establishment, che dipinge i progressisti come radicali irresponsabili, allora Mamdani potrebbe davvero trovarsi in difficoltà. La paura, dopotutto, è un potente motivatore in politica. Ma se Mamdani riuscirà a spostare il dibattito sulla violenza strutturale più profonda della disuguaglianza e sui fallimenti della leadership dell’establishment, potrebbe neutralizzare la propaganda e persino uscirne più forte. In effetti, la storia dimostra che quando i progressisti rimangono radicati nella verità e nel potere della base, possono superare tali sfide. La chiave è non ritirarsi per paura, ma parlare con più coraggio del tipo di società che desideriamo costruire: una società basata sulla giustizia, la compassione e la sicurezza reale per tutti. L’assassinio di Charlie Kirk è una tragedia che non deve mai ripetersi, ma è anche un momento che rivela il cinico funzionamento dei media politici. Le forze dell’establishment stanno già utilizzando questo crimine per cercare di delegittimare la politica progressista. Il compito di Zohran Mamdani è quello di superare questa manipolazione, riaffermare il suo impegno per la nonviolenza e connettersi con i newyorkesi comuni sulle loro reali preoccupazioni: alloggi, lavoro, assistenza sanitaria, istruzione e dignità. Se riuscirà a farlo, nessuna manipolazione mediatica potrà far deragliare la sua campagna. Alla fine, saranno le persone a decidere se sarà la paura o la speranza a guidare il futuro di New York City. Riferimenti: ⁠Chomsky, Noam. Media Control: The Spectacular Achievements of Propaganda. Seven Stories Press, 2002. West, Cornel. Democracy Matters: Winning the Fight Against Imperialism. Penguin, 2005. Nixon, Richard. “Law and Order” campaign speeches, 1968 U.S. Presidential Election. Mamdani, Zohran. Campaign speeches and policy statements, 2024–2025. Gitlin, Todd. The Whole World Is Watching: Mass Media in the Making and Unmaking of the New Left. University of California Press, 1980. Herman, Edward S. and Noam Chomsky. Manufacturing Consent: The Political Economy of the Mass Media. Pantheon, 1988. Traduzione dall’inglese di Anna Polo Partha Banerjee
You have no idea
SOLTANTO NEL 2024 LE SPARATORIE DI MASSA NEGLI USA SONO STATE 503, LE STRAGI 30 E I MORTI PER ARMA DA FUOCO 16.725. EPPURE ADESSO RACCONTANO CHE SI TRATTA DI UN OMICIDIO POLITICO. “NON HAI IDEA DI CIÒ CHE HAI SCATENATO” HA DETTO LA MOGLIE DI KIRK, RIVOLGENDOSI AL RESPONSABILE DELL’OMICIDIO. CIÒ CHE ACCADE NEGLI USA È UN COLLASSO PSICO-POLITICO DI CARATTERE SUICIDARIO. MA IL VERO PROBLEMA, SCRIVE BIFO, È CHE ORA QUEL SUICIDE BY COP SI STA PROIETTANDO SU SCALA MONDIALE Unsplash.com -------------------------------------------------------------------------------- Ventiquattro anni dopo l’attentato al World Trade Organization che segnò l’inizio della guerra civile globale, siamo di fronte a un salto che potrebbe precipitare definitivamente nel caos gli Stati Uniti. “You have no idea of what you have unleashed”, ha detto la moglie di Charlie Kirk (rivolgendosi al responsabile dell’omicidio). Cerchiamo allora di farcene un’idea poiché la cosa non riguarda solo gli statunitensi, – che forse entrano in una sanguinosa agonia -, ma tutti gli abitanti del pianeta poiché sappiamo che la guerra civile statuntense ha e avrà sempre più una proiezione globale. Il collasso psico-politico del gigante imperialista ha carattere suicidario, ma si tratta di un suicidio micidiale (suicide by cop), come quello che da anni compiono migliaia di giovani statunitensi. Prendono il fucile e vanno a sparare davanti a una scuola nella speranza che arrivi qualcuno armato per aiutarli a uscire dall’incubo che è stata la loro esistenza. Da Columbine in poi abbiamo imparato a riconoscere questo tipo di suicidio delegato come una particolarità della vita interna a questo paese disgraziato. Ora il suicide by cop si sta proiettando su scala mondiale. 11 settembre 2025 La pallottola che ha ucciso Charlie Kirk (pace all’anima sua) è partita proprio mentre lui stava dicendo che le vittime innocenti che capitano durante i mass shooting sono un piccolo sacrificio che dobbiamo sopportare per difendere la libertà di portare armi. Questa volta la vittima dello shooting non è innocente, dal momento che ha sempre difeso la proliferazione di armi da fuoco. Perciò è difficile unirsi all’ipocrita rammarico generale: chi di spada ferisce di spada perisce, e qui la spada è un fucile di precisione che ha sparato dalla distanza di duecento metri. Per un giorno e mezzo ci siamo chiesti chi fosse lo sparatore. Qualcuno ha fatto l’ipotesi che l’assassino fosse un tiratore scelto dello stato profondo, poi ci hanno detto che si chiama Tyler Robinson, ha ventidue anni, e sui proiettili aveva scritto Bella Ciao e “beccati questa fascista”. Hanno trovato quello che stavano cercando, e adesso racconteranno che si tratta di un omicidio politico. Non so se Tyler ha scritto davvero quelle frasi, ma so che secondo il Gun Violence Archive nel 2024 le sparatorie di massa sono state 503, le stragi sono state trenta e i morti per arma da fuoco 16.725. Tyler Robinson, come Thomas Crooks, il ventenne che mancò la testa di Donald Trump, come innumerevoli altri da Columbine (1999) ha preso il fucile per partecipare a questo sport nazionale: una guerra civile psicotica. Un popolo di bambini incattiviti ha sostituito la ragione politica con la demenza aggressiva amplificata dai media. La crisi psicotica della più grande potenza militare di tutti i tempi iniziò l’11 settembre 2001 con l’abbattimento delle due torri simbolo. Seguirono due guerre inconcludenti e catastrofiche, poi il suprematismo umiliato trovò in Donald Trump la sua vendetta. Poi un’armata caricaturale diede l’assalto al Campidoglio, e la grande democrazia fu incapace di reagire alla violenza e soprattutto al ridicolo. Infine Trump ha vinto di nuovo, e questa volta fa sul serio: ha condotto e sta conducendo una guerra contro le città governate dal Partito democratico. Una guerra ridicola se volete, ma c’è poco da ridere. Al contempo l’Immigration and Custom enforcement (ICE) è stato trasformata in una milizia finanziata dai contribuenti direttamente al servizio del presidente: un corpo di agenti incappucciati e armati che vanno in giro a minacciare malmenare e sequestrare persone per poi deportarle in campi di concentramento sul territorio nazionale e fuori del territorio