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La comunità di Orta di Atella accende l’Albero della Pace
Un intreccio di mani, colori e testimonianze francescane trasforma un albero all’uncinetto in un messaggio collettivo di dialogo e solidarietà. A Orta di Atella, nell’Agro Aversano, la piazza del Santuario di San Salvatore da Horta si è trasformata in un luogo di incontro e di luce grazie all’accensione dell’Albero della Pace. L’installazione, alta circa dodici metri, è interamente ricoperta da una fitta trama di centrini all’uncinetto realizzati da quaranta donne del laboratorio parrocchiale. Da luglio queste volontarie hanno intrecciato più di dodicimila mattonelle colorate, lavorando insieme settimana dopo settimana e trasformando la semplice manualità in un gesto simbolico capace di parlare alla comunità. Il progetto è nato all’interno dell’Ordine Francescano Secolare, guidato localmente da Angelo Cervone, che ha voluto dare vita a un’iniziativa capace di trasmettere concretamente un messaggio di pace. L’idea ha trovato immediatamente sostegno nella famiglia francescana del Santuario, grazie alla vicinanza costante di fra Carlo D’Amodio, Ministro Provinciale dei Frati Minori di Napoli e Caserta, e di fra Agostino Esposito. Il contributo di numerosi volontari ha reso possibile ogni fase del lavoro, dalla cura degli spazi all’assemblaggio della struttura pensata appositamente per accogliere e sostenere il grande albero. La progettazione è stata affidata all’architetto Pasquale D’Ambrosio, che ha messo gratuitamente a disposizione la propria competenza per realizzare un’opera destinata a restare nella memoria del territorio. La cerimonia di accensione si è aperta con la celebrazione eucaristica presieduta dal vescovo di Aversa, monsignor Angelo Spinillo. Le sue parole hanno richiamato il senso di un Natale che invita a riscoprire il valore della collaborazione e dell’ascolto reciproco. Subito dopo, la piazza si è riempita di voci e di partecipazione. Oltre agli interventi dei promotori, hanno portato la loro testimonianza alcuni giovani palestinesi, presenti per raccontare la propria esperienza e ricordare quanto il bisogno di pace continui a essere urgente in molte parti del mondo. La loro presenza, in un contesto di festa comunitaria, ha dato all’evento una dimensione ancora più ampia, capace di oltrepassare i confini locali. Uno degli aspetti più significativi del progetto riguarda ciò che accadrà dopo le festività. I centrini che oggi rivestono l’albero saranno smontati e trasformati in coperte destinate alle persone senza dimora attraverso la rete caritativa della diocesi. La cura paziente con cui ogni mattonella è stata realizzata continuerà così a portare calore a chi vive situazioni di fragilità. È un modo per far sì che l’albero non rimanga soltanto un’opera decorativa, ma un gesto concreto di solidarietà. Per gli abitanti di Orta di Atella questo progetto rappresenta anche un invito a guardare con occhi nuovi il proprio centro storico, spesso percepito come dimenticato o poco vissuto. L’albero, con la sua superficie di colori intrecciati, diventa una metafora di ciò che può accadere quando una comunità decide di unirsi. Ogni centrino porta con sé una storia, una mano, una scelta di esserci. E insieme danno forma a un’immagine di bellezza che ricuce, anima e restituisce dignità allo spazio pubblico. L’Albero della Pace non è soltanto un simbolo natalizio. È il risultato di un lavoro condiviso che ha coinvolto donne, religiosi, professionisti, giovani e famiglie. È il segno che anche un filo di lana può diventare messaggio, quando viene offerto con gratuità e trasformato attraverso l’incontro. In un tempo segnato da conflitti e da distanze, l’opera realizzata a Orta di Atella ricorda che la pace non nasce dai gesti straordinari, ma dalla capacità di intrecciare differenze, storie e speranze. In questo intreccio, la comunità ha trovato una voce. E quella voce, attraverso i fili colorati dell’albero, continua a dire che la pace è una possibilità reale quando nasce dal basso, dalle mani e dal cuore delle persone. Lavorazione e montaggio dell’albero. Lucia Montanaro
Sui nuovi mondi
SI POTREBBE COMINCIARE DA QUELLE COMUNITÀ CHE, TRA INEVITABILI FRAGILITÀ, COSTRUISCONO RELAZIONI SOCIALI DIVERSE NELLA VITA DI OGNI GIORNO, NEI PICCOLI PAESI COME NELLE CITTÀ. ENZO SCANDURRA HA INSEGNATO URBANISTICA PER OLTRE QUARANT’ANNI: IL SUO INVITO A METTERE AL CENTRO IL FARE DI QUELLE ESPERIENZE CHE CERCANO NUOVI MONDI TRA MUTUO SOCCORSO E DEMOCRAZIA COMUNITARIA, È ACCOMPAGNATO DA ALCUNE DOMANDE. COME APRIRE UNA DISCUSSIONE SU UN CONCETTO ABBANDONATO, IL SOCIALISMO, IN ITALIA? SIAMO IN GRADO DI ALLONTANARCI DA INUTILI RIUNIONI E LITI SU LEADER E FORMAZIONE DI NUOVI ALLEANZE? E SE RINUNCIASSIMO A QUESTO PER VIVERE “COME SE”, COME SE IL SOCIALISMO FOSSE GIÀ PRATICATO? QUESTE E ALTRE DOMANDE HANNO PERÒ BISOGNO DI UN ÀNCORA: “MOLTI DI QUELLI CHE PARLANO DI SOCIALISMO COL SOLITO LINGUAGGIO, CON QUEL TRABOCCHETTO CHE AFFERMA CHE NON HANNO IMPORTANZA I MEZZI ATTRAVERSO I QUALI SI RAGGIUNGE QUESTO FINE, SARANNO COLORO I QUALI, CAMBIANDO SISTEMA, IL SOCIALISMO LO OSTACOLERANNO… NON SI PUÒ PRATICARE LA VIOLENZA PER COSTRUIRE UN MONDO DAL QUALE SI VUOLE ESPELLERLA” San Michele Salentino. Foto di Attacco Poetico -------------------------------------------------------------------------------- C’è un dibattito sul socialismo a venire? Ben venga in questo Paese anestetizzato, dalla coscienza atrofizzata, dalla mancanza di qualsiasi stupore per ogni cosa. Come sempre, si scontrano diverse analisi e visioni; tutte partono dal rifiuto di come va il mondo adesso, delle guerre, delle mediocri personalità che ci governano, delle disuguaglianze, delle ingiustizie, delle sopraffazioni, delle miserie e della crisi climatica che ci minaccia; insomma dal rifiuto del capitalismo e dell’ideologia neoliberista che rischia di trasformare il pianeta in un deserto. Eppure mi sento a disagio a parlare di questo tema in termini teorici: quale socialismo; quando il socialismo? Anziché immergerci in queste dotte analisi e pensieri, compito spropositato, preferirei pensare alla vita quotidiana delle tante piccole comunità disseminate un po’ ovunque, che senza parlare direttamente del tema, lo vivono con il proprio corpo, le fatiche del vivere, i piccoli conflitti, la gioia di fare insieme e di cenare insieme, l’amicizia, l’amore per le cose e la natura. Non è forse questo il socialismo? Oppure mi sbaglio? Penso a quel bel quadro di Pellizza da Volpedo e ci sembra che in esso, nelle sue figure ottocentesche, ci sia l’immagine del socialismo. Piuttosto che cercarlo nelle teorie, si potrebbero osservare queste comunità, la vita in piccoli paesi quasi abbandonati, il ritorno a pratiche di vita desuete, a un’economia che non abbia il fine del profitto, ma la produzione di beni materiali necessari alla vita quotidiana (La Restanza di Vito Teti). Lo sguardo della sinistra dovrebbe ruotare di 180 gradi e rivolgersi verso queste comunità e il loro modo di vita. Si impara solo spingendosi ai limiti per inoltrarsi su sentieri nuovi, mai praticati. Abbandonare le inutili riunioni, gli stanchi dibattiti, le liti nella sinistra, il leaderismo, la ricerca del Capo, la formazione di nuovi schieramenti e lasciarli soli questi politici, che si azzuffino pure per futili motivi, per contendersi qualcosa di cui non abbiamo bisogno. Senza il nostro riconoscimento essi sono personaggi inutili, senza alcun potere, persino ridicoli. E se appunto rinunciassimo a tutto questo e decidessimo di vivere “come se”, come se il socialismo fosse già praticato? E se ci immergessimo, noi non più giovani, in questo nuovo mondo di resistenza (femminismo, movimenti giovanili, studenti, ecc.)? Bisogna partire da se stessi, rinunciare al dover essere, al presidenzialismo, ai propri privilegi perché se uno sta più bene degli altri, ci saranno sempre quelli che stanno meno bene di lui. E rinunciare al dominio del patriarcato che affiora anche ai livelli istituzionali (vedi Nordio, Roccella). Partiamo dalle città, i luoghi dove vive e lavora la maggior parte delle persone (destinate a crescere nel tempo). Nulla ci impedisce di pensare (come già immaginava Murray Bookchin) che esse possano diventare “culle di comunità”, dove gli abitanti sono legati da vincoli comunitari e dove la solidarietà e la convivenza ne sono i requisiti fondamentali. Oggi siamo ben lontani da questa situazione, il capitalismo e l’ideologia neoliberista stanno trasformando le nostre città in luoghi di disperazione, di solitudine, di una guerra silenziosa tra ricchi e poveri. In primo luogo, bisogna abbandonare l’idea di metropoli, quel non-luogo di flussi e merci devastatore di territori e luoghi. Perché le persone abitano i luoghi fisici e non i flussi. Ma se si vogliono salvare le città (“Non si salva il pianeta se non si salvano le città” è il titolo di un bel libro di Giancarlo Consonni), bisogna ridefinire il concetto di democrazia, ovvero il suo perno fondamentale che consiste nella (crisi della) rappresentanza. Una democrazia reale si fonda sul volere/potere dei cittadini che si organizzano in comunità che, in quanto tali, prendono decisioni sull’organizzazione della propria vita; in sostanza comunità autogovernanti e di mutuo soccorso. Esperienze di tal genere si sono realizzate anche in Italia, purtroppo, in situazioni di emergenza come a L’Aquila (post terremoto), e durante l’epidemia di Covid. Una comunità non è un semplice aggregato di individui, afferma Debbie Bookchin (vedi Pratiche urbane e alleanze dei corpi, ne il manifesto del 20.11.2025): “una forma di organizzazione che chiamiamo comunitarismo. Si tratta di un progetto profondamente educativo in cui ci riappropriamo del senso di solidarietà e impariamo di nuovo ad autogovernarci”. Perché è proprio dalle città che nascono e si moltiplicano movimenti antagonisti al potere autocratico, come recentemente avvenuto a New York. Le città sono diventate fiere futili di eventi, di spettacoli, di turisti mossi dall’ansia di consumare, di rapine da parte di fondi immobiliari stranieri e non che le spolpano di ogni ricchezza e bellezza. Ma tanto più diventano prigioni per motivi di sicurezza, tanto più crescono movimenti antagonisti, per ora isolati, silenziosi, afoni. Casematte di un possibile risveglio? Esempi virtuosi di un altro mondo? È sufficiente questo? No, credo di no. Bisogna anche impegnarsi a cambiare i nostri governanti, a combattere per sostituirli con rappresentanti più onesti e capaci. Ma solo a partire dalle esperienze di questi nuovi mondi inascoltati e invisibili dalla politica, senza le quali ogni rinnovamento diventa impossibile. C’è poi il problema delle istituzioni; quelle in cui riponevamo la nostra fiducia non esistono più. Il neoliberismo si è mosso nella direzione di neutralizzarle: governi che decidono senza parlamenti, leggi che stanno per introdurre il presidenzialismo (leggi: fascismo), aggiungiamo il tentativo di eliminare i sistemi di controllo internazionali e quelli nazionali (Corte dei Conti, Banca d’Italia, magistratura). Difficile quindi contare in esse, piuttosto ci si dovrebbe interrogare su come risanare e rafforzare le “vecchie istituzioni” (Onu), e al tempo stesso crearne di nuove sovranazionali per affrontare problemi nuovi, sconosciuti in altre epoche, per esempio quelli connessi alla minaccia climatica (Luigi Ferrajoli, Per una costituzione della terra; Progettare il futuro. Per un costituzionalismo globale). Crediamo però che molti di quelli che parlano di socialismo col solito linguaggio, con quel trabocchetto che afferma che non hanno importanza i mezzi attraverso i quali si raggiunge questo fine, saranno coloro i quali, cambiando sistema, il socialismo lo ostacoleranno, come già accaduto nella storia. Non si può praticare la violenza per costruire un mondo dal quale si vuole espellerla. -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE QUESTA INTERVISTA A STEFANIA CONSIGLIERE: > Perché è difficile riconoscere mondi nuovi -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Sui nuovi mondi proviene da Comune-info.
