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I Caraibi di fronte a due scelte: o con gli USA o sovrani
Il presidente americano Donald Trump ha autorizzato la portaerei USS Gerald R. Ford a entrare nei Caraibi. Ora si trova a nord di Porto Rico, unendosi alla USS Iwo Jima e ad altre navi della marina americana per minacciare un attacco al Venezuela. La tensione è alta nei Caraibi, dove […] L'articolo I Caraibi di fronte a due scelte: o con gli USA o sovrani su Contropiano.
Caso “La Stampa” | Il prezzo di stare dalla parte giusta – di Cristina Roncari
Sabato sera. Cena. La Tv gira per conto suo. Arrivano le parole: “Ignobile, vile, grave, irresponsabile, anni di piombo”. Guardo le immagini: ragazzi entrano nella sede del quotidiano La Stampa e come si direbbe oggi in linguaggio antagonista “ lo sanzionano”. Mi colpiscono volti scoperti. Santa ingenuità. Con un governo di estrema destra e [...]
La storia non cambia finché…
-------------------------------------------------------------------------------- -------------------------------------------------------------------------------- Washington, afghano spara vicino alla Casa Bianca: gravi due militari. Trump dà la colpa a Biden. Spari vicino alla Casa bianca: un afghano arruolato dagli Usa Afghano arrestato dopo la sparatoria vicino alla Casa Bianca E simili… Ecco servita, di nuovo, la Storia. O meglio, giacché più mi si addice, la medesima con l’iniziale minore. Necessariamente modesta. La storia, già. Ma prima il fatto, a dispetto della narrazione: un uomo, un nostro simile quindi, spara e colpisce altri esseri umani. Li ferisce gravemente. E come capita talvolta, qualcuno di loro muore. È una triste quanto inaccettabile tragedia. Lo è sempre in tali casi, soprattutto perché è il frutto del male che noialtri arrechiamo a noi stessi. Ciò malgrado assistiamo con amarezza al diffondersi immediatamente della stessa storia. Secondo uno studio delle Nazioni Unite relativo all’anno 2021, il mondo ha registrato circa 458.000 omicidi, con una media di 52 all’ora, ovvero circa 1.248 al giorno. Gli Stati Uniti hanno registrato, sempre nel 2021, il tasso regionale di omicidi pro capite più alto, con 154.000 persone uccise. Come capita da decenni, a dispetto dell’inopinabile realtà dei numeri, nel racconto che è stato diffuso nei giorni scorsi, a uccidere non è stato semplicemente un essere umano. Trattasi di dato non rilevante. Non vende altrettanto. Non impressiona più da tempo. E soprattutto, sposterebbe la discussione su temi che non conviene affrontare. Come per esempio la diffusione delle armi, le leggi che ne regolano l’acquisto e il possesso, oppure la violenza, il disagio, l’odio e coloro che li alimentano incessantemente per profitto. Il dettaglio di quell’uomo che si è macchiato di un crimine orrendo, del quale con assoluta priorità vanno informati i lettori e gli ascoltatori, in altre parole gli elettori e più che mai i consumatori, è la sua nazionalità. Il cattivo della storia è marocchino, tunisino, arabo, eccetera, possibilmente musulmano e auspicabilmente con la pelle abbastanza scura da rientrare nella tonalità dell’incubo moderno, ed ecco che la trama è pronta per essere servita. Stavolta si tratta di un cittadino afghano. Poi, una volta sferrata la controffensiva all’aggressione di un sol uomo a una presunta intera civiltà che si crede bianca e protetta da un unico quanto inviolabile corredo di tradizioni e culture, gli sceneggiatori di tale ormai atavico copione lasciano lo spazio a coloro che ne devono raccogliere i frutti. Si legga pure come più la facile e disumana catena razzista che esista: afghano vuol dire straniero, straniero vuol dire “migrante”, e allora… che paghino tutti per uno. Via libera a ulteriori strette sugli ingressi, a nuove espulsioni sommarie e ad altre limitazioni dei già pochissimi diritti civili e persino umani concessi a costoro. Per non parlare del consequenziale incremento di quella medesima violenza e di quello stesso odio di cui invece dovremmo parlare, in tal caso nei confronti di milioni di persone innocenti fino a prova contraria. Ma questo non rientra nella suddetta storia, bensì nella sopra citata indiscutibile realtà dei numeri. Erano i primi anni Novanta quando ho iniziato a osservare sui quotidiani e ad ascoltare per bocca dei narratori dei telegiornali il diffondersi di racconti come questo. In seguito ho scoperto che arriva da ben più lontano. La storia, a quanto pare, non cambia. Ma se le storie con l’iniziale trascurabile che ci raccontiamo a vicenda resteranno immutate a prescindere da ciò che effettivamente accade là fuori, qualora ciò si ripeterà in misura eccezionale per un tempo prolungato, lo stesso succederà con la Storia di tutti. Ecco perché la Storia non cambia finché… Finché non cambierà chi la racconta, ma soprattutto chi la ascolta. Loro, io e te, noi, voi… -------------------------------------------------------------------------------- Per ricevere la Newsletter di Alessandro Ghebreigziabiher -------------------------------------------------------------------------------- Scrittore, narratore e attore teatrale italiano, si è sempre occupato con attenzione dei temi legati alle migrazioni e ai processi interculturali e alle loro narrazioni. -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo La storia non cambia finché… proviene da Comune-info.
