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Il cohousing Le Case Franche: “Abitare con altre persone è una palestra di vita”
Le Case Franche è un progetto di cohousing in Romagna, che ha recentemente ospitato un convegno nazionale sull’abitare collaborativo ed è stato un nuovo punto di partenza per nuovi percorsi su questo tema. Come si può condividere uno spazio senza rinunciare alla propria libertà? Come può la relazione tra le persone diventare una forza generativa e non un ostacolo? A queste domande ha provato a rispondere il convegno nazionale “L’abitare collaborativo in Italia”, che si è tenuto il 18 maggio 2025 al cohousing Le Case Franche di Forlì. Una giornata intensa, partecipata da oltre cento persone provenienti da tutta Italia: realtà concrete di cohousing, ecovillaggi, social housing, ma anche ricercatrici, architetti, giovani, amministratori pubblici e attivatori di comunità. Le Case Franche di Forlì è un co-housing nato nel 2008 dal sogno condiviso di un gruppo di famiglie e architetti locali di creare un modo diverso di abitare, improntato alla sostenibilità ambientale e alla condivisione. Realizzato grazie alla costituzione di una cooperativa e al sostegno della Regione Emilia-Romagna, il progetto si è concretizzato in un piccolo villaggio di case in legno costruite secondo criteri di bioedilizia e ad alta efficienza energetica, prive di allacciamento al gas e alimentate da fonti rinnovabili. L’evento è stato costruito da una rete informale di realtà legate all’abitare collaborativo, con il sostegno di enti, cooperative e fondazioni locali. Italia Che Cambia ha accompagnato la giornata con il proprio lavoro di facilitazione e racconto, attraverso la presenza di Daniela Bartolini, presidente della Cooperativa Impresa Sociale Italia che cambia, che ha curato la moderazione. Non solo: eravamo lì anche con le nostre telecamere. Il video-racconto che trovate qui sotto restituisce volti, voci e temi emersi nel corso dell’evento. Parole che costruiscono comunità Se c’è un filo che attraversa questa rete di realtà appartenenti al mondo dell’abitare collaborativo è quello della fiducia. Non una fiducia ingenua, ma costruita nel tempo, spesso faticosamente, tra le pieghe della convivenza e delle sue inevitabili frizioni. Perché abitare collaborativo non significa soltanto vivere sotto lo stesso tetto: è un esercizio quotidiano di ascolto, cura, relazione. Cinzia Boniatti, del Cohousing Trentino, racconta bene questo aspetto, ricordando come l’abitare collaborativo non sia la semplice condivisione di spazi, ma un percorso in cui ci si mette in gioco, anche quando i processi si complicano. Roberto Ballarini, del Giardino dei Folli di Bologna, ha insistito su un altro punto centrale: progettare spazi comuni non basta, serve tempo, una cultura dell’ascolto, e la consapevolezza che la comunità è un organismo vivo, in continua evoluzione. E poi c’è chi, come Federico Palla dell’ecovillaggio Lumen, sposta ancora più in là la prospettiva, parlando di un abitare come scelta politica, capace di trasformare non solo chi lo vive, ma anche il territorio intorno. È una visione che ribalta le priorità: prima i legami, poi le case. In tutto questo, il ruolo della facilitazione emerge come elemento cruciale. Non una tecnica accessoria, ma una competenza chiave per far funzionare la convivenza. Daniela Bartolini, presidente della cooperativa Italia Che Cambia lo dice chiaramente: creare uno spazio dove tutte e tutti si sentano accolti, anche con i propri conflitti, è il primo passo per far nascere una comunità. Un momento del convegno a Le Case Franche con la proiezione di un tema centrale: il cohousing come antidoto all’isolamento e al disagio sociale. Un tema, mille declinazioni L’abitare collaborativo non è un modello unico né una ricetta replicabile. È una costellazione di esperienze che si parlano, si contaminano, a volte si contraddicono. Al convegno di Forlì, questa pluralità è emersa con forza: un mosaico di pratiche diverse, tutte tese a immaginare un modo più umano – e più collettivo – di vivere. Roberto Ballarini, con la sua esperienza nella Rete Buon Abitare, ha richiamato un’esigenza che attraversa molti