Buone pratiche di Comunità educanti
Il rapporto recentemente pubblicato da Assifero mostra l’efficacia degli interventi che contrastano la povertà educativa minorile, che in Italia si sta aggravando ed emerge come una delle forme più insidiose di povertà, perché non si limita alla mancanza di risorse materiali ma compromette il diritto stesso dei bambini e dei ragazzi ad apprendere, formarsi, sviluppare capacità e competenze, coltivare aspirazioni e talenti. Negli ultimi quindici anni l’Italia ha vissuto un incremento significativo delle condizioni di povertà e delle disuguaglianze sociali, con ripercussioni profonde sulle fasce più fragili della popolazione. L’ISTAT certifica che le persone in condizione di povertà assoluta sono passate dai 2,9 milioni del 2008 ai circa 5 milioni del 2017, raggiungendo il 23,1% della popolazione nel 2024, in costante aumento. Nello stesso arco di tempo le famiglie coinvolte sono aumentate da 1,1 a 1,8 milioni, raggiungendo 2,2 milioni nel 2024. A questo quadro già critico si aggiungono due elementi di particolare vulnerabilità: da un lato il divario geografico, con il Mezzogiorno che registra incidenze di povertà assoluta ben superiori alla media nazionale (oltre l’11% per le persone e più del 10% per le famiglie). Dall’altro la fragilità anagrafica: sono proprio i minori a pagare il prezzo più alto, con un’incidenza di povertà assoluta superiore al 12% rispetto all’8,4% medio. Nonostante il Sud rimanga l’area con le incidenze più alte di povertà, il Nord sta diventando sempre più significativo nel totale delle famiglie povere: nel 2023, il 45% delle famiglie in povertà assoluta risiedeva al Nord. In particolare, si notano povertà nuove e inaspettate che riguardano il fenomeno dei working poor, ovvero quelle persone o quei nuclei familiari che lavorano, spesso anche come dipendenti, ma che fanno fatica ad arrivare a fine mese e che oggi rappresentano il 30% degli occupati. Di recente è stato presentato un rapporto, redatto da Ilaria De Cave e Alessia Trabucco di Assifero, l’associazione italiana delle fondazioni ed enti filantropici, in collaborazione con le Fondazioni di comunità di Lecco, Brescia, Mirafiori e Napoli, che restituisce i risultati e le buone pratiche emerse nell’ambito di diverse progettualità sostenute da Impresa Sociale Con i Bambini, tra le quali il progetto “Le radici e le ali”, offrendo modelli e strumenti per rafforzare le comunità educanti nei territori. Un contributo condiviso che valorizza l’impegno congiunto delle fondazioni nella lotta alla povertà educativa e nella costruzione di ecosistemi educativi inclusivi e sostenibili, collaborazioni e sinergie tra diversi attori, il rapporto di Assifero illustra, in particolare, alcune buone pratiche che meritano particolare attenzione per il loro grado di trasferibilità. Ne riportiamo due. “Giovani Competenti” – Promossa dalla Fondazione Comunitaria del Lecchese si presenta come un’iniziativa di impegno civico, retribuito, per i giovani del territorio dai 16 ai 24 anni che si trovano in un momento di riflessione e costruzione del proprio futuro formativo e professionale e che decidono di intraprendere un impegno continuativo ma temporaneo all’interno di enti che promuovono cultura, turismo e comunicazione ed educazione. Ogni ragazzo sceglie liberamente l’attività che desidera svolgere e l’ente ospitante in numerosi Comuni del territorio. In questo modo, alcuni si dedicano all’attività del doposcuola, accompagnando i più piccoli nei compiti e nelle attività quotidiane, mentre altri lavorano nei musei e negli uffici turistici o info point, come quelli sul Lago di Como, o nelle RSA del territorio. Quest’esperienza rappresenta un’occasione di orientamento e apprendimento per i giovani coinvolti che vengono accompagnati da tutor e supportati da un percorso di formazione parallelo e di gruppo durante tutto il periodo. L’iniziativa si inserisce in una rete di progetti territoriali che promuovono la crescita dei giovani, grazie al contributo di Alleanze Educative, con capofila Impresa Sociale Girasole, finanziata da Con i Bambini; BEST, con ente capofila l’Associazione Punto Famiglia Per, finanziato dalla Fondazione Comunitaria del Lecchese; e Fondo Welfare, A.G.ORÀ – Ai Giovani ORA con capofila la Parrocchia Sant’Alessandro in Barzio, finanziato da Fondazione Cariplo. Comunità educante alla Rete Educativa Sanità – Le iniziative realizzate dalla Fondazione di Comunità San Gennaro grazie ai bandi di Con i bambini sono molteplici e si inseriscono nella più ampia missione di creare e sviluppare la comunità educante stessa per superare la logica del singolo progetto. In questo contesto, la comunità educante pone le sue basi quasi dieci anni prima della Fondazione di Comunità San Gennaro, sviluppandosi in diverse associazioni territoriali, oggi partner fissi delle progettualità educative della fondazione. La progettualità di “Batti il Cinque!” ha rappresentato per la fondazione e per il quartiere del Rione Sanità, dove opera principalmente, un’esperienza di consolidamento della comunità educante già esistente, permettendo di fatto un ragionamento di sistema con altre quattro fondazioni sul territorio nazionale. Il polo territoriale di Napoli, nel corso della terza annualità del progetto ha raggiunto 1420 minori, di cui 89 in condizione di vulnerabilità economica, 20 portatori di Bisogni Educativi Speciali e 50 di origine straniera. Nel contesto napoletano i centri educativi e sportivi gestiti dagli enti del Terzo Settore hanno giocato un ruolo fondamentale, diventando presidi e spazi per attività progettuali di doposcuola, recupero e potenziamento didattico, laboratori didattici-formativi, espressivi, sportivi e di cittadinanza attiva. Alcuni degli enti del Terzo Settore coinvolti sono stati Il Grillo Parlante Onlus, la Casa dei Cristallini Associazione di Promozione Sociale, la Cooperativa Sociale La Paranza, che continuano tutt’ora la collaborazione con la fondazione. Significative in questo contesto sono anche le attività di scoperta del patrimonio culturale del Rione Sanità che hanno coinvolto i ragazzi, non solo come visitatori ma anche come guide e custodi dei beni della comunità. Dal punto di vista delle attività di sostegno al nucleo familiare, sono stati creati anche percorsi di sostegno e accompagnamento sociale delle famiglie, azioni di prevenzione dell’abbandono scolastico e della dispersione, attraverso colloqui con i genitori, attività di gruppo per le famiglie, laboratori genitori-figli ed interventi di educativa domiciliare, coinvolgendo ben 92 genitori nella realizzazione dei patti di corresponsabilità educativa. BUONE PRATICHE E PROCESSI A CONFRONTO: COMUNITÀ EDUCANTI TRA NORD E SUD ITALIA – rapporto ASSIFERO 2025 Giovanni Caprio
Percorsi di vita e diritti: un nuovo ciclo di incontri gratuiti aperti alla comunità
Dal 25 novembre al 2 dicembre 2025 prenderà avvio un ciclo di appuntamenti condivisi tra Ambito 9 e Ambito 7, pensato per riportare al centro del dibattito pubblico alcune questioni decisive per la vita delle persone con disabilità: il diritto alla scelta, l’autodeterminazione, la tutela giuridica, la relazione con le famiglie e con i servizi. Sono tre prime tappe di un percorso culturale e territoriale che, già con lo sguardo rivolto al 2026, intende diffondere consapevolezza e offrire occasioni di confronto reale, in cui linguaggi professionali, esperienze di vita e bisogni della cittadinanza possano dialogare senza barriere. Gli incontri sono gratuiti e aperti a tutti: un invito rivolto non solo a operatori e operatrici sociali, ma anche alle famiglie, alle associazioni, alle realtà del terzo settore e alle persone direttamente coinvolte nei percorsi di vita indipendente. L’obiettivo è semplice e ambizioso allo stesso tempo: creare spazi pubblici in cui ascoltare, interrogarsi, comprendere, e rendere più leggibile ciò che spesso rimane complesso, tecnico o distante. Una proposta che nasce dalla collaborazione tra due Ambiti territoriali e che mira, fin dal primo passo, a costruire un terreno comune di conoscenza e responsabilità condivisa. GLI APPUNTAMENTI 25 novembre 2025 – ore 18.00 | Auditorium del Comune di Bassano Bresciano (Ambito 9) Titolo: Autodeterminazione: il diritto di scegliere Un confronto sul significato profondo dell’autodeterminazione nelle vite delle persone con disabilità, esplorato attraverso un approccio esperienziale e professionale. L’incontro prevede una parte frontale e un dialogo aperto con il pubblico. Interventi: * Valentina Tomirotti, giornalista e attivista per i diritti delle persone con disabilità * Ivana Ferrazzoli, Vicepresidente Associazione Insieme – Manerbio * dott.ssa Virna Barbieri, Cooperativa Il Gabbiano Onlus – Pontevico * dott.ssa Roberta Ravelli, Assistente Sociale Ambito 9 Partecipazione libera, senza iscrizione. Valentina Tomirotti   26 novembre 2025 – ore 20.00 | Sala Repossi Comune di Chiari (Ambito 7) Titolo: La protezione giuridica: uno strumento utile a tutela della persona con disabilità Serata a carattere tecnico e informativo, dedicata a strumenti giuridici e amministrativi utili a sostenere i percorsi di vita. Interventi: * avv. Simona Ardesi * dott.ssa Giorgia Passarella, Assistente Sociale Ambito 9 * Cristina Magoni, vicepresidente ODV “Mafalda” Partecipazione libera, senza iscrizione.  2 dicembre 2025 – ore 20.00 | Sala Repossi, Comune di Chiari (Ambito 7) Titolo: Racconti di famiglie: interviste e testimonianze Serata dedicata alla testimonianza diretta: racconti, domande e riflessioni condivise da famiglie che vivono quotidianamente la complessità e la sfida dei percorsi di vita personalizzati. Interventi: * dott.ssa Costanza Lanzanova, Cooperativa La Nuvola di Orzinuovi * Testimonianze di genitori: Stefania Zatti, Luigina Seiti, Mara Frigerio, Roberto Dalla Pellegrina, Catia Moriggia, Patrizio Pecere Partecipazione libera, senza iscrizione. Il Gabbiano Coop   Due sguardi, un percorso comune La dott.ssa Claudia Pedercini – Direttrice Ambito 9 Bassa Bresciana Centrale ha così commentato: «Oltre al valore degli argomenti trattati, desideriamo sottolineare l’importanza di questa collaborazione tra Ambito 7 e Ambito 9. Lavorare insieme ci permette di raggiungere più comunità, rafforzare il confronto e affrontare temi così delicati con una visione comune. È un’opportunità significativa per gli enti coinvolti e per il territorio, e rappresenta un passo importante nel percorso avviato con il progetto PRO.VI e con il Centro per la Vita Indipendente.» Il dott. Biagio Vultaggio – Responsabile Ufficio di Piano Chiari – Ambito Territoriale Oglio Ovest ha così commentato: «Con questa collaborazione vogliamo accrescere competenze e opportunità per le persone con disabilità e per le loro famiglie. L’obiettivo è favorire l’autonomia e la costruzione di percorsi di vita adeguati agli interessi, alle capacità e alle possibilità di ciascuno. Condivideremo strumenti utili e testimonianze che non vogliono essere modelli da imitare, ma stimoli che aiutino ogni famiglia a riflettere sulle opportunità disponibili.» UN’OCCASIONE PER AVVICINARE, CHIARIRE, COMPRENDERE Gli appuntamenti proposti dagli Ambiti 9 e 7 assumono un valore rilevante: sono un mezzo concreto per avvicinare la cittadinanza, sciogliere dubbi, offrire orientamento e costruire quella consapevolezza condivisa che permette a famiglie, servizi e istituzioni di muoversi in modo più chiaro, più competente e più vicino alle persone. Questi primi tre incontri non chiudono un percorso: lo inaugurano. Nel 2026 saranno estesi ad altri Comuni, con l’intento di rendere l’informazione capillare e accessibile, e di trasformare il dialogo tra comunità e servizi in una pratica ordinaria, non episodica. Una strada che Ambito 7 e Ambito 9 hanno scelto di percorrere insieme, con la convinzione che la qualità di un territorio si misura anche dalla sua capacità di ascoltare, spiegare, coinvolgere. E di farlo non per dovere, ma per costruire una cultura del diritto e dell’autodeterminazione che sia davvero alla portata di tutti.    Ufficio Stampa – Ambito 9 Bassa Bresciana   Redazione Sebino Franciacorta
Camposanto fantasma. Il Cimitero dei Colerosi e la memoria dimenticata di Napoli