nazionale. Il Ku Klux Klan come guardia pretoriana dell’Imperatore. Ross Douthat del NYT (Will Trump’s Imperial Presidency Last?) parla del cesarismo di Trump e si chiede se le sue riforme autoritarie sono destinate a cambiare la natura dello stato sul lungo periodo. Io direi che la questione non è di lungo periodo, perché nel breve periodo assisteremo a una disintegrazione politica, sociale e soprattutto psichica, del paese che con Israele si contende il primato di più violento del mondo. È questa disintegrazione ormai in corso che cambierà il lungo periodo, forse cancellandolo anticipatamente. Che fare in una tempesta di merda? Nel 2001 l’Occidente entrò in una sorta di guerra civile che l’ha progressivamente travolto. Da quel momento la democrazia venne liquidata. Il 20 luglio del 2001, a Genova, il governo di Berlusconi e Fini scatenò la violenza armata contro una manifestazione pacifica di trecentomila persone. Da allora capimmo che la vita sociale non sarebbe più stata la stessa. Nel ventesimo secolo, in Europa, il potere politico funzionava secondo le regole della “democrazia”: la politica si fondava sul consenso, e conviveva con il dissenso: l’oggetto del contendere era il “senso” della relazione sociale. Nel nuovo secolo il “senso” della relazione sociale è perduto: la legge ha lasciato il posto alla forza. La persuasione ideologica ha ceduto il posto alla pervasione mediatica. La ragione ha ceduto il posto alla psicosi di massa. Nelle condizioni del secolo passato “dimostrare” aveva una funzione utile: parlare, gridare, manifestare erano modi per spostare il senso condiviso della società: esprimere dissenso serviva a spostare il consenso, poiché l’esercizio del potere si fondava sulla mediazione e sul consenso. A Genova capimmo che questa dinamica era finita. Da quel momento il potere ha modificato la sua forma e la fonte della sua legittimità. La società, investita da una tempesta mediatica sempre più intensa, non ruotava più intorno alla persuasione – ma intorno alla pervasione, al dominio bruto. La psicosi ha preso il posto della politica, e si tratta di una psicosi omicida, con una fortissima vocazione suicida. Ma la questione è: che fare in questa tempesta di merda? Possiamo continuare a dimostrare finché ce lo permettono: possiamo essere contenti di essere tanti a protestare nelle piazze, ma dobbiamo sapere che la forza non si piega alla ragione. Dimostrare non è inutile: in piazza incontriamo amiche e amici, e testimoniamo l’esistenza di una resistenza etica al genocidio. Ma la resistenza etica non cambia i rapporti di forza. Siamo costretti a guardare lo spettacolo, attendiamo che la psicosi armata conduca alla disintegrazione del mostro occidentale. Ma intanto quanto costa alla società questa guerra civile psicotica? Una crisi di gelosia Mentre a Pechino si incontrano quelli che preparano la vendetta e le armi ultra della vendetta, Trump e Vance fanno i bulli ammazzando undici persone su una barchetta davanti alla costa venezuelana. Trump rappresenta la maggioranza del popolo americano, ma questo vuol dire solo che la maggioranza del popolo statunitense ha perduto ogni contatto con la realtà e che gli US sono precipitati in un vortice di demenza autodistruttiva. Tradito e dileggiato dall’amato Putin Trump potrebbe reagire come fanno talora gli amanti traditi: con un’aggressione suicida ovvero suicidio aggressivo. “You’ll see things happen”, ha minacciato il presidente rivolgendosi a Putin. E ha scritto un messaggio stizzito, stizzitissimo a Xi Jin Ping: “Please give my warmest regards to Vladimir Putin, and Kim Jong Un, as you conspire against The United States of America”, “ti prego di rivolgere i miei più calorosi saluti a Vladimir Putin e Kin Jong Un, mentre cospirate insieme contro gli Stati Uniti d’America”. -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo You have no idea proviene da Comune-info.
L’ambigua fascinazione della caccia
È SEMPRE PIÙ NECESSARIO UN CONTRASTO NETTO ALLA VIOLENZA MA IN TUTTE LE SUE FORME, INTRECCIATE LE UNE ALLE ALTRE IN UNA CONSEQUENZIALITÀ SPESSO INDIRETTA, EPPURE RICOSTRUIBILE, SE SOLO LO SI VOGLIA. DI SICURO, ALL’INTERNO DI UN DISCORSO SULLA VIOLENZA – LA SUA GENESI, LE SUE MANIFESTAZIONI, I MODI PER CONTRASTARLA – NON È PIÙ POSSIBILE PRESCINDERE DA CONSIDERAZIONI CHE RIGUARDINO LA PRATICA CRUDELE DELLA CACCIA Unsplash.com -------------------------------------------------------------------------------- “Il diritto di uccidere un cervo o una mucca è l’unica cosa sulla quale l’intera umanità sia fraternamente concorde, anche nel corso delle guerre più sanguinose”1 La critica alla caccia non si limita oggi a particolari modi o tempi, ma è globale nel senso che ne mette in discussione la stessa essenza, la sua liceità, tanto che alcune associazioni hanno promosso una raccolta firme, grazie a cui verrà portata in senato una Proposta di Legge per la sua abolizione. Abolizione, non limitazione nel tempo e nello spazio, nel rilascio di autorizzazioni o nel numero delle specie cacciabili. Abolizione, perché nulla di ciò che questa attività comporta può essere considerato accettabile. Proprio come nulla di accettabile può essere rintracciato nelle guerre, quelle alle quali ci eravamo illusi, nel mondo occidentale, di avere posto fine: le avevamo in realtà solo spostate un po’ più in là, in tutti quei paesi da cui è stato semplice fare filtrare solo rare informazioni, facilmente stipabili nel grande magazzino del rimosso. Per poi risvegliarci un giorno dal torpore e prendere atto che i governi, il nostro e gli altri, non avevano mai interrotto una smisurata produzione di armi. Perché, oggi si sentenzia, si vis pacem para bellum: ignorando la replica all’antico enunciato, secondo cui, invece, se vuoi la pace è la pace che devi preparare. Elementare Watson. E se la pace la vuoi preparare, è necessario un contrasto netto e preciso alla violenza in tutte le sue forme, intrecciate le une alle altre in una consequenzialità spesso indiretta, ma ricostruibile, se solo lo si voglia. È lo psicologo Stephen Pinker ad affermare che, se la si vuole combattere, bisogna prima di tutto riconoscerla, al di là delle mistificazioni a cui è sottoposta, e poi avversarla in tutte le sue manifestazioni “dalle sculacciate educative date ai bambini alle dichiarazioni di guerra tra le nazioni”2 . Innegabile che la necessità dell’abolizione