Comunità per la decrescitaL’ENTRATA IN CRISI DELLA GLOBALIZZAZIONE NEOLIBERALE RENDE URGENTE LA NECESSITÀ
DI UN’ALTRA RELAZIONE TRA LOCALE E PLANETARIO, IN CUI NON C’È SPAZIO PER LA
DELEGA. “LA QUESTIONE DELLA PACE, COME QUELLA ECOLOGICA, COME QUELLA DELLA
GIUSTIZIA SOCIALE NON SARANNO MAI AFFRONTATE SE LA LORO SOLUZIONE CONTINUERÀ A
ESSERE DELEGATA A ORGANISMI TRANSNAZIONALI INTERSTATALI – SCRIVE PAOLO CACCIARI
– SI TRATTA DI UNA VERA E PROPRIA TRAPPOLA DI REMISSIONE DI RESPONSABILITÀ IN
CUI CADONO GLI STESSI MOVIMENTI PACIFISTI E AMBIENTALISTI QUANDO FANNO
AFFIDAMENTO SULL’ASCOLTO DEI “CAPI DI STATO E DI GOVERNO”, COME SE AVESSERO UNA
SENSIBILITÀ ETICA… SE LE COSE STANNO COSÌ, SE NON VI SONO SCORCIATOIE ATTRAVERSO
CUI RAGGIUNGERE IL CAMBIAMENTO E REALIZZARE UNA SOCIETÀ DI VITE LIBERATE DA OGNI
FORMA DI DOMINIO DI NASCITA, CLASSE, GENERE, SPECIE ALLORA IL PROGETTO POLITICO
DELLA CREAZIONE DI UN SISTEMA DI COMUNITÀ TERRITORIALI CAPACI DI AUTOGOVERNARSI
E DI RELAZIONARSI TRA LORO ALLA PARI PUÒ DIVENTARE LA VIA PIÙ PROMETTENTE ED
EFFICACE DA PERCORRERE…”. QUESTO ARTICOLO È UN INVITO ALLA LETTURA DEI
CONTRIBUTI CONTENUTI NELLA PARTE MONOGRAFICA DELL’ULTIMO QUADERNO DELLA
DECRESCITA
Cascina Rapello (Airuno, LC)
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Dedicato a Ferruccio Nilia e al suo lavoro attorno al concetto di comunità
Tante, diverse
Cum/munis, designa una relazione di scambio donativo all’interno di un gruppo di
persone (umane e non-solo-umane) fondata su mutualità e reciprocità. Presuppone
perciò una esistenza communitarista (da communĭtas-atis), ovvero una
communantiae (traducibile in comunanza o comunalità) nel godimento di beni
comuni quali pascoli, boschi, acque, ma anche conoscenze, sistemi di valori,
stili di vita. Il commoning, nelle teorie moderne dei commons1,è l’azione di
messa in comune (comunizzazione) e presa in cura collettiva delle risorse
naturali, umane, storiche, tecnologiche disponibili in un determinato ambito e
in uno spazio geografico, in un luogo agito e abitato da un soggetto collettivo.
«Ambiti di comunità», per dirla con Gustavo Esteva: «forme diverse di esistenza
sociale che vanno al di là dello spazio privato, ma non sono spazi pubblici
[statali]» (Esteva, 2014, p.24).
La casistica e le genealogie delle comunità possono essere molto varie, così
come la loro veste giuridica e il loro manto istituzionale. Ve ne sono di legate
ad un “sentire comune” tradizionale, consuetudinario, informale, spontaneo… In
una parola diremmo: “organico”, cioè trans-storico, primario, ancestrale,
sostanzialista – con tutte le sfumature dei casi specifici. Altre forme di
comunità si sono costruite esplicitamente in funzione del perseguimento di
determinati obiettivi e interessi comuni: ottenere maggiore sicurezza
all’esterno e all’interno dei propri ambiti, distribuire i compiti tra i propri
membri in modo da ottimizzare la sussistenza e la riproduzione, realizzare
infrastrutture d’uso comune, conservare i patrimoni comuni, distribuire la
ricchezza, dotarsi di norme e istituzioni di controllo e regolazione, preservare
le credenze, i miti comuni, ecc., ecc. Potremmo definirle “comunità razionali” o
associazioni di scopo: eserciti e chiese, aziende e sindacati professionali,
stati e condomini…
Vi sono poi comunità che si generano in continuazione ex novo, intenzionalmente,
per autopoiesi, per affermare un proprio progetto di vita sociale. Penso a
quelle comunità di iniziativa create dagli abitanti di una città che si
appropriano e abitano un bene da adibire ad usi civici; a quelle di immigrati
che rivitalizzano un borgo o un quartiere degradato; ai “regolieri” autoctoni
delle valli di montagna che fanno rinascere gli antichi “demani collettivi”; ai
dipendenti di una fabbrica che decidono di autogestirla; alle donne che si
proteggono creando una casa di accoglienza, alle comunità energetiche da fonti
rinnovabili e a quelle di sostegno all’agricoltura, alle “comunità del cibo”,
alle cooperative e alle istituzioni di comunità, ai distretti di economia
solidale e a molte altre ancora2. Chiamiamole comunità politiche creative, “di
lotta”, istituenti, che a partire dai luoghi di vita pensano di trasformare la
società nel senso di rafforzare le relazioni dirette, solidali tra le persone e
tra esse e il contesto socio-ambientale in cui operano.