gruppi: la necessità di figure che accompagnino i percorsi comunitari, tenendo insieme le dinamiche umane, oltre agli aspetti progettuali. Giovanni Paglia, assessore regionale alle politiche abitative, ha auspicato l’introduzione di una legge quadro che riconosca pienamente l’abitare collaborativo come forma abitativa legittima e tutelata. Proprio su questo, Federico Palla rilancia una prospettiva interessante: «Come coordinatore della rete europea Salus e segretario di un intergruppo parlamentare sulla Promozione della Salute, sto lavorando per riportare all’attenzione politica una proposta di legge sulle comunità intenzionali». La proposta – elaborata da Rete Salus insieme a Rive, Conacreis e la rete italiana cohousing – era già stata depositata in Parlamento nel 2020, senza però trovare seguito. Un momento del workshop dedicato alla facilitazione e ai giochi cooperativi durante il convegno “L’abitare collaborativo in Italia” al cohousing Le Case Franche. «Ora c’è la possibilità di rilanciarla, collegandola al tema dell’invecchiamento attivo su cui l’Unione Europea chiede risposte innovative. Potrebbe nascere un quadro normativo intergenerazionale davvero innovativo, che darebbe spazio all’iniziativa privata e locale, in accordo con i Comuni. Una cornice capace di accogliere soluzioni sartoriali, adatte a ogni territorio, dalla metropoli all’area rurale». Dal Comune di Forlì, l’assessora Angelica Sansavini ha sottolineato il valore sociale di queste pratiche, soffermandosi in particolare sul loro potenziale educativo: comunità che offrono ai più giovani un contesto relazionale ricco e condiviso, in cui crescere con uno sguardo collettivo sul mondo. Infine, anche dal mondo cooperativo arriva un appello chiaro. Pier Lorenzo Rossi, direttore generale di Confcooperative Emilia-Romagna, evidenzia il ruolo strategico delle cooperative nel sostenere modelli abitativi fondati su mutualismo e innovazione sociale. Mauro Neri, presidente di Confcooperative Romagna, insiste sulla necessità di un accompagnamento concreto ai gruppi nelle prime fasi, quando tutto è ancora fragile e indefinito. Un nodo di rete, un punto di partenza La sensazione è quella di toccare con mano qualcosa che spesso viene liquidato come utopia, ma che invece esiste, resiste, funziona. L’abitare collaborativo non è un sogno per pochi idealisti: è una risposta concreta a problemi che ci riguardano tutte e tutti. La crisi abitativa, l’isolamento sociale, l’inaccessibilità economica delle case, il bisogno profondo – e spesso inascoltato – di appartenere a una comunità. Cinzia Boniatti, Cristina Massano e Marianna Tebaldi al convegno nazionale L’abitare collaborativo in Italia davanti alla locandina dell’evento al cohousing Case Franche di Forlì. Tra le tante implicazioni in gioco ce n’è una che mi ha colpito più delle altre: la consapevolezza che la solitudine, oggi, è uno dei mali più gravi della nostra società. Lo ha detto chiaramente Federico Palla, citando studi scientifici che la collegano perfino a un aumento del rischio di morte. In un Paese che invecchia come l’Italia, in cui sempre più persone vivono da sole, il cohousing può diventare un antidoto potente, una forma concreta di cura reciproca. Al tempo stesso vi è un bisogno forte e urgente di strumenti, non solo di buone intenzioni. Servono competenze relazionali, percorsi di accompagnamento, capacità di affrontare i conflitti. In ogni intervento, anche quelli più tecnici, c’era sempre un ritorno alla relazione come chiave di tutto. L’abitare collaborativo non è un progetto edilizio: è una pratica sociale. Quello di Forlì è stato un punto di partenza, un nodo di rete, un momento in cui riconoscersi, farsi domande, condividere fatiche e visioni. Come dare rappresentanza nazionale a queste realtà? Come dialogare con le istituzioni senza snaturarsi? Come non dover ogni volta ripartire da zero? Domande che non sono rimaste sospese, ma hanno iniziato a prendere forma. Italia che Cambia continuerà a seguirle, perché in queste esperienze c’è molto più di un’alternativa abitativa. C’è un’altra idea di società. E forse anche un’altra idea di futuro. Articolo realizzato con il contributo di Le Case Franche   Italia che Cambia