della caccia, che è regno assoluto di crudeltà e disumanità, occupi un posto d’onore nella ricerca, visionaria o meno che sia, di un mondo pacificato. La caccia: la migliore educazione alle pratiche di guerra3 Per altro esiste un particolare puntuale parallelismo colto in ogni epoca tra caccia e guerra: ”La guerra è la continuazione della caccia”, diceva Lev Tolstoj, e la caccia è sempre stata considerata una raffigurazione ritualizzata della guerra, un suo sostituto ugualmente sanguinario, ma molto più rassicurante vista la mancata controffensiva del nemico immaginario. Se in tempi molto lontani la sua crudezza poteva trovare giustificazione nella lotta per la sopravvivenza umana, oggi neppure i suoi cultori si sognerebbero mai di sostenerlo; se comportava coraggio, audacia, forza fisica, oggi comporta se mai esercizio di pusillanimità, data la smisurata sproporzione di forze in campo e la non belligeranza degli animali che, nemici inconsapevoli di esserlo, hanno nella fuga l’unica disperata possibilità di salvezza. E, per gli occidentali, si risolve tutta in attività di svago e ricerca di piacere, alternativa ad una partita a tennis o a calcetto, per intenderci. Le vittime di tanto accanimento sono a volte uccellini di pochi centimetri di lunghezza e pochi grammi di peso, letteralmente disintegrati dai pallini, ma anche quelli che piace considerare feroci non hanno scampo davanti alle armi in dotazione del moderno cacciatore, novello Rambo, che si avvia alla guerra unilateralmente dichiarata con fucile in spalla e portamunizioni in vista, invaso da grande fascinazione anche per tuta, cinturoni stretti, stivali o scarponi, per attraversare terreni un po’ umidi manco fossero le paludi del Vietnam. Così bardato, trasforma la propria identità in un’altra fittizia, definita dall’abbigliamento e dai temibili accessori, grazie a cui anche un fisico più adatto alla tranquillità di uno sportello postale, così travestito, può ambire ad una sua rivincita macha, pronta allo sterminio, al servizio di virile quanto farlocco autocompiacimento. Spara, spara, spara qui… È indiscutibile che il vero motore della caccia si scalda e rimbomba là dove albergano forme di aggressività e violenza, tanto virulente da lasciare sul terreno vere e proprie carneficine, frutto di un crescendo di esaltazione e delirio fuori controllo, che, nei territori di caccia, porta a non saturare mai la pulsione a uccidere. Pulsione di cui non ci si vergogna, ma che è anzi fonte di vanto, a giudicare da tante foto di fine battuta che, sui social, immortalano stuoli di vittime stese intorno al sedicente eroe tronfio e soddisfatto. Sanno bene i legislatori che questa passione è talmente travolgente da non poter essere controllata da chi la sperimenta e da richiedere di conseguenza un controllo esterno, quello delle leggi appunto, le quali, per quanto permissive, non possono astenersi dal porre freni a quello che altrimenti sarebbe uno sterminio ancora più smisurato di quelli attualmente tollerati. Lo fanno, stabilendo limiti ai giorni e agli orari consentiti, nonché al numero di individui e alle specie da bersagliare. Limiti, come si evince dalla lettura dei siti venatori, vissuti con insofferenza, con rabbiosa inquietudine, perché il divieto di sparare, come succede in amari tempi di caccia chiusa, provoca malessere, una sorta di crisi di astinenza, tenuta a bada dalla certezza che l’attesa impaziente avrà presto fine: il momento in cui, finalmente, la caccia si riaprirà si avvicina giorno dopo giorno, ponendo fine all’inquieto count down: “Mi manca l’inebriante profumo, quell’aroma di polvere da sparo torrefatta che si sprigiona dalle canne della doppietta quando la si apre, e nell’aria volano ancora le piume del fagiano”4. Il numero dei cacciatori, in caduta libera in Italia tanto che oggi rappresenta circa lo 0,7% della popolazione, vede una netta prevalenza di persone anziane, tra i 65 e i 78 anni, che preoccupa non poco le associazioni, incapaci di capire, anche se non dovrebbe essere così difficile riuscirci, le ragioni di un tale disamore da parte delle nuove generazioni, quelle colpevolmente impregnate di ecologismo, di animalismo, a volte addirittura di antispecismo. Al momento, cercano di contrastare l’assottigliarsi delle loro fila, dilatando l’attivismo degli irriducibili, anche quelli un po’ ammaccati dalle ingiurie della vita. Tra loro, i più ricchi suppliscono alle inefficienze senili andando in terre lontane, dove sarà sempre possibile, dai rassicuranti sedili di un elicottero, affidare il compito ambito a un giovane del luogo, dalla mira precisa, che colpirà in subappalto l’animale in fuga, elefante, tigre o leone che sia. L’attempato ma non domato cacciatore, scambiando con un po’ di malafede il potere del denaro con quello dell’efficienza personale, mira precisa e braccio fermo, trarrà ancora grandi soddisfazioni, proprio come se lo avesse colpito lui, nel vederlo accasciarsi e poi morire, emozioni tanto più travolgenti quanto più la vittima sarà raro o addirittura in estinzione: è un vezzo da classe sociale particolarmente elevata uccidere qualcuno (loro sembrano pensare qualcosa) di unico o pregiato. Non è, questo approccio critico all’essenza stessa della caccia, frutto di un’analisi artefatta, di una interpretazione prevenuta: è anzi totalmente in sintonia con il pensiero dei cacciatori stessi, quale emerge persino negli stralci di conoscenza di sé che loro stessi offrono, nei loro siti5 quando si confrontano con entusiasmo, cuore in mano, su tutto ciò che l’attività che li affratella smuove in loro: eccoli allora a celebrare la “magia della caccia”, a pregustare “una palpitante avventura”, a esaltare la “passione”, a crogiolarsi nell’”euforia”, ad abbandonarsi all’ebbrezza”: stati d’animo emotivamente alterati, che anticipano il piacere di trovarsi davanti al sangue degli animali colpiti, alle urla di quelli solo feriti, alla fuga impazzita di quelli che ancora sperano. Se non altro si deve dar loro atto di ottime competenze introspettive, nell’auto riconoscimento di emozioni e stati d’animo, già preannunciati da titoli di articoli quali Il sapore della caccia che sono tutto un pregustare, un sentire sensorialmente il gusto stuzzicante della morte cruenta, che infliggeranno alle povere bestie. Premono il grilletto. E la natura scompare6 Per altro è un grande scrittore, Lev Tolstoj, cultore