Alle porte di Napoli, tra i quartieri Barra e San Giovanni a Teduccio (Napoli) San Giorgio a Cremano e Portici, si trova un luogo che il tempo e l’indifferenza hanno quasi cancellato: il Cimitero dei Colerosi, costruito nel 1836 per accogliere le vittime dell’epidemia di colera che travolse la città e i paesi vesuviani. Da allora, in quella terra di confine, riposano migliaia di uomini, donne e bambini, testimoni silenziosi di una tragedia che segnò profondamente la storia del territorio e la memoria delle sue comunità. Nel corso degli anni, quello che era nato come segno di pietà e di necessità si è trasformato in un simbolo di abbandono. L’erba alta, i cancelli arrugginiti, i monumenti funerari ormai instabili parlano di un degrado che non è solo materiale, ma anche morale. Eppure, dietro quei muri dimenticati, si custodisce un frammento di identità collettiva: un luogo che ricorda la fragilità umana e la forza di una città capace di rialzarsi anche nei momenti più duri. Il 2 novembre, nel giorno dedicato ai defunti, cittadini e associazioni si sono ritrovati davanti ai cancelli chiusi del Camposanto dei Colerosi, in Cupa Sant’Aniello, per una messa celebrata all’aperto. Entrare era impossibile, le condizioni di degrado dell’area lo impedivano. La funzione si è trasformata in un gesto di civiltà e di resistenza, un modo per riaffermare il diritto alla memoria e chiedere alle istituzioni di intervenire con urgenza. Le famiglie dei defunti che riposano in quel luogo, insieme a volontari e rappresentanti delle comunità locali, hanno espresso il desiderio di restituire dignità a uno spazio che appartiene alla storia di tutti. La cerimonia è stata promossa da un ampio gruppo di realtà civiche e sociali impegnate nella difesa e nel recupero del sito. Tra le associazioni aderenti figurano “Voce nel Deserto”, il Comitato Civico di San Giovanni a Teduccio, la Società Operaia di Mutuo Soccorso di Barra, “Barra R-Esiste”, la Biblioteca sociale “La Casa di Francesca”, le ACLI di San Giovanni a Teduccio – Beni Culturali, il Comitato No Inceneritore e “Il Mondo che vorrei”. Alla celebrazione hanno preso parte anche sacerdoti e rappresentanti delle parrocchie dei comuni dell’antico consorzio ottocentesco che realizzò il camposanto, a testimonianza del legame profondo tra fede popolare, territorio e memoria storica. Tra le organizzatrici anche Maria Rosaria De Matteo, membro del comitato promotore e attivista impegnata nel sociale e nella difesa della memoria collettiva, che ha voluto lanciare un appello alla coscienza della città: «Noi dovremmo scuotere le coscienze di un’intera collettività e dovremmo far ricordare che in questa città c’è il culto dei defunti, il culto delle anime pezzentelle, dove i napoletani hanno avuto sempre a cuore i cimiteri, dove le persone si recano sempre a portare un fiore, un lumino, una preghiera, e quindi dovremmo cercare di metterci in un tavolo comune e trovare un equilibrio che possa rendere rispetto, giustizia e omaggio ai defunti che sono seppelliti in questo cimitero.» L’iniziativa non è stata solo un atto di commemorazione, ma un invito a riflettere su come le città si prendano cura, o smettano di prendersi cura, dei propri luoghi della memoria. Prendersi cura di un cimitero dimenticato significa prendersi cura del passato e del senso di comunità che lo attraversa. Napoli, che da sempre vive un rapporto speciale con i morti, dall’antico culto delle anime pezzentelle alla tradizione dei lumini accesi nei vicoli, non può permettere che un luogo come il Cimitero dei Colerosi resti sepolto nell’incuria. Ogni pietra che si sgretola, ogni croce dimenticata, rappresenta un frammento di storia che si perde. Restituire dignità al Cimitero dei Colerosi non è soltanto un dovere civile, ma un gesto di umanità. Significa riconoscere che la memoria non appartiene solo al passato, ma è parte viva del presente. E che ricordare non è un atto di nostalgia, ma una forma di resistenza. Perché ricordare, sempre, è il modo più semplice e più profondo per rimanere umani. Quando cala la sera, tra le mura di Cupa Sant’Aniello, la luce dei ceri e delle preghiere sembra ancora disegnare i passi di quelle antiche processioni che un tempo attraversavano i villaggi per chiedere la fine del contagio. Oggi, quella stessa luce torna a brillare tra le erbacce e le lapidi spezzate, come un filo di speranza che continua a legare i vivi ai morti e la memoria al futuro. Lucia Montanaro
Ripensare l’approccio alla cura
QUANDO IL SISTEMA SANITARIO NON CONCEDE IL GIUSTO TEMPO, SPAZIO E VALORE ALLA RELAZIONE TERAPEUTICA, NEGA ALLA CURA LA SUA ESSENZA PIÙ AUTENTICA, RIDUCENDO LA PERSONA A UN NUMERO E LA GUARIGIONE ALLA MERA SCOMPARSA DEL SINTOMO. PARLARE OGGI DI UMANIZZAZIONE DELLA CURA E DI PSICOLOGIA DI QUARTIERE NON È RETORICA, MA UNA NECESSITÀ. PER DIRLA CON BASAGLIA, “LA SALUTE NON È UN LUSSO, MA UN MODO DI ESSERE NEL MONDO…” Foto di Ferdinando Kaiser -------------------------------------------------------------------------------- La sanità italiana attraversa una fase critica. Interminabili liste d’attesa, personale insufficiente, crescente privatizzazione e una progressiva perdita della dimensione umana della cura sono le avvisaglie più evidenti di un sistema che fatica a mantenere le proprie responsabilità. Dietro ogni prescrizione, ogni diagnosi, ogni intervento terapeutico, c’è una relazione. È proprio quel rapporto – fatto di disponibilità, ascolto e intesa – che consente di cogliere il significato profondo del sintomo e di dare all’approccio di cura una qualità più autentica e completa. In psicologia si afferma spesso che “è la relazione a essere terapeutica” e che in ogni percorso di cura qualunque dolore o sofferenza porta con sé una componente emotiva che deve essere riconosciuta, esplorata e integrata. Oltre la logica del contenimento dei costi Negli ultimi anni la salute è stata raccontata quasi esclusivamente in termini economici: costi da contenere, efficienza da massimizzare, bilanci da far quadrare. Ma una simile narrazione, evidentemente riduttiva, tradisce la natura stessa del servizio di cura. La salute non è un costo, ma un investimento sociale. Ogni risorsa destinata alla promozione del benessere e a un sostegno terapeutico tempestivo produce ritorni concreti in termini di fiducia, coesione, produttività e riduzione delle disuguaglianze. Un esempio può chiarire meglio di molte statistiche. Anna, 44 anni, madre di due figlie, dopo mesi di insonnia e irritabilità crescente, si rivolge finalmente al medico di base. Le viene prescritta una terapia farmacologica, ma non le viene offerto uno spazio per parlare di sé, del peso che la recente separazione e le difficoltà economiche hanno avuto sulla sua vita quotidiana, sul suo modo di sentirsi madre, donna, persona. Dopo qualche settimana Anna sospende i farmaci per conto suo, convinta che “non servano a niente”. Anna non è un caso isolato: è il simbolo di un sistema che cura il sintomo ma non la persona, che troppo spesso interviene tardi e in modo superficiale, che risponde con protocolli e prescrizioni dove servirebbero disponibilità e parole capaci di accogliere il disagio, perché possa essere davvero compreso e affrontato. Un dato aiuta a chiarire la portata del problema: secondo una ricerca di Cittadinanzattiva del 2019, il 64,8% delle persone con patologie croniche è lasciato completamente solo, senza alcun tipo di supporto psicologico. Un vuoto che non attenua la sofferenza, ma al contrario la amplifica, incrementando nel tempo i costi socio-assistenziali e sanitari. La salute psichica come termometro sociale La sofferenza psichica è spesso lo specchio di un malessere più ampio, collettivo. Lo si riconosce nei giovani schiacciati dall’incertezza, negli adulti sopraffatti dalla precarietà lavorativa, negli anziani isolati da una solitudine esistenziale che li rende invisibili. Eppure, la salute psicologica continua a essere considerata un settore “secondario”, quasi fosse un lusso per chi ha tempo e risorse da dedicarvi. Nulla di più lontano dalla realtà. Investire nel benessere psichico significa in realtà rafforzare il tessuto umano, interpersonale e sociale. Vuol dire riconoscere che non esiste salute del corpo senza salute psicologica, né benessere individuale senza equilibrio sociale. Significa comprendere che prevenire il disagio oggi riduce i costi sanitari e complessivi di domani. La relazione terapeutica come spazio di umanità L’esperienza clinica insegna che nessun modello teorico, per quanto sofisticato, può sostituire la vitale presenza di un autentico rapporto fra individui, come quello fra terapeuta e paziente. Un colloquio psicologico non giudicante, che non semplifica e non riduce la persona al sintomo o al substrato biologico che lo genera, è già di per sé un atto terapeutico. Anche il tempo offerto, la considerazione profonda e l’accoglienza delle peculiarità di ciascuno sono elementi che, nel loro insieme, rendono un supporto o una terapia realmente efficace. Quando il sistema sanitario non concede il giusto tempo, spazio e valore alla relazione terapeutica, nega alla cura la sua essenza più autentica, riducendo la persona a un numero e la guarigione alla mera scomparsa del sintomo. Parlare oggi di umanizzazione della cura non è retorica, ma una necessità. L’approccio psicologico non deve restare confinato agli studi specialistici: deve attraversare la cultura, scuola, la famiglia, il lavoro, le istituzioni. Deve diventare un modo di guardare all’essere umano, alle sue fragilità, ai suoi processi di trasformazione e al suo progredire. Promuovere la salute come responsabilità collettiva Un sistema sanitario che funziona realmente è quello che intercetta il disagio prima che diventi emergenza, che offre sostegno prima che la sofferenza diventi persistente, radicata o perfino inguaribile, anche se curabile. Spazi in cui si possa fare psicologia nei quartieri, consultori familiari accessibili, programmi nelle scuole e nei luoghi di lavoro non sono “extra”, ma pilastri di salute pubblica. Restituiscono fiducia, benessere, rafforzano il senso di comunità e la coesione sociale. In una società che tenta di gestire la fragilità con scorciatoie – una pillola per dormire, un rapido consiglio, una diagnosi sbrigativa, un rimedio estemporaneo – la salute e il benessere diventano un atto politico nel senso più profondo: una scelta che riguarda non solo la sorte individuale, ma il destino della collettività. Curare la salute, non solo la malattia Ripensare la cura significa tornare a considerare il benessere e la prosperità come condizioni umane e sociali fondamentali, non come semplici applicazioni tecniche o tecnologiche. Significa ridare centralità alla relazione terapeutica, riconoscere il valore della salute psicofisica e dei rapporti interpersonali, e concepire la sanità non come apparato burocratico, ma come strumento che promuove salute e benessere in modo moderno e profondamente umano. Ogni investimento nella salute delle persone – soprattutto nella sua dimensione psichica – è un investimento nella qualità del vivere insieme, nella capacità di una società di prendersi cura di chi la compone, di non lasciare indietro nessuno. Come scriveva Franco Basaglia, “la salute non è un lusso, ma un modo di essere nel mondo”. E in questo modo di essere, la cura non può che restare un fatto profondamente umano. -------------------------------------------------------------------------------- Cesare Marangiello, psicologo e psicoterapeuta, si occupa di clinica, formazione e riflessione sui temi della salute psichica e della relazione terapeutica. Collabora con diverse testate su questioni psicologiche, educative e culturali. -------------------------------------------------------------------------------- Breve bibliografia * Basaglia, F. (1968). L’istituzione negata. Einaudi. * Borgna, E. (2003). Le intermittenze del cuore. Feltrinelli. * Borgna, E. (2014). La fragilità che è in noi. Einaudi. * Cittadinanzattiva (2019). XIV Rapporto nazionale sulle politiche della cronicità. * Winnicott, D.W. (1965). Sviluppo affettivo e ambiente. Armando. -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Ripensare l’approccio alla cura proviene da Comune-info.