Il blackout come rivelatore
IN QUESTI GIORNI TANTI E TANTE IN SPAGNA HANNO DISCUSSO SU COSA È ACCADUTO NELLA GIORNATA SENZA ELETTRICITÀ, MENTRE ISTITUZIONI E MEDIA GRIDAVANO DI RESTARE IN CASA E COMINCIAVANO A DIFFONDERE NOTIZIE CONTRASTANTI SULLE CAUSE. SECONDO AMADOR FERNÁNDEZ-SAVATER È EMERSA UN’ALTRA IDEA DEL MONDO unsplash.com -------------------------------------------------------------------------------- Caro J., mi chiedi cosa ho visto e sperimentato durante il blackout. Ti rispondo in modo rapido e conciso, basandomi sulle impressioni che ho registrato e sugli appunti delle conversazioni. Niente di definitivo, di molto solido, solo libere speculazioni per continuare a riflettere. Questo è ciò che ci consente questo intimo formato epistolare. Grazie alla passione di mia madre per le radio a transistor, ne ho trovato subito una in casa e ho potuto sintonizzarmi sulle notizie trasmesse su diversi canali, mentre tante persone erano “senza elettricità” a causa della mancanza di elettricità e di connessione a Internet. Di cosa parlavano i media? Naturalmente, fin dall’inizio, sono stati coinvolti nella lotta politica secondo il codice governo-opposizione che domina tutto: posizioni a priori e distribuzione delle colpe in base al fatto che si appoggi una parte o l’altra, una lettura dei fatti completamente strumentalizzata e faziosa, senza domande né riflessioni. Ma ciò che mi ha colpito di più, e questo per tutto il giorno, è stato il contrasto tra ciò che è stato ascoltato e ciò che io stesso ho potuto sperimentare direttamente durante le mie passeggiate nel quartiere. Dominava quella che potremmo chiamare l'”ipotesi Mad Max”: il caos della situazione non poteva che scatenare il panico e la guerra di tutti contro tutti, attraverso abusi (saccheggi, truffe) o menzogne (bufale, fake news). Le autorità hanno ripetutamente raccomandato di restare a casa e di attendere che la situazione tornasse alla normalità. Meno male che nessuno ci ha fatto caso! La gente si è mobilitata, come è accaduto in disastri ben più gravi, per essere lì, per aiutare, per collaborare. Certo, c’erano paura e incertezza, a seconda di come e dove si veniva colpiti e delle proprie capacità (più o meno vicini a casa, più o meno vicini ai propri cari, più o meno in grado di muoversi), ma ciò che gradualmente ha preso il sopravvento sulle strade è stato molto diverso da ciò che i media avevano previsto (e sperato). Vorrei sottolineare tre cose. Una festosa e gioiosa presa di possesso dello spazio pubblico, che a volte ha raggiunto anche un certo livello di autoregolamentazione del traffico in assenza di semafori (rallentando per stare attenti agli altri e facendo manovra). Le persone si riunivano per chiacchierare, divertirsi, coordinarsi e dare una mano. Una situazione molto diversa da quella causata dal Covid, quando la polizia controllava le strade e le persone restavano a casa. Un rilassamento generale del corpo collettivo, della tensione che genera panico, delle aspettative, dell’iperattività. Il tempo è diventato improvvisamente abbondante, senza l’ansia causata dall’interiorizzazione quotidiana degli obblighi di produttività e competizione. Sotto uno splendido sole primaverile, non c’era molto altro da fare se non camminare, leggere, condividere ed essere. Un piacere molto diverso dal godimento compulsivo del consumo. Una gentilezza insolita tra sconosciuti, una preoccupazione per gli altri e per il legame, un rinnovamento della “cortesia”, per usare le parole del nostro amico Bifo. Nei negozi e sui taxi si accettava credito, si prestava denaro a chi era nel bisogno e l’empatia (una parola molto usata, ma il senso è chiaro) era palpabile nell’aria. Questa apertura all’ignoto, questa ricerca di contatto, questo momento di cura collettiva è stata per me la parte più potente dell’esperienza del blackout. Una completa smentita dell’”ipotesi Mad Max” enunciata sopra. Una negazione del suo presupposto antropologico: la guerra di tutti contro tutti è l’elemento naturale degli esseri umani e solo un’autorità verticale può fermarla. Ciò non è accaduto, ciò che era stato dato per scontato e desiderato segretamente non è