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VENERDÌ 5 DICEMBRE: ANALISI CRITICA DEI FATTI ECONOMICI DELLA SETTIMANA CON ANDREA FUMAGALLI.
  Su Radio Onda d’Urto nuovo appuntamento del venerdì, in questo 5 dicembre 2025, con la rubrica di analisi critica dei fatti economici della settimana con l’economista e nostro collaboratore Andrea Fumagalli. I temi che abbiamo affrontato: la crescita della spesa militare globale secondo i dati del Sipri; l’indagine sul fenomeno del caporalato nel mondo della moda; il futuro dell’ex Ilva e, infine, gli omicidi sul e del lavoro, che in Italia coinvolgono lavoratrici e lavoratrici con 60 anni (e più). ARMI & SOLDI – La spesa militare globale è cresciuta bruscamente nel 2024. Lo rileva l’indagine annuale del Sipri, l’Istituto internazionale di ricerche sulla pace di Stoccolma. Le entrate dei primi cento gruppi industriali del settore hanno registrato un incremento anno pari al 5,9% per un fatturato complessivo di 679 miliardi di dollari. Negli Stati Uniti, le aziende presenti nella Top 100 come la Lockheed Martin, Northrop Grumman e General Dynamics hanno registrato ricavi del +3,8%.. Le 26 aziende europee, esclusa la Russia, hanno visto crescere i ricavi del 13%, per un totale di 151 miliardi di dollari. La crescita più impressionante è quella della ceca Czechoslovak Group, che ha quasi triplicato il proprio fatturato grazie alla fornitura di munizioni a Kiev. L’italiana Leonardo è al 12esimo posto in classifica e risulta seconda in Europa. Nel 2024 il fatturato militare del gruppo italiano è stato di 13,83 miliardi di dollari, il 72% del totale. In un anno la sua crescita è stata superiore al 10%, arrivando a contendere l’11esimo posto alla cinese Norinco. Fincantieri si piazza al 53esimo posto della ‘top 100’ con ricavi militari per 2,99 miliardi di dollari, circa un terzo delle entrate societarie totali, segnando un +4,5% in dodici mesi. SFRUTTAMENTO “MADE IN ITALY” – La Procura di Milano, che sta indagando sul fenomeno del caporalato nel mondo della moda, ha chiesto ad altri 13 grandi gruppi del settore di “consegnare” tutta “la documentazione”, in particolare quella sui “sistemi di controllo” sulla catena di appalti e subappalti nella produzione affidata a stabilimenti cinesi clandestini,  violando le leggi sul lavoro e la sicurezza. Intanto chiestO la revoca della misura interdittiva nei confronti di Amazon dopo che la multinazionale ha accettato di versare 187 milioni di euro al fisco (briciole, rispetto al fatturato) e di “rivedere” la gestione del suo programma di consegna. L’indagine aveva messo in luce le condizioni di lavoro precarie e lo sfruttamento dei lavoratori da parte di Amazon. EX ILVA – Continua il blocco stradale a Genova Cornigliano in attesa del tavolo di confronto sull’ex Ilva previsto a Roma per oggi, data cruciale per i lavoratori che da lunedì bloccano piazza Savio, a Cornigliano, a qualche centinaio di metri dallo stabilimento dove a breve dovrebbe fermarsi la zincatura. La richiesta dei lavoratori sono chiare: niente dismissione e subito svariate migliaia di tonnellate di acciaio, il numero necessarie per non fermare le zincature nella fabbrica genovese. MORTI LAVORO – Una vittima su tre, di e sul lavoro, è over 60. Questo secondo i dati sia dell’Inail che dell’Osservatorio indipendente di Bologna. Nel 2025 sono 323 i decessi (su 962) di chi aveva oltre 60 anni. E ben 164 ne aveva oltre 70. Una strage nella strage dovuta soprattutto alle condizioni economiche di una popolazione costretta spesso a continuare a lavorare in condizioni di rischio moltiplicate dalla propria età. Costretti a lavorare per avere pensioni che non permettono di vivere decentemente e che si sono decurtate continuamente in questi anni, da una lunga serie di Governi. Su Radio Onda d’Urto l’intervista ad Andrea Fumagalli, docente di economia politica all’Università di Pavia e nostro collaboratore. Ascolta o scarica
Attualità della pianificazione
Articolo di Matteo Gaddi, Nadia Garbellini Produttività e competitività vengono spesso presentate come categorie neutrali, semplici strumenti tecnici per interpretare le prestazioni dell’economia. Questa presunta neutralità è però una costruzione ideologica: serve a trasformare scelte politiche in vincoli oggettivi e a spostare sulle lavoratrici e sui lavoratori il peso degli squilibri macroeconomici. Per ripensare un’alternativa occorre quindi innanzitutto smontare questi concetti che, sotto una veste tecnico-contabile, reggono l’architettura del capitalismo contemporaneo. In particolare va preso atto che quest’ultimo, dallo shock seguito alla scelta di Richard Nixon, nel 1971, di far saltare il sistema di cambi fissi basati sul dollaro americano in vigore dalla fine della Seconda guerra mondiale, si è caratterizzato per la fortissima apertura commerciale e finanziaria. Solo questa mutazione profonda delle economie di mercato ha posto al centro della scena i concetti di produttività e competitività, dato che in una simile configurazione del capitalismo la crescita economica è stata indissolubilmente legata ai surplus commerciali (neomercantilismo) e finanziari (differenziali dei tassi d’interesse). Tuttavia, l’ennesima riconfigurazione dei mercati cui stiamo assistendo suggerisce che non si trattava certo di caratteristiche naturali delle economie capitaliste. In questo senso, assumere invece quelle specifiche caratteristiche istituzionali come date una volta e per tutte (e, quindi, insistere aprioristicamente su produttività e competitività) diviene un errore grave per un buon economista, e diventa imperdonabile per un economista «eterodosso» o «progressista».  L’IDEOLOGIA DELLA PRODUTTIVITÀ L’indicatore canonico della produttività – il valore aggiunto reale per ora lavorata – viene utilizzato come se misurasse l’efficienza fisica del lavoro. Quest’equivalenza, tuttavia, è un artificio teorico derivato da un impianto concettuale costruito esplicitamente per servire una visione dell’economia centrata sulla massimizzazione del profitto. La contabilità della crescita neoclassica descrive un’economia chiusa, che produce un unico bene (anche composito) finale, uguale nel tempo e nello spazio; in cui il capitale (fisso e circolante) non è prodotto ed è quindi trattato come un fattore primario (e quindi scarso). La cosiddetta distribuzione funzionale, cioè quanta parte del reddito nazionale (cioè del valore aggiunto) va ai salari e quanta ai profitti,  in questo schema discende dalle condizioni di equilibrio, dove per equilibrio si intende una situazione in cui il profitto è massimizzato. È un dato tecnico, che dipende dai prezzi relativi dei fattori e dalla tecnologia in uso. Qualsiasi deviazione da questa distribuzione crea inefficienze, e dunque non esiste margine per il conflitto sociale. Adottare una metrica che discende da questo apparato teorico significa dunque adottarne la prospettiva, o il suo presunto significato «oggettivo e naturale» semplicemente si dissolve. La produttività infatti è diventata uno dei principali strumenti ideologici per legittimare politiche di compressione salariale e di disciplinamento della forza lavoro: se la produttività non cresce, non possono crescere i salari; se i salari crescono «troppo», si