Comunità per la decrescita
L’ENTRATA IN CRISI DELLA GLOBALIZZAZIONE NEOLIBERALE RENDE URGENTE LA NECESSITÀ DI UN’ALTRA RELAZIONE TRA LOCALE E PLANETARIO, IN CUI NON C’È SPAZIO PER LA DELEGA. “LA QUESTIONE DELLA PACE, COME QUELLA ECOLOGICA, COME QUELLA DELLA GIUSTIZIA SOCIALE NON SARANNO MAI AFFRONTATE SE LA LORO SOLUZIONE CONTINUERÀ A ESSERE DELEGATA A ORGANISMI TRANSNAZIONALI INTERSTATALI – SCRIVE PAOLO CACCIARI – SI TRATTA DI UNA VERA E PROPRIA TRAPPOLA DI REMISSIONE DI RESPONSABILITÀ IN CUI CADONO GLI STESSI MOVIMENTI PACIFISTI E AMBIENTALISTI QUANDO FANNO AFFIDAMENTO SULL’ASCOLTO DEI “CAPI DI STATO E DI GOVERNO”, COME SE AVESSERO UNA SENSIBILITÀ ETICA… SE LE COSE STANNO COSÌ, SE NON VI SONO SCORCIATOIE ATTRAVERSO CUI RAGGIUNGERE IL CAMBIAMENTO E REALIZZARE UNA SOCIETÀ DI VITE LIBERATE DA OGNI FORMA DI DOMINIO DI NASCITA, CLASSE, GENERE, SPECIE ALLORA IL PROGETTO POLITICO DELLA CREAZIONE DI UN SISTEMA DI COMUNITÀ TERRITORIALI CAPACI DI AUTOGOVERNARSI E DI RELAZIONARSI TRA LORO ALLA PARI PUÒ DIVENTARE LA VIA PIÙ PROMETTENTE ED EFFICACE DA PERCORRERE…”. QUESTO ARTICOLO È UN INVITO ALLA LETTURA DEI CONTRIBUTI CONTENUTI NELLA PARTE MONOGRAFICA DELL’ULTIMO QUADERNO DELLA DECRESCITA Cascina Rapello (Airuno, LC) -------------------------------------------------------------------------------- Dedicato a Ferruccio Nilia e al suo lavoro attorno al concetto di comunità Tante, diverse Cum/munis, designa una relazione di scambio donativo all’interno di un gruppo di persone (umane e non-solo-umane) fondata su mutualità e reciprocità. Presuppone perciò una esistenza communitarista (da communĭtas-atis), ovvero una communantiae (traducibile in comunanza o comunalità) nel godimento di beni comuni quali pascoli, boschi, acque, ma anche conoscenze, sistemi di valori, stili di vita. Il commoning, nelle teorie moderne dei commons1,è l’azione di messa in comune (comunizzazione) e presa in cura collettiva delle risorse naturali, umane, storiche, tecnologiche disponibili in un determinato ambito e in uno spazio geografico, in un luogo agito e abitato da un soggetto collettivo. «Ambiti di comunità», per dirla con Gustavo Esteva: «forme diverse di esistenza sociale che vanno al di là dello spazio privato, ma non sono spazi pubblici [statali]» (Esteva, 2014, p.24). La casistica e le genealogie delle comunità possono essere molto varie, così come la loro veste giuridica e il loro manto istituzionale. Ve ne sono di legate ad un “sentire comune” tradizionale, consuetudinario, informale, spontaneo… In una parola diremmo: “organico”, cioè trans-storico, primario, ancestrale, sostanzialista – con tutte le sfumature dei casi specifici. Altre forme di comunità si sono costruite esplicitamente in funzione del perseguimento di determinati obiettivi e interessi comuni: ottenere maggiore sicurezza all’esterno e all’interno dei propri ambiti, distribuire i compiti tra i propri membri in modo da ottimizzare la sussistenza e la riproduzione, realizzare infrastrutture d’uso comune, conservare i patrimoni comuni, distribuire la ricchezza, dotarsi di norme e istituzioni di controllo e regolazione, preservare le credenze, i miti comuni, ecc., ecc. Potremmo definirle “comunità razionali” o associazioni di scopo: eserciti e chiese, aziende e sindacati professionali, stati e condomini… Vi sono poi comunità che si generano in continuazione ex novo, intenzionalmente, per autopoiesi, per affermare un proprio progetto di vita sociale. Penso a quelle comunità di iniziativa create dagli abitanti di una città che si appropriano e abitano un bene da adibire ad usi civici; a quelle di immigrati che rivitalizzano un borgo o un quartiere degradato; ai “regolieri” autoctoni delle valli di montagna che fanno rinascere gli antichi “demani collettivi”; ai dipendenti di una fabbrica che decidono di autogestirla; alle donne che si proteggono creando una casa di accoglienza, alle comunità energetiche da fonti rinnovabili e a quelle di sostegno all’agricoltura, alle “comunità del cibo”, alle cooperative e alle istituzioni di comunità, ai distretti di economia solidale e a molte altre ancora2. Chiamiamole comunità politiche creative, “di lotta”, istituenti, che a partire dai luoghi di vita pensano di trasformare la società nel senso di rafforzare le relazioni dirette, solidali tra le persone e tra esse e il contesto socio-ambientale in cui operano. La galassia delle pratiche virtuose di resistenza e sottrazione alla mercificazione di ogni ambito della vita produttiva e riproduttiva è davvero molto estesa, seppur frammentata, difficile da mettere a fuoco e praticamente impossibile da incasellare in categorie statiche. Al fondo, comunque, vi sono delle caratteristiche comuni ad ogni tipo di comunità che ne denotano il diverso tipo di soggettività. Fare/essere comunità Per riuscire a fare comunità e viverla c’è bisogno di una particolare predisposizione personale, se non anche di empatia e benevolenza, quantomeno una disponibilità al riconoscimento dei propri simili e alla connessione con l’altro da sé. Infatti, il presupposto comunitario – la «voglia di comunità» (Zygmunt Bauman, 2001), se non persino il «bisogno di radicamento» (vedi lo scritto di Simon Weil nella rubrica La saggezza della decrescita, in questi Quaderni) – sembra essere connaturato all’ontologia della specie umana considerata come insieme di individui socievoli, dotati di affettività e moralità, di senso di giustizia e di altruismo. Da questa angolatura – quella della antropologia positiva – potremmo persino affermare – in barba al darwinismo sociale3 – che è la generosità l’energia rinnovabile che muove l’universo umano (e non solo questo), così come l’energia cosmica muove l’universo fisico. Filosoficamente, il concetto di comunità pone il complesso tema del rapporto tra identità e differenza, tra singolarità e pluralità, tra individualità e rete delle dipendenze a cui appartiene. Un ricco filone di studi a cavallo tra la psicologia di comunità e la psicologia ambientale (ad esempio: Riemer, Reich 2011) studia il ruolo delle comunità nelle politiche di contrasto ai cambiamenti climatici. Ciò deriva dall’importanza della dimensione sociale per la vita psichica delle persone, sia in termini di percezione e di valutazione degli eventi sia per l’orientamento dei comportamenti nella vita quotidiana. Noi tendiamo infatti a considerare gli altri, specie quando ad essi siamo legati da vincoli comunitari, come affidabili partner di conoscenza, con i quali ci confrontiamo costantemente per avere conferme delle nostre opinioni e per elaborare collettivamente una visione del mondo nella quale possiamo riconoscerci. Soprattutto nelle situazioni difficili o pericolose, il conforto dello sguardo dell’altro ci è di grande aiuto, e l’azione collettiva si conferma uno dei modi più efficaci per avviare e consolidare comportamenti nuovi. In particolare, la condizione comunitaria è in grado di attivare con forza la dimensione dell’identità sociale, un’importante dinamica psicologica che può avere un ruolo decisivo per il cambiamento nelle idee e nei comportamenti. Specie quando si tratti di contrastare un modo di vedere l’economia e la società che si è radicato profondamente nei vissuti e nelle aspettative degli individui, può essere molto utile il fatto di percepirsi parte di un gruppo significativo di persone che condividono una visione alternativa e che si impegnano concretamente per finalità collettive, sature anche di valenze etiche. Per far nascere un senso di comunità in contrapposizione all’individualismo proprietario e competitivo, oltre al buon cuore e alla disponibilità a riconoscere le alterità e a riconoscersi “esseri-in-comune” (Nancy, 1992), parti di una rete di relazioni umane e più-che-umane, serve anche una capacità di iniziativa individuale e collettiva. Buona volontà e fatica relazionale, attività politica, come quella che mosse i contadini servi della gleba che si ribellarono alla schiavitù del feudo e quella dei frati che dettero vita ai monasteri per sottrarsi alle prepotenze dei principi vassalli. Così come quella dei pirati che si appropriarono di isole “libere” atlantiche per farci le proprie basi logistiche e sperimentare le prime forme di democrazia diretta. Poco conta se non sempre gli esiti finali non si rivelarono coerenti con i desideri iniziali. Il bello della storia è la sua imprevedibilità. Avvicinandoci ai nostri tempi industrializzati pensiamo alla forza visionaria dei socialisti che fondarono i falansteri ottocenteschi, dei contadini dei villaggi indiani gandhiani, degli ebrei dei primi kibbutz semi autarchici e di innumerevoli altri tentativi di instaurare sistemi di autodeterminazione e autogoverno locale. Fino ad arrivare alle Giunte del buon governo in Chiapas e alle Comuni del Rojava (nella parte monografica il lettore troverà degli approfondimenti). Aperte o chiuse Si può dire che il mondo reale, al fondo, sia ancora fatto di comunità. «La comunità è il luogo stesso della nostra esistenza» – scrive Annamaria Vitale, in Enigma della comunità, in questo stesso fascicolo (a PAG.XXX). Pure se stressate dall’incedere delle varie ondate della mondializzazione capitalista, appena si gratta sotto le mappe geopolitiche, si scoprono in filigrana persistenze interessanti e potenziali soggettività trasformative. Lo straordinario lavoro di Massimo Angelini, che riportiamo in questi Quaderni (Angelini, 2023), ci mostra una mappa d’Italia a patchwork, festosa, composta di tante “màtrie” i cui confini porosi intrecciano più dimensioni territoriali e culturali. Certo è che piccole e grandi esperienze di resistenza sono state spazzate via dal rullo compressore dell’economia di mercato globalista e dall’ideologia opposta a quella comunitarista: l’individualismo proprietario. Anch’esso, però, paradossalmente, attinge la propria legittimità ad una certa idea (falsata) comunità; una comunità di individui che non mettono nulla in comune e che non hanno nulla in comune se non l’interesse di difendere la loro individualità egoistica. Disgraziatamente, infatti, ci sono altri possibili riferimenti etimologici che cambiano la semantica della parola comunità: cum-moenia, che fa riferimento a mura e a recinti, e cum–munia, doveri, vincoli e obblighi. La questione, quindi, si complica e fa della comunità una parola ameba (come ebbe a dire Illich a proposito della parola “vita”). Nel senso comune contemporaneo, infatti, e nelle proposte politiche dei movimenti che vanno per la maggiore, non sembra esserci più posto per un’idea di comunità solidale e inclusiva. Prevalgono le identità escludenti, disciplinanti. Una comunità può crearsi anche da bisogni egoistici di individui “estraniati” dai contesti naturali e umani della vita – direbbe Marx. Nell’“ecosistema biocapitalista” le istituzioni del capitale (l’impresa, il mercato e i relativi apparati statali) hanno bisogno di creare a loro sostegno aggregati di individui atomizzati accomunati da idealità astratte e da interessi corporativi. Per questa ragione il sistema dominante è molto impegnato nell’iniettare nella società forti dosi di ideologia identitaria, suprematista, patriottica, maschilista, classista, razzista. In definitiva, l’ampiezza del significato comunemente attribuito al termine comunità – una fragile costellazione