accaduto, Thanatos non è apparso, è emerso Eros. -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE QUESTO ARTICOLO DI CARLOS TAIBO: > Il collasso -------------------------------------------------------------------------------- Abbiamo parlato molto ultimamente dell’incapacità della “sinistra” – per citare coloro che desiderano e lavorano per il cambiamento sociale – di proporre un’idea diversa di bella vita, altre immagini di felicità oltre a quelle che il mercato ci presenta ogni giorno attraverso le sue mille applicazioni tecnologiche. Beh, direi che durante il blackout sono emerse per un attimo, a frammenti, delle contro-immagini di possibile felicità. O almeno, se parlare di felicità sembra eccessivo, di benessere, di godimento, di piacere. Non più solo privato, ma legato all’esperienza collettiva; non più conciliabile con lo stato di cose esistente, ma reso possibile dal suo radicale sconvolgimento. Accessibile solo ai più privilegiati? Se ne è parlato in questi giorni. Il blackout è stato romanticizzato come un tempo è avvenuto con il lockdown? È una visione che dovrebbe essere realistica e premonitrice, ma credo che finisca per essere triste e ri-vittimistica. Ciò significa che le classi lavoratrici soffrono più di chiunque altro per i disordini del meccanismo nel quale viviamo, perché sono legate ad esso dal nodo della precarietà. Ma i miei amici che vivono a Puente de Vallecas mi hanno raccontato, ad esempio, che i migranti hanno riempito le strade, i parchi e le piazze, senza paura e con gioia. Non potremmo considerare che tra coloro che consideriamo più deboli ci sono spesso più risorse per l’auto-organizzazione, più reti e connessioni, più capacità di saper fare con quello che c’è? Non siamo forse noi “bianchi privilegiati” i soggetti più deboli, quelli che dipendono maggiormente dalla vita di mercato e dalle sue applicazioni per ogni cosa? Non avremmo molto da imparare? La filosofa delle scienze naturali Vinciane Despret, fondamentalmente interessata al potenziale di cambiamento degli esseri umani, parla del nostro bisogno di nuove “proposizioni di esistenza”, nuove “profezie”. Come lei stessa cerca di dimostrare in ognuno dei suoi meravigliosi libri, gli esseri viventi sulla Terra, umani o non umani, non sono ciò che siamo noi, identici a noi stessi, ma dipendono sempre dalle circostanze, dalle opinioni e dalle descrizioni, dai procedimenti materiali. Non siamo ancora fatti e finiti, ma possiamo cambiare e trasformarci se qualcuno si rivolge a noi da una prospettiva diversa, da una differente proposta di esistenza, coinvolgendoci in altri dispositivi pratici. Che non presuppongono l’aggressività e la competizione, che non fanno appello alla paura e alla passività, ma piuttosto a ciò che ci coinvolge e ci tocca, alle nostre capacità di invenzione e di sorpresa, alle nostre facoltà di cooperazione. Ciò che è andato temporaneamente perduto in questi giorni è una certa descrizione di ciò che sono gli esseri umani e la vita di tutti i giorni, una versione della realtà che dice: “Le cose stanno semplicemente così”. Ciò che l’oscuramento ha rivelato per un attimo è stata un’altra idea del mondo, altre possibilità di esistenza. Non una “buona natura” nascosta nella vita di mercato che aspetta semplicemente di essere scatenata, ma altre potenzialità che devono essere attualizzate, realizzate, consumate. Questa sarebbe la vera sfida politica attuale. L’esperienza collettiva di quelle ore non è durato a lungo, ovviamente, ma ha rivelato qualcosa: abbiamo percepito qualcos’altro, fugacemente, che poi è svanito. Ma è sufficiente per dimostrare che qualcosa può esistere. -------------------------------------------------------------------------------- *Testo scritto grazie alla luce delle conversazioni con Andrés Timón, Javier Olmos, Rafael Sánchez-Mateos, Javier Bachiller, Raquel Mezquita, Aida Gómez Hernández, pubblicato su ctxt (traduzione di Comune) e qui con l’autorizzazione dell’autore. -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE QUESTO ARTICOLO DI A. GHEBREIGZIABIHER: > Blackout e comunità -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Il blackout come rivelatore proviene da Comune-info.