della caccia prima di diventarne acerrimo nemico, a ricordare, in una sorta di racconto catartico, di avere tante volte sperimentato quelle che lui stesso definiva la delizia e la voluttà davanti alle bestie agonizzanti, la soddisfazione nell’essere stato artefice di tanto dolore 7. C’è di che rimanere basiti davanti a ciò che può albergare nella psiche umana: e allora, alla ricerca dell’origine di quel vuoto etico che è il brodo di cultura della passione venatoria, bisogna addentrarsi ancora di più nelle emozioni e nei pensieri dei suoi cultori; si viene allora a contatto con elementi che dovrebbero essere fonte di grande preoccupazione: perché nei loro comportamenti prepotenti e brutali la fa da padrona quella assenza di empatia che esonda in  psicopatia nel piacere dichiarato di essere artefici della sofferenza e della morte di esseri senzienti. Soprattutto appare virulenta una forma grave di sadismo, nell’accezione psicologicamente corretta del termine, che lo definisce quale “tratto del carattere proprio di chi si compiace della crudeltà”8,  tratto a volte innato, spesso collegato a risposte culturalmente apprese; sadismo che si crogiola nel piacere generato dal provocare dolore o dal senso di potenza personale che deriva dalla capacità di sopraffare l’altro. Nulla di nuovo sotto il sole, visto che già lo psichiatra Karl Manninger (1893-1990) affermava che il sadismo potesse assumere una forma socialmente accettabile nella caccia, rappresentante delle energie distruttive e crudeli dell’uomo verso le creature più indifese9. Mentre altri studiosi si spingono ad ipotizzare una particolare forma di questa componente del carattere, strettamente connessa alla sessualità10. Dice la psicologa Margaret Brooke-Williams: “Si tratta di una riscoperta della virilità e del senso di potenza maschile sopito dalla vita urbana. Questo sentimento di potenza offre temporaneo sollievo al disagio psicologico dei cacciatori”. Teoria suffragata dallo psicologo sociale Rob Alpha secondo cui nella pulsione sessuale e nella compulsione a cacciare e uccidere vengono attivate le stesse aree cerebrali. Per altro lo stesso Sigmund Freud si riferiva a volte al sadismo per indicare la fusione di sessualità e violenza. È possibile trovare ispirazione per altri approfondimenti in resoconti quali un’illuminante intervista su l’Adige.it (02.09.2012) a un’esponente femminile del mondo venatorio, tale contessa Maria Luisa Pompeati, della stirpe dei von Ferrari Kellerhof: sulla scia dei suoi colleghi maschi, definisce la caccia un atto d’amore, una passione intensissima che l’ha accompagnata nella crescita. Riferisce della sensazione meravigliosa del momento dell’uccisione, in cui l’animale diventa tuo per sempre. Perché, dice, la caccia è il momento culminante di una passione intensissima che la lega all’animale, che lei vuole possedere: dopo averlo centrato, corre da lui, prende la sua testa tra le mani, l’accarezza e lo bacia. Mangiarlo è, in seguito, l’ultimo atto del possesso. È lecito ipotizzare che alcuni gesti quali l’accarezzare e il baciare la vittima appartengano piuttosto a particolari vezzi della femminilità della contessa e non siano particolarmente diffusi tra i cultori della caccia, ma di certo vi risuona l’eco delle convinzioni di Rob Alpha. A parte ciò, tutto il resto è normale cronaca emotiva di una battuta di caccia. Dalla parte delle vittime In tutto questo, non emergono pensieri per gli animali, che pagheranno il prezzo di quelle battute di caccia, che definire arte (per venatoria che sia) è quanto meno un azzardo linguistico. Sono loro i grandi assenti, gli invitati di pietra alla grande kermesse venatoria, al delirio dell’uccidi più che puoi: assenti sono il cervo senza scampo che chiede grazia con le sue lacrime, nelle parole di Montaigne; la cerva che assiste il maschio ferito, con la testa levata al cielo e l’espressione piena di cordoglio, in quelle di Tolstoj; quelli che sentiamo ansimare nei filmati dai luoghi della carneficina: volpi stanate da buche profonde, rifugio vano da cani che le estraggono strappando loro la pelle, e aprono la strada al cacciatore di turno, appostato nei dintorni, armato del suo fucile e della sua viltà.  È un guardiacaccia, Giancarlo Ferron 11, che racconta di caprioli in fuga, inseguiti per giorni,  che corrono con la schiuma alla bocca, senza più fiato, tremanti e sfiniti con la bocca spalancata per la fame d’aria; racconta di cacciatori che hanno due o tre mute di cani, per sostituire quella sfiancata nell’inseguimento di un capriolo, che lui però di sostituti non ne ha; ancora racconta di animali che si suicidano buttandosi dalle rocce, pur di sottrarsi allo sbranamento annunciato dai latrati che si fanno più vicini. Che nessun animale possa sottrarsi alla furia omicida dei cacciatori, elefanti o uccellini di pochi grammi lo dice bene un bambino nel colorito spirito napoletano quando constata che “sparerebbero pure alla colomba dello Spirito santo”12 compendiando così l’incontenibile impulso ad andare ad ammazzare esseri di ogni genere e taglia, giovani o vecchi, che volino o corrano: purchÉ respirino. La caccia. Un vero suicidio morale13 Descrizioni tormentate sono anche quelle di Lev Tolstoj, quando, da cacciatore da molto tempo pentito, ricorda con tormento lo spasimo pieno di terrore delle sue vittime in agonia, la sopraffazione del più forte sul più debole, l’assalto di molti a uno solo, del forte contro il debole, della sottrazione dei piccoli alle madri e viceversa: un universo di azioni tanto orribili da indurlo a definire la caccia un vero suicidio morale. Parlando di conseguenze nefaste dell’attività venatoria si può continuare con i morti e feriti di ogni stagione, di cui mantiene un accurato conteggio l’Associazione Vittime della Caccia14 vittime che sfilano a passi felpati nei trafiletti dei giornali, così da poco disturbare governi e partiti, sempre in tutt’altre faccende affaccendati e magari un po’ imbarazzati. Perché si tratta non di malasorte, ma delle inevitabili conseguenze di un’attività che comporta l’uso continuo di armi, per moltissimi giorni all’anno, e svariate ore quotidiane, in uno stato d’animo in continua tensione. Quando imperizia, imprudenza, mancato controllo emotivo, deliri di onnipotenza, possono contare sul possesso di un fucile caricato a pallettoni, che l’esito possa essere mortifero non può certo