perde competitività; se si perde competitività, si compromette la crescita. È una catena di causalità rovesciata, che serve a naturalizzare rapporti di forza sfavorevoli. Da anni, inoltre, il tema della produttività viene utilizzato dalle istituzioni europee per mettere in discussione la contrattazione collettiva, che a loro avviso andrebbe superata a favore di quella decentrata. Quest’ultima consentirebbe, secondo tale visione, di legare ex post salari e produttività, così da contenere i primi e stimolare la seconda. Un esempio emblematico è la lettera del 5 agosto 2011 inviata da Mario Draghi e Jean-Claude Trichet a Silvio Berlusconi, allora Presidente del Consiglio. In quel documento – che anticipò la caduta del governo nel dicembre successivo – si chiedeva di «riformare ulteriormente il sistema di contrattazione salariale collettiva, permettendo accordi a livello d’impresa […] e rendendo questi accordi più rilevanti rispetto ad altri livelli di negoziazione». La Commissione europea e il Consiglio dell’Ue hanno più volte sostenuto con decisione la necessità di un più stretto legame tra salari e produttività, da ottenere tramite il decentramento della contrattazione. Particolarmente significative, in questo senso, sono le raccomandazioni del Consiglio dell’Ue (2013) sul Programma Nazionale di Riforma dell’Italia, basate su un Documento di Lavoro della Commissione. Vi si affermava che la perdita di competitività dell’Italia richiedeva aggiustamenti nella fissazione dei salari e che la dinamica salariale non aveva riflettuto il deludente andamento della produttività, contribuendo a un aumento del costo del lavoro per unità di prodotto. Il documento sottolineava il ruolo dominante della contrattazione nazionale, ritenuta un ostacolo all’allineamento dei salari alle condizioni economiche locali: un modello salariale definito sulla base dell’inflazione attesa sarebbe incompatibile con l’esigenza di recuperare competitività. Da qui la raccomandazione di «stabilire un quadro per la determinazione dei salari che permetta un migliore allineamento dei salari alla produttività». Queste indicazioni sono state ribadite sistematicamente dal Consiglio dell’Ue dal 2014 al 2019, configurando un vero e proprio fuoco di sbarramento volto a spostare il baricentro della contrattazione dal livello nazionale a quello aziendale, con l’obiettivo dichiarato di legare più strettamente salari e produttività. Su queste, fragili, premesse, il presunto ristagno della produttività italiana viene accettato come un dato incontestabile persino da molti economisti eterodossi, che utilizzano l’indicatore standard senza interrogarsi sulle sue implicazioni. Questa posizione finisce per riprodurre la stessa logica che dichiara di voler superare: rimane intatto l’assunto secondo cui i salari devono inseguire la produttività; che il paese debba colmare un presunto ritardo competitivo attraverso processi di upgrading tecnologico; che lo sviluppo dipenda dalla selezione delle imprese più efficienti. In definitiva, resta l’idea che, nel mondo plasmato dalle politiche neoliberiste, l’innovazione tecnologica possa disarticolare il conflitto tra capitale e lavoro, rendendo possibile conciliare gli interessi di entrambi; si tratta di un modo per neutralizzare il conflitto sociale con la promessa di un equilibrio armonico garantito dal progresso tecnico. Il valore aggiunto reale per ora lavorata, però, non misura l’efficienza fisica del lavoro, poiché si calcola deflazionando grandezze monetarie tramite indici di prezzo basati sulle ipotesi irrealistiche menzionate sopra. Ciò che questo indicatore cattura è piuttosto la capacità di valorizzazione del capitale, il valore monetario che riesce a generare – e di cui poi si può appropriare – per ogni ora di lavoro. Sostenere che sia necessario vincolare gli aumenti salariali alla produttività così misurata – oppure, nella versione «illuminata», sostenere che aumentare i salari è vantaggioso per le imprese perché consente di aumentare la produttività, cioè estrarre ancora più plusvalore relativo così da recuperare interamente ciò che concedono – significa accettare un presupposto profondamente regressivo: se la crescita dei salari nominali segue da vicino quella della produttività così calcolata, la quota salari non può che ridursi anno dopo anno in ragione del tasso di inflazione. Di fatto, è una forma di indicizzazione al ribasso, che incorpora la compressione salariale nel metodo stesso di calcolo. Che questa impostazione venga da Confindustria è del tutto comprensibile; che venga fatta propria anche dagli economisti eterodossi – che oltretutto pretendono sovente di spiegare al sindacato cosa dovrebbe fare – è un problema politico. UN APPROCCIO NOMINALE Una volta chiarito che ciò che stiamo davvero misurando è la capacità di valorizzazione del capitale, sarebbe molto più corretto considerare direttamente il valore aggiunto nominale per ora lavorata, che la misura senza sottostimarla sistematicamente. Adottando questo approccio, la performance italiana appare molto meno disastrosa (per le imprese) di quanto sostengano commentatori, analisti e organizzazioni padronali: la dinamica della produttività nominale mostra che la capacità di valorizzazione dell’economia italiana non è affatto tale da giustificare la moderazione salariale. L’aumento della capacità di valorizzazione del capitale è una buona notizia per le imprese, ma ovviamente non per i lavoratori. Un aumento del valore aggiunto nominale non implica che il sistema produttivo stia diventando più moderno, meno inquinante o con caratteristiche più desiderabili sotto qualche profilo sociale. La valorizzazione aumenta anche e soprattutto in settori stagnanti, in contesti di precarizzazione, di esternalizzazioni, di abbassamento degli standard occupazionali o grazie a semplici movimenti nei prezzi relativi – spesso trainati strategicamente dalle grandi imprese oligopolistiche. In altre parole, che il capitale riesca a estrarre più valore dal lavoro non è né un segnale di progresso tecnologico né una misura della qualità dello sviluppo. Scambiarlo per un segnale di modernizzazione significa confondere l’interesse del capitale con quello collettivo e riprodurre la narrazione che si vorrebbe criticare. C’è poi un ulteriore effetto collaterale di questa metrica: usare il valore aggiunto come misura del «progresso tecnico» significa adottare una definizione estremamente ristretta di innovazione. In questo schema, infatti, è innovazione solo ciò che aumenta la capacità del capitale di estrarre valore. Tutti gli altri miglioramenti – riduzione della fatica, ergonomia, sicurezza, minori emissioni, uso più efficiente delle risorse, qualità del lavoro, ecc. – semplicemente non esistono. Non vengono registrati, né contano come progresso. È una concezione della tecnologia modellata sul punto di vista del capitale. La critica alla produttività porta direttamente alla critica della competitività, divenuta negli ultimi decenni il vero principio ordinatore delle politiche economiche europee. L’Unione europea è stata costruita come una macchina trainata dalle esportazioni: l’obiettivo è competere sui mercati globali comprimendo i costi, primo fra tutti quello del lavoro, a scapito della domanda interna.  