semantica che incarna concetti diversi, persino opposti – è alla base della sua potenza retorica; capace di evocare sia ambienti familiari caldi e psicologicamente rassicuranti, confort zone di prossimità, sia stirpi primitive armate pronte ad immolarsi in battaglie esistenziali. La comunità è fatta di materia rovente, poiché gli immaginari di comunità possono suscitare passioni molto potenti e dare corpo a normative (jus cordis) contrastanti. Insomma, la nozione di comunità contiene notevoli ambiguità di senso e deve quindi essere usata con modi garbati e intenti sinceri. Serve buona fede nell’uso delle parole per riuscire ad usare un vocabolario comune. L’ordine comunitario è performante, finisce per assegnare alle persone che ne fanno parte un’identità sociale, compiti, mansioni e ruoli gerarchici specifici, personalmente impegnativi, spesso totalizzanti. È un’arma di integrazione e coesione degli individui nell’ordine sociale. Per tale motivo l’idea di comunità costituisce inevitabilmente uno dei principali campi di battaglia della politica. A ben vedere si tratta di una questione sempre presente nel definirsi delle relazioni umane, profondamente radicata nelle tradizioni culturali, nei miti delle origini, nelle suggestioni religiose e nelle utopie politiche anche nella razionalissima modernità occidentale. Al fondo, il pensiero politico e le relative sociologie di ogni tempo, si sono sempre dovuti confrontare con l’idea di comunità nel tratteggiare quale dovrebbe essere la “buona società”. O, se si preferisce invertire l’ordine dei fattori, la politica ha dovuto plasmare l’idea di comunità per ottenere una base sociale su cui fondare il consenso e legittimare le sue istituzioni. È l’adesione ad una comunità che conduce degli individui – uguali alla nascita e autonomi in potenza – ad accettare ordinamenti, ruoli e funzioni sociali predefiniti: liberi o servi, pater famiglia o mogli, bianchi o razzializzati, possidenti o proletari, nativi o immigrati, sudditi o cittadini4. Gli esiti li abbiamo sotto gli occhi, e non sono molto soddisfacenti. Per diventare “atto sociale”, per essere civitas, ovvero un sistema di regolazione dei comportamenti individuali, la comunità ha bisogno di creare e condividere proprie istituzioni e stabilire norme cogenti. Pensiamo all’ordine patriarcale, al suo gigantesco potere ordinamentale trasversale, simbolico e fattuale5. Pensiamo all’invenzione dello stato-nazione che ha accompagnato la rivoluzione industriale assecondandone le esigenze: accumulazione indefessa di capitali, sfruttamento senza impedimenti di una popolazione in rapido aumento ed estrazione di risorse naturali senza limiti6. Lo stato nazionale ha declinato l’idea di comunità in identità patriottica aprendo la strada alle tragedie del Novecento. Ma nemmeno due guerre mondiali sono servite ad elaborare genocidi ed ecocidi perpetrati in nome della superiorità di un popolo e delle loro nazioni. Tutt’altro! La logica identitaria crea contrapposizioni e ostilità e ci ha portato dentro un nuovo abisso: il genocidio di Gaza, le 56 guerre in corso (mai così tante dalla fine della Seconda guerra mondiale), il ReArm europeo, la sfida alla Cina. Dalla globalizzazione al protezionismo Non sappiamo se la policrisi (“polycrise”) (Morin, 1993), multifattoriale e multidimensionale, che attraversa la nostra civiltà avrà conseguenze ancora più catastrofiche di quelle che miliardi di persone stanno già subendo. Temiamo di sì. Ciò che è certo è che il ciclo neoliberale del capitalismo (iniziato mezzo secolo fa) ha accelerato in modo spettacolare i processi di degrado delle condizioni di abitabilità del pianeta (la crisi climatica ne è il termometro e la riduzione dello spazio vitale per le specie viventi, umanità compresa, né è l’esito) e acuito gli squilibri sociali (le migrazioni sono il sintomo dell’inceppamento del meccanismo della crescita e del progresso). Insostenibilità ecologica e insopportabilità morale procedono di pari passo. Le timide, contraddittorie politiche di regolazione internazionale si sono rivelate fallimentari. Immense concentrazioni di ricchezze monopoliste e il saccheggio delle risorse naturali (estrattivismo e predazione neocoloniale; ecocidio e epistemicidio come forma di cancellazione dell’identità e delle culture delle popolazioni marginalizzate, vedi Mario Pansera a pag XXXin questo fascicolo) precipitano il progetto di mondializzazione occidentale in un regime oligarchico neofeudale alimentato dalle rendite finanziarie, minerarie e fondiarie. L’ordine politico democratico liberale non è più in grado di intervenire sui processi di formazione e di distribuzione del valore, garantiti ora solo dall’uso delle forze militari dispiegate sul terreno. Siamo passati dal welfare al warfare7. Dalle democrazie alle postdemocrazie autoritarie. Nemmeno la fede tecno-ottimista ci viene in aiuto. Le “nuove tecnologie” si sono rivelate una turbina che fa girare il sistema economico prosciugando il Sud globale, impoverendo i ceti medi dell’ex Primo mondo e arricchendo sfacciatamente una ristretta élite tecnocratica di super ricchi e il loro giro di lacchè guerrafondai annidati nei grandi network e nelle aule parlamentari. Certo è che la declamata globalizzazione liberista che, deregolando il libero scambio di merci e capitali avrebbe allargato la torta del valore della ricchezza sociale complessiva, ha fallito8. La marea è cresciuta, ma non tutte le barche nel porto non si sono alzate, molte sono andate a fondo. Se ora, in tempo di risacca, la deglobalizzazione appare una inevitabile necessità (re-shoring, downsizing) , le soluzioni che si prospettano sono peggiori del male. L’establishment spera nella ripresa dei margini di profittabilità delle imprese attraverso politiche protezionistiche, scaricando sui soliti “paesi terzi”, attraverso i dazi, i trucchi della finanza e delle valute, i costi per sussidiare nuovi posti di lavoro nell’ex Primo mondo. Fallita la globalizzazione economica e il cosmopolitismo elitario del tardo capitalismo9, il delirio di potenza degli stati neocoloniali e imperiali (Make America Great Again, American First, Prima gli italiani, Prima i veneti… prima i miei amici) passa attraverso la somministrazione di grosse dosi di narrazioni nativiste e la ricreazione di un’ideologia etno-nazionalista, xenofoba, populista, revanscista, suprematista e sovranista. Una ideologia pericolosa molto contagiosa, facile da attecchire in ogni “piccola patria”, in ogni contea, città… condominio10. L’esito del referendum dello scorso 8 e 9 giugno in Italia sul quesito sulla cittadinanza è inquietante. Una parte di coloro che pure sono andati a votare (solo il 30% degli aventi diritto, la parte probabilmente più politicizzata e orientata a sinistra) hanno differenziato il loro voto marcando una ostilità verso l’allargamento dell’inclusione dei cittadini stranieri che risiedono legalmente. “Non sono razzista, ma…” gli stranieri è meglio che stiano lontani! La questione che si pone ora, urgentemente, è immaginare una fuoriuscita dalla crisi del progetto della globalizzazione neoliberale proponendo un’idea di decentralizzazione e riterritorializzazione del sistema economico senza cadere dalla padella alla brace dell’identarismo neonazionalista e del riarmo degli stati nazionali organizzati nei loro sistemi di alleanze intrecciati e mobili. Avvicinare i luoghi della produzione a quelli del consumo, accorciare le filiere produttive dei beni lungo cui viene stabilito il loro valore commerciale, rendere tracciabile l’intero processo e sottoporlo ad un controllo sia sul piano sociale che ecologico, tutto ciò dovrebbe diventare un imperativo democratico per chiunque. La sfida della responsabilità sociale e ambientale delle imprese (i famosi indicatori ESG, Environmental, Social and Governance) andrebbe presa sul serio e andrebbe preteso il suo rispetto. Bisognerebbe chiedere conto degli Obiettivi dello sviluppo sostenibile lanciati dall’Onu dieci anni fa e interrogarsi sulle ragioni del loro pressoché totale fallimento. Anche la sfida lanciata dai BRICS+ con il loro manifesto “multipolare” dovrebbe essere presa sul serio, verificata sul campo a partire da cosa sta accadendo nel continente africano. Dal canto nostro, dei movimenti per la giustizia sociale ed ambientale, dovremmo tornare ad osare una proposta radicale di “nuovo ordine mondiale” disarmato, privo di polarità, senza egemonie, senza sistemi di comando gerarchici. Un’idea di economia al di là del dispotismo del mercato, oltre l’imperativo della crescita dei tassi di profitto e dei rendimenti dei capitali. Un’economia postcapitalista e un ordinamento sociale oltre la dominazione degli stati. Un quarto di secolo fa a Seattle, poi a Porto Alegre e a Genova, i movimenti sociali avevano visto giusto e lungo. Teamsters (lavoratori sindacalizzati) e Turlies (attivisti ambientalisti) si erano uniti contro le istituzioni finanziarie internazionali, contro il debito usato per schiacciare e asservire i poveri del Sud globale, contro la delocalizzazione degli impianti industriali nocivi e l’esternalizzazione dei danni ambientali, contro l’iniquità e la violenza del sistema di potere. Ma abbiamo dovuto constatare che non basta essere dalla parte del vero e del giusto per avere ragione. Né i panel degli scienziati, né le voci delle nuove generazioni, né i moniti di un papa venuto “dalla fine del mondo” sono bastati a modificare la traiettoria del business as usual. Oltre la verità scientifica e l’indignazione morale è necessario riuscire a proporre una visione del mondo alternativa, desiderabile, credibile, realizzabile. Non a caso molte delle innovazioni più interessanti nel percorso di transizione ecologica e di critica al modello di sviluppo si stanno realizzando proprio in dimensioni comunitarie. Si pensi alle comunità energetiche dove, insieme alla finalità di contribuire alla decarbonizzazione, si diffonde una nuova consapevolezza circa l’importanza dell’energia e spesso anche una nuova sensibilità sociale. Oppure alle molte esperienze realizzate nel campo dell’economia solidale, che anch’esse mettono insieme obiettivi funzionali immediati (ad esempio cibo migliore e salvaguardia dell’ambiente) con finalità di tipo sociale e politico. In tutte queste situazioni, la possibilità di identificarsi con un collettivo a cui si attribuisce importanza anche dal punto di vista affettivo rappresenta per l’individuo una potente spinta motivazionale, molto efficace per favorire il cambiamento di atteggiamenti e comportamenti. L’alternativa delle comunità trasformative Da alcuni anni un gruppo di discussione attivato dalla Associazione per la decrescita sta lavorando per delineare un modello idealtipico di una società capace di autosostenersi, liberata dai mercati di esportazione, orientata alla sussistenza e all’autonomiai11. L’idea fondamentale è che le comunità (commons, comunalità, comunanze, collettività) vengano riconosciute come le unità di base costituenti l’intera intelaiatura sociale (il “comune”, nel linguaggio di Hardt e Negri, 2010): culturale, economica, politica-istituzionale. Secondo Nick Deyer-Whiteforf, inventore del termine “commonism”12, i commons dovrebbero essere considerati come «la molecola principale di una società al di