meravigliare. L’uomo e il cane: un’amicizia unilaterale E che dire delle altre vittime oscurate, i cani, trasformati in aiutanti killer mediante un addestramento vigoroso, notoriamente trattati come oggetti d’uso, tenuti normalmente in gabbie da cui escono solo per andare a servire il loro padrone, maltrattati, crudelmente puniti? Le cronache raccontano dell’abbandono e della soppressione dei “soggetti” non idonei e di quelli da annoverare tra le vittime accidentali di colpi sparati a casaccio. A completamento, è una novella cacciatrice, Catia, a fornire nella sua intervista15 on line un grazioso particolare, quello tanto diffuso da meritare un termine ad hoc, la frustata, vale a dire una fucilata che abitualmente i cacciatori sparano nel sedere di cani disobbedienti o lenti nell’apprendimento (“la famosa frustata” dice), metodo di addestramento da cui lei però si vanta di smarcarsi. I bambini ci guardano16 Caccia che allunga le sue ombre lunghe anche in un campo colpevolmente trascurato, quello delle ricadute su bambini e ragazzi, che certo per legge a caccia non ci possono andare, almeno in Italia dove l’età minima è di 18 anni, ma che, sempre dalla lettura delle chat dei cacciatori, risulta che non raramente “accompagnino”, perché questo è permesso, i grandi, senza sparare, fin da età davvero improbabili: nove, dieci, undici anni, con qualche eccezione, udite udite, per bambini (accidentalmente anche bambine) di quattro anni. Grandi che non stanno più nella pelle per insegnare alla discendenza il mestiere e, impazienti, vogliono nell’attesa condividere le dilaganti emozioni. Potrebbe sembrare roba da marziani, ma non è necessario espatriare su un altro pianeta, perché è sufficiente oltrepassare la Manica: là, tutta la famiglia reale, generazione dopo generazione, ha goduto di un tirocinio precocissimo a quello che ritengono sport of the kings. Ahimè, non solo dei re. Il problema è che neppure il velocissimo srotolamento dei tempi, con tutti i cambiamenti che si succedono alla velocità della luce, pare intaccare la loro idolatria per la tradizione, per mortifera che sia: l’ultima vittima è l’ancora innocente (?) principe George, che risulta avere partecipato alla caccia al gallo cedrone a sette anni (con papà) e pare si appresti ad uccidere il suo primo cervo ora che ne ha compiuti dodici. Che dire? Quasi meglio tornare alle cose di casa nostra: e provare a riflettere che figli o nipoti di cacciatori crescono alla presenza costante di una, ma più spesso più armi, presenza che, nella sua normalità, non provoca inquietudine, ma assuefazione: tutto normale, un po’ come il portaombrelli o le piante da arredamento. Normale sarà anche l’attenzione di cui le vedranno oggetto da parte del cacciatore di famiglia, che le maneggerà con cura (almeno si spera), quali oggetti di culto, preziosi ferri del mestiere, capaci di trasformare in realtà il sogno sognato del prossimo trofeo. E normali, nella loro ripetitività, saranno i comportamenti, i rituali di accompagnamento: levatacce antesignane, rientri appagati se con accettabile numero di vittime, o malcelati malumori per uno scarso bottino. E si conosceranno gli stati d’animo: l’ansia dell’attesa, i racconti grondanti eccitazione per l’avvistamento dell’animale da colpire, il non dargli tregua fissandolo nell’occhio del mirino o inseguendolo insieme ai cani godendo del suo terror panico. E finalmente colpirlo. Ora, banale ricordare che i bambini imparano ciò che viene loro insegnato, che il giusto e lo sbagliato, il bene e il male sono concetti che prendono forma in funzione delle convinzioni e dell’accezione che i grandi di riferimento danno alle situazioni. E i primi anni di vita sono fondamentali per creare le proprie rappresentazioni del mondo e dei valori della vita, frutto del modellamento educativo, basilare nella strutturazione del carattere e della personalità. Anche l’empatia, vale a dire la capacità di identificarsi con le emozioni e gli stati d’animo dell’altro e di sentirli riverberare su di sé, condizionando il proprio comportamento, dipenderà in grande parte dalla possibilità di apprenderla se presente come modello a cui affidarsi. Se tale modello è strutturato sulla crudeltà verso creature deboli, sul piacere nel provocare loro dolore e morte, il piano educativo produrrà speculari contraccolpi psicologici nei più giovani. In estrema sintesi, non esiste dubbio che la violenza contro gli animali vada nella direzione dell’introiezione di modelli aggressivi e prevaricatori, basati sul diritto della forza. Vale la pena ricordare che, dal 2005 la Violenza Assistita, quella quindi non subita in prima persona, ma come testimone di quella agita su altri o percepita o anche solo sentita raccontare è ufficialmente entrata nel novero delle violenze sfavorevoli infantili, sfavorevoli rispetto a un sano ed armonico sviluppo della personalità. E quella agita sugli animali è a tutti gli effetti inserita tra le forme prese in considerazione: al di là delle teorizzazioni, emerge in modo drammatico dai racconti di adulti che mai hanno potuto dimenticare lo strazio vissuto da piccoli assistendo allo scempio su un animale, spesso ad opera dello stesso padre. Non basta tutta una vita per dimenticare, ma neppure per sfoltire un dolore che, nel momento del racconto, esplode con tutta la virulenza di un dramma appena accaduto. La caccia come tarlo sociale Insomma: ce ne è davvero abbastanza per riflettere seriamente sulla caccia come tarlo sociale e agire di conseguenza: perché la sua struttura portante è, in estrema sintesi, il piacere di praticare violenza contro individui inermi. “Quando capiremo, a fatti e non a parole, che le scelte esercitate contro gli animali sono anche scelte contro di noi?”17. Viviamo in tempi cupissimi, dove anche noi, abitanti di un mondo occidentale che in molti pensavamo in costante crescita verso l’estensione dei diritti, ci siamo ritrovati davanti al baratro di un’umanità disumanizzata. Siamo qui a chiederci come tutto quello che sta succedendo stia davvero succedendo: troppo per essere anche solo pensato, perché il pensiero stesso si ribella al farsi contaminare dal regno dell’odio, dal dilagare dell’indecenza e di una crudeltà che nessuna specie vivente potrebbe mai ideare. Nessuna tranne la nostra, che è la più devastante, crudele e pericolosa. Che mai, nemmeno in nessun periodo di pace, ha smesso di sentirsi in diritto di praticare alla luce del sole le più orrende forme di supplizio sugli altri animali e, in modo variamente occulto, sugli altri esseri umani. Oggi il mondo tutto sembra allargarsi a normalizzare ogni forma di indecente prepotenza, contro chiunque, senza neppure più vergognarsene; il mondo venatorio, in contemporanea, pretende un po’ di spazio in più: molti più uccellini da accecare per richiamare i loro conspecifici davanti al cacciatore lì pronto ad impallinarne quanti potrà; licenza di sparare agli uccelli migratori, esausti per viaggi interminabili; ribaltamento di sentenze del TAR per consentire il massacro anche nei valichi di montagna. E poi orsi, lupi, nutrie: tutti trasformati in bersagli, con la benedizione delle autorità, in una moderna riedizione di quel Far West dove era la colt ad accogliere ogni estraneo sgradito. Ci si aspetterebbe che i cacciatori, numericamente in dissesto, le loro straricche lobbies, quei politici afasici e indifferenti a un volere popolare dichiaratamente contrario, prendessero consapevolezza dell’insostenibilità morale dell’attività venatoria. A tutti noi il compito di riconoscere le mistificazioni in atto, implicitamente sostenute in modi diversi: per esempio con la vendita stessa delle armi  accanto agli sci o ai costumi da bagno nei negozi sportivi, giusto per sdoganare l’idea che farsi una nuotata o massacrare un cinghiale è solo una questione di gusti individuali. Mistificazioni sorrette anche attraverso richieste dei cacciatori per entrare nelle scuole nella veste di testimonial della natura e, udite udite, difensori degli animali. Che vanno ad uccidere perché li amano. Doveroso interrogarsi sulla confusione cognitiva generata nei più giovani nel momento in cui viene loro proposta l’equazione amore-uccisione, che oggi più che mai è il mantra giustificativo di tanti femminicidi. “Stiamo causando la distruzione. Dei nostri compagni animali… Ricercando null’altro che il nostro benessere E il nostro divertimento”18. Insomma, all’interno di un discorso sulla violenza, la sua genesi, le sue manifestazioni, i modi per contrastarla, non è più possibile prescindere da considerazioni che riguardino la pratica della caccia. Se si ritiene fondamentale che l’educazione abbia come obiettivo primario l’insegnamento del rispetto per l’altro, la presa in carico dei diritti di ognuno, la convinzione che il senso di giustizia sia fondamentale nella gestione di relazioni positive, è davvero impensabile proteggere, difendere, connotare positivamente comportamenti sadici, violenti e crudeli a danno di esseri indifesi. Non è superfluo ricordare la posizione di Albert Scheiwtzer, Nobel per la pace 1953, che sosteneva che la compassione, sulla quale si devono basare tutte le filosofie morali, può raggiungere la massima estensione e profondità solo se riguarda tutti gli esseri viventi e non solo gli esseri umani. Gandhi, uno dei massimi esponenti del pacifismo, non pensò in nessun momento che la grandiosità degli obiettivi che andava perseguendo lo autorizzasse a mettere in secondo piano il dovere del rispetto per gli altri animali, da praticare costantemente anche attraverso scelte alimentari, avanzatissime per i suoi tempi. Aldo Capitini, filosofo della non violenza, sosteneva che se si fosse imparato a non uccidere gli animali, a maggior ragione si sarebbe risparmiata l’uccisione di uomini: e lo diceva all’alba della seconda guerra mondiale, facendo tutto ciò che era in suo potere per provare a scongiurare il delirio di violenza che di lì a poco si sarebbe comunque scatenato. Insomma e per concludere: l’attività venatoria è indiscutibilmente territorio di crudeltà. Riconoscere questa elementare verità, è passo doveroso. Che dovrebbe condurre alla strada che Freud, nel carteggio del 1932 con Einstein, indicava per agire contro la guerra, con parole che si attagliano perfettamente anche alla caccia. Le forze che esistono, dice Freud, che vanno costruite e riconosciute, sono le relazioni d’amore e i legami emotivi che si stabiliscono grazie anche a meccanismi di identificazione con l’altro. È necessario indignarsi contro la guerra (e contro la caccia, aggiungo) perché ogni uomo, ogni essere senziente ha diritto alla vita, perché la guerra (come la caccia) “annienta vite piene di promesse, pone i singoli individui in posizioni che li disonorano”. Per ricercare uno stato di pace, fra le persone, i popoli, le specie, che forse è esistito, che forse è desiderio di qualcosa di mai interamente vissuto, ma di cui vi è infinita nostalgia perché, dice Anna Maria Ortesei, da quel bene assoluto ci siamo allontanati “per deviazione, errore, stranezza o forse malattia” . -------------------------------------------------------------------------------- Sull’argomento ho scritto nei miei libri i capitoli: Bang…bang…: io sparo a te. In “Noi abbiamo un sogno”. Bompiani 2006 Finchè non lo vedrai esangue, In “In direzione contraria” Sonda 2009 Ai cacciatori il posto d’onore. In “Sulla cattiva strada, Sonda 2014 -------------------------------------------------------------------------------- 1 Milan Kundera, L’insostenibile leggerezza dell’essere; 2 Stephen Pinker, Il declino della violenza 3 Senofonte, Il Cinegetico 4 https://brotture.net/tag/caccia 5 www.bighunter.net 6 Marcello D’Orta , Nessun porco è signorina 7 Lev Tolstoj, Contro la caccia e il mangiar carne 8 Umberto Galimberti, Nuovo Dizionario di Psicologia 9 Www.feelguide.com/2016/11/07/hunting-linked-to=psychosexual-inadequancy-the=5-phases-of-sexual-frustration 10 www.animals24-7.org 11 Giancarlo Ferron, Il suicidio del capriolo 12 Nessun porco è signorina, Op. cit. 13 Lev Tolstoj, Op. cit. 14 https://www.vittimedellacaccia.org 15 http://www.sabinemiddelhaufeshundundnatur.net/ale/caccia_intervista.htm 16 Titolo del film di Vittorio De Sica, I bambini ci guardano 17 Danilo Mainardi 18 Yuval Noah Harari, Da animali a dei -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo L’ambigua fascinazione della caccia proviene da Comune-info.
La risposta giusta – di Effimera
La giornata di manifestazioni che ha attraversato Milano il 6 settembre 2025, in risposta allo sgombero del centro sociale Leoncavallo, è stata un avvenimento di grande valore che ha spezzato, almeno per un attimo, la narrazione negativa che ci circonda da ogni lato con i suoi corollari di impotenza e di paura. A nostro [...]
Se gli umani fossero così malvagi come ci viene detto, saremmo già estinti
Sapevate che gli omicidi, gli stupri e il caos violento a New Orleans durante l’uragano Katrina non si sono realmente verificati e che lo schema costante durante i grandi disastri è che le persone facevano di tutto per aiutarsi a vicenda? Sapevate che i media riportavano falsamente omicidi e caos e che le autorità, immaginando che la maggior parte delle persone fosse come loro,  inviavano truppe armate per creare un secondo disastro? Sapevate che il Signore delle Mosche è una storia inventata da un nazista disturbato e raffigura l’opposto di vari casi del mondo reale in cui i bambini si sono trattati l’un l’altro con grande gentilezza? Sapevate che l’esperimento carcerario di Stanford era una frode completa che aveva avuto origine da un test delle reazioni degli studenti prigionieri alle azioni sadiche delle guardie che erano state pilotate, e che la cosa è stata successivamente falsamente riportata come una prova degli studenti guardia che sono stati raffigurati come impegnati in crudeltà spontanee quando erano lasciati a se stessi? Sapevate che il precedente Esperimento di Robbers Cave era altrettanto fraudolento e seguiva un tentativo ancora precedente in cui i soggetti erano stati insufficientemente manipolati e avevano insistito per essere gentili l’uno con l’altro? Sapevate che anche l’esperimento di Milgram non ha mostrato nulla di simile a quanto affermato, che solo il 56% credeva che gli shock fossero reali, che la maggior parte di loro hanno smesso e si sono rifiutati di somministrare gli shock, che coloro che hanno creduto di somministrare shock e hanno continuato a farlo hanno detto che lo stavano facendo per aiutare la scienza e, si spera, per curare le malattie, che solo queste persuasioni hanno funzionato su di loro, mentre ordinare alle persone di somministrare gli shock ha provocato una disobbedienza universale? Sapevate che la popolazione dell’Isola di Pasqua non ha eccessivamente sfruttato il suo habitat, non diventava violenta, non si uccideva o si mangiava l’un l’altro, che in realtà erano in buona forma quando arrivarono gli europei ma non sopravvissero all’essere messi in schiavitù e all’arrivo di nuove malattie? Sapevate che la grande saggezza della “Tragedia dei beni comuni” è una bugia, che è falso il fatto che 38 persone avevano assistito all’omicidio di Kitty Genovese stando a guardare e non facendo nulla per aiutarla? Sapevate che la strategia delle finestre rotte non funziona ed è stata diffusa dallo stesso truffatore dietro la farsa della prigione di Stanford? Sapevate che — insieme a quasi tutto il resto del libro — The Better Angels of Our Nature (in italiano, “Il declino della violenza”) di Steven Pinker ha completamente travisato il carattere omicida dei gruppi di cacciatori-raccoglitori indigeni, che gli Yanomami non erano assassini come ci è stato detto? Sapevate che la guerra è una rarità che non era una parte comune dell’esistenza umana per la stragrande maggioranza di quell’ esistenza e che sono state studiate varie società alle quali il concetto stesso di omicidio era quasi sconosciuto? Sapevate che per gran parte dell’esistenza della nostra specie i nostri antenati hanno condotto vite egualitarie, sane, rilassate, giocose e piene di amicizia e cooperazione? Quanto sopra sono alcune delle correzioni alle credenze popolari discusse e documentate nel libro di Rutger Bregman Humankind: A Hopeful History. In italiano Una nuova storia (non cinica) dell’umanità. Non è realmente stabilito da questo libro se può essere utile o giustificato essere fiduciosi, se abbiamo buone possibilità di affrontare i pericoli nucleari o climatici o di malattie. Io continuo a insistere con Sartre sul fatto che gli umani possono scegliere di fare quello che vogliono, indipendentemente da ciò che gli altri umani hanno fatto oppure no. Ma ciò che questo libro fa alla perfezione è sfatare, per coloro che si rifanno a comportamenti passati, l’affermazione che gli umani sono generalmente malvagi e lo nascondono con una patina di civiltà. Bregman chiama la nostra specie cucciolo di homo perché in confronto ai Neanderthal sembra che ci siamo addomesticati, che sono stati selezionati per la sopravvivenza i più affettuosi allo stesso modo con cui vengono selezionati i lupi più amichevoli per avere cani affettuosi. La nostra specie ha perso la sua strada, sostiene Bregman, a partire dalla rivoluzione agricola. Non ci siamo evoluti per andare verso l’oligarchia, il duro lavoro, la proprietà privata e gli eserciti permanenti. Resta da vedere come affrontiamo il pasticcio in cui ci siamo messi. Ma sicuramente è importante se diciamo alla gente che può scegliere come comportarsi, o se ci uniamo a Bregman nel dire che le persone sono fondamentalmente buone e decenti, o se affermiamo invece, come fanno i notiziari televisivi serali, che la norma è il male e il cinismo. Il problema riguarda, come sostiene Bregman, gli effetti Placebo, Nocebo, Pigmalione e Golem. Se dici a qualcuno che viene curato, tende a guarire. Se dici a qualcuno che si sta ammalando, tende ad ammalarsi. Lo stesso vale per dire loro che sono gentili e generosi e che questi sono tratti ammirevoli e benefici, o dire loro il contrario. Se studi economia e impari che le persone sono stranamente egoiste, tendi a diventare più egoista. Allo stesso modo — gli effetti Pigmalione e Golem — se dici alle persone di aspettarsi che gli altri siano affidabili o nefasti, si comporteranno come se fosse così che sono gli altri. E quelle aspettative avranno un impatto su quelle altre persone. Quindi, se insistiamo sul fatto che le persone sono più o meno come sono sempre state, e abbiamo la scelta di credere che siano state gentili e generose come suggeriscono i fatti o di credere alle bugie dei racconti malvagi e degli esperimenti truccati, dobbiamo attenerci ai fatti. Bregman suggerisce come applicare questo approccio alle aziende, alle scuole, al governo locale, alla giustizia penale, al fanatismo e alla guerra. Applicarlo all’intero campo delle uccisioni di massa richiederebbe, credo, l’abbandono della nozione del nemico intrinsecamente malvagio e l’abolizione delle forze armate. Traduzione dall’inglese di Filomena Santoro. Revisione di Thomas Schmid. David Swanson
TREVISO: MUORE IN CARCERE TRE GIORNI DOPO IL FERMO, PRESIDIO PER CHIEDERE VERITÀ E GIUSTIZIA PER DANILO RIAHI
Danilo Riahi era arrivato in Italia attraverso il mar Mediterraneo da circa un anno. Il 9 agosto è stato arrestato dopo essere fuggito dalla polizia, in seguito a vari tentativi di furto a Vicenza. Immobilizzato col taser, viene portato nel carcere per i minorenni di Treviso. Il giovane tunisino è morto all’ospedale Ca’ Foncello di Treviso il 13 agosto. Secondo le autorità avrebbe tentato il suicidio. L’ultimo suicidio in un carcere minorile risale al 2003. Mentre era ancora in fin di vita, il Questore di Vicenza, in conferenza stampa, aveva elogiato il “lavoro encomiabile” degli agenti. Alla versione ufficiale non credono però attiviste e attivisti del Collettivo Rotte Balcaniche, del centro sociale Django e del centro sociale Arcadia: “come mai è stato portato in un carcere minorile invece che in un ospedale? È stato visitato dopo essere stato colpito con il taser? Cosa (non) è stato fatto per accertarne le condizioni di salute psico-fisica prima di rinchiuderlo in un carcere? Per quanto tempo è stato privo di sorveglianza mentre tentava il suicidio?”. Per chiedere risposte, è stato indetto un presidio per la serata di giovedì 28 agosto, alle ore 19, fuori dal carcere di Treviso in via Santa Bona Nuova. La storia di Danilo è simile a quella di altre persone con un background migratorio che vivono nelle città italiane, dicono dal Collettivo Rotte Balcaniche. Ragazzi che vengono continuamente “stigmatizzati ed etichettati come pericolosi, delinquenti, maranza”, giustificando così la “militarizzazione della vita sociale” e delle città. Danilo come Ramy, Moussa, Wissem, “vittime del razzismo di stato, della violenza della polizia, delle carceri, dei CPR”. Ci raccontano la vicenda e invitano al presidio di domani, Giovanni e Aladin del Collettivo Rotte Balcaniche. Ascolta o scarica
Zohran Mamdani, la violenza e il dibattito su “legge e ordine”
Le recenti sparatorie a Manhattan due settimane fa e a Brooklyn questa settimana hanno riacceso il familiare dibattito su “legge e l’ordine” nella politica newyorkese. Com’era prevedibile, le voci dell’establishment – il sindaco Eric Adams, l’ex governatore Andrew Cuomo e i loro alleati nei grandi media – si sono affrettate a presentare queste tragedie come una giustificazione per espandere i poteri della polizia. Il messaggio è vecchio quanto la politica americana stessa: in tempi di disordini sociali, gli elettori devono voltare le spalle ai riformatori e schierarsi con il pugno di ferro dello Stato di polizia. Per i progressisti come Zohran Mamdani, che ha coraggiosamente chiesto di ripensare il ruolo e il finanziamento della polizia di New York, questa narrativa rappresenta sia una sfida immediata che un’opportunità. L’establishment non perderà l’occasione di strumentalizzare la paura. Sosterrà che un “principiante” come Mamdani non è adatto al ruolo di sindaco in un momento di crescente violenza. Insisterà che ridurre il budget gonfiato della polizia di New York è un invito al caos e non affronterà mai le vere cause sistemiche della violenza: il facile accesso alle armi, l’aggravarsi delle disuguaglianze, la disperazione economica, l’insicurezza abitativa e l’alienazione dei giovani. La sua “ricetta” resterà la stessa: più potere alla polizia, più sorveglianza, più prigioni, più miliardi sottratti alle scuole, alla sanità, all’edilizia popolare e all’occupazione. Questo copione è ben collaudato. Ogni volta che i candidati dell’establishment si sentono con le spalle al muro, agitano lo spettro del disordine pubblico per respingere gli sfidanti progressisti. Lo abbiamo visto negli anni ’90, quando “tolleranza zero” è diventato lo slogan vincente. Lo abbiamo visto dopo l’11 settembre con il Patriot Act, una legge che ha sostanzialmente distrutto le libertà civili degli americani. E lo vediamo ora, con un budget della polizia di New York superiore a quello militare di molti Paesi, mentre le scuole pubbliche lottano per ottenere risorse e la crisi degli alloggi peggiora. L’establishment prospera sulla paura, perché la paura disorienta gli elettori e li spinge verso la falsa promessa di una sicurezza autoritaria. Per Mamdani la posta in gioco è alta. Non è solo un candidato, è anche il simbolo di una visione diversa per New York, una visione in cui le comunità non sono criminalizzate ma responsabilizzate, in cui i soldi pubblici sono investiti nelle persone invece che nella militarizzazione della polizia. Per sopravvivere e vincere, la sua campagna deve contrastare preventivamente la narrativa dell’ordine pubblico dell’establishment prima che questa attecchisca completamente. È una questione urgente. In primo luogo, Mamdani deve affrontare direttamente le sparatorie con empatia, chiarezza e convinzione. Deve riconoscere il dolore delle vittime e delle loro famiglie, insistendo sul fatto che la soluzione non può essere semplicemente “più polizia”. Deve ribadire con forza che la presenza della polizia non ha impedito queste sparatorie a Manhattan o a Brooklyn. Ciò che impedirà la prossima tragedia è frenare il flusso di armi a New York, affrontare la povertà e la disoccupazione e costruire programmi di prevenzione della violenza basati sulla comunità. In secondo luogo, la sua campagna dovrebbe evidenziare esempi in cui l’eccessiva presenza della polizia non è riuscita a garantire la sicurezza e contrapporli a iniziative guidate dalla comunità che hanno avuto successo. Ad esempio, i programmi Cure Violence, il tutoraggio dei giovani, i progetti di edilizia popolare e i servizi di salute mentale hanno tutti dimostrato una riduzione misurabile della violenza, senza i cicli di brutalità e sfiducia generati dalla politica del pugno di ferro. In terzo luogo, Mamdani deve rivendicare il linguaggio della sicurezza. Troppo spesso i progressisti cedono questo argomento ai conservatori, ma la sicurezza non è semplicemente l’assenza di criminalità; è la presenza di stabilità, opportunità e dignità. I quartieri sicuri sono quelli in cui i giovani hanno programmi doposcuola, i genitori hanno un lavoro stabile e le famiglie possono contare sull’assistenza sanitaria e sulla sicurezza abitativa. Riformulando il dibattito, Mamdani può dimostrare che la sua visione non è “morbida con la criminalità”, ma genuinamente dura con le cause profonde della violenza, spiegando alla gente che è così che funzionano oggi i Paesi avanzati di tutto il mondo. Infine, la sua campagna dovrebbe mobilitare gli alleati e le voci della comunità per parlare con coraggio di questo tema. I sopravvissuti, le organizzazioni di base, i leader degli immigrati e i newyorkesi comuni devono essere in prima linea e dire: “Vogliamo sicurezza reale, non esibizioni poliziesche”. Questa coalizione può smorzare la narrativa dell’establishment e ricordare agli elettori che lo status quo li ha più volte delusi. Le prossime settimane metteranno alla prova la campagna di Mamdani. L’establishment ha dalla sua parte il denaro, i media e la paura, ma Mamdani ha la gente, i principi e una visione di giustizia. Se la sua campagna riuscirà a trasformare questo momento di paura in una conversazione sulle soluzioni reali, potrebbe cambiare il dibattito non solo nel suo distretto, ma nella politica newyorkese in generale. E questo avrà un enorme impatto positivo in tutta l’America. Traduzione dall’inglese di Anna Polo, con l’ausilio di un traduttore automatico   Partha Banerjee
Dedicato a chi vede la violenza degli oppressi, ma chiude gli occhi di fronte alla violenza degli oppressori
La preoccupazione di vedere le cose obiettivamente costituisce la scusa legittima di questa politica d’immobilismo. Ma l’atteggiamento classico dell’intellettuale colonizzato e dei dirigenti dei partiti nazionalisti non è, in realtà, obiettivo. Di fatto, essi non sono sicuri che quella violenza impaziente della masse sia il mezzo più efficace per difendere […] L'articolo Dedicato a chi vede la violenza degli oppressi, ma chiude gli occhi di fronte alla violenza degli oppressori su Contropiano.