Quel consenso dato per scontato
-------------------------------------------------------------------------------- Roma, 22 novembre 2025. Foto di Patrizia Piras -------------------------------------------------------------------------------- La proposta di modifica dell’articolo 609-bis del codice penale in materia di violenza sessuale e di libera manifestazione del consenso, come noto, è stata approvata alla Camera e ora bloccata in Senato dalla Lega. Pur tenendo conto delle difficoltà che avrà l’applicazione della legge nell’azione processuale il suo valore simbolico resta innegabile. Dire infatti che senza il consenso della donna si è difronte a uno stupro significa mettere in discussione un pregiudizio di fondo della misoginia che abbiamo ereditato: quello che ha visto la donna come “la sessualità dell’uomo oggettivata”, “la sua colpa divenuta carne”. Solo rinunciando alle sue “intenzioni immorali verso di lui’, la donna può restituire l’uomo al suo “Io migliore”. Chi scrive questo è il giovane filosofo viennese Otto Weininger, morto suicida a ventitré anni, dopo aver pubblicato la sua tesi di laurea “Sesso e carattere” nel 1903. Ma attraverso di lui è tutta la cultura greco romana cristiana che parla, in quel fondamento sessista, razzista e classista, che ha visto la donna come la “maledizione” dell’uomo, la “tenebra materna” che lo vincola alle sue radici biologiche, pulsionali, al corpo e alle sue passioni più violente e degradanti. Pretendere che nella sessualità ci sia “il consenso libero e attuale” della donna vuol dire perciò intaccare alla radice l’idea che, detto volgarmente, nel caso di un’aggressione o di uno stupro, “è lei che se l’è cercata”, e che perciò “ha goduto”, lo ha desiderato. In altre parole: il consenso della donna donna è dato per scontato, perché la donna, nell’immaginario maschile trasmesso per generazioni dalla cultura dominante, è per sua “natura” essenzialmente “sessualità”. Il suo unico desiderio è il coito, essere posseduta. Della misoginia, tuttora presente nei rapporti personali, intimi, così come nelle istituzioni della vita pubblica, nelle leggi e nell’azione giudiziaria, gli esempi non mancano. Si può aggiungere che, in alcuni casi, come nel giovane filosofo viennese, gli uomini stessi ne sono vittime. -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE QUESTO ARTICOLO: > Ogni chiave agitata tra le mani è una promessa -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Quel consenso dato per scontato proviene da Comune-info.
La violenza nel Dna
-------------------------------------------------------------------------------- Roma, 22 novembre: il Gruppo Tessiture di Pace al corteo promosso da Non una di meno. Foto di Nilde Guiducci -------------------------------------------------------------------------------- Sono passati più di settant’anni da quando James Watson e Francis Crick, basandosi in parte anche sul lavoro di Rosalind Franklin, scoprirono il Dna. Da allora la genetica ha fatto passi da gigante e grazie a questa nostra carta d’identità genetica, oggi sappiamo molto di più rispetto alle nostre origini e a molte nostre caratteristiche fisiche. Il Dna ha inoltre fornito un incontestabile supporto scientifico alla decostruzione di ogni teoria “razziale” relativa a noi umani. Purtroppo, però gli sforzi degli scienziati non sono bastati a cancellare dalla mente di molti di noi una lettura deterministica, che a definire ottocentesca è farle un complimento. L’idea espressa dal ministro della giustizia Carlo Nordio che l’uomo, inteso come maschio, sia geneticamente portato alla violenza non solo è un’aberrazione scientifica, che induce a credere che il nostro codice genetico determini i nostri comportamenti, è anche un ottimo alibi per ogni violentatore o protagonista di soprusi contro le donne. Decenni di studi hanno dimostrato che il nostro corredo genetico determina le caratteristiche della nostra vita biologica, ma non le nostre scelte, che sono culturali. Non siamo robot meccanicamente programmati da una combinazione di fosfati, zuccheri e acidi, perché abbiamo sviluppato quella che chiamiamo cultura, che consiste in una serie di opzioni tra le quali possiamo scegliere. Sono state proprio la nostra incompletezza e indeterminatezza “naturale”, che hanno reso necessario costruire culture per sopravvivere e che ci distingue dagli altri animali. Cultura che non è in noi, ma che apprendiamo grazie al nostro crescere in una comunità. Cosa servirebbero allora l’educazione familiare e quella scolastica, se tanto tutto fosse calvinisticamente già scritto nei nostri geni? Con quelle parole Nordio dichiara di accettare un modello razziale, secondo il quale la biologia determina le nostre attitudini, che finirebbe per giustificare un comportamento violento, in quanto “naturale”. Che si sia vittime di un retaggio culturale che prevede una supremazia maschile, basata in origine sul primato fisico, è fuori di dubbio, ma attribuirlo alla genetica significa negare ogni possibile soluzione. Se così fosse, tutti gli uomini sarebbero propensi alla sopraffazione sulle donne, poiché è impossibile resistere alla propria natura, come lo scorpione della favola di Esopo, che punge l’ippopotamo nel mezzo del fiume, perché non può fare altrimenti. Nessuno nega che esistano ancora troppi uomini, che hanno una visione arcaica della donna come proprietà, che ancora troppe donne vivano rapporti tossici con individui scriteriati, ma di qui a farne una condizione “naturale” ce ne passa. Ad aggravare quelle parole è anche il contesto, perché non sono state pronunciate a caldo, dopo uno dei molti episodi di violenza, ma per giustificare l’opposizione del governo all’introduzione dell’educazione sessuale e affettiva nelle scuole. Accettando l’idea che tutto sta nei nostri geni, risulta ovviamente inutile cercare di educare, di sensibilizzare i giovani… Inoltre, è a dir poco curioso, che proprio la destra, che del tema della sicurezza ha fatto il suo cavallo di battaglia, sembri dichiarare la propria impotenza di fronte a certi eventi: naturalizzandoli diventano incontrastabili. O forse è un modo per dire che è inutile tentare di prevenire educando, che l’unica soluzione è punire severamente, ma ogni punizione, giusta o meno, avviene dopo che il danno è stato fatto. Insomma, Nordio sembra arrendersi, parafrasando Jessica Rabbit, «noi maschi non siamo cattivi, è che ci disegnano così». -------------------------------------------------------------------------------- Pubblicato su Il domani (e qui con l’autorizzazione dell’autore). Tra gli ultimi libri di Marco Aime I morti degli altri (scritto con Federico Faloppa per Einaudi) e Classificare, separare, escludere. Razzismi e identità (Einaudi). -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE QUESTO ARTICOLO DI ROSANGELA PESENTI: > Domande sull’assassino -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE QUESTO ARTICOLO DI MIMMO CORTESE: > Educazione all’affettività e scelta nonviolenta -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo La violenza nel Dna proviene da Comune-info.
Contro la legge del potere di morte
SIAMO ABITUATI A PERCEPIRE LO STUPRATORE COME UN SOGGETTO DEVIANTE E A SOTTOVALUTARE LA DIFFUSIONE , OVUNQUE, DEGLI STUPRI DI GRUPPO. LA FRATELLANZA MASCHILE CHE DIVENTA CORPORAZIONE MASCHILE, BASATA SULLA LEALTÀ DEGLI UOMINI TRA LORO E SUL CARATTERE GERARCHICO DELLA MASCOLINITÀ, È UNA STRUTTURA CHE SI RIPRODUCE IN TUTTI GLI ORDINI E IN TUTTE LE SOCIETÀ, IN TUTTI I RAPPORTI DI POTERE. DA LÌ VIENE ANCHE LA GUERRA, DICE RITA SEGATO, ANTROPOLOGA ARGENTINA, LE CUI RICERCHE SULLA VIOLENZA DI GENERE SONO UN RIFERIMENTO FONDAMENTALE NEGLI STUDI FEMMINISTI IN TUTTO IL MONDO. ANCHE PER QUESTO IL GENOCIDIO DI GAZA, COME DIMOSTRATO DA UN RAPPORTO PRESENTATO ALL’ONU, È STATO ACCOMPAGNATO DALL’USO SISTEMATICO DI VIOLENZE SESSUALI E DI GENERE DA PARTE DELLE FORZE DI SICUREZZA ISRAELIANE CONTRO DONNE E RAGAZZE PALESTINESI ARRESTATE. “GAZA È IN APPARENZA UN LONTANO ARCO DEL CRIMINE DELLO STUPRATORE COMUNE, CHE FA UNO SPETTACOLO DELLA SUA POTENZA… MA GAZA È ANCHE UNO SPETTACOLO. IL GENOCIDIO DI GAZA È TOTALMENTE DIVERSO DA TUTTI I PRECEDENTI GENOCIDI CHE HANNO COLPITO L’UMANITÀ. PERCHÉ TUTTI GLI ALTRI ANCORA INVOCAVANO LA FINZIONE GIURIDICA… GAZA ANNUNCIA CHE UNA NUOVA LEGGE È IN VIGORE, CHE È LA LEGGE DEL POTERE DI MORTE…”. CONTRO QUELLA “LEGGE” TANTE E TANTI SCENDERANNO IN PIAZZA SABATO 22 NOVEMBRE A ROMA CON IL CORTEO DI NON UNA DI MENO, “SABOTIAMO GUERRA E PATRIARCATO. PER IL DIRITTO ALL’AUTODETERMINAZIONE DEI CORPI E DEI POPOLI” Foto SOS Gaza -------------------------------------------------------------------------------- Le ricerche di Rita Segato, antropologa, scrittrice e attivista argentina sulla violenza di genere e, in particolare, le sue riflessioni sui femminicidi a Ciudad Juárez (Messico) sono un riferimento fondamentale negli studi femministi. Segato ritiene che la violenza maschile sia una questione di potere. Questo la porta a concepire il genocidio di Gaza come un’esibizione della «legge del potere di morte». Parliamo qui del genere come potere, dell’emergere di una nuova «etica» nel mondo in crisi e delle complesse strategie attuali del potere imperiale. Hai studiato qualcosa che solo Frantz Fanon poteva fare, cioè ascoltare gli stupratori e le donne violentate, che permette di conoscere a fondo i comportamenti patriarcali. Quando parli della crisi della fine dell’umano, quali cambiamenti puoi vedere rispetto a quei mostruosi violentatori che hai intervistato anni fa? Quello che ho scoperto in quel momento, e ho chiamato la fratria maschile, è il fatto che nello stupro c’è una disciplina della vittima, un rapporto verticale in cui la vittima è controllata, dominata, disciplinata, oppressa dal personaggio dello stupratore, che rappresenta la mascolinità. Ma c’è un’altra linea, un asse orizzontale, in cui il suo atto è diretto agli occhi degli altri uomini. L’analisi femminista si è sempre concentrata sul rapporto aggressore-aggressione, ma io affronto il rapporto ponendo l’attenzione anche sugli occhi che vedono lo stupro come spettacolo, quindi parlo di quel crimine come violenza espressiva, una denominazione molto valida. Non è una violenza strumentale, utilitaria della libido maschile che si appropria del corpo della donna. Chiariamo subito una cosa. L’ho detto finora: il crimine patriarcale è un crimine politico, non morale, religioso o consuetudinario. È la forma primaria di oppressione e di estrazione di plusvalore. E potremmo dire senza timore di sbagliarci che è un plusvalore di prestigio, di status. Se lo stupro è un fatto politico, di affermazione del potere, l’esibizione ha altri oggetti che non sono solo le vittime… Enfatizzo la questione della relazione tra gli uomini e credo che la novità del mio argomento sia l’enfasi nel dire che questa estrazione di valore dal corpo delle donne è la gioia, una gioia narcisistica, autoreferenziale. Il mio è un’analisi del potere che si appaga per la sua esposizione ad altri uomini e alla società. Il buon senso che abbiamo inculcato ci insegna a percepire lo stupratore come un soggetto anomalo, deviante, solitario, ma, tuttavia, le statistiche ci mostrano che la maggior parte dei crimini di stupro sono perpetrati in gruppi, in bande. Si tratta di un crimine «nella società». Come si relaziona questa fratria del potere maschile con le guerre attuali? L’aggressione sessuale è un crimine che, nonostante la quantità di leggi già ratificate, non può essere controllato. Questo tipo di violenza non cede. Ciò che accade nel presente è che la fratellanza maschile, la fratellanza maschile che ora descrivo come corporazione maschile, basata sulla lealtà degli uomini tra loro e sul carattere gerarchico della mascolinità, è una struttura che si replica e riproduce in tutti gli ordini, in tutte le società, in tutte le gerarchie, in