là del capitalismo» (Esteva, 2013). Per il documento del gruppo di discussione della decrescita la reinvenzione delle comunità costituisce una proposta politica non solo “oltre il capitalismo” nella sua mera struttura economica, ma anche oltre l’intero progetto della Modernità occidentale, una particolare forma di civilizzazione che ha come obiettivo l’annientamento delle relazioni umane che legano tra loro gli individui. E, probabilmente, non basta ancora, poiché i presupposti su cui si fondano le strutture di potere della Modernità occidentale e del capitalismo si trovano ancora più in profondità nell’antropocentrismo patriarcale. Come dicono i movimenti femministi, andrebbero posti in discussione non 500, ma gli ultimi 5mila anni della storia umana. La questione che si pone, quindi, è se le nuove nuove/antiche idee di comunità, comunalità, comunanze, commons, comuni (al femminile)… potrebbero costituire le coordinate della società del futuro, rimpiazzare le grandi narrazioni ideologiche del progresso e dello sviluppo e gli strumenti tecnologici introdotti dall’industrialismo che accelerano l’entropia. Vi sono molte tracce per sostenere questa ardita tesi. Molte esperienze comunitarie che sorgono in varie parti del mondo riescono a ritagliare per sé economie semi indipendenti, sociali e solidali, parallele e, nel limite del possibile, autonome rispetto ai circuiti del mercato. In esse è possibile scorgere i germogli di nuove istituzioni autodeterminate, oltre l’imperativo della crescita e l’opprimente burocrazia statale, audacemente post-capitaliste, post nazionaliste, post-coloniali e post patriarcali. Il pensiero va immediatamente a regimi fondiari indigeni dell’ejido spagnolo e messicano, ai villaggi contadini indiani, alle proprietà indivise africane, ma anche ai demani collettivi sopravvissuti all’avvento delle rivoluzioni proprietarie borghesi in Europa. Considerati relitti premoderni dalle culture progressiste e sviluppiste, scopriamo (non da oggi13) che lo stesso Karl Marx considerava le comunità di villaggio russe (obscina) gestite dal mir (assemblea tradizionale simile al consiglio degli anziani) una formazione con un carattere comunistico. Il lavoro di Kohei Saito14 ha aperto delle prospettive feconde per un incontro tra culture socialiste ed ecologiste nel loro punto più avanzato: il comunismo e la decrescita. Ad una certa idea di comunità corrisponde una certa idea di buen vivir, ovvero una società liberata dalla dittatura della crescita del profitto e dell’accumulazione, capace di condividere in modo equo e sostenibile (giustizia ambientale e sociale) la vita sul pianeta (i beni e i servizi ecosistemici). Penso, quindi, che le comunità ancorate alla dimensione territoriale locale (bioregioni, villaggi, città di città, etc., etc.) siano «lo spazio geografico al di qua dei sistemi ufficiali di ordinamento» (Angelini, 2023), l’unica risposta politica (un autogoverno responsabile, eticamente fondato) alla catastrofe in atto (biocidio, ecocidio, genocidio…). Niente delega Ci si obietterà che si tratta di ingenue utopie. Peggio, pericolose nostalgie premoderne. Fughe dalla realtà e dall’impegno politico e sociale necessario qui ed ora. Ci si dirà che in tempo di catastrofi ambientali e di guerra, in un momento in cui le cancellerie degli stati sono impegnate a stampare titoli di credito per produrre armi, a richiamare riservisti, ad esercitare le popolazioni al combattimento fin nelle scuole e a creare il panico tramite giornali e social contro l’invasione degli immigrati, dei russi, dei cinesi… la priorità dovrebbe essere fermare la macchina militare. E basta. È certamente vero che di fronte alle devastazioni in atto servirebbe un pensiero e una politica mondiale comune e processi decisionali rapidi e universali. Servirebbero istituzioni sovranazionali autorevoli e forti in grado di imporre quantomeno il rispetto dei trattati esistenti contro la proliferazione delle armi nucleari e batteriologiche, l’attuazione dei protocolli contro il cambiamento climatico, il rispetto delle convenzioni sui diritti umani, la conservazione della biodiversità, degli oceani, i protocolli sulla prevenzione dalle pandemie e molti altri accordi transnazionali che pure sono stati sottoscritti. Ma appellarsi alle organizzazioni mondiali senza chiedersi perché lo stesso Onu sia sotto schiaffo, umiliato e sfiduciato dagli stati che lo hanno creato, è la peggiore delle illusioni; la delusione è sicura. La questione della pace, come quella ecologica, come quella della giustizia sociale non saranno mai affrontate se la loro soluzione continuerà ad essere delegata ad organismi transnazionali interstatali. Si tratta di una vera e propria trappola di remissione di responsabilità in cui cadono gli stessi movimenti pacifisti ed ambientalisti quando fanno affidamento sull’ascolto dei “Capi di Stato e di Governo”, come se avessero una sensibilità etica. Gli unici strumenti che conoscono con cui esercitano il loro potere sono il denaro e le armi; accesso alle risorse e sfruttamento del lavoro; supremazia e deterrenza. Ha esclamato una volta Greta Thunberg: «Invece di affidarci alla speranza, cerchiamo l’azione. Allora, e solo allora, la speranza arriverà». Se le cose stanno così, se non vi sono scorciatoie attraverso cui raggiungere il cambiamento e realizzare una società di vite liberate da ogni forma di dominio di nascita, di classe, di genere, di specie allora il progetto politico della creazione di un sistema di comunità territoriali capaci di autogovernarsi e di relazionarsi tra loro alla pari può diventare la via più promettente ed efficace da percorrere. Nel rapporto tra locale e globale, tra “stock e flussi” (come direbbe Aldo Bonomi, 2024) la dimensione locale dovrebbe prevalere come un vincolo insuperabile. Potrebbe costituire quel rivoluzionario “freno d’emergenza” auspicato da Walter Benjamin necessario a bloccare la folle corsa del treno della crescita. Le mille resistenze locali all’uso privatistico dei beni comuni potrebbero costituire tanti piccoli inciampi potenzialmente capaci di far deragliare il treno della morte. Solo demercificando l’uso dei beni della terra si potrà restituire valore alla vita. Nessuna forma di vita concreta, nessun luogo del pianeta, nessuna popolazione può essere sacrificata in nome di “interessi superiori” sovraordinati imposti in nome di un “progresso” che non è per tutti, imposto con la violenza delle armi e del denaro. Il sistema dei poteri va rovesciato e riportato al livello del suolo, luogo per luogo, ecosistema per ecosistema, comunità per comunità. Solo se si dà valore ad ogni singola forma di vita si capirà la follia della guerra così come di ogni altra forma di violenza sulla natura. Il progetto della modernità occidentale ha inteso la natura come risorsa e l’attività umana come mero strumento di produzione di oggetti. Non sappiamo se la traiettoria del progetto di civilizzazione occidentale sia sul punto del collasso e se questo trascinerà nel baratro l’intera umanità, come è già accaduto con due guerre mondiali. Sappiamo comunque che il nostro compito è quello di evitare tale eventualità, con ogni mezzo. Non tutti possono permettersi di attendere, nella loro torre d’avorio, l’esito della catastrofe per reagire. Rimane aperto il quesito fondamentale sul piano politico: quali possono essere i soggetti collettivi interessati, gli enti sociali trasformativi capaci di far propria la proposta comunitarista, territorialista, municipalista, convivialista…? Diverse ipotesi sono state da tempo affacciate da pensatori come Murray Bookchin, Cornelius Castoriadis, Ivan Illich, Takis Fotopoulos, Gustavo Esteva, Alberto Magnaghi, Raul Zibechi e non molti altri. La ricerca di “un” nuovo soggetto storico trasversale, unificante, internazionale e universale – capace di rimpiazzare quello incarnato un tempo nel proletariato e nella classe dei lavoratori – ha riempito le teorie sociopolitiche contemporanee: Bruno Latour ipotizza una “classe ecologista”. Altri un “biotariato”. Occupy Wall Street il “99%”. Probabilmente sarà dal “Sud globale”, dai “naufraghi dello sviluppo” (Latouche, 2017) che dovranno venire le migliori indicazioni anche per noi. (Ringrazio Bruno Mazzara per la revisione e i suggerimenti ricevuti) -------------------------------------------------------------------------------- Riferimenti bibliografici Accademy of Democratic Medernity, website: democraticmodernity.com. Ash Amin, After Nativism: Belonging in an Age of Intolerance, Polity. Massimo Angelini, La carta delle màtrie di un’altra Italia, Premessa alla guida della seconda edizione, edizioni Temposospeso, Minceto di Ronco, Scrivia, 2023. Filippo Barbera, Le piazze vuote. Ritrovare gli spazi della politica, Laterza, 2023. Zygmunt Bauman, Voglia di comunità, Laterza 2001. Giuseppe Barbiero, Ecologia affettiva, Mondadori, 2017. Aldo Bonomi, Sul confine del margine. Tracce di comunità in itinere, Derive Approdi, 2024. Benoit Bréville, Un altro protezionismo è ancora possibile. Le Monde Diplomatique, maggio 2015. David Bollier, Creare nuove comunità in Comune: https://comune-info.net/creare-nuove-comunita/ 27 settembre 2017 David Bollier e Silke Helfrich, The Wealth of the Commons. A World beyond Market & State, The Commons Strategies Group, 2012. Paolo Cacciari, 101 piccole rivoluzioni, Altreconomia, 2015. Fritjof Capra e Pier Luigi Luisi, Vita e natura. Una visione sistemica, Aboca, 2014. Mario Cenedese, Karl Marx: ripensamenti. Il modo di produzione asiatico e la lettera a Vera Zasulič, in: La decrescita tra passato e futuro, a cura di P. Cacciari e A. Castagnola, Marotta & Cafiero, 2018. John Clark, Dallo Stato alla comunità. Il mondo di domani, elèuthera. Marianna Esposito, Oikonomia: una genealogia della comunità. Tönnies, Durkheim, Mauss. Mìmesis 2011. Gustavo Esteva, Nuovi ambiti di comunità. Per una riflessione sui beni comuni, (titolo originario Commonism. Enclosing the Enclosers, 2014), Voci di Abya Yala, a cura del gruppo camminardomandando www.camminardomandando.wordpress.com. Rana Foroohar, La globalizzazione è finita, Fazi, 2025. Nancy Fraser, Capitalismo cannibale. Come il sistema sta divorando la democrazia, il nostro senso di comunità e il pianeta. Laterza, 2022. Michael Hardt e Antonio Negri, Comune. Oltre il privato e il pubblico, Rizzoli, 2010. Serge Latouche, Il pianeta dei naufraghi. Saggio sul doposviluppo. Traduzione di Alfredo Salsano, Fabrizio Grillenzoni, Bollati Boringhieri, 2017. Peter Linebaugh, The Magna Carta Manifesto, University of California Press, 2008. Peter Linebaugh e Marcus Rediker, I ribelli dell’Atlantico. La storia perduta di un’utopia libertaria, Feltrinelli, 2018. Alberto Magnaghi, Il principio territoriale, Bollati Boringhieri, 2020. Ugo Mattei, Il benicomunismo e i suoi nemici, Torino, Einaudi, 2015. Giuseppe Micciarelli , I beni Comuni e la partecipazione democratica, www.academia.edu. Edgar Morin e Anne Brigitte Kerne, Terre-Patrie, Éditions du Seuil, 1993. Jean-Luc Nancy, La comunità inoperosa, Cronopio, 1992. Abdullah Öcalan, Oltre lo stato, il potere e la violenza, Edizioni Punto Rosso, 2016. Rossano Pazzagli, Un Paese di paesi. Luoghi e voci dell’Italia interna, Edizioni ETS, 2021. Rete Kurdistan Italia https://www.retekurdistan.it/ e UIKI – Ufficio Informazioni Kurdistan in Italia http://uikionlus.org/ Manuel Riemer, Stephanie M. Reich (2011), Community Psychology and Global Climate Change, Special Section of American Journal of Community Psychology, n. 47. -------------------------------------------------------------------------------- 1 Vedi: Peter Linebaugh, The Magna Carta Manifesto, University of California Press, 2008 e con Marcus Rediker, I ribelli dell’Atlantico. La storia perduta di un’utopia libertaria, Feltrinelli, 2018; David Bollier, Creare nuove comunità in comune-info: https://comune-info.net/creare-nuove-comunita/ 27 settembre 2017 e con Silke Helfrich, The Wealth of the Commons. A World beyond Market & State, The Commons Strategies Group, 2012; Gustavo Esteva, Nuovi ambiti di comunità. Per una riflessione sui beni comuni, (titolo originario Commonism. Enclosing the Enclosers, 2014), Voci di Abya Yala, a cura del gruppo camminardomandando www.camminardomandando.wordpress.com; Ugo Mattei Ugo Mattei, Il benicomunismo e i suoi nemici, Torino, Einaudi, 2015; Giuseppe Micciarelli , I beni Comuni e la partecipazione democratica, https://www.academia.edu 2 Una nota personale. Questa passione per l’autogoverno e l’autogestione mi ha portato a girare in lungo e in largo l’Italia collezionando “buone pratiche”, divulgandole e organizzando anche viaggi di studio (vedi: 101 piccole rivoluzioni, Altreconomia, 2015). Ciò mi ha permesso di conoscere concretamente molte realtà locali e altre associazioni che hanno fatto di queste realtà il loro campo di studio e di intervento politico. Penso alla Società dei Territorialisti, fondata da Alberto Magnaghi, con l’Osservatorio su svariati casi studio: https://www.societadeiterritorialisti.it/2019/01/22/schede-gia-elaborate/ ). Penso agli studi antropologici di Massimo Angelini, Un’altra Italia, 2021. Penso alla rete sui beni comuni emergenti ad uso civico nata attorno alle esperienze di Napoli e di Mondeggi. Penso alla associazione che riunisce i demani collettivi (ex usi civici) e che fa capo al Centro studi di Trento. Penso alla Ries (Rete italiana dell’economia solidale). Ma penso anche a gruppi che operano nel campo dell’informazione come Comune, Italia che cambia, Salviamo il paesaggio, e altri che hanno buoni archivi. 3  La tesi del darwinismo come sostegno dell’individualismo competitivo non è vera, né rispetto agli scritti di Darwin né soprattutto nelle più moderne riflessioni; è una distorsione del pensiero di Darwin. Soprattutto gli sviluppi maturi dell’evoluzionismo hanno mostrato che il segreto della vita è proprio l’organizzazione in unità complesse che hanno in definitiva una logica comunitaria e di cura reciproca; valga per tutti il potente pensiero di Capra (Vita e natura. Una visione sistemica); si può vedere in proposito anche il quarto capitolo del bel libro di Giuseppe Barbiero Ecologia affettiva, intitolato “Tutti per uno, uno per tutti”; ciò in particolare esaltato nella specie umana, dove la cooperazione è la vera forza del successo adattivo. 4 Per una ottima ricostruzione del dibattito sulle funzioni performanti delle comunità nel capitalismo rimando al volume di Marianna Esposito, Oikonomia: una genealogia della comunità. Tönnies, Durkheim, Mauss. Mìmesis, 2011. 5 Penso sia significativo, per le esperienze straordinarie di autogoverno che stanno conducendo le popolazioni curde, richiamare diffusamente alcune loro basi teoriche elaborate da Abdullah Öcalan, in particolare per quanto riguarda il patriarcato. «Nel neolitico la società sembra fosse più matricentrica, attorno alla donna si era formato un ordine sociale comunitario, senza quelle gerarchie che poi lentamente vennero introdotte. L’uomo cacciatore e lo sciamano, il vecchio saggio, cominciarono a costruire il predominio maschile; sia la caccia che la difesa del clan erano attività basate sull’uccidere, avevano una valenza militare: qui comincia la cultura della guerra, tipicamente maschile. […]. Nell’elaborazione del Confederalismo Democratico, stato, famiglia, schiavismo, capitalismo, colonialismo, sono tutti concetti che derivano dal patriarcato. Nessuno può considerarsi veramente libero, se la donna non è libera. Liberare la vita è possibile “uccidendo” l’uomo dominante; liberare la vita non è possibile senza una radicale rivoluzione delle donne che cambi la mentalità e la vita dell’uomo». Sul Confederalismo democratico (ed. Tabor), Vedi le pubblicazioni di Academy of Democratic Modernity. 6 Rimaniamo nelle elaborazioni del Confederalismo democratico di Abdullah Öcalan: «Lo Stato-nazione, spina dorsale della modernità capitalista, è certamente la gabbia della società naturale. Esso addomestica la società in nome del capitalismo e allontana la comunità dai suoi fondamenti naturali, mirando a creare un’unica cultura nazionale, un’unica identità nazionale e una cittadinanza omogenea. La cittadinanza della modernità non è altro che la transizione dalla schiavitù privata a quella statale. (…) Il Nazionalismo è la sua religione, la sua vera missione è il servizio allo Stato-nazione virtualmente divino e alla sua visione ideologica che pervade tutte le aree della società. Arti, scienze e consapevolezza sociale: nessuna di loro è indipendente». Per approfondimenti vedi: Rete Kurdistan Italia https://www.retekurdistan.it/ e UIKI – Ufficio Informazioni Kurdistan in Italia http://uikionlus.org/ 7 Come scrivemmo un anno fa: https://quadernidelladecrescita.it/2024/05/06/che-fine-ha-fatto-leuropean-green-deal-dai-prati-verdi-al-riarmo/ 8 Benoit Bréville, Un altro protezionismo è ancora possibile. Le Monde Diplomatique, maggio 2015. L’autore ricorda la stagione degli accordi multilaterali e regionali di libero scambio inaugurata con il NAFTA nel 1994 (per il Nordamerica). In tutto sono in vigore 373 accordi. 9 Rana Foroohar, La globalizzazione è finita, Fazi, 2025. 10 Ash Amin, After Nativism. Belonging in an Age of Intolerance , Polity Press, 2023.  11 Una prima stesura del documento fu presentata alla conferenza di Venezia 2022 e pubblicata dai Quaderni: https://quadernidelladecrescita.it/2024/01/01/comunita-e-decrescita/ 12 Sul significato di commonism vedi: https://blog.p2pfoundation.net/the-concept-of-commonism-as-introduced-by-nick-dyer-witheford/2013/08/18. Nick Deyer-Whiteforf ha partecipato ad un confronto su marxismo e decrescita promosso dai Quaderni: https://quadernidelladecrescita.it/2024/08/26/comunismo-della-decrescita/.  13 Mario Cenedese, Karl Marx: ripensamenti. Il modo di produzione asiatico e la lettera a Vera Zasulič, in: La decrescita tra passato e futuro, a cura di P. Cacciari e e A. Castagnola, Marotta & Cafiero, 2018..  14 Vedi la monografia su Marx e la decrescita nei Quaderni n. 3: https://quadernidelladecrescita.it/numero-3/ -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Comunità per la decrescita proviene da Comune-info.
Elezioni presidenziali in Camerun: la protesta nei seggi di Roma contro il rischio di brogli
Le elezioni presidenziali in Camerun vedono il presidente Paul Biya – in carica dal 1982 – favorito. Se dovesse vincere anche queste elezioni, sarebbe il suo ottavo mandato. Negli anni la repressione del governo Biya contro le opposizioni è stata gradualmente acuita e la libertà di stampa drasticamente limitata. Il governo autoritario, sostenuto dalla Francia, […]
Nel nome di Laika, smisurata preghiera
Si è detto che, se anche un leone potesse parlare, non potremmo capirlo. Si è fatto notare (facezia o meno, forse può importar poco) che da quegli ormai lontani anni ’60 in cui il progetto Grandi Scimmie iniziava, alle grandi scimmie sono state poste numerose domande, eppure nessuna di loro ne ha rivolta alcuna a noi. Un po’ come se la risposta al problema dell’Animale, che crediamo non saprebbe, di norma, rispondere – lezione che ci portiamo dietro da quel Descartes che sosteneva che l’animale, favolosa macchina computazionale, potesse mettere in fila voci plausibili e anche verosimili, ma mai rispondere contestualmente a una domanda ricevuta – stesse non tanto, appunto, nella abilità a rispondere quanto nell’abilitazione alla replica, alla contestazione, al racconto. Che gli animali possiedano la capacità di dare risposte sensate a domande (sensate? Questo, forse, ce lo domandiamo di meno), lungi da essere assunto, è ipotesi in corso di negoziazione, inesausto campo di lotta. E il redde rationem è ogni volta travagliato, raggiunto attraverso uno sfinimento, se non già una violenza laboratoriale. Forse per questo arriviamo anche noi, con una qualche stanchezza, a domandarci perché l’animale dovrebbe mai risponderci, o voler parlare con noi. Perché dovrebbe rivolgerci la parola, o rivolgersi a noi con una parola. Aspettarsi, tra l’altro, che chi subisce l’oppressione manifesti le sue doglianze in forma ordinata e composta, rifinita e non frammentata né esplosiva, è forse un’ulteriore torsione di quell’oppressione stessa, ricatto o tranello che solo chi occupa il posto dell’oppressore può tendere – e chi frequenta la politica della rabbia lo sa bene. Da questa prospettiva sembrava muoversi Massimo Filippi nella sua riflessione Not in my name, ospitata ne L’albergo di Adamo (edito da Mimesis nel 2010). Testo in cui Filippi si confrontava con alcuni (quattro: Enkidu, Argo, Stendardo e Laika) animali fra quelli che hanno attraversato la letteratura e la filosofia. «A differenza di Adamo», qui si diceva, rievocando la scena biblica in cui Dio conduceva gli animali davanti al Primo Uomo, perché lui vi imponesse un nome (scena in cui Walter Benjamin vedeva nascere nella natura, impossibilitata a darsi un nome proprio, o a dare nomi a sua volta, una mutezza che era presagio di lutto), ecco, «a differenza di Adamo non convocheremo questi animali (Enkidu, Argo, Stendardo e Laika) per dar loro un nome, ma ci approssimeremo a loro per venire a sapere cosa e come intendono risponderci». > Questo perché, al di là di fantasie di potere (o meglio, favole: quel > derridiano dare l’impressione di sapere qualcosa, laddove un sapere non c’è e > viene invece costituito attraverso la sospensione della complessità, del > dubbio, dell’ignoscenza), «gli animali conoscono i loro nomi e si chiamano tra > loro», e solo accostandosi a loro tramite questa postura, che ha a che fare > forse con quel farsi umili, all’altezza dei fiori e delle cose piccole che > persino Nietzsche consigliava, si può ricevere da loro un qualche tipo di > risposta, o una qualche forma di riguardo. Bisognerebbe insomma tentare di parlar loro da quella postura che era quella da cui Ortese, si ricordava sempre nelle stanze dell’Albergo, poteva chiamare Laika – o sognava di poterlo fare: «Vorrei gridare: Laika! Siamo qui! Ti amiamo! Torna indietro, Laika! Sì, sono questi i miei sogni: la resurrezione, il ritorno di tutti i morti nell’ingiustizia. Già la morte è ingiustizia. Ma l’ingiustizia, talora, come per Laika, è più ingiusta di ogni altra cosa ingiusta. È del tutto il segno della disgrazia di Adamo, dice l’orrore della intelligenza di cui si è fidato. Dice che non bisognerebbe più fidarsi di questa guida. Tornare indietro!». E così Filippi sembra forse fare, adesso: tornare indietro, come incitava a fare Ortese attraverso Laika –, o tornare semplicemente a Laika, forse. Con un nuovo testo, che porta