Blackout e comunità
IL POMERIGGIO SENZA ELETTRICITÀ PER MILIONI DI SPAGNOLI E PORTOGHESI HA RICORDATO A QUANTO SIAMO OVUNQUE DIPENDENTI DALL’ELETTRICITÀ. ESISTONO IN REALTÀ DIVERSE DIPENDENZE INTRECCIATE, QUELLA DAI COMBUSTIBILI FOSSILI, QUELLA DELLA TECNOLOGIE, QUELLA DAI SATELLITI. IN QUESTO ARTICOLO, ALESSANDRO GHEBREIGZIABIHER, REGISTA TEATRALE E SCRITTORE, RAGIONA SU QUELLE DIPENDENZE PRENDENDO SPUNTO DAGLI ANNI IN CUI HA LAVORATO IN UNA COMUNITÀ PER PERSONE CON PROBLEMI DI DIPENDENZA. “A PRESCINDERE DA CIÒ DA CUI SEI STATO DIPENDENTE E IN PARTE LO SEI ANCORA DENTRO, LA RISORSA PER RITROVARE UN EQUILIBRIO SANO E SOSTENIBILE SIAMO ANCORA NOI STESSI, LE NOSTRE CAPACITÀ INNATE, MA SOPRATTUTTO I NOSTRI SIMILI… – SCRIVE ALESSANDRO – L’UMANITÀ È L’ENERGIA RINNOVABILE CHE STIAMO TRASCURANDO DA SEMPRE, OVVERO SFRUTTANDO IN MODO CRUDELE, CORROMPENDOLA, TORTURANDOLA E FINENDO PER DISTRUGGERLA NEI MODI PIÙ DISPARATI… IL PARADOSSO È CHE PROPRIO NEI MOMENTI PEGGIORI DELLA VITA DI CHIUNQUE… LA RELAZIONE CON IL PROSSIMO RAPPRESENTA LA VERA ANCORA DI SALVEZZA…” Una piccola comunità aperta al mondo – Liberi Sogni – ha inaugurato in aprile Cascina Rapello, tra i Monti della Brianza. Dal 31 maggio al 2 giugno sarà il teatro naturale di Transizioni Fest. Sentire Conosce Agire: qui il programma completo e le informazioni per partecipare -------------------------------------------------------------------------------- Lo scorso lunedì in Spagna è accaduto un fatto di una gravità estrema: poco dopo mezzogiorno e in pochi secondi qualcosa ha improvvisamente causato un calo della frequenza al di sotto dei soliti 50 hertz. Risultato: un intero pomeriggio senza elettricità per milioni di persone nella quarta economia europea e nel vicino Portogallo. I tecnici di Red Eléctrica de España (REE), il gestore della rete, stanno lavorando contro il tempo per capire cosa abbia provocato tale incidente. La teoria iniziale avanzata martedì aveva individuato la causa in un incidente in due impianti fotovoltaici nel sud-ovest della penisola, ma meno di 24 ore dopo, il REE e l’Associazione del Settore Energetico di Valencia hanno escluso tale ipotesi, nonostante gli avvoltoi del petrolio nel mondo avessero già iniziato a lucrare sull’accaduto, per esempio con tempestive, quanto mai interessate dichiarazioni. Nondimeno, tale inquietante precedente mi ha spinto a domandarmi: quanto siamo dipendenti nel mondo dall’elettricità? Ed estendendo la ricerca, quali sono le altre maggiori fonti di sostentamento in senso lato senza le quali, da un istante all’altro, potremmo trovarci in simili drammatiche emergenze? -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE QUESTO ARTICOLO DI CARLOS TAIBO: > Il collasso -------------------------------------------------------------------------------- Per quanto riguarda l’energia elettrica, ben 7,2 miliardi di persone in tutto il mondo vivono connesse alla rete elettrica (dati 2022), mentre un rapporto del 2024 segnala che 1,18 miliardi ne sono prive, di norma nei Paesi più poveri. Per quanto concerne invece i combustibili fossili, ovvero carbone, petrolio e gas naturale, sempre dati del 2022 ci dicono che essi rappresentano l’82% del consumo energetico mondiale. In particolare, il petrolio corrisponde a un terzo del totale, mentre il carbone un quarto. E cosa dire dell’energia nucleare? Ebbene, essa fornisce attualmente circa il 9% dell’elettricità mondiale, grazie a circa 440 reattori nucleari. Garantisce circa un quarto dell’elettricità a basse emissioni di carbonio e ben oltre 50 Paesi la utilizzano tramite circa 220 reattori. Altra forma di dipendenza ampiamente diffusa è quella dalla tecnologia. In particolare, un totale di 5,64 miliardi di persone in tutto il mondo utilizzavano Internet all’inizio di aprile 2025, pari al 68,7% della popolazione mondiale. Il che vuol dire che i navigatori sono attualmente la maggioranza dell’umanità. Nel dettaglio, la maggior parte di costoro – il 95,9% – utilizza il telefono cellulare per essere online e i telefoni cellulari ora rappresentano il 62% del traffico web mondiale. Da cui, si evince l’enorme dipendenza che abbiamo dagli smartphone stessi. Infine, un’ulteriore cruciale dipendenza è quella che abbiamo dai satelliti. Essi hanno un impatto sulla nostra vita quotidiana in innumerevoli modi che spesso passano inosservati: con le previsioni del tempo, la navigazione in GPS, la comunicazione e la connettività di Internet e dei telefoni cellulari, la televisione e la radiodiffusione, le operazioni bancarie e finanziarie, la sorveglianza militare, il monitoraggio ambientale e la gestione dei disastri, l’agricoltura, la ricerca scientifica e molto altro. A invitarci a riflettere con estrema attenzione sull’evidente vulnerabilità di tale situazione a livello mondiale dovrebbe essere anche il fatto che il tratto comune di questi differenti tipi di dipendenza è che presentano tutti dei valori in crescente aumento. Sapete, ho avuto la fortuna e il privilegio nei primi anni di lavoro nei luoghi di cura di farmi le ossa in una comunità di recupero per ex tossicodipendenti. Una delle cose più interessanti e illuminanti, a mio modesto parere, è stato scoprire che il percorso di recupero di una persona che per un periodo significativo ha avuto una grave dipendenza da sostanze stupefacenti non si basa effettivamente su queste ultime. In parole povere, in comunità non si parla di droga, bensì di esseri umani. Al punto che potrebbe risultare assai utile a chiunque e anche nel mio caso direi che è stato vitale. Sono quasi certo che non sarei qui, oggi, senza quella preziosa, iniziale formazione. Ciò che voglio dire è che, a prescindere da ciò da cui sei stato dipendente e in parte lo sei ancora dentro, la risorsa per ritrovare un equilibrio sano e sostenibile siamo ancora noi stessi, le nostre capacità innate, ma soprattutto i nostri simili. Difatti, la parola chiave in questi contesti è sempre “il gruppo”. L’umanità è l’energia rinnovabile che stiamo trascurando da sempre, ovvero sfruttando in modo crudele, corrompendola, torturandola e finendo per distruggerla nei modi più disparati. Il paradosso è che proprio nei momenti peggiori della vita di chiunque, compresi gli attimi in cui le suddette fonti di sostegno vengono a mancare, la relazione con il prossimo rappresenta la vera ancora di salvezza. Come disse uno dei ragazzi che ho conosciuto in quegli anni, dovrebbe esserci una comunità per tutti anche fuori di qui… -------------------------------------------------------------------------------- Attore, regista e scrittore, Alessandro Ghebreigziabiher ha aderito alla campagna Partire dalla speranza e non dalla paura. Il suo ultimo libro è Specchi delle nostre brame (Ed. Bette). -------------------------------------------------------------------------------- Per ricevere la Newsletter di Alessandro Ghebreigziabiher -------------------------------------------------------------------------------- APPUNTAMENTI: > Transizioni fest -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Blackout e comunità proviene da Comune-info.
MILANO: LOTTA, AUTODETERMINAZIONE E COMUNITÀ. L’INIZIATIVA DELLE SECONDE GENERAZIONI AL CENTRO SOCIALE LAMBRETTA
Il prossimo 3 maggio 2025, il Centro Sociale Lambretta di Milano (Via Angelo Rizzola 13A) organizza un’iniziativa dedicata alle esperienze e alle lotte delle seconde generazioni in Italia. L’appuntamento è alle 14.30 con un grigliata sociale e a seguire dibattito e confronto. La collaborazione tra Immigrital – gruppo di giovani di origine migrante e operaia – e il Centro Sociale Lambretta per l’iniziativa di sabato 3 maggio nasce dalla ricerca di ambiti comuni dove potersi confrontare e analizzare la situazione delle seconde generazioni, un fenomeno ancora relativamente nuovo in Italia. Si tratta di una generazione che sconta ancora il prezzo di non veder riconosciuti i propri diritti. L’evento, fanno sapere gli organizzatori, mira a creare uno spazio di confronto, autocoscienza e, soprattutto, lotta. La “lotta” è ritenuto un concetto centrale – come spiegano ai microfoni di Radio Onda d’Urto, Raja del Lambretta e Elon di Immigrital – “sono anche le lotte quotidiane per essere accettati senza snaturarsi, per sfuggire allo sfruttamento nei lavori irregolari, per avere una casa in un paese dove la precarietà abitativa colpisce duramente, e nella continua costruzione della propria identità sociale e personale”. Accanto alla lotta, la “comunità” è vista come l’elemento necessario perché “l’emancipazione dalle microaggressioni quotidiane e dalla discriminazione passa necessariamente attraverso la costruzione di processi comunitari”. Presentiamo l’iniziativa ai microfoni di Radio Onda d’Urto con Raja del Centro Sociale Lambretta e Elon di Immigrital. Ascolta o scarica
Il medioevo prossimo venturo
-------------------------------------------------------------------------------- Foto: Casa delle agricolture di Castiglione d’Otranto, frazione di Andrano (Lecce), straordinaria esperienza nata per ripopolare le campagne, generare economie diverse, rafforzare i vincoli di comunità -------------------------------------------------------------------------------- Un passo del libro di Sergio Bettini su L’arte alla fine del mondo antico descrive un mondo che è difficile non riconoscere come simile a quello che stiamo vivendo. «Le funzioni politiche sono assunte da una burocrazia di stato; questo si accentua e si isola (precorrendo le corti bizantine e medievali), mentre le masse si fanno astensioniste (germe dell’anonimato popolare del Medioevo); tuttavia entro lo stato si formano nuovi nuclei sociali intorno alle diverse forme di attività (germe delle corporazioni medievali) e i latifondi, divenuti autarchici, preludono all’organizzazione di taluni grandi monasteri e dello stesso stato feudale». Se la concentrazione delle funzioni politiche nelle mani di una burocrazia statale, l’isolamento di questa dalla base popolare e l’astensionismo crescente delle masse si attagliano perfettamente alla nostra situazione storica, è sufficiente aggiornare i termini delle righe successive per riconoscere anche qui qualcosa di familiare. Ai grandi latifondi evocati da Bettini corrispondono oggi gruppi economici e sociali che agiscono in modo sempre più autarchico, perseguendo una logica del tutto svincolata dagli interessi della collettività e ai nuclei sociali che si formano dentro lo stato corrispondono non solo le lobbies che operano all’interno delle burocrazie statali, ma anche l’incorporazione nelle funzioni governamentali di intere categorie professionali, come in anni recenti è avvenuto per i medici. Il libro di Bettini è del 1948. Nel 1971 usciva il libro di Roberto Vacca Il medioevo prossimo venturo, in cui l’autore prevedeva un’evoluzione catastrofica dei paesi più avanzati, che non sarebbero stati più in grado di risolvere i problemi legati alla produzione e distribuzione dell’energia, ai trasporti, all’approvvigionamento di acqua, allo smaltimento dei rifiuti e al trattamento dell’informazione. Se Vacca poteva scrivere che gli annunci di catastrofe imminenti erano in quegli anni così numerosi da aver prodotto a una vera e propria letteratura «rovinografica», oggi le previsioni apocalittiche, in particolare quelle legate al clima, si sono almeno raddoppiate. Anche se i disastri – come quelli prodotti all’energia nucleare – sono, se non probabili, certamente possibili – la degradazione dei sistemi in cui viviamo è pensabile senza che questa assuma necessariamente la forma di una catastrofe. Lo sfacelo politico, economico e spirituale dei paesi europei è, ad esempio, oggi evidente anche se essi continueranno per qualche tempo a sopravvivere. Come pensare allora l’avvento di un nuovo medioevo? In che modo l’astensionismo politico che vediamo intorno a noi potrà trasformarsi in un «anonimato popolare» capace di inventare nuove e anonime forme di espressione e di vita? E in che modo l’isolamento delle burocrazie statali e il diffondersi di potentati autarchici potrà preludere all’apparizione di fenomeni simili ai grandi monasteri, in cui l’esodo dalla società esistente produce nuove forme di comunità? È certo che questo potrà avvenire solo se un numero inizialmente esiguo, ma crescente di individui saprà leggere nelle forme politiche che si dissolvono il presagio di nuove o più antiche forme di vita. -------------------------------------------------------------------------------- Pubblicato su Quodlibet (qui con l’autorizzazione della casa editrice). Tra gli ultimi libri di Giorgio Agamben: Quaderni. Volume I (2024), Horkos. Il sacramento del linguaggio (2023), Categorie italiane (2021). -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Il medioevo prossimo venturo proviene da Comune-info.
Quello che accade fuori ci riguarda
LA SPARATORIA CON TRE MORTI A MONREALE INTERROGA TUTTI IN MOLTE CITTÀ. È QUALCOSA CHE TRAVOLGE IL MANTRA INUTILE DI PIÙ ESERCITO NELLE STRADE, PERCHÉ PARTE DEL PROBLEMA DA CUI VOGLIAMO DIFENDERCI SIAMO NOI STESSI. È UNA TEMPESTA CHE SI SCAGLIA CONTRO I FORTINI DELLE NOSTRE INDIVIDUALITÀ NEI QUALI CI ILLUDIAMO DI PENSARE CHE CIÒ CHE ACCADE FUORI NON CI RIGUARDI. È UN GRIDO DI TUTTE LE MARGINALITÀ CHE ABBIAMO ALLONTANATO. “OCCORRE RITROVARE LE PAROLE PER TESSERE NUOVE STORIE – SCRIVE DAVIDE FICARRA -, PER TORNARE A RACCONTARCI TUTTI SENZA LASCIARE NESSUNO FUORI, NEANCHE IL LUPO CATTIVO…” unsplash.com -------------------------------------------------------------------------------- C’è un filo che si è spezzato, il filo che ci tiene insieme, quel legame che chiamiamo umanità e che ci spinge a soccorrere chi ha bisogno di aiuto, che ci ricorda che la vita, la nostra, quella dei nostri cari, quella di tutti è sacra. Questo filo rotto ci interroga tutti, ci parla del nostro fallimento, di una società allo sbando, di una ferocia priva di senso, di una criminalità psicotica priva di progetto. Si invocano più poliziotti, più carabinieri, l’esercito ed il coprifuoco, ma parte del problema da cui vogliamo difenderci siamo noi stessi. Siamo noi che abbiamo smarrito il senso della comunità, siamo noi che ci siamo rinchiusi nei fortini delle nostre individualità ritagliandoci ristretti orizzonti personali, pensando che quello che accade fuori non ci riguardi. Tutte le marginalità che abbiamo allontanato adesso sono una massa enorme, un buco nero di protervia insensata e violenza gratuita, un ammasso che dobbiamo impegnarci a sfoltire e disarmare occupandocene. A Monreale è morto anche un pezzo di Palermo, e oltre al dolore per le giovani vite spezzate, per questa strage senza ragioni, per il senso di vuoto in cui i fatti di sabato notte ci hanno sprofondati, occorre ritrovare le parole per tessere nuove storie, per tornare a raccontarci tutti senza lasciare nessuno fuori, neanche il lupo cattivo. Mi aspettavo che il sindaco Roberto Lagalla dichiarasse il lutto cittadino anche a Palermo. -------------------------------------------------------------------------------- Davide Ficarra vive e lavora a Palermo. Coautore dei soggetti di diversi documentari, ha scritto il romanzo Milza Blues (Navarra ed.) ambientato nella Palermo anni Settanta. Cura con altri il blog Bar Pickwick Palermo e l’esperienza sociale che germoglia dietro. -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Quello che accade fuori ci riguarda proviene da Comune-info.