La ricerca della competitività appare così come un destino inevitabile: bisogna specializzarsi nelle fasi ad alto valore aggiunto, scalare la catena del valore – tutto a scapito dei concorrenti internazionali e delle classi lavoratrici. Ma il paradigma della competitività non è un vincolo naturale: è una scelta politica. È la scelta di subordinare il benessere interno alle esigenze delle imprese esportatrici; di orientare la politica economica verso la difesa dei margini del capitale; di comprimere salari e diritti in nome della «resilienza» del sistema. È una scelta che ha impoverito i lavoratori, indebolito il tessuto produttivo, ridotto la capacità dello Stato di indirizzare l’economia. E che ha prodotto, come conseguenza, la deindustrializzazione: i settori cosiddetti «ad alto valore aggiunto», infatti, non sono altro che le fasi pre e post produzione; «scalare la catena del valore» significa quindi specializzarsi in queste fasi e delocalizzare le fasi manifatturiere, quelle a più alta intensità di lavoro.  Tale modello, per inciso, si è retto su un presupposto ben preciso: la disponibilità di merci a basso costo provenienti dal Sud del mondo, che ha permesso a lavoratrici e lavoratori europei, impoveriti da decenni di stagnazione salariale, di mantenere standard di vita accettabili. Non si tratta di un’aberrazione del capitalismo, ma di una sua caratteristica strutturale: un equilibrio del genere implica la perpetuazione del sottosviluppo altrui, e si scontra frontalmente con qualsiasi pretesa di pace, cooperazione o solidarietà internazionale. E, soprattutto, quel mondo non esiste più. I paesi emergenti – a cominciare dalla Cina – hanno ormai acquisito capacità produttive e tecnologiche tali da spezzare definitivamente l’asimmetria che aveva permesso all’Europa di compensare la compressione salariale con beni a basso costo. Un esempio lampante di questo cambiamento l’ha offerto la grottesca vicenda dell’impresa cinese Nexperia, la cui roboante nazionalizzazione da parte del governo olandese ignorava un piccolissimo dettaglio: l’intera produzione è delocalizzata in Cina. Il risultato, tragicomico, è sotto gli occhi di tutti: il governo olandese, dopo aver espropriato un paio di inutili uffici amministrativi nella città olandese di  Nijmegen, è ritornato mestamente sui suoi passi e ha annullato il provvedimento. UNA DOMANDA ALTERNATIVA In altre parole, il vecchio modello competitivo non è solo ingiusto: è anche insostenibile e non più funzionante, se non al prezzo di un drastico impoverimento delle classi lavoratrici e quindi di un aumento vertiginoso delle disuguaglianze. Una strada alternativa esiste, e passa per il rafforzamento della domanda interna mediante due leve fondamentali: un aumento della quota salari (ad esempio tramite il rafforzamento e l’intensificazione della contrattazione collettiva, l’indicizzazione dei salari nominali all’inflazione, il controllo dei prezzi, l’introduzione di un salario minimo, ecc.), che espande immediatamente i consumi, e un massiccio programma di investimenti pubblici, indispensabile per realizzare la transizione sociale ed ecologica e per (ri)costruire capacità produttiva nei settori strategici: energia e trasporti nel campo della transizione ecologica, impianti/apparati per Tlc/Ict in quella digitale (che non non è un fine in sé, ma deve essere a supporto di obiettivi sociali e ambientali); nonché nelle industrie di base e nelle filiere di produzione degli input intermedi al fine di garantire la loro completezza in termini di capacità produttiva. In particolare, è possibile dimostrare che una distribuzione dei redditi tale da aumentare la quota salari media dall’attuale 50% a poco più del 70% sarebbe, in linea teorica, in grado di generare un potere d’acquisto equivalente a quello ora rappresentato dalle esportazioni. Ovviamente, questo non significa che una semplice politica (re)distributiva potrebbe sostenere un modello di crescita alternativo a quello fondato sulla competitività esterna: si tratta di una condizione necessaria ad aprire spazi per una profonda trasformazione della struttura economica europea, ma non sufficiente a realizzarla. In questo senso, le politiche keynesiane sono inefficaci, poiché non consentono di modificare la struttura produttiva esistente. Per farlo, occorre piuttosto il ritorno della pianificazione come strumento centrale. Pianificare non significa imporre dall’alto un modello dirigista, ma orientare in modo consapevole l’evoluzione del sistema produttivo, coordinando investimenti pubblici, transizione ecologica, politiche industriali e obiettivi di giustizia sociale. Significa decidere collettivamente quali capacità produttive sviluppare, quali filiere riconvertire, quali attività espandere o ridimensionare, in funzione di un progetto di benessere condiviso e non della redditività immediata del capitale. È questa la condizione indispensabile per liberare il potenziale della domanda interna, ricostruire autonomia produttiva e rendere possibile un’economia orientata alla dignità del lavoro, alla sostenibilità e all’uguaglianza. Pianificare, naturalmente, significa restituire un ruolo centrale alla proprietà pubblica delle imprese nei settori strategici, che devono agire come soggetti pubblici e non riprodurre le logiche di massimizzazione del profitto tipiche dei soggetti privati. Una trasformazione di questo tipo implicherebbe l’abbandono del modo di produzione capitalistico e l’avvio di un percorso verso forme socialiste di organizzazione. Nelle condizioni politiche attuali ciò evidentemente non è immediatamente realizzabile, ma resta il punto d’orizzonte verso cui orientare il nostro agire. *Matteo Gaddi è responsabile del Centro Studi Fiom-Cgil. Nadia Garbellini è professoressa associata presso il Dipartimento di Studi Linguistici e Culturali dell’Università di Modena e Reggio Emilia e membro del Forum Nazionale Economia della Cgil. Roberto Lampa è attualmente professore associato presso il Dipartimento di Economia e Diritto dell’Università di Macerata, Docente del Dottorato in Economia Politica dell’Universidad Nacional de San Martín (Unsam), Buenos Aires e Membro del Forum Nazionale Economia della Cgil. Dal 2013 al 2022 è stato ricercatore senior presso il Conicet argentino e docente dell’Universidad de Buenos Aires (Uba). Insieme a Giovanni Carnevali, Giacomo Cucignatto, Lorenzo Esposito, Joseph Halevi, Roberto Polidori e Gianmarco Oro, è autore del libro Tornare alla Pianificazione. Politiche industriali dopo la Globalizzazione. (Punto Rosso, 2025). L'articolo Attualità della pianificazione proviene da Jacobin Italia.
Il “Defence Summit” a Roma si blinda per paura delle proteste. Militari e manager pianificano il riarmo e l’economia di guerra
Il “Defence Summit” doveva svolgersi lo scorso 11 settembre a Roma, ma le proteste e gli annunci di una mobilitazione di massa antimilitarista avevano costretto gli organizzatori al rinvio . Ieri sono tornati alla carica blindandosi nella sede del Centro Alti Studi Difesa sul Lungotevere e hanno riunito i vertici […] L'articolo Il “Defence Summit” a Roma si blinda per paura delle proteste. Militari e manager pianificano il riarmo e l’economia di guerra su Contropiano.