La galassia delle pratiche virtuose di resistenza e sottrazione alla
mercificazione di ogni ambito della vita produttiva e riproduttiva è davvero
molto estesa, seppur frammentata, difficile da mettere a fuoco e praticamente
impossibile da incasellare in categorie statiche. Al fondo, comunque, vi sono
delle caratteristiche comuni ad ogni tipo di comunità che ne denotano il diverso
tipo di soggettività.
Fare/essere comunità
Per riuscire a fare comunità e viverla c’è bisogno di una particolare
predisposizione personale, se non anche di empatia e benevolenza, quantomeno una
disponibilità al riconoscimento dei propri simili e alla connessione con l’altro
da sé. Infatti, il presupposto comunitario – la «voglia di comunità» (Zygmunt
Bauman, 2001), se non persino il «bisogno di radicamento» (vedi lo scritto di
Simon Weil nella rubrica La saggezza della decrescita, in questi Quaderni) –
sembra essere connaturato all’ontologia della specie umana considerata come
insieme di individui socievoli, dotati di affettività e moralità, di senso di
giustizia e di altruismo. Da questa angolatura – quella della antropologia
positiva – potremmo persino affermare – in barba al darwinismo sociale3 – che è
la generosità l’energia rinnovabile che muove l’universo umano (e non solo
questo), così come l’energia cosmica muove l’universo fisico. Filosoficamente,
il concetto di comunità pone il complesso tema del rapporto tra identità e
differenza, tra singolarità e pluralità, tra individualità e rete delle
dipendenze a cui appartiene.
Un ricco filone di studi a cavallo tra la psicologia di comunità e la psicologia
ambientale (ad esempio: Riemer, Reich 2011) studia il ruolo delle comunità nelle
politiche di contrasto ai cambiamenti climatici. Ciò deriva dall’importanza
della dimensione sociale per la vita psichica delle persone, sia in termini di
percezione e di valutazione degli eventi sia per l’orientamento dei
comportamenti nella vita quotidiana. Noi tendiamo infatti a considerare gli
altri, specie quando ad essi siamo legati da vincoli comunitari, come affidabili
partner di conoscenza, con i quali ci confrontiamo costantemente per avere
conferme delle nostre opinioni e per elaborare collettivamente una visione del
mondo nella quale possiamo riconoscerci. Soprattutto nelle situazioni difficili
o pericolose, il conforto dello sguardo dell’altro ci è di grande aiuto, e
l’azione collettiva si conferma uno dei modi più efficaci per avviare e
consolidare comportamenti nuovi. In particolare, la condizione comunitaria è in
grado di attivare con forza la dimensione dell’identità sociale, un’importante
dinamica psicologica che può avere un ruolo decisivo per il cambiamento nelle
idee e nei comportamenti. Specie quando si tratti di contrastare un modo di
vedere l’economia e la società che si è radicato profondamente nei vissuti e
nelle aspettative degli individui, può essere molto utile il fatto di percepirsi
parte di un gruppo significativo di persone che condividono una visione
alternativa e che si impegnano concretamente per finalità collettive, sature
anche di valenze etiche.
Per far nascere un senso di comunità in contrapposizione all’individualismo
proprietario e competitivo, oltre al buon cuore e alla disponibilità a
riconoscere le alterità e a riconoscersi “esseri-in-comune” (Nancy, 1992), parti
di una rete di relazioni umane e più-che-umane, serve anche una capacità di
iniziativa individuale e collettiva. Buona volontà e fatica relazionale,
attività politica, come quella che mosse i contadini servi della gleba che si
ribellarono alla schiavitù del feudo e quella dei frati che dettero vita ai
monasteri per sottrarsi alle prepotenze dei principi vassalli. Così come quella
dei pirati che si appropriarono di isole “libere” atlantiche per farci le
proprie basi logistiche e sperimentare le prime forme di democrazia diretta.
Poco conta se non sempre gli esiti finali non si rivelarono coerenti con i
desideri iniziali. Il bello della storia è la sua imprevedibilità. Avvicinandoci
ai nostri tempi industrializzati pensiamo alla forza visionaria dei socialisti
che fondarono i falansteri ottocenteschi, dei contadini dei villaggi indiani
gandhiani, degli ebrei dei primi kibbutz semi autarchici e di innumerevoli altri
tentativi di instaurare sistemi di autodeterminazione e autogoverno locale. Fino
ad arrivare alle Giunte del buon governo in Chiapas e alle Comuni del Rojava
(nella parte monografica il lettore troverà degli approfondimenti).