tutti i rapporti in cui vediamo potere e disuguaglianza. Sono repliche di questo primo e basale ordine corporativo. Da lì viene anche la guerra. Parlando una volta a Buenaventura, costa del Pacifico colombiano, uno spazio iperviolento, qualcuno del pubblico mi ha chiesto: «Come si finisce questa guerra, che non può finire con un patto o un’amnistia perché è una guerra totalmente informale?». Una tale guerra si ferma smontando il mandato di mascolinità, che è il dispositivo che permette di reclutare i soldatini che formeranno le fazioni belliche. E come appare il genocidio del popolo palestinese in questa deriva analitica? Gaza è in apparenza un lontano arco del crimine dello stupratore comune, che fa uno spettacolo della sua potenza, che ha bisogno di esibirla, il che gli dà il titolo di maschio. Ma Gaza è anche uno spettacolo. Il genocidio di Gaza è totalmente diverso da tutti i precedenti genocidi che hanno colpito l’umanità. Perché tutti gli altri ancora invocavano la finzione giuridica, si nascondevano dietro l’ordine del diritto. Il primo genocidio e il più grande di tutti è stato la Conquista, e ci hanno sempre detto che a quel tempo regnavano le leggi delle Indie. Ma nessuno può credere che dal sud della Penisola, dall’altro lato del grande mare fino al Nuovo Mondo, queste leggi avessero qualche capacità di condurre alla vita. Qui c’è una palese menzogna, perché il continente latinoamericano è stato conquistato da bande, che erano di fatto i gruppi armati che hanno ripulito il territorio. In Brasile queste bande hanno persino un nome e un monumento a San Pablo: i bandeirantes. Bande che hanno un sacco dei gruppi di stupratori attuali. In entrambi i casi sono maschi predatori della vita, delle donne e della natura. Certo, i bandeirantes percorsero tutto il territorio portoghese uccidendo indiani e ogni animale che trovavano, ripulendo i territori per poterli occupare. Il carattere fondante e fondamentale che hanno avuto le bande nella pulizia del nostro continente è la chiave per capire Gaza. Ho la sensazione che, mentre gli stupratori di Ciudad Juárez non ti abbiano disconnesso dal non-umano, Gaza sì, nonostante l’indignazione. Forse perché quest’ultima rappresenta una rottura con il concetto di “essere umano”. Questo genocidio è un punto di svolta della storia. Perché nell’Olocausto si poteva vedere, in filmati, la sorpresa degli eserciti alleati quando entravano in un campo di concentramento. Si poteva percepire in coloro che arrivavano la perplessità e l’orrore che sperimentavano perché era stato nascosto al mondo ciò che stava accadendo nei lager, perché c’era ancora un simulacro giuridico vigente, esisteva ancora una grammatica giuridica. Nel mio testo del 2009, Il grido inudibile, casualmente ripubblicato nel libro Scene di un pensiero imbarazzante nel 2023, ho detto che con lo sterminio palestinese è finita la grammatica giuridica. Quando non c’è più una legge che sia in grado di governare il comportamento, rimane solo la forza. La legge è una fede, una finzione, un discorso in cui mettiamo credito. Ma quella finzione giuridica cadde con Gaza. La credenza che esistesse un ordinamento giuridico che permettesse l’aspettativa di comportamento è scomparsa. Non si può non sapere cosa sta succedendo a Gaza. Con questa esibizione senza pudore e senza alcun diritto che la contenga, si può dire che Gaza annuncia che una nuova legge è in vigore, che è la legge del potere di morte. Il potere della morte è la legge. D’altra parte, nei momenti di divagazione, mi viene in mente che il sacrificio di Gaza è una specie di nuova crocifissione, proprio nello stesso luogo, che avrà come conseguenza di illuminare le coscienze in un modo nuovo. È una specie di epifania, e rendersi conto mi porta molte volte ad affermare che si tratta di un punto di svolta della storia, un cambiamento d’era. Persino alcuni membri delle forze armate degli Stati Uniti stanno gridando il loro disaccordo. Gaza illumina le coscienze in un modo nuovo. -------------------------------------------------------------------------------- 8 marzo 2022: foto di Non una di meno Milano -------------------------------------------------------------------------------- I nazisti nascondevano i campi, così come le dittature del Cono Sud (Argentina, Cile, Uruguay, ndt) nascondevano i centri di detenzione. Non osavano mostrare le torture o la loro stessa popolazione. Benjamin Netanyahu, al contrario, dice ai suoi che lo sterminio è necessario e lo dimostra. È una cosa quasi incredibile, enunciano, dicono senza la minima vergogna che stanno uccidendo per occupare quelle terre e fare affari. Ci sono registrazioni di soldati e anche civili israeliani che affermano l’importanza di uccidere tutti i palestinesi senza alcun problema etico o morale. Né