proprio questo titolo: LAIKA, forse, appena uscito a settembre per l’editore Ortica: il 3 novembre la cagnolina sarebbe stata lanciata nello spazio, a bordo dello Sputnik 2, e sarebbe morta dopo poche ore, nonostante la versione ufficiale promossa dal governo sovietico racconti di quattro giorni di sopravvivenza nel cosmo. Se ipotizziamo un mese di addestramento nelle stanze della scienza, forse proprio a quei giorni di settembre risale la sua cattura? Il testo, con un’epigrafe da Walking at night di Louise Glück, proprio in giro (di notte? Forse) si apre, precipitandoci in una prosa loppide, che immediatamente ci avverte dell’orrore di una certa intelligenza e della sua velocità: «Le strisce grigie sono pericolose ci passano i grossi coleotteri rotolanti di metallo e vetro e schiacciano non appena ti distrai schiacciano senza pietà o rimorso bisogna saper valutare la loro velocità e avere pazienza ne ho già visti parecchi di simili e diversi stesi a terra con le viscere fuori il sangue e le urla e il disinteresse il pianto o le risa» (p. 7). Siamo allora Laika, forse, o quantomeno sentiamo con lei: sentiamo che, rispetto alla frenesia dell’abitacolo latta e del copertone che vortica sull’asfalto, c’è una velocità che ci dà più gusto e più gioia – «seguo una traccia m’immergo nel profumo che porta e corro a zigzag mi piace correre fermami ad annusare un arbusto rigoglioso o rinsecchito un effluvio di urina ancora calda» (p. 8). E c’affezioniamo, naturalmente, a questo cuore di cana, seguendola sino al capitolo secondo che ci conduce nostro malgrado In laboratorio, un ritmo stagnante e rituale in cui una voce metallica, assieme asettica e rabbiosa e certamente troppo umana le fa da controcanto, e dunque a un capitolo terzo, nel quale siamo spedite, rinchiuse, a una velocità vorticante, In orbita. Per accostarci ancora una volta a lei, in una quarta parte che c’immerge, da fuori, in una smisurata preghiera laica, litania della nuova voce narrante che a Laika, forse, si rivolge – per accostarci a lei non, purtroppo, in fuga, ma In coda. Continuiamo dunque ad approssimarci, tenendoci perciò, grazie alla cura attenta dell’autore, in quella che è la giusta distanza – secondo Pascal ve ne è solo una, una per ciascuna cosa: e insieme a ciascuna cosa va indovinata, e dunque mantenuta –, perché siano eventualmente gli animali non umani ad avvicinarsi a noi, se mai vorranno, per raccontare quella loro storia (che pure, quando scompare il corpo, dilegua anch’essa). L’effettiva storia e l’effettivo nome di Laika, il cui nome richiama la parola russa per il verbo abbaiare, e che davvero era nome comune di cane, ribattezzata in realtà Kudrjavka, ovvero ricciolina, non possono essere scoperti, non si lasciano stanare. Filippi allora sembra stare in attesa, stare a vedere che cosa lei vorrà dirci, se mai vorrà dirci qualcosa (una parola, o altro): e allora per Laika produce quelle immagini-racconto che J.-L. Nancy, in una bellissima riflessione sul cineasta Kiarostami, diceva avessero il potere di rivaleggiare con la cosa, non nella forma dell’agonismo ma della corsa e della rincorsa; in questa sfida l’immagine chiamerebbe quindi avanti la cosa, la evocherebbe, chiamerebbe alla presenza: «Nell’immagine o come immagine […] la cosa è posta in soggetto: essa si presenta». «Adesso, tu, forse puoi raccontare la tua storia di nuovo per una volta» (p. 78), scrive infatti l’autore nella quarta parte, rivolgendosi alla cagnolina che, forse, ha evocato – di cui ha indovinato il nome, forse. E lo ha indovinato senza colpo ferire, e senza ammutolire di rimando – niente di più distante da un novello Adamo. L’ha indovinato come Zanzotto indovinava che i «furbissimi topinambur / si affollano al cancello / come a scuola, nel giorno giusto» e forse questo è il potere profetico della poesia, anche quando rifiuta la forma del verso riconoscibile. E quindi noi leggiamo e ci facciamo raccontare la storia di LAIKA, forse, la storia della persona che l’ha incontrata e ne è rimasta ossessionata, infestata come solo lo si può essere a motivo di un fantasma. Persona e terza voce narrante, questa, che appare dopo il cane e dopo lo scienziato, ma che pare anche lei loppide nella misura in cui con sicurezza assume la posa del cinico: quella sicurezza che sola proviene dal coraggio della verità, verità che va spesso abbaiata, indovinata e profetizzata, chiamata in avanti, tramite la giusta distanza e la giusta immagine. È questa voce-abbaio che sa vedere nel corpo della cagnolina in fiamme nell’abitacolo spaziale una protesta, una rivolta nella forma dell’autoconsunzione, una violenza girata di segno, rivolta su di sé, nell’impossibilità o forse nella lucida volontà di non volgerla verso il fuori e restituirla, sfogata. > È sempre una voce cinica e nuda quella che ci avverte – questa violenza > ricevuta è sì evidente sul corpo di Laika, che da questa violenza è stato > consumato, ridotto in cenere, smontato in laboratorio, spedito in orbita; > spesso non lo è altrettanto su quei corpi che rimangono, loro sì, senza alcun > nome: sterminate sono le vittime dell’industria zootecnica, della violenza > degli stabulari (quali velocità avrebbero corso, loro, quali piste avrebbero > seguito col naso o con le orecchie, di cosa avrebbero goduto? Cosa ci > avrebbero raccontato, dove e come avrebbero esploso la loro rabbia, la loro > protesta?).  Ed è, ancora, sempre questa voce di cane che ci ammonisce, perché «il nostro sguardo non vede, noi abbiamo gli occhi rivolti all’indietro» (p. 72), e qui non si parla di quell’indietro a cui dovremmo tornare, come ci diceva Laika attraverso Ortese, ma forse piuttosto di quell’indietro che è la cecità e cattività di cui aveva parlato Rilke nell’Ottava Elegia; abbiamo gli occhi come rivoltati, tesi come una rete a imprigionare quel libero passo delle cose – che, sempre con Rilke, non riusciamo a sentir cantare: «io temo tanto la parola degli uomini./ Dicono tutto sempre cosí chiaro: / questo si chiama cane e quello casa, / e qui è l’inizio e là è la fine […] Vorrei ammonirli, fermarli: state lontani. / A me piace sentire le cose cantare. / Voi le toccate: diventano rigide e mute. / Voi mi uccidete le cose». A chi ha questo coraggio, a chi ha questa forza di rimanere in silenzio per stare a sentire, e da lì tornare ad abbaiare contro quella realtà – che non è l’unica possibile – che s’è incaricata di mettere a tacere ogni randagia devianza e ogni altra possibilità, può infine apparire un intimo segreto: «Che la tua storia non è andata perduta, che ancora racconti e che ancora si dice, che il tuo fulgore celeste tuttora traluce nella terranea radice» (p. 78). A chi abbia scoperto questo segreto inconfessabile diventerà forse possibile farsi testimonianza di questa verità lo stesso scoperta, e raccontare, a chi sfoglierà le pagine, questa cinica storia che è anche un po’ una cinegetica dalla parte del cane, rincorsa in cui è una cagnolina riccioluta a starci alle calcagna, a braccarci, a toglierci anche il fiato quando il fiato si fa più fioco e rado, nello Sputnik, assieme a lei. In uno scambio pure a distanza, Blanchot e Nancy si interrogavano sulla possibilità di una comunità il cui nome non evocasse quel fondale storico di disastro sul quale ogni comunità che conosciamo, invece, si staglia. Una comunità che quindi rinunciasse da subito all’opera (di cui la corsa allo spazio può essere lampante esempio, adamitica velocità che ha mostrato e ancora oggi mostra un certo non-senso), una comunità che quindi rinunciasse da subito all’idea di non-mortalità. Una comunità, si ipotizzava, che si formasse anzi là dove può tenere la mano – se non è una mano, forse, potrà essere una poesia, o una zampa, una coda di ratto, e così via – a quel’altr* che muore. Comunità inconfessabile, perché muto sembrerebbe, a chi non ne fosse coinvolt*, quel dialogo che ha la forma del commiato. Comunità dell* amant*, forse la chiamavano, che avrebbe per fine la distruzione della società per come la conosciamo. Comunità che avrà mai un nome? Forse, se e quando avrà voglia di dircelo, di raccontarcelo, di invitarci a prenderne parte; allora seguiremo anche noi le tracce di Laika, forse, o forse dell’orso M49, o – «forse sono le mie o forse di un qualche forsennato disfarsi dei bordi del mondo in attesa di rinascere in sfolgorante creazione» (p. 84). La copertina è di Colectivul Dumitrana wikicommons SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress si può donare sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo Nel nome di Laika, smisurata preghiera proviene da DINAMOpress.
Arte e pace nelle Madonne di Rosita
A Mirabella Eclano l’inaugurazione della mostra di Rosita Caiazzo: un percorso che restituisce voce e luce al femminile come potere di trasformazione e accoglienza. Mirabella Eclano, 13 settembre 2025 – Al Museo di Arte Sacra si è tenuta l’inaugurazione della mostra Le Madonne di Rosita , opere di Rosita Caiazzo che reinterpretano le icone mariane popolari, rivestendole di gioielli, strass, perle e fili luminosi. La sala ha accolto un pubblico numeroso e la presenza del sindaco Giancarlo Ruggiero, segno del valore riconosciuto dalla comunità a un evento capace di intrecciare tradizione e contemporaneità. Durante la presentazione qualcuno ha chiesto: «C’è la Madonna del sorriso, quella della luce, dell’amicizia… ma dov’è la Madonna della pace?». Rosita ha sorriso e ha risposto: «Sono tutte di Pace». Queste parole racchiudono il cuore della mostra. La pace non è assenza di conflitto, ma la sua trasformazione: differenze e tensioni che convivono senza distruggersi. Le Madonne di Rosita ci dicono che possiamo essere adornati e profondi, fragili e luminosi, senza che una dimensione annienti l’altra. Il 20 settembre Mirabella Eclano vivrà un altro momento collettivo: la Tirata del Carro , rito antico che unisce sacro e profano, fede e festa. Come le Madonne di Rosita, anche il Carro ricorda che la pace non è un concetto astratto ma un’esperienza di comunità: la libertà di espressione che diventa coralità. È la partecipazione condivisa a rendere vive le tradizioni, trasformandole in patrimonio comune. Là dove la guerra distrugge il sacro e l’arte, questi gesti comunitari – una mostra, una festa, un carro che si solleva – mostrano che la pace abita qui: nella capacità di un popolo di esprimersi insieme, custodire memoria e futuro, trasformare il conflitto in appartenenza. E forse questo è anche il tempo in cui le donne vanno riscoperte come Madonne: non immagini lontane e intoccabili, ma vivi del femminino come potere curante dell’umanità. In loro si rivela una forza che non divide ma unisce, che non domina ma accoglie, che non giudica ma trasforma. Ritrovare questo femminino significa aprire strade nuove di cura e di pace, là dove l’umanità può ritrovare la propria possibilità di salvezza. Rosita Caiazzo, nata a Napoli e residente a Sorrento, è artista visiva formatasi all’Accademia di Belle Arti di Napoli. La sua ricerca intreccia pittura, scultura e installazioni, con una particolare attenzione al linguaggio popolare e religioso. Con Le Madonne di Rosita restituiscono voce e luce a immagini devozionali familiari, trasformandole in simboli di bellezza, appartenenza e cura collettiva. Stefania De Giovanni