Aperte o chiuse
Si può dire che il mondo reale, al fondo, sia ancora fatto di comunità. «La
comunità è il luogo stesso della nostra esistenza» – scrive Annamaria Vitale, in
Enigma della comunità, in questo stesso fascicolo (a PAG.XXX). Pure se stressate
dall’incedere delle varie ondate della mondializzazione capitalista, appena si
gratta sotto le mappe geopolitiche, si scoprono in filigrana persistenze
interessanti e potenziali soggettività trasformative. Lo straordinario lavoro di
Massimo Angelini, che riportiamo in questi Quaderni (Angelini, 2023), ci mostra
una mappa d’Italia a patchwork, festosa, composta di tante “màtrie” i cui
confini porosi intrecciano più dimensioni territoriali e culturali.
Certo è che piccole e grandi esperienze di resistenza sono state spazzate via
dal rullo compressore dell’economia di mercato globalista e dall’ideologia
opposta a quella comunitarista: l’individualismo proprietario. Anch’esso, però,
paradossalmente, attinge la propria legittimità ad una certa idea (falsata)
comunità; una comunità di individui che non mettono nulla in comune e che non
hanno nulla in comune se non l’interesse di difendere la loro individualità
egoistica.
Disgraziatamente, infatti, ci sono altri possibili riferimenti etimologici che
cambiano la semantica della parola comunità: cum-moenia, che fa riferimento a
mura e a recinti, e cum–munia, doveri, vincoli e obblighi. La questione, quindi,
si complica e fa della comunità una parola ameba (come ebbe a dire Illich a
proposito della parola “vita”). Nel senso comune contemporaneo, infatti, e nelle
proposte politiche dei movimenti che vanno per la maggiore, non sembra esserci
più posto per un’idea di comunità solidale e inclusiva. Prevalgono le identità
escludenti, disciplinanti. Una comunità può crearsi anche da bisogni egoistici
di individui “estraniati” dai contesti naturali e umani della vita – direbbe
Marx. Nell’“ecosistema biocapitalista” le istituzioni del capitale (l’impresa,
il mercato e i relativi apparati statali) hanno bisogno di creare a loro
sostegno aggregati di individui atomizzati accomunati da idealità astratte e da
interessi corporativi. Per questa ragione il sistema dominante è molto impegnato
nell’iniettare nella società forti dosi di ideologia identitaria, suprematista,
patriottica, maschilista, classista, razzista.
In definitiva, l’ampiezza del significato comunemente attribuito al termine
comunità – una fragile costellazione semantica che incarna concetti diversi,
persino opposti – è alla base della sua potenza retorica; capace di evocare sia
ambienti familiari caldi e psicologicamente rassicuranti, confort zone di
prossimità, sia stirpi primitive armate pronte ad immolarsi in battaglie
esistenziali. La comunità è fatta di materia rovente, poiché gli immaginari di
comunità possono suscitare passioni molto potenti e dare corpo a normative (jus
cordis) contrastanti. Insomma, la nozione di comunità contiene notevoli
ambiguità di senso e deve quindi essere usata con modi garbati e intenti
sinceri. Serve buona fede nell’uso delle parole per riuscire ad usare un
vocabolario comune.
L’ordine comunitario è performante, finisce per assegnare alle persone che ne
fanno parte un’identità sociale, compiti, mansioni e ruoli gerarchici specifici,
personalmente impegnativi, spesso totalizzanti. È un’arma di integrazione e
coesione degli individui nell’ordine sociale. Per tale motivo l’idea di comunità
costituisce inevitabilmente uno dei principali campi di battaglia della
politica.
A ben vedere si tratta di una questione sempre presente nel definirsi delle
relazioni umane, profondamente radicata nelle tradizioni culturali, nei miti
delle origini, nelle suggestioni religiose e nelle utopie politiche anche nella
razionalissima modernità occidentale. Al fondo, il pensiero politico e le
relative sociologie di ogni tempo, si sono sempre dovuti confrontare con l’idea
di comunità nel tratteggiare quale dovrebbe essere la “buona società”. O, se si
preferisce invertire l’ordine dei fattori, la politica ha dovuto plasmare l’idea
di comunità per ottenere una base sociale su cui fondare il consenso e
legittimare le sue istituzioni. È l’adesione ad una comunità che conduce degli
individui – uguali alla nascita e autonomi in potenza – ad accettare
ordinamenti, ruoli e funzioni sociali predefiniti: liberi o servi, pater
famiglia o mogli, bianchi o razzializzati, possidenti o proletari, nativi o
immigrati, sudditi o cittadini4.
Gli esiti li abbiamo sotto gli occhi, e non sono molto soddisfacenti.
Per diventare “atto sociale”, per essere civitas, ovvero un sistema di
regolazione dei comportamenti individuali, la comunità ha bisogno di creare e
condividere proprie istituzioni e stabilire norme cogenti. Pensiamo all’ordine
patriarcale, al suo gigantesco potere ordinamentale trasversale, simbolico e
fattuale5. Pensiamo all’invenzione dello stato-nazione che ha accompagnato la
rivoluzione industriale assecondandone le esigenze: accumulazione indefessa di
capitali, sfruttamento senza impedimenti di una popolazione in rapido aumento ed
estrazione di risorse naturali senza limiti6.
Lo stato nazionale ha declinato l’idea di comunità in identità patriottica
aprendo la strada alle tragedie del Novecento. Ma nemmeno due guerre mondiali
sono servite ad elaborare genocidi ed ecocidi perpetrati in nome della
superiorità di un popolo e delle loro nazioni. Tutt’altro! La logica identitaria
crea contrapposizioni e ostilità e ci ha portato dentro un nuovo abisso: il
genocidio di Gaza, le 56 guerre in corso (mai così tante dalla fine della
Seconda guerra mondiale), il ReArm europeo, la sfida alla Cina.
Dalla globalizzazione al protezionismo
Non sappiamo se la policrisi (“polycrise”) (Morin, 1993), multifattoriale e
multidimensionale, che attraversa la nostra civiltà avrà conseguenze ancora più
catastrofiche di quelle che miliardi di persone stanno già subendo. Temiamo di
sì. Ciò che è certo è che il ciclo neoliberale del capitalismo (iniziato mezzo
secolo fa) ha accelerato in modo spettacolare i processi di degrado delle
condizioni di abitabilità del pianeta (la crisi climatica ne è il termometro e
la riduzione dello spazio vitale per le specie viventi, umanità compresa, né è
l’esito) e acuito gli squilibri sociali (le migrazioni sono il sintomo
dell’inceppamento del meccanismo della crescita e del progresso).
Insostenibilità ecologica e insopportabilità morale procedono di pari passo. Le
timide, contraddittorie politiche di regolazione internazionale si sono rivelate
fallimentari. Immense concentrazioni di ricchezze monopoliste e il saccheggio
delle risorse naturali (estrattivismo e predazione neocoloniale; ecocidio e
epistemicidio come forma di cancellazione dell’identità e delle culture delle
popolazioni marginalizzate, vedi Mario Pansera a pag XXXin questo fascicolo)
precipitano il progetto di mondializzazione occidentale in un regime oligarchico
neofeudale alimentato dalle rendite finanziarie, minerarie e fondiarie. L’ordine
politico democratico liberale non è più in grado di intervenire sui processi di
formazione e di distribuzione del valore, garantiti ora solo dall’uso delle
forze militari dispiegate sul terreno. Siamo passati dal welfare al warfare7.
Dalle democrazie alle postdemocrazie autoritarie. Nemmeno la fede
tecno-ottimista ci viene in aiuto. Le “nuove tecnologie” si sono rivelate una
turbina che fa girare il sistema economico prosciugando il Sud globale,
impoverendo i ceti medi dell’ex Primo mondo e arricchendo sfacciatamente una
ristretta élite tecnocratica di super ricchi e il loro giro di lacchè
guerrafondai annidati nei grandi network e nelle aule parlamentari.
Certo è che la declamata globalizzazione liberista che, deregolando il libero
scambio di merci e capitali avrebbe allargato la torta del valore della
ricchezza sociale complessiva, ha fallito8. La marea è cresciuta, ma non tutte
le barche nel porto non si sono alzate, molte sono andate a fondo. Se ora, in
tempo di risacca, la deglobalizzazione appare una inevitabile necessità
(re-shoring, downsizing) , le soluzioni che si prospettano sono peggiori del
male. L’establishment spera nella ripresa dei margini di profittabilità delle
imprese attraverso politiche protezionistiche, scaricando sui soliti “paesi
terzi”, attraverso i dazi, i trucchi della finanza e delle valute, i costi per
sussidiare nuovi posti di lavoro nell’ex Primo mondo.
Fallita la globalizzazione economica e il cosmopolitismo elitario del tardo
capitalismo9, il delirio di potenza degli stati neocoloniali e imperiali (Make
America Great Again, American First, Prima gli italiani, Prima i veneti… prima i
miei amici) passa attraverso la somministrazione di grosse dosi di narrazioni
nativiste e la ricreazione di un’ideologia etno-nazionalista, xenofoba,
populista, revanscista, suprematista e sovranista. Una ideologia pericolosa
molto contagiosa, facile da attecchire in ogni “piccola patria”, in ogni contea,
città… condominio10. L’esito del referendum dello scorso 8 e 9 giugno in Italia
sul quesito sulla cittadinanza è inquietante. Una parte di coloro che pure sono
andati a votare (solo il 30% degli aventi diritto, la parte probabilmente più
politicizzata e orientata a sinistra) hanno differenziato il loro voto marcando
una ostilità verso l’allargamento dell’inclusione dei cittadini stranieri che
risiedono legalmente. “Non sono razzista, ma…” gli stranieri è meglio che stiano
lontani!
La questione che si pone ora, urgentemente, è immaginare una fuoriuscita dalla
crisi del progetto della globalizzazione neoliberale proponendo un’idea di
decentralizzazione e riterritorializzazione del sistema economico senza cadere
dalla padella alla brace dell’identarismo neonazionalista e del riarmo degli
stati nazionali organizzati nei loro sistemi di alleanze intrecciati e mobili.
Avvicinare i luoghi della produzione a quelli del consumo, accorciare le filiere
produttive dei beni lungo cui viene stabilito il loro valore commerciale,
rendere tracciabile l’intero processo e sottoporlo ad un controllo sia sul piano
sociale che ecologico, tutto ciò dovrebbe diventare un imperativo democratico
per chiunque. La sfida della responsabilità sociale e ambientale delle imprese
(i famosi indicatori ESG, Environmental, Social and Governance) andrebbe presa
sul serio e andrebbe preteso il suo rispetto. Bisognerebbe chiedere conto degli
Obiettivi dello sviluppo sostenibile lanciati dall’Onu dieci anni fa e
interrogarsi sulle ragioni del loro pressoché totale fallimento. Anche la sfida
lanciata dai BRICS+ con il loro manifesto “multipolare” dovrebbe essere presa
sul serio, verificata sul campo a partire da cosa sta accadendo nel continente
africano.
Dal canto nostro, dei movimenti per la giustizia sociale ed ambientale, dovremmo
tornare ad osare una proposta radicale di “nuovo ordine mondiale” disarmato,
privo di polarità, senza egemonie, senza sistemi di comando gerarchici. Un’idea
di economia al di là del dispotismo del mercato, oltre l’imperativo della
crescita dei tassi di profitto e dei rendimenti dei capitali. Un’economia
postcapitalista e un ordinamento sociale oltre la dominazione degli stati.
Un quarto di secolo fa a Seattle, poi a Porto Alegre e a Genova, i movimenti
sociali avevano visto giusto e lungo. Teamsters (lavoratori sindacalizzati) e
Turlies (attivisti ambientalisti) si erano uniti contro le istituzioni
finanziarie internazionali, contro il debito usato per schiacciare e asservire i
poveri del Sud globale, contro la delocalizzazione degli impianti industriali
nocivi e l’esternalizzazione dei danni ambientali, contro l’iniquità e la
violenza del sistema di potere. Ma abbiamo dovuto constatare che non basta
essere dalla parte del vero e del giusto per avere ragione. Né i panel degli
scienziati, né le voci delle nuove generazioni, né i moniti di un papa venuto
“dalla fine del mondo” sono bastati a modificare la traiettoria del business as
usual. Oltre la verità scientifica e l’indignazione morale è necessario riuscire
a proporre una visione del mondo alternativa, desiderabile, credibile,
realizzabile.
Non a caso molte delle innovazioni più interessanti nel percorso di transizione
ecologica e di critica al modello di sviluppo si stanno realizzando proprio in
dimensioni comunitarie. Si pensi alle comunità energetiche dove, insieme alla
finalità di contribuire alla decarbonizzazione, si diffonde una nuova
consapevolezza circa l’importanza dell’energia e spesso anche una nuova
sensibilità sociale. Oppure alle molte esperienze realizzate nel campo
dell’economia solidale, che anch’esse mettono insieme obiettivi funzionali
immediati (ad esempio cibo migliore e salvaguardia dell’ambiente) con finalità
di tipo sociale e politico. In tutte queste situazioni, la possibilità di
identificarsi con un collettivo a cui si attribuisce importanza anche dal punto
di vista affettivo rappresenta per l’individuo una potente spinta motivazionale,
molto efficace per favorire il cambiamento di atteggiamenti e comportamenti.
L’alternativa delle comunità trasformative
Da alcuni anni un gruppo di discussione attivato dalla Associazione per la
decrescita sta lavorando per delineare un modello idealtipico di una società
capace di autosostenersi, liberata dai mercati di esportazione, orientata alla
sussistenza e all’autonomiai11.
L’idea fondamentale è che le comunità (commons, comunalità, comunanze,
collettività) vengano riconosciute come le unità di base costituenti l’intera
intelaiatura sociale (il “comune”, nel linguaggio di Hardt e Negri, 2010):
culturale, economica, politica-istituzionale. Secondo Nick Deyer-Whiteforf,
inventore del termine “commonism”12, i commons dovrebbero essere considerati
come «la molecola principale di una società al di là del capitalismo» (Esteva,
2013). Per il documento del gruppo di discussione della decrescita la
reinvenzione delle comunità costituisce una proposta politica non solo “oltre il
capitalismo” nella sua mera struttura economica, ma anche oltre l’intero
progetto della Modernità occidentale, una particolare forma di civilizzazione
che ha come obiettivo l’annientamento delle relazioni umane che legano tra loro
gli individui. E, probabilmente, non basta ancora, poiché i presupposti su cui
si fondano le strutture di potere della Modernità occidentale e del capitalismo
si trovano ancora più in profondità nell’antropocentrismo patriarcale. Come
dicono i movimenti femministi, andrebbero posti in discussione non 500, ma gli
ultimi 5mila anni della storia umana.
La questione che si pone, quindi, è se le nuove nuove/antiche idee di comunità,
comunalità, comunanze, commons, comuni (al femminile)… potrebbero costituire le
coordinate della società del futuro, rimpiazzare le grandi narrazioni
ideologiche del progresso e dello sviluppo e gli strumenti tecnologici
introdotti dall’industrialismo che accelerano l’entropia. Vi sono molte tracce
per sostenere questa ardita tesi. Molte esperienze comunitarie che sorgono in
varie parti del mondo riescono a ritagliare per sé economie semi indipendenti,
sociali e solidali, parallele e, nel limite del possibile, autonome rispetto ai
circuiti del mercato. In esse è possibile scorgere i germogli di nuove
istituzioni autodeterminate, oltre l’imperativo della crescita e l’opprimente
burocrazia statale, audacemente post-capitaliste, post nazionaliste,
post-coloniali e post patriarcali. Il pensiero va immediatamente a regimi
fondiari indigeni dell’ejido spagnolo e messicano, ai villaggi contadini
indiani, alle proprietà indivise africane, ma anche ai demani collettivi
sopravvissuti all’avvento delle rivoluzioni proprietarie borghesi in Europa.
Considerati relitti premoderni dalle culture progressiste e sviluppiste,
scopriamo (non da oggi13) che lo stesso Karl Marx considerava le comunità di
villaggio russe (obscina) gestite dal mir (assemblea tradizionale simile al
consiglio degli anziani) una formazione con un carattere comunistico. Il lavoro
di Kohei Saito14 ha aperto delle prospettive feconde per un incontro tra culture
socialiste ed ecologiste nel loro punto più avanzato: il comunismo e la
decrescita.
Ad una certa idea di comunità corrisponde una certa idea di buen vivir, ovvero
una società liberata dalla dittatura della crescita del profitto e
dell’accumulazione, capace di condividere in modo equo e sostenibile (giustizia
ambientale e sociale) la vita sul pianeta (i beni e i servizi ecosistemici).
Penso, quindi, che le comunità ancorate alla dimensione territoriale locale
(bioregioni, villaggi, città di città, etc., etc.) siano «lo spazio geografico
al di qua dei sistemi ufficiali di ordinamento» (Angelini, 2023), l’unica
risposta politica (un autogoverno responsabile, eticamente fondato) alla
catastrofe in atto (biocidio, ecocidio, genocidio…).
Niente delega
Ci si obietterà che si tratta di ingenue utopie. Peggio, pericolose nostalgie
premoderne. Fughe dalla realtà e dall’impegno politico e sociale necessario qui
ed ora. Ci si dirà che in tempo di catastrofi ambientali e di guerra, in un
momento in cui le cancellerie degli stati sono impegnate a stampare titoli di
credito per produrre armi, a richiamare riservisti, ad esercitare le popolazioni
al combattimento fin nelle scuole e a creare il panico tramite giornali e social
contro l’invasione degli immigrati, dei russi, dei cinesi… la priorità dovrebbe
essere fermare la macchina militare. E basta. È certamente vero che di fronte
alle devastazioni in atto servirebbe un pensiero e una politica mondiale comune
e processi decisionali rapidi e universali. Servirebbero istituzioni
sovranazionali autorevoli e forti in grado di imporre quantomeno il rispetto dei
trattati esistenti contro la proliferazione delle armi nucleari e
batteriologiche, l’attuazione dei protocolli contro il cambiamento climatico, il
rispetto delle convenzioni sui diritti umani, la conservazione della
biodiversità, degli oceani, i protocolli sulla prevenzione dalle pandemie e
molti altri accordi transnazionali che pure sono stati sottoscritti. Ma
appellarsi alle organizzazioni mondiali senza chiedersi perché lo stesso Onu sia
sotto schiaffo, umiliato e sfiduciato dagli stati che lo hanno creato, è la
peggiore delle illusioni; la delusione è sicura. La questione della pace, come
quella ecologica, come quella della giustizia sociale non saranno mai affrontate
se la loro soluzione continuerà ad essere delegata ad organismi transnazionali
interstatali. Si tratta di una vera e propria trappola di remissione di
responsabilità in cui cadono gli stessi movimenti pacifisti ed ambientalisti
quando fanno affidamento sull’ascolto dei “Capi di Stato e di Governo”, come se
avessero una sensibilità etica. Gli unici strumenti che conoscono con cui
esercitano il loro potere sono il denaro e le armi; accesso alle risorse e
sfruttamento del lavoro; supremazia e deterrenza. Ha esclamato una volta Greta
Thunberg: «Invece di affidarci alla speranza, cerchiamo l’azione. Allora, e solo
allora, la speranza arriverà».
Se le cose stanno così, se non vi sono scorciatoie attraverso cui raggiungere il
cambiamento e realizzare una società di vite liberate da ogni forma di dominio
di nascita, di classe, di genere, di specie allora il progetto politico della
creazione di un sistema di comunità territoriali capaci di autogovernarsi e di
relazionarsi tra loro alla pari può diventare la via più promettente ed efficace
da percorrere.
Nel rapporto tra locale e globale, tra “stock e flussi” (come direbbe Aldo
Bonomi, 2024) la dimensione locale dovrebbe prevalere come un vincolo
insuperabile. Potrebbe costituire quel rivoluzionario “freno d’emergenza”
auspicato da Walter Benjamin necessario a bloccare la folle corsa del treno
della crescita. Le mille resistenze locali all’uso privatistico dei beni comuni
potrebbero costituire tanti piccoli inciampi potenzialmente capaci di far
deragliare il treno della morte. Solo demercificando l’uso dei beni della terra
si potrà restituire valore alla vita. Nessuna forma di vita concreta, nessun
luogo del pianeta, nessuna popolazione può essere sacrificata in nome di
“interessi superiori” sovraordinati imposti in nome di un “progresso” che non è
per tutti, imposto con la violenza delle armi e del denaro. Il sistema dei
poteri va rovesciato e riportato al livello del suolo, luogo per luogo,
ecosistema per ecosistema, comunità per comunità. Solo se si dà valore ad ogni
singola forma di vita si capirà la follia della guerra così come di ogni altra
forma di violenza sulla natura. Il progetto della modernità occidentale ha
inteso la natura come risorsa e l’attività umana come mero strumento di
produzione di oggetti. Non sappiamo se la traiettoria del progetto di
civilizzazione occidentale sia sul punto del collasso e se questo trascinerà nel
baratro l’intera umanità, come è già accaduto con due guerre mondiali. Sappiamo
comunque che il nostro compito è quello di evitare tale eventualità, con ogni
mezzo. Non tutti possono permettersi di attendere, nella loro torre d’avorio,
l’esito della catastrofe per reagire.
Rimane aperto il quesito fondamentale sul piano politico: quali possono essere i
soggetti collettivi interessati, gli enti sociali trasformativi capaci di far
propria la proposta comunitarista, territorialista, municipalista,
convivialista…? Diverse ipotesi sono state da tempo affacciate da pensatori come
Murray Bookchin, Cornelius Castoriadis, Ivan Illich, Takis Fotopoulos, Gustavo
Esteva, Alberto Magnaghi, Raul Zibechi e non molti altri. La ricerca di “un”
nuovo soggetto storico trasversale, unificante, internazionale e universale –
capace di rimpiazzare quello incarnato un tempo nel proletariato e nella classe
dei lavoratori – ha riempito le teorie sociopolitiche contemporanee: Bruno
Latour ipotizza una “classe ecologista”. Altri un “biotariato”. Occupy Wall
Street il “99%”. Probabilmente sarà dal “Sud globale”, dai “naufraghi dello
sviluppo” (Latouche, 2017) che dovranno venire le migliori indicazioni anche per
noi.
(Ringrazio Bruno Mazzara per la revisione e i suggerimenti ricevuti)
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Riferimenti bibliografici
Accademy of Democratic Medernity, website: democraticmodernity.com.
Ash Amin, After Nativism: Belonging in an Age of Intolerance, Polity.
Massimo Angelini, La carta delle màtrie di un’altra Italia, Premessa alla guida
della seconda edizione, edizioni Temposospeso, Minceto di Ronco, Scrivia, 2023.
Filippo Barbera, Le piazze vuote. Ritrovare gli spazi della politica, Laterza,
2023.
Zygmunt Bauman, Voglia di comunità, Laterza 2001.
Giuseppe Barbiero, Ecologia affettiva, Mondadori, 2017.
Aldo Bonomi, Sul confine del margine. Tracce di comunità in itinere, Derive
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47.
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1 Vedi: Peter Linebaugh, The Magna Carta Manifesto, University of California
Press, 2008 e con Marcus Rediker, I ribelli dell’Atlantico. La storia perduta di
un’utopia libertaria, Feltrinelli, 2018; David Bollier, Creare nuove comunità in
comune-info: https://comune-info.net/creare-nuove-comunita/ 27 settembre 2017 e
con Silke Helfrich, The Wealth of the Commons. A World beyond Market & State,
The Commons Strategies Group, 2012; Gustavo Esteva, Nuovi ambiti di comunità.
Per una riflessione sui beni comuni, (titolo originario Commonism. Enclosing the
Enclosers, 2014), Voci di Abya Yala, a cura del gruppo camminardomandando
www.camminardomandando.wordpress.com; Ugo Mattei Ugo Mattei, Il benicomunismo e
i suoi nemici, Torino, Einaudi, 2015; Giuseppe Micciarelli , I beni Comuni e la
partecipazione democratica, https://www.academia.edu
2 Una nota personale. Questa passione per l’autogoverno e l’autogestione mi ha
portato a girare in lungo e in largo l’Italia collezionando “buone pratiche”,
divulgandole e organizzando anche viaggi di studio (vedi: 101 piccole
rivoluzioni, Altreconomia, 2015). Ciò mi ha permesso di conoscere concretamente
molte realtà locali e altre associazioni che hanno fatto di queste realtà il
loro campo di studio e di intervento politico. Penso alla Società dei
Territorialisti, fondata da Alberto Magnaghi, con l’Osservatorio su svariati
casi studio:
https://www.societadeiterritorialisti.it/2019/01/22/schede-gia-elaborate/ ).
Penso agli studi antropologici di Massimo Angelini, Un’altra Italia, 2021. Penso
alla rete sui beni comuni emergenti ad uso civico nata attorno alle esperienze
di Napoli e di Mondeggi. Penso alla associazione che riunisce i demani
collettivi (ex usi civici) e che fa capo al Centro studi di Trento. Penso alla
Ries (Rete italiana dell’economia solidale). Ma penso anche a gruppi che operano
nel campo dell’informazione come Comune, Italia che cambia, Salviamo il
paesaggio, e altri che hanno buoni archivi.
3 La tesi del darwinismo come sostegno dell’individualismo competitivo non è
vera, né rispetto agli scritti di Darwin né soprattutto nelle più moderne
riflessioni; è una distorsione del pensiero di Darwin. Soprattutto gli sviluppi
maturi dell’evoluzionismo hanno mostrato che il segreto della vita è proprio
l’organizzazione in unità complesse che hanno in definitiva una logica
comunitaria e di cura reciproca; valga per tutti il potente pensiero di Capra
(Vita e natura. Una visione sistemica); si può vedere in proposito anche il
quarto capitolo del bel libro di Giuseppe Barbiero Ecologia affettiva,
intitolato “Tutti per uno, uno per tutti”; ciò in particolare esaltato nella
specie umana, dove la cooperazione è la vera forza del successo adattivo.
4 Per una ottima ricostruzione del dibattito sulle funzioni performanti delle
comunità nel capitalismo rimando al volume di Marianna Esposito, Oikonomia: una
genealogia della comunità. Tönnies, Durkheim, Mauss. Mìmesis, 2011.
5 Penso sia significativo, per le esperienze straordinarie di autogoverno che
stanno conducendo le popolazioni curde, richiamare diffusamente alcune loro basi
teoriche elaborate da Abdullah Öcalan, in particolare per quanto riguarda il
patriarcato. «Nel neolitico la società sembra fosse più matricentrica, attorno
alla donna si era formato un ordine sociale comunitario, senza quelle gerarchie
che poi lentamente vennero introdotte. L’uomo cacciatore e lo sciamano, il
vecchio saggio, cominciarono a costruire il predominio maschile; sia la caccia
che la difesa del clan erano attività basate sull’uccidere, avevano una valenza
militare: qui comincia la cultura della guerra, tipicamente maschile. […].
Nell’elaborazione del Confederalismo Democratico, stato, famiglia, schiavismo,
capitalismo, colonialismo, sono tutti concetti che derivano dal patriarcato.
Nessuno può considerarsi veramente libero, se la donna non è libera. Liberare la
vita è possibile “uccidendo” l’uomo dominante; liberare la vita non è possibile
senza una radicale rivoluzione delle donne che cambi la mentalità e la vita
dell’uomo». Sul Confederalismo democratico (ed. Tabor), Vedi le pubblicazioni di
Academy of Democratic Modernity.
6 Rimaniamo nelle elaborazioni del Confederalismo democratico di Abdullah
Öcalan: «Lo Stato-nazione, spina dorsale della modernità capitalista, è
certamente la gabbia della società naturale. Esso addomestica la società in nome
del capitalismo e allontana la comunità dai suoi fondamenti naturali, mirando a
creare un’unica cultura nazionale, un’unica identità nazionale e una
cittadinanza omogenea. La cittadinanza della modernità non è altro che la
transizione dalla schiavitù privata a quella statale. (…) Il Nazionalismo è la
sua religione, la sua vera missione è il servizio allo Stato-nazione
virtualmente divino e alla sua visione ideologica che pervade tutte le aree
della società. Arti, scienze e consapevolezza sociale: nessuna di loro è
indipendente». Per approfondimenti vedi: Rete Kurdistan Italia
https://www.retekurdistan.it/ e UIKI – Ufficio Informazioni Kurdistan in Italia
http://uikionlus.org/
7 Come scrivemmo un anno fa:
https://quadernidelladecrescita.it/2024/05/06/che-fine-ha-fatto-leuropean-green-deal-dai-prati-verdi-al-riarmo/
8 Benoit Bréville, Un altro protezionismo è ancora possibile. Le Monde
Diplomatique, maggio 2015. L’autore ricorda la stagione degli accordi
multilaterali e regionali di libero scambio inaugurata con il NAFTA nel 1994
(per il Nordamerica). In tutto sono in vigore 373 accordi.
9 Rana Foroohar, La globalizzazione è finita, Fazi, 2025.
10 Ash Amin, After Nativism. Belonging in an Age of Intolerance , Polity Press,
2023.
11 Una prima stesura del documento fu presentata alla conferenza di Venezia 2022
e pubblicata dai Quaderni:
https://quadernidelladecrescita.it/2024/01/01/comunita-e-decrescita/
12 Sul significato di commonism vedi:
https://blog.p2pfoundation.net/the-concept-of-commonism-as-introduced-by-nick-dyer-witheford/2013/08/18.
Nick Deyer-Whiteforf ha partecipato ad un confronto su marxismo e decrescita
promosso dai Quaderni:
https://quadernidelladecrescita.it/2024/08/26/comunismo-della-decrescita/.
13 Mario Cenedese, Karl Marx: ripensamenti. Il modo di produzione asiatico e la
lettera a Vera Zasulič, in: La decrescita tra passato e futuro, a cura di P.
Cacciari e e A. Castagnola, Marotta & Cafiero, 2018..
14 Vedi la monografia su Marx e la decrescita nei Quaderni n. 3:
https://quadernidelladecrescita.it/numero-3/
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