legale. Durante la Conquista ci fu un noto dibattito tra Juan Ginés de Sepúlveda e Bartolomé de las Casas sul fatto che gli indigeni avessero un’anima; un dibattito di alto contenuto etico e politico. Ma qui tutto si riduce al potere di morte. È la novità del nostro tempo. Perché il potere di morte ha sostituito il diritto o, meglio, si è costituito esplicitamente nel diritto. Possiamo pensare che con la scomparsa della ragione umanitaria dall’orizzonte storico della nostra epoca sia caduta l’etica? Non lo vedo così. Ci troviamo di fronte a una nuova etica che si basa su idee che Hannah Arendt sviluppa in L’origine del totalitarismo, quando dice che sia nello stalinismo che nel fascismo emerge un diritto più rilevante dei diritti delle persone, che è il diritto della storia. Per i nazisti, il diritto della storia è costruito a partire dall’idea di una razza superiore, con l’obiettivo di ottenere la purezza della razza ariana. La legge storica, dunque, è quella che determina lo sterminio di tutto ciò che impedisce questo transito. Nel caso dello stalinismo, è un mondo egualitario senza classi. Tutto ciò che è disfunzionale, tutto ciò che impedisce o disturba il transito storico verso la destinazione preconcepita come obbligatoria, potrà essere eliminato. Come interviene il capitalismo? Oggi, la concezione della storia sostiene l’accumulo-concentrazione come valore, come il valore che orienta il corso della storia. Quasi direi che è la nuova utopia della storia, per quanto incredibile possa sembrare a molti. Tutto ciò che è disfunzionale all’accumulo-concentrazione deve essere eliminato. L’umanità perfetta è quella dei proprietari. Il dominio in corso del pianeta determina l’esistenza di un’eccedenza umana, quelli che non sono funzionali al processo di dominio, al processo dell’accumulazione del capitale, sono destinati alla morte. Questa è l’ideologia del presente. È il caso dei Donald Trump, Javier Milei e direi di tutta l’estrema destra europea e buona parte della destra. Non è, come pensiamo noi che lo facciamo dal campo critico, che c’è una crisi etica. C’è è un’altra etica, un’altra ideologia che è diventata egemonica. Ci troviamo di fronte a un quadro di valori che afferma il diritto, il dovere dell’accumulazione come superiore ai diritti delle persone. Questo capitalismo non è di sfruttamento del lavoro salariato, ma soprattutto di spogliamento, di guerra contro i popoli e la madre terra… , in cui una piccolissima minoranza si impadronisce del pianeta. Non dobbiamo più parlare di ineguaglianza perché è poco, ma di proprietà. Arendt menziona in un piè di pagina che Hitler, nel suo diario, scrive che i prossimi ad essere sterminati sarebbero i cardiaci. Ma tutti loro sono stati eletti democraticamente. Le definizioni di democrazia affermano, erroneamente, che una maggioranza nelle elezioni garantisce un ordine democratico. È un grande errore perché permette di intendere per democrazia una dittatura della maggioranza. Ci sono alcuni eletti che trasformano la democrazia in una dittatura. Non possiamo dimenticare che non c’è democrazia possibile senza pluralismo. C’è qualcosa che sta succedendo che è molto difficile da capire nella storia degli Stati Uniti in questo momento. È sorprendente il cambiamento di strategia nella guida di quel paese. E questo, che deve essere notato e considerato, si presenta difficile da capire perché è un rifiuto di una strategia di mezzo secolo. Pensiamo: quando finisce la seconda guerra mondiale, gli Stati Uniti sottraggono un vantaggio alla Russia – che, sebbene sia stata fondamentale nella vittoria contro il nazismo, non può approfittarne – si presenta al mondo come la democrazia, la sua cartolina al mondo è l’immagine di un paese che ha distrutto il male del totalitarismo. Da lì si costituisce come una nazione montata su due zampe: una di queste è il potere stesso, economico e bellico. Cioè la nazione più ricca e meglio armata del mondo e, progressivamente, con la migliore intelligenza bellica (spionaggio, capacità di infiltrazione, ecc.). Ma l’altra gamba su cui poggia la sua potenza è quella dell’egemonia: la «finzione democratica», la «finzione giuridica» di pieni diritti per la loro cittadinanza. L’egemonia era il potere di seduzione degli Stati Uniti, la terra della libertà dove migrano i perseguitati dal nazismo e dal fascismo, ma anche quelli perseguitati da Stalin. Un paese che sembrava offrire opportunità a tutti. Esatto. Dopo il 1948, in una seconda tappa di questo processo di costruzione del l’egemonia nel mondo, cioè della presentazione al mondo di una serie di valori capaci di rappresentare gli interessi di tutta la gente, sorge un pezzo mancante, assunto negli anni ’60 da Lyndon Johnson, dopo l’assassinio di John F. Kennedy: la lotta contro il razzismo e la fine dell’apartheid negli stati del sud; la grande legge sui diritti civili, che proibiva la discriminazione razziale e la segregazione negli spazi pubblici, nell’istruzione e nel lavoro, e la legge sul diritto di voto degli afroamericani e delle altre minoranze. Sono convinta che quest’ultimo dimostra questo impegno per il consolidamento dell’egemonia dei valori americani nel mondo. È un primo passo negli anni sessanta, attraverso il quale questa democrazia diffonde l’idea dell’integrazione razziale. In un secondo momento, viene presentato il passo successivo di tale sforzo e si verifica in concomitanza con la caduta del muro di Berlino. Gli Stati Uniti danno un nuovo passo egemonico che è il multiculturalismo, che intendo come contropartita al gesto di restituire i loro stati alle nazioni che componevano l’Unione Sovietica. Due gesti, est e ovest, di stampo democratico. Il gesto del mondo capitalista, liberale, il gesto dell’Occidente, chiama e rende visibili quelle che oggi chiamiamo identità politiche e offre loro diritti e risorse. Il mondo passa a percepire le donne, gli afrodiscendenti, gli indigeni, le sessualità dissidenti LGBTTTIQ+ come identità querelanti sulla scena pubblica. Di ciascuno di questi appezzamenti, come ha sottolineato il grande intellettuale nero statunitense Cornel West, una parte otterrà l’inclusione e un’altra parte, la maggioranza, rimarrà esclusa. Analizzo a lungo questo tema nel mio libro La nazione e i suoi altri del 2017,e oggi sono fortemente critica della trappola della minoritarizzazione nella quale ci ha immerso il multiculturalismo. La proposta multiculturale, sostenuta da fondi di tutti gli organi di cooperazione statunitensi, è stata un terzo momento di costruzione e sforzo per l’egemonia. Perché dici questo del multiculturalismo? Perché ha chiaramente costruito un regime di colonialità all’interno dei movimenti sociali. All’interno del movimento nero, per esempio, impone forme di auto-identificazione, comportamenti, costruzione dell’immagine e lotta che non nascono dalla storia coloniale e schiavista della latinità. Nel mio libro sul tema insisto su una distinzione tra identità politiche multiculturali e «alterità storiche», che nascono da altre storie, con strutture di alienazione, discriminazione ed esclusione proprie. Le donne del mondo hanno percepito e denunciato il carattere colonizzatore del femminismo eurocentrico. In Brasile, per esempio, è molto chiara la forma di discriminazione e dominazione all’interno del movimento LGBTQ+, che, sebbene abbia permesso conquiste, allo stesso tempo ha imposto, a volte in modo doloroso, il suo modello. Nelle nostre società ci sono forme molto ancestrali di uomini femminili. Nel candomblé c’è una transitività di genere molto forte. Ma appare il gay statunitense che deve andare in palestra, creare muscolatura, e passa ad imporsi come modello. Questo è uno degli esempi della colonialità all’interno dei movimenti sociali. Oggi posso dire che sono fortemente critica dell’identitarismo, della minoritarizzazione e del wokismo. Ogni differenza è universale. Menziono tutto questo per rendere visibile che ci sono state almeno tre fasi dello sforzo degli Stati Uniti per presentare al mondo e, in verità, influenzare il mondo attraverso la costruzione di progetti di immagine democratica. Questo è ciò che sto descrivendo come la costruzione di un’egemonia mondiale. Questi tre periodi – la vittoria sull’oppressione nazista nella seconda guerra mondiale, la fine dell’apartheid e il multiculturalismo – sono stati parte del progetto egemonico degli Stati Uniti. Anche la scienza e l’industria cinematografica e televisiva fanno parte di questa strategia. Ma, e questo è ciò che bisogna capire, la strategia dell’egemonia viene improvvisamente cancellata. L’idea di una nazione democratica viene distrutta e il mondo assiste a un cambiamento radicale di rotta, un cambio di discorso e di costruzione d’immagine radicale. Sono convinta che il nostro sforzo d’ora in poi sia quello di cercare di capire perché il Nord si decide per questo cambiamento di strategia e di rotta. Perché sceglie la costruzione di un’altra immagine per se stesso, in cui la misoginia, il razzismo, la guerra, lo sterminio e persino l’appoggio al genocidio diventano la cartolina, l’auto-immagine della nazione presentata al mondo. Perché si rinuncia al progetto di paese egemonico, in termini di valori e immagine democratica. Quale strategia lo sostituisce? -------------------------------------------------------------------------------- Pubblicata originariamente su Brecha -------------------------------------------------------------------------------- -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Contro la legge del potere di morte proviene da Comune-info.
Macerie su Macerie – PODCAST 17/11/25 – Girard e la super-crisi mimetica del villaggio virtuale
Protagonista per eccellenza del rito di linciaggio contemporaneo, tra le shitstorm, la call out culture, i gruppi di condivisione di immagini intime, è l’utente dei social media. Le piattaforme non sono un mondo diverso, ma più propriamente il palcoscenico ideale del desiderio mimetico, quello delle “vittime” e dei “persecutori” che si scambiano indefinitamente i ruoli, quello della ciclica ricerca di capri espiatori con cui sedare per un istante, per il tempo di un commento, il moral panic. Alla luce del pensiero girardiano sulla violenza, ne abbiamo parlato con Alessandro Lolli, studioso delle dinamiche dei nuovi mezzi di comunicazione. Leggi qui l’articolo di Alessandro: Noialtri girardiani.
La terra rubata: la violenza dei coloni in Cisgiordania
Tra ulivi bruciati e villaggi abbandonati, la Cisgiordania vive un conflitto invisibile: la lenta cancellazione di un popolo sotto gli occhi indifferenti del mondo politico. La Cisgiordania è diventata una terra di ombre, di colline presidiate da uomini armati e villaggi palestinesi che si svuotano nel silenzio generale. Mentre il mondo osserva Gaza, qui si consuma un’altra guerra, più silenziosa ma non meno feroce: quella dei coloni israeliani contro i palestinesi. Secondo l’Ufficio delle Nazioni Unite per gli Affari Umanitari (OCHA), ottobre 2025 è stato il mese più violento degli ultimi vent’anni, con una media di otto attacchi al giorno. Una spirale di aggressioni che non si limita ai pestaggi o alle sparatorie: gli alberi di ulivo vengono bruciati, i raccolti rubati, le case devastate. Nelle valli tra Nablus e Hebron, dove le famiglie vivono di agricoltura e pastorizia, il fumo degli uliveti incendiati si confonde con quello dei copertoni bruciati per difendersi. Le aggressioni arrivano spesso all’alba, con gruppi di coloni incappucciati che penetrano nei villaggi e costringono gli abitanti a fuggire. Molti palestinesi raccontano di aver visto i soldati israeliani osservare senza intervenire, o addirittura scortare i coloni durante gli attacchi. È una violenza che non sorprende più nessuno, ma che continua a dilagare nell’indifferenza quasi generale. Bruciare, bruciare, bruciare Nel solo 2025, secondo Reuters e The Guardian, decine di comunità rurali palestinesi sono state abbandonate dopo ripetute aggressioni. Migliaia di ulivi — simbolo della sopravvivenza e della radice stessa di quella terra — sono stati distrutti o sradicati. “Gli ulivi sono tutto per noi”, raccontano i contadini intervistati dal quotidiano britannico, “ci danno pane, olio e dignità. Bruciarli è come bruciare la nostra memoria”. La distruzione agricola è parte integrante di una strategia di spossessamento: colpire i mezzi di sussistenza per spingere la popolazione a lasciare il territorio. Dietro questa brutalità c’è un mosaico complesso. I coloni non sono una massa indistinta di fanatici, ma una costellazione di comunità molto diverse tra loro: famiglie benestanti che si sono trasferite per godere di agevolazioni fiscali, giovani ultra-nazionalisti cresciuti nell’idea che la “Giudea e Samaria” siano terra promessa, gruppi ultraortodossi che cercano isolamento e controllo. Ma una minoranza sempre più attiva — organizzata, armata, convinta di essere l’avanguardia di una missione divina — ha trasformato le colline della Cisgiordania in un campo di battaglia permanente. Violenti e protetti Sono loro i protagonisti delle violenze più estreme. E la loro forza non deriva solo dall’odio, ma anche dalla protezione politica. Il governo israeliano, dominato da partiti dell’estrema destra religiosa, ha più volte bloccato o rallentato i processi giudiziari contro i coloni, riconoscendo retroattivamente decine di avamposti illegali. Le armi con cui agiscono non sono solo fucili, ma la certezza dell’impunità. Quando l’Alto Commissariato ONU per i Diritti Umani ha chiesto a Israele di “porre fine al sostegno agli attacchi dei coloni e di proteggere la popolazione palestinese”, la risposta è stata il silenzio. Un silenzio che vale come un lasciapassare. La violenza dei coloni non è più soltanto ideologica. È diventata una forma di gestione del territorio, uno strumento di controllo. Gli attacchi non sono esplosioni di rabbia, ma parte di un disegno più ampio: creare paura, destabilizzare, spingere i palestinesi a lasciare le loro case. Alcuni ricercatori israeliani parlano apertamente di “strategia dell’erosione”, un piano che trasforma la quotidianità in assedio costante. Ogni famiglia che abbandona un villaggio rappresenta un piccolo successo per chi vuole spingere i confini dell’occupazione un po’ più in là.  Fanatici educati alla violenza Eppure, dietro la retorica biblica e la retorica della sicurezza, si nasconde anche un senso di frustrazione. Molti di questi giovani coloni, cresciuti in un clima di fanatismo e isolamento, sono vittime di un sistema che li ha educati all’odio e li ha usati come strumenti di una politica di espansione. In loro convivono il delirio religioso e la disperazione sociale, l’illusione di essere difensori di una fede e la realtà di essere carne da propaganda. Ciò che resta, però, è la violenza. E il silenzio. Quello delle istituzioni internazionali che contano i morti e pubblicano rapporti, senza mai riuscire a fermare l’emorragia. Quello dei media occidentali che parlano di “scontri”, come se ci fosse simmetria tra chi occupa e chi resiste. Quello della stessa società israeliana, dove una parte crescente della popolazione sceglie di non vedere, di non sapere. Cisgiordania, laboratorio di violenza La Cisgiordania di oggi è un laboratorio di disumanizzazione. Case bruciate, bambini terrorizzati, ulivi carbonizzati, villaggi cancellati dalle mappe. Ogni colpo inferto a un contadino palestinese è una ferita aperta nel diritto internazionale, ma anche nella coscienza collettiva. E ogni volta che un soldato guarda altrove, che un politico giustifica, che un giornale tace, il crimine si ripete. Non è più una questione di insediamenti o di confini. È una questione di umanità. E quella, in Cisgiordania, sta scomparendo. Fonti: Reuters, “Israeli settler attacks against Palestinians reach record number in October, UN says”, 7 novembre 2025. The Guardian, “West Bank farmers prevented from harvesting by settler violence”, 3 novembre 2025. UN OCHA, “Humanitarian Situation Update 337 – West Bank”, ottobre 2025. UN Human Rights Office, dichiarazione del 16 aprile 2024. Fivedabliu, “Cisgiordania, Herzog: “Condanno la violenta e crudele furia contro i residenti della cittadina palestinese di Huwara” 27 febbraio 2023   Fivedabliu
Dalla culla alla tomba: quanto è estesa la maternità?
-------------------------------------------------------------------------------- Foto di Nilde Guiducci -------------------------------------------------------------------------------- Non dovremmo meravigliarci se gli uomini uccidono le donne. Finché sono identificate, e nell’immaginario ancora dominante lo sono tuttora, con la sessualità e la maternità, considerate dall’uomo doti femminile “al suo servizio”, o a lui finalizzate, è scontato che esploda la possessività nel momento in cui le donne decidono, separandosi, di non essere più quel corpo a disposizione. È questa idea della donna, posta a fondamento della nostra, così come di tutte le civiltà finora conosciute, che va scalzata in modo radicale, dalla cultura alta, come dal senso comune, e da quella rappresentazione di sé e del mondo forzatamente fatta propria anche dal sesso femminile. È sulla “normalità”, dentro cui la violenza è meno visibile, ma per questo più insidiosa, che va portata l’attenzione. Rendersi indispensabili, “far trovare buona la vita all’altro” è stato a lungo il modo alienante con cui le donne hanno cercato di riempire il vuoto apertosi all’origine nell’amore di sé. Nell’illusione di “foggiare se stesse” hanno impegnato tutte le loro energie nello sforzo di aiutare l’altro a divenire se stesso. La dedica che Andrè Gorz scrive nel libro dedicato alla moglie, Lettera a D. Storia di un amore, dice: “A te, Kay che, dandomi te, mi hai dato Io”. Ma quanto è estesa la maternità delle donne se, oltre a bambini, malati, anziani sono chiamate a curare, sostenere psicologicamente e moralmente uomini in perfetta salute? Come si può pensare che questo corpo femminile presente nella vita dell’uomo dalla nascita alla tomba, passando per la la scuola, l’assistenza nelle malattie, cioè attraverso i bisogni primari dell’umano, non alimenti, più o meno consapevolmente pulsioni di fuga, aggressività, fantasie omicide, in chi ne teme la stretta quanto l’abbandono? -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE QUESTO ARTICOLO DI ROSANGELA PESENTI: > Domande sull’assassino -------------------------------------------------------------------------------- CORTEI E AZIONI, 22 NOVEMBRE ROMA, 25 NOVEMBRE IN TUTTE LE CITTÀ: -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Dalla culla alla tomba: quanto è estesa la maternità? proviene da Comune-info.
DAI BOOMER ALLA GEN Z, I DATI CERTIFICANO CHE GLI UOMINI (E I GIOVANI) IN ITALIA GIUSTIFICANO LA VIOLENZA DI GENERE
Dati allarmanti sulla violenza di genere in Italia. La violenza economica è ritenuta accettabile da un 1 uomo su 3, ma lo è per quasi la metà dei maschi Millennial (cioè i nati tra il 1980 e il 1995) e per la successiva Gen Z (tra il 1996 e il 2012). La violenza fisica sulle donne è giustificabile per 2 maschi adulti su 10. Per 1 su 4 la violenza verbale e quella psicologica sono “colpa” delle donne. E ancora: la maggioranza (55%) dei Millennials ritiene legittimo il controllo sulla partner. Così la ricerca odierna di ActionAid su violenza di genere e giovani, che evidenzia poi come in casa il 74% delle donne si occupa ancora oggi da sola dei lavori domestici, contro il 40% degli uomini. Il 41% delle madri si occupa inoltre da sola dei figli, contro appena il 10% dei padri. Negli spazi pubblici il 52% delle donne ha provato paura (contro il 35% degli uomini), una quota che sale al 79% tra le più giovani. Il 38% delle persone ha avuto paura almeno una volta sui mezzi pubblici, ma tra le giovani donne della Gen Z il dato sale al 66%. E ancora: il 55% delle donne si è sentita svalutata nei contenuti culturali, il 70% tra le under 25. Anche online 4 donne su 10 (40%) dichiarano di aver avuto timore di reazioni sessiste ai propri contenuti online. L’intervista a Isabella Orfano, Women’s Rights Expert per ActionAid. Ascolta o scarica.