I furbetti del sovranismo
Articolo di Salvatore Cannavò Nell’indagine della Procura di Milano sulla scalata a Mediobanca da parte di Monte dei Paschi (Mps) la mano pubblica è indicata chiaramente. Più che pubblica è una mano di governo, di potere, che obbedisce non certo alla logica dell’interventismo nazionale, pure spesso rivendicato dalla propaganda della destra una volta sociale. E le impronte lasciate sull’operazione, che ora vengono passate al vaglio dei magistrati, indicano che esiste ancora in Italia un conflitto tra poteri che non nascondono la loro vocazione sovranazionale – nel senso di autonomia totale dai poteri nazionali e quindi dagli Stati – e poteri che invece, anche per la loro debolezza, preferiscono la coperta dello Stato e l’appoggio politico per garantirsi maggiori spazi ei profitti. In questa diatriba, però, non si ravvisa uno scontro ideologico degno di nota, non si intravede insomma il portato di una cultura a vocazione nazionale che abbia a cuore il tessuto sociale, il ruolo pubblico, la democratizzazione dei poteri. Tutt’altro, lo scontro di potere è fine a sé stesso con le conseguenze evidenti sul piano politico ed economico.  IL SOSTEGNO DEL MEF Il ruolo del governo in questa vicenda è stato evidenziato dai magistrati. Nell’indagine della Procura di Milano sulla scalata a Mediobanca da parte di Mps, in cui sono indagati l’imprenditore Francesco Gaetano Caltagirone, il presidente di Luxottica e Delfin Francesco Milleri e l’ad di Mps, Luigi Lovaglio, accusati di aver «concertato» insieme la vendita delle quote Mps da parte del Ministero dell’economia e delle finanze (Mef) a soggetti privati con l’obiettivo futuro di organizzare la scalata al «tempio» finanziario milanese Mediobanca, il Mef «non è oggetto di accertamento» in quanto «non è persona fisica e non può commettere reati». Ma, hanno informalmente precisato dalla Procura, anche se il ministero «non commette reati» avrebbe però dato un «sostegno» all’operazione. In questo ginepraio di dichiarazioni rese a mezza bocca, il termine che rimane sul tavolo, e che aiuta a dare il senso di questa complessa operazione, è proprio «sostegno». La dismissione del novembre 2024, quindi, avrebbe rappresentato per l’accusa uno dei «tasselli» della più ampia «strategia coordinata» tra Delfin e Caltagirone, con l’avallo di Lovaglio, per arrivare al controllo di Mediobanca, attraverso Mps e a cascata, dunque, anche di Generali. A corollario di questo interessamento politico delle sorti di Mediobanca e del ruolo che Mps avrebbe dovuto svolgere nel rinnovamento della finanza italiana c’è anche un altro particolare. I tre consiglieri indipendenti di Mps, Annapaola Negri Clementi, Paolo Fabris De Fabris e Lucia Foti Belligambi, hanno infatti dichiarato che le loro dimissioni «sono state richieste o imposte dal Mef o, in un caso, dal deputato della Lega» Alberto Bagnai «che aveva detto di esprimersi per conto» del Tesoro. Non solo il Mef, di Giancarlo Giorgetti, ma anche il parlamentare leghista più attivo sul fronte della finanza e con un approccio decisamente «sovranista», come conferma la sua lunga battaglia per l’uscita dell’Italia dall’euro (peraltro spesso adottando argomenti non banali). Le dimissioni dei consiglieri Mps, che erano stati eletti nella lista del Mef, hanno lasciato a suo tempo adeguato spazio ai due soci di minoranza, Delfin e Gruppo Caltagirone, per «entrare nella cabina di regia» dell’istituto di Rocca Salimbeni. Da lì in avanti si organizza la scalata a Mediobanca che prenderà corpo con il voto determinante dei sette consiglieri espressione del Mef e dei nuovi cinque consiglieri. Un piano di cui, per ammissione alla Consob dello stesso amministratore delegato di Mps, il ministero dell’Economia era stato informato. Non si può sapere come finirà l’inchiesta, ma non è questo il dato importante. Alla luce dei fatti accertati, delle dichiarazioni rese, il ruolo politico del governo Meloni in questa riorganizzazione bancaria è evidente a chi vuol vedere. E di questo, infatti, si discute negli ambienti che conoscono le dinamiche bancarie e finanziarie, italiane e internazionali, e negli ambienti della politica. Quale governo, del resto, riuscirebbe a resistere alla tentazione di dotarsi di un sistema bancario il più possibile amico? Non è stato inchiodato il governo D’Alema, nel 1999, alla famosa espressione di «palazzo Chigi, unica merchant bank in cui non si parla inglese» coniata da Guido Rossi?  Non c’è solo il potere che ne deriva in termini di leva finanziaria, ma anche la garanzia di avere un interlocutore stabile nella gestione del risparmio italiano, decisivo ai fini di una collocazione ottimale dei titoli di Stato. Non a caso, uno dei problemi insiti nello scontro bancario riguarda il controllo di Generali dove il suo amministratore delegato, espressione della vecchia gestione, Philippe Donnet, ha lavorato a lungo insieme alla francese Natixis per creare «un operatore globale da 1.900 miliardi di masse gestite, al nono posto a livello mondiale e leader nell’asset management in Europa con 4,1 miliardi di ricavi».  La caratteristica dell’operazione, come si intuisce, è quella di portare la gestione, e quindi la capacità di influenzare operazioni, sul risparmio gestito fuori dalla portata dei vari governi e di collocarla su scala sovranazionale e in mani rigorosamente tecniche. La logica del capitalismo globale, né più né meno, quella che generalmente viene favorita e garantita dalle politiche dell’Unione europea e della Banca centrale europea che ai governi, spesso, non risponde nemmeno al telefono.  Di fronte a questi scenari, la cultura economica della destra al governo ha sempre detto di voler favorire il ruolo dello Stato, senza avventurarsi mai, però, nelle pieghe di un vero intervento pubblico. L’ipotesi che, per resistere nelle tempeste dell’economia globalizzata, gli Stati debbano dotarsi almeno di un grande istituto bancario pubblico e tornare ad avere la decisione sulle politiche finanziarie, a partire dal tasso di sconto, è cosa che ormai è espunta dal dibattito pubblico e di fatto riguarda fondamentalmente solo la Cina, spiegandone gran parte dei successi economici. L’approccio di Giorgetti e dei suoi collaboratori, invece, è piuttosto quello di fare da protezione a un progetto «amico», al di là del grado di rispondenza al governo, soprattutto un progetto di potere e non certamente in grado di garantire una reale alternativa alle dinamiche perverse della finanza mondiale. Ma in ogni caso, ammantato di patriottismo e di un grado di sovranismo che non ha risparmiato armi e misure audaci per vincere. Come l’utilizzo del cosiddetto golden power, prerogativa governativa a tutela di istituti o aziende considerate vitali ai fini del patrimonio nazionale, che è stato opposto alla scalata di Unicredit su Bpm, uno degli istituti bancari di area leghista e uno degli attori dell’operazione su Mediobanca. O alla benevolenza con cui si guarda la sostanziale scalata di Poste Italiane e Tim dove il vertice della prima è ancora di nomina politica (e si potrebbe continuare con le azioni della Cassa Depositi e Prestiti o la delega assoluta lasciata a colossi come Eni e Enel). Quello che ha ispirato il governo nella sua azione politica-economica è stata la reiterata lotta tra un supposto perimetro nazionale della finanza pubblica contro una dimensione sovranazionale additata come nemica mortale in quanto appannaggio di altri centri di potere. Attorno alla Mediobanca della vecchia gestione Nagel, infatti, si sono saldati i grandi fondi speculativi come Blackrock e Vanguard, le grandi banche JP Morgan e Morgan Stanley, il gruppo assicurativo francese Axa e molti altri, non sufficienti a fermare l’operazione messa a punto in casa senese. Che invece ha potuto solleticare un nuovo «orgoglio nazionale», ma fondamentalmente attirato dai margini di profitto e di potere conseguente, di figure come il costruttore Francesco Gaetano Caltagirone, il pilota del successo internazionale di ExilorLuxottica, Mauro Milleri, o il patròn di Bpm, Giuseppe Castagna.  IL SOVRANISMO LIBERISTA Se la scalata organizzata dalla  «progressista»  Mps alla Antonveneta fu all’insegna dei «furbetti del quartierino», espressione coniata dall’immobiliarista Stefano Ricucci, finito poi anche in prigione, oggi si potrebbe parlare di «furbetti del sovranismo», di un personale politico che si nasconde dietro la difesa delle prerogative nazionali, per non dire della Patria, ma non mette in moto nessuna leva nazionale degna di questo nome. Come le già citate banca pubblica o controllo dei tassi di interesse (mentre prova a spostare il controllo dell’oro dalle prerogative della Bce a quelle del governo nazionale). Un sovranismo furbo che non esce dalle coordinate del liberismo imperante e che per farlo inquina anche il rispetto delle regole che pure i vari governi si sono dati, senza rimettere davvero in discussione l’ordine globale.  Basta una controprova per rendere chiaro il significato di un sovranismo liberista che sembra un ossimoro ma che è sempre più il filo a piombo che lega l’attuale destra vincente in Europa e nel mondo. L’attaccamento alle prerogative nazionali scompare quando in ballo ci sono i destini dell’Ilva. L’1 dicembre i lavoratori sono di nuovo entrati in sciopero con l’obiettivo di cercare di salvare lo stabilimento di Taranto, i suoi livelli di produzione pur in un quadro di decarbonizzazione. Il progetto di tenere insieme il lavoro e la salute, l’ecologia e l’economia sembra piuttosto complicato, i soggetti deputati a farlo, anche a sinistra, anche in ambito sindacale, non hanno sempre l’approccio corretto, ma quale soggetto se non una struttura pubblica a pieno controllo statale e con meccanismi di partecipazione e co-decisione operaia e territoriale potrebbe affrontare seriamente i problemi? Cosa, se non la città di Taranto, e di Genova, insieme alla sua comunità operaia, potrebbe davvero indicare la strada di una rigenerazione possibile?  Eppure, al solo sentir parlare di nazionalizzazione il governo Meloni potrebbe metter mano alla pistola, per utilizzare una celebre espressione. Curiosa contraddizione per chi dice di fare gli interessi della propria nazione. Ma su questo punto il discrimine tra una sinistra di classe e quel che resta della destra sociale è fortunatamente ancora evidente. Peccato che la sinistra esistente, quella che contende alla destra il governo nazionale, da queste orecchie ci sente anche meno. Nella partita bancaria che abbiamo descritto, infatti, dove si è schierato il Partito democratico? Ovviamente con la finanza globale di Mediobanca. Difficile stabilire dove sia la padella e dove sia la brace.  *Salvatore Cannavò, già vicedirettore de Il Fatto quotidiano e direttore editoriale di Edizioni Alegre, è autore tra l’altro di Mutualismo, ritorno al futuro per la sinistra (Alegre, 2018) e Si fa presto a dire sinistra (Piemme, 2023). L'articolo I furbetti del sovranismo proviene da Jacobin Italia.
ITALIA: L’INFLAZIONE SI MANGIA LE PENSIONI, IL GOVERNO AUMENTA LE MINIME…DI 3.13 € AL MESE
I pensionati, in particolare quelli con la minima, dall’anno prossimo potranno permettersi ben…tre caffè in più al mese. È il risultato della perequazione all’inflazione fissata, dal Ministero dell’Economia e delle Finanze, all’1,4% (3.13 euro in più al mese): l’assegno passa da 616 a 619 euro al mese. La misura è stata pubblicata sulla Gazzetta ufficiale il 28 novembre 2025. Non va meglio per altri assegni: con 800 euro netti al mese arriveranno 9 euro in più, mentre con 1000 euro netti di pensione, 11 euro in più. Ai nostri microfoni il commento di Ezio Cigna, responsabile previdenza della Cgil nazionale. Ascolta o scarica
L’Italia di Meloni torna ultima
Articolo di Danilo Corradi, Marco Bertorello Il governo Meloni è al terzo anno e alla quarta finanziaria, per cui è possibile avanzare un primo fondato giudizio sulle sue politiche economiche. Proveremo a farlo cercando anche di capire perché il governo non esca da questi tre anni particolarmente logorato, nonostante risultati a tratti fallimentari.  Dal 2008 generalmente, in Italia e non solo, chi governa paga dazio, caricandosi la responsabilità di gestire una fase economica particolarmente instabile e tendenzialmente stagnante a livello internazionale. Governare logora più di quanto Giulio Andreotti fosse disposto a riconoscere in ben altra epoca caratterizzata da una preminente stabilità. Chiaramente ci sono specificità che si condensano in questa fase, vuoi per una discreta omogeneità delle forze della maggioranza oltre che per l’assenza di una credibile alternativa, ma certamente la longevità dell’attuale governo è frutto, per ora, anche di un sapiente mascheramento di una politica orientata alla  continuità. Il governo Meloni, ha finito per «intervenire» meno di quanto generalmente ci si aspetterebbe da una destra conservatrice e sovranista, al di là di alcune scelte simboliche. Anche questo governo non intende disturbare l’impresa e la sua accumulazione, lascia fare alle dinamiche di mercato fino a quando non necessitano di supporto e assistenza. Porta avanti un liberismo asimmetrico che governa al servizio del capitale produttivo e finanziario, una versione ordoliberale in salsa tricolore. Altro che rivoluzione sovranista, siamo di fronte a una riproposizione di liberismo e austerità che attraversano il nostro paese da oltre tre decenni, questa volta accompagnata da un retorica patriottarda e nazionalista più marcata. La destra al governo, come vedremo, ha sfruttato l’inflazione per mascherare la solita ricetta fatta di tagli ai salari, tagli allo stato sociale e aumento della pressione fiscale per il mondo del lavoro. SI TORNA ULTIMI Partiamo dal quadro generale e dal fallimento più evidente del governo: l’Italia torna ultima per crescita attesa dal 2025 al 2027. Il governo ereditava la fase post-Covid caratterizzata da un rimbalzo poderoso dell’economia italiana, ma che nei fatti non riusciva nemmeno a compensare il crollo particolarmente duro subito nel 2020. Un quadro reso più incerto dall’aumento dei costi energetici dovuti alla rottura con la Russia, dalla crescente concorrenza asiatica, e poi dai dazi trumpiani che hanno creato un panorama fortemente instabile che pesa sull’intera economia continentale e in particolare sulla locomotiva tedesca costruita sulle esportazioni.  C’è stato chi ha messo l’accento sul recupero dell’Italia rispetto alla Germania per ritmo di crescita. Ma si è confuso il senso di marcia: non è Roma che si avvicina a Berlino, bensì il contrario. Forse anche per questo il Governo si è illuso di poter surfare su un’inerzia favorevole, ma era un’illusione. Infatti, l’Italia, in quanto seconda forza manifatturiera europea, fa anche parte della catena del valore teutonica e da essa dipende in modo considerevole. Non era pensabile che un clima difficile per le esportazioni favorisse l’Italia a danno della Germania. Il mercantilismo tedesco in questo contesto paga un prezzo che, successivamente, si presenta anche all’Italia.  Nel 2025, infatti, l’economia nostrana torna fanalino di coda del Vecchio continente. Le previsioni per quest’anno oscillano tra una crescita del Pil dello 0,5% di fonte governativa allo 0,4% della Commissione europea. La media europea prevista per lo stesso periodo si attesta all’1,3%. Torniamo tra gli ultimi paesi per crescita, secondo la Commissione fanno peggio solo Germania, Austria e Finlandia. La Francia, attanagliata da una profonda crisi politico-istituzionale, totalizzerà nel 2025 lo 0,7%. Va chiarito che sia Germania che Francia per contenere la stagnazione economica hanno fatto ricorso all’indebitamento pubblico in maniera significativa. La prima in quanto ha a disposizione ampi margini fiscali e la seconda indebitandosi fortemente finendo per raggiungere le grandezze nostrane. Nel 2025, infatti, il debito pubblico transalpino raggiungerà il 115% del Pil e in termini assoluti supererà i 3.400 miliardi (l’Italia ha superato la soglia psicologica dei 3.000). L’Italia, dunque, torna nel gruppo degli ultimi, sebbene tale gruppo sia composto da paesi differenti da quelli a cui eravamo abituati negli ultimi due decenni. L’amicizia con Trump e i proclami sulla riduzione delle imposte non hanno prodotto nessuno scarto, la politica di austerità ha depresso ulteriormente la domanda interna e ci ha spinto nuovamente in fondo alle classifiche continentali.  GUARDIANI DELL’AUSTERITÀ Come detto i principali paesi si stanno indebitando per fronteggiare una crescita anemica, che contribuisce ad aumentare il rapporto debito/Pil. L’Italia ha minori margini di manovra a causa di un debito elevato e delle procedure europee di infrazione. Queste ultime dovrebbero rientrare proprio perché il governo ha deciso di riportare sotto controllo il proprio deficit con una politica di riduzione della spesa e aumento della pressione fiscale in assoluta continuità con i precedenti esecutivi. L’effetto sulla finanza pubblica è stato inizialmente positivo: nel 2024 il rapporto debito/Pil si è ridotto fino a tre punti rispetto al 2022, ma ciò è avvenuto, come vedremo, per l’enorme «tassa da inflazione» che l’esecutivo ha lasciato agire deprimendo la domanda interna. Grazie anche a questo approccio, si è ridotto lo spread, ossia il valore decennale dei titoli di Stato verso i titoli tedeschi. Ma attenzione, il debito è in rapida risalita: nel 2025 brucerà metà del recupero e nel 2026, secondo le previsioni del Fondo monetario internazionale, lo azzererà. Del resto è difficile ridurre il rapporto debito/Pil se si deprime il Pil. Non solo, i titoli decennali italiani pagano un tasso d’interesse ancora tra i più elevati d’Europa (3,4%), superiore a Grecia e Portogallo e al livello raggiunto con il governo Draghi. La riduzione dello spread sembra anch’essa derivare dall’aumento delle difficoltà degli altri paesi piuttosto che da una ritrovata salute dell’economia di Roma.  Inoltre, il dato in decimali della crescita andrebbe contestualizzato rispetto al Pnrr. Questo, infatti, al di là dei fiumi di retorica spesi a partire dal secondo governo Conte (ricordate come tutte le forze politiche e sociali definivano insostituibili tali risorse?), avrebbe dovuto intervenire in maniera quasi miracolistica proprio nel triennio 2024-26. Difficile calcolarne precisamente gli effetti, in quanto gli investimenti erano stati concentrati anche su segmenti come la digitalizzazione, i cui impatti probabilmente si vedranno a medio termine. Però chi ha tentato un calcolo, come la Bce, ipotizza un’incidenza positiva dell’1,9% sul Pil fino al 2026 compreso, mentre il governo Meloni stimava un’incidenza pari al 3,4% e l’Ufficio parlamentare di bilancio prevedeva un più cauto 2,9%. Se togliessimo meccanicamente questi valori dalla crescita accumulata negli ultimi due anni (0,7% nel 2024 e 0,4% nel 2025) a cui andrebbe aggiunta l’incidenza per la previsione di crescita del 2026 (pari a 0,8%) il risultato potrebbe portare a un valore di crescita complessivo in terreno negativo. Esiste poi uno studio, sempre della Commissione europea, che afferma come l’impatto diretto e indiretto degli investimenti del Pnrr in Italia sia inferiore a 100, cioè che l’impatto complessivo non arrivi a eguagliare il valore dei fondi ottenuti. Un dato che ci pone al sedicesimo posto su venticinque paesi coinvolti, al di sotto della media e molto lontani da paesi come Svezia, Paesi Bassi, Austria e Germania che registrano valori superiori a 200.  Dal Pnrr, come prima dal Bonus edilizio e, ancor prima, quello industria 4.0, derivano investimenti pubblici che si riversano direttamente sull’economia privata e che dovrebbero rilanciarla. Immancabilmente ognuno di questi provvedimenti si è dimostrato di corto respiro, finendo per azzerare i suoi benefici effetti già allo scadere dell’investimento stesso. In poche parole questi piani non riescono a rilanciare l’economia nel suo complesso, finendo per evidenziare come l’impresa in Italia non sia in grado di avviare un ciclo autonomo di sviluppo.  La scelta austeritaria del rigore e di uno Stato snello rende poi complicato gestire con efficienza piani d’investimento pubblici una tantum, rafforzando la loro incapacità d’invertire la tendenza alla stagnazione e all’impoverimento. Si genera un corto circuito dei conti pubblici che, risentendo della mancata crescita, spingono l’azione politica verso nuovi tagli al welfare rafforzando una spirale depressiva. MIMETIZZARE LA DISEGUAGLIANZA La stabilità finanziaria, per quanto precaria, è stata ottenuta al prezzo di un’ulteriore compressione dei salari e di un aumento della pressione fiscale complessiva, ottenute entrambe utilizzando la fiammata inflazionistica. Dal 2022 al 2024 i prezzi sono aumentati circa del 17%, a questa impennata non è corrisposta una proporzionale rivalutazione degli stipendi. I dati sui salari sono impressionanti con una perdita del potere d’acquisto reale del 10%. Anche considerando gli interventi fiscali del Governo, la perdita netta è pari ad almeno una mensilità all’anno. L’inflazione ha mascherato la riduzione dei salari pubblici (e privati), ma anche la riduzione della spesa sanitaria, scolastica, sociale grazie alla non rivalutazione al costo reale della vita. La propaganda del governo ha sottolineato la crescita nominale degli impieghi statali nei vari settori, sorvolando sul fatto che questa crescita nominale in termini reali ha significato tagli senza precedenti recenti. Facciamo un esempio. Come ha evidenziato Nino Cartabellotta, presidente della Fondazione Gimbe, l’esecutivo ha dal 2022 aumentato di 19,6 miliardi di euro lo stanziamento per la sanità ma, calcolando l’inflazione, questo significa aver tagliato la spesa sanitaria in rapporto al Pil, passando dal 6,3% del 2022 a circa il 6% attuale. Un finto aumento di risorse che in realtà è un taglio quantificabile in circa 17,5 miliardi. Discorso simile per l’istruzione passata dal 4,1% del Pil nel 2022 al 3,9% attuale. Lo stesso meccanismo ha finito per aumentare la pressione fiscale, cresciuta solo nell’ultimo anno dell’1,2% attestando la pressione complessiva al 42,6% (superiore di 2,2 punti rispetto alla media Ue). Se l’Iva e le imposte indirette hanno sostanzialmente seguito la crescita dei prezzi, la crescita dei redditi nominali, per quanto inferiore alla crescita dell’inflazione, ha incrementato l’imposizione fiscale perché la parte aggiuntiva dei redditi afferiva agli scaglioni più alti dell‘Irpef. Risultato: la percentuale del reddito (svalutato dall’inflazione) che finiva nelle casse dello Stato era superiore a quella pre-impennata dei prezzi. Oltre il danno della perdita di potere d’acquisto, la beffa di pagare più tasse su redditi più bassi. Il nome tecnico di questo fenomeno è Fiscal Drag o drenaggio fiscale.  La finanziaria 2025 ha addirittura riservato la maggior parte dei pochi sgravi fiscali ai redditi più alti di 50.000 euro annui. Insomma, in tre anni la destra al governo avrebbe dovuto rompere con le politiche precedenti e invece le ha riproposte in modo ancora più radicale, sfruttando abilmente il fattore inflazione per mimetizzare una politica dei redditi all’insegna della diseguaglianza. FINCHÉ LA BARCA VA… L’Italia meloniana scommette sulla solita ricetta: basso costo del lavoro per competere a livello internazionale sui prezzi in settori dal basso valore aggiunto, lasciando inalterato l’apparato produttivo. A sostegno di questa linea cerca di compattare un blocco sociale il cui perno sono le  imprese, dalle piccole alle grandi, impaurite dalla crisi globale, in larga parte immobili e incapaci di intravedere nuove prospettive. Un blocco sociale interessato agli annunci su un’ipotetica riduzione della pressione fiscale e alla concreta contrazione della spesa in welfare, che determina un risparmio per le casse dello Stato e una conseguente ritirata della sfera pubblica da settori che diventeranno rendita certa per capitali privati. Una prospettiva per continuare a vivacchiare condita da maggiore tolleranza verso evasione ed economia informale.  La ricetta è insomma quella di non disturbare il manovratore e fidelizzarlo con una redistribuzione al contrario della ricchezza cercando di non perdere troppi consensi popolari grazie al mascheramento inflazionistico e alle (inconcludenti) politiche anti-migranti, scaricando sugli ultimissimi la rabbia sociale. Scommettere poi sul turismo, come se fosse un comparto che può sostituire il ruolo del manifatturiero in un paese a forte vocazione industriale, dimostra l’assenza di una visione. La caduta generalizzata dei salari è sintomo di un’economia che va spostandosi sempre più verso servizi a modesta specializzazione che comporta una debole domanda interna.  La destra doveva segnare una forte discontinuità con il passato, mettere al centro l’interesse nazional-popolare contro la globalizzazione guidata dalla finanza. Ma una volta al governo gli slogan sono evaporati ed è rimasta una realtà che oscilla tra sostegno ai ricchi e retorica nazionalista, tenuta della finanza e galleggiamento in un mare agitato. Finchè la barca va lasciala andare, cantava Orietta Berti… Ma la barca non va, soprattutto per chi lavora.  *Marco Bertorello e Danilo Corradi collaborano con il manifesto. Insieme hanno pubblicato Capitalismo tossico (Alegre, 2011) e Lo strano caso del debito italiano (Alegre, 2023). Marco Bertorello lavora nel porto di Genova, Danilo Corradi insegna filosofia e storia nel liceo di Tor Bella Monaca di Roma. L'articolo L’Italia di Meloni torna ultima proviene da Jacobin Italia.
VENERDÌ 21 NOVEMBRE: ANALISI CRITICA DEI FATTI ECONOMICI DELLA SETTIMANA CON ANDREA FUMAGALLI
Consueto appuntamento del venerdì con l’analisi critica dei fatti economici della settimana con l’economista e nostro collaboratore Andrea Fumagalli. Venerdì 21 novembre 2025 abbiamo parlato delle previsoni di crescita economica dei paesi europei, delle pressioni dei grandi produttori di energia fossile alla Cop 30, del futuro dell’ex Ilva e infine della somministrazione a tempo determinato. Secondo le previsioni della Commissione europea, il PIL reale dell’UE dovrebbe crescere dell’1,4% nel 2025 e nel 2026 per poi salire all’1,5% nel 2027. L’inflazione è attesa in discesa graduale fino a raggiungere l’obiettivo del 2% nel 2027. Nel quadro delle previsioni per i singoli Stati membri, l’Italia si conferma, però, tra le economie a crescita più debole dell’Unione. La Commissione segnala che Roma rimarrà in fondo alla classifica anche nel medio periodo: il Pil italiano è atteso allo 0,8% nel 2026 e allo 0,9% nel 2027, unico Paese dell’Unione a restare sotto la soglia dell’1%. Una trentina di paesi ha scritto ieri (giovedì 20 novembre) alla presidenza brasiliana della Cop 30, per chiederle di rivedere la bozza e di includere una tabella di marcia per l’uscita dalle energie fossili. Un’inedita coalizione di stati europei, latinoamericani e piccoli paesi vulnerabili, è convinta che senza una traccia chiara sul fossile la Cop amazzonica si trasformi in un vertice di buone intenzioni e poco più. Sul fronte opposto si muove un blocco eterogeneo ma compatto di grandi esportatori e consumatori di combustibili fossili. Tra questi spiccano Arabia Saudita e Russia, accanto a loro, secondo varie testimonianze diplomatiche, si collocano paesi come India e Cina. Fabbriche occupate, strade bloccate e operai con bandiere e cori agguerriti nelle città per oltre 24 ore.  La protesta dei lavoratori ex Ilva ha costretto il governo a correre ai ripari. Così ieri sera ha pubblicato un nuovo decreto, uno dei tanti che hanno percorso la storia travagliata dell’acciaieria d’Italia. “Misure urgenti per assicurare la prosecuzione delle attività produttive” (titolo del decreto) mette in campo 108 milioni per finanziare il proseguimento delle attività fino a febbraio 2026, data in cui è attesa la conclusione della procedura di gara per l’individuazione dell’aggiudicatario. Per i lavoratori arrivano 20 milioni aggiuntivi per il biennio 2025-2026 di cassa integrazione. La Cassazione è tornata a pronunciarsi in materia di somministrazione di lavoro a tempo determinato, chiarendo come la reiterazione di missioni a termine dello stesso lavoratore presso il medesimo utilizzatore e per lo svolgimento di uguali mansioni sia soggetta al limite temporale complessivo di 24 mesi. Il superamento di questo termine legittima il lavoratore a chiedere la costituzione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato. Su Radio Onda d’Urto la conversazione con Andrea Fumagalli, docente di economia politica all’Università di Pavia. Ascolta o scarica  
Dal socialismo delle fogne a quello delle torte
Articolo di Emilio Carnevali Sewer Socialists: socialisti delle fogne. L’epiteto fu chiaramente coniato con intenzioni derisorie. Alla fine, però, furono gli stessi «socialisti delle fogne» ad appropriarsene. Gli amministratori di Milwaukee, uno dei rari bastioni socialisti negli Stati Uniti di primo Novecento, rivendicavano così il proprio impegno a fornire ai cittadini servizi pubblici di qualità, in contrapposizione alla vuota retorica rivoluzionaria di altri settori del movimento. Daniel Hoan, che fu sindaco per sei mandati (dal 1916 al 1940), non solo dotò la città di un efficiente sistema fognario, che contribuì a migliorare sensibilmente gli standard igienici e le condizioni di vita degli abitanti, ma promosse anche un energico piano per l’edificazione di parchi pubblici.  L’espressione è stata ripresa recentemente anche da Zohar Mamdani, neoeletto sindaco di New York, per rispondere a chi lo accusava di eccessivo idealismo e segnalare come il suo socialismo sia, appunto, un sewer socialism, interessato a ottenere risultati amministrativi concreti.  SOCIALISTI E MODELLI, IERI  Si tratta di tensioni che attraversano il movimento socialista sin dalle origini. La città di Milwaukee aveva ricevuto un cospicuo influsso di immigrati dalla Germania. Gli anni a cavallo del secolo erano stati quelli del cosiddetto dibattito sul «revisionismo» nella socialdemocrazia tedesca. Aveva preso forma una corrente politica e culturale ispirata alle idee riformiste di Edward Bernstein, del quale è rimasta celebre la massima secondo cui «l’obiettivo finale del socialismo è nulla, il movimento è tutto». Ancor prima che le dure lezioni del socialismo reale mettessero in guardia sul legame fra dogmatismo e autoritarismo, il socialismo riformista rivelava una certa refrattarietà per i modelli precostituiti, i piani di «ingegneria sociale» troppo dettagliati e ambiziosamente specifici.  E tuttavia, non sono state solo le ali moderate e gradualiste del movimento socialista a sviluppare un’esplicita ostilità verso i modelli, o – per riprendere l’espressione usata da Marco Bertorello e Giacomo Gabbuti nell’articolo che ha aperto questo dibattito su Jacobin Italia – verso le proposte di «sperimentazione socio-economica di ordine sistemico e strutturale». È noto che Marx preferiva limitarsi all’«analisi critica della realtà fattuale, piuttosto che scrivere ricette per l’osteria dell’avvenire», come ha ricordato Emanuele Felice in una bella intervista su questo sito.   Il trionfo della Rivoluzione d’Ottobre aprì un breve periodo di confronto – grosso modo fra il 1924 e il 1928 – su quelle che dovevano essere le caratteristiche fondamentali della costruzione di un’economia non capitalista in Unione Sovietica. Con il consolidamento al potere di Stalin una strategia fu scelta e il dibattito fu messo a tacere (molti dei suoi protagonisti vennero fisicamente eliminati). Ne nacque quello che l’economista ungherese János Kornai, nella sua summa teorica sull’economia di piano (The Socialist System, 1992), ha battezzato il «socialismo classico». Tre furono i suoi elementi costitutivi: il monopolio del potere da parte del Partito comunista; la proprietà statale delle aziende industriali (con una certa diffusione del modello cooperativo nel settore agricolo); l’allocazione delle risorse tramite una pianificazione centralizzata (con un limitato ruolo del mercato nel consumo al dettaglio, nelle relazioni occupazionali, e soprattutto dell’economia informale o illegale). Il «socialismo classico» fu imposto anche alle «democrazie popolari» dell’Est Europa dopo la Seconda guerra mondiale (pur con le significative varianti della Jugoslavia prima, e dell’Ungheria poi) e fu adottato in Cina e a Cuba dopo il successo delle rivoluzioni in quei due paesi (1949 e 1959). Per il movimento comunista internazionale – almeno per la sua componente maggioritaria – non si trattava di discutere di modelli, ma di consolidare i successi della rivoluzione e difendere il campo socialista nella competizione globale fra sistemi apertasi con la Guerra fredda.  SOCIALISTI E MODELLI, OGGI    La crisi del socialismo sovietico apparve evidente ben prima del crollo del Muro di Berlino. Con la scomparsa dell’Unione sovietica l’opzione di un’«alternativa socialista» si è di fatto eclissata non solo nel dibattito politico dei paesi occidentali, ma anche nella ricerca accademica, almeno nelle discipline economiche (sulle quali intendo concentrarmi in questo articolo). I programmi universitari di «sistemi economici comparati» (comparative economics) si sono gradualmente spostati sull’analisi delle economie in transizione; successivamente, nei rari casi in cui sono sopravvissuti questi insegnamenti, l’attenzione si è concentrata sulla letteratura delle cosiddette varieties of capitalism: essenzialmente, sul confronto fra liberal market economies (modello anglosassone) e coordinated market economies (modello renano-scandinavo).    Questo, almeno, fino a tempi relativamente recenti. Le crisi che si sono succedute negli ultimi anni hanno visto episodi di intervento pubblico in economia per certi versi senza precedenti in tempi di pace nei paesi capitalisti: si pensi, per fare un esempio fra tanti, al credito illimitato garantito dalle banche centrali ai governi durante la pandemia da Covid 19. La dirompente ascesa economica della Cina post-riforme di Deng ha presentato al mondo il successo di una strategia di sviluppo che ha utilizzato le opportunità offerte dalla globalizzazione economica e dal mercato mondiale, ma dove è centrale il potere di indirizzo esercitato dalle autorità pubbliche.   Parallelamente, la crescita degli standard di vita nei paesi avanzati si è praticamente arrestata: se gli Usa costituiscono una parziale eccezione, l’Italia rappresenta invece un caso particolarmente estremo di questo fenomeno, con un tasso di crescita del reddito pro capite medio annuo che era del 4,94% negli anni 1950-1974, è passato all’1,94% negli anni 1974-2007, per arenarsi allo 0,25% dal 2007 a oggi. All’epoca della cosiddetta stagnazione brezneviana, fra il 1974 e il 1984, il Pil pro capite dell’Unione Sovietica cresceva dello 0,98% in media all’anno, più di mezzo punto in più della media italiana dell’ultimo ventennio.  In questo contesto, anche nella ricerca accademica ha cominciato a riaffacciarsi una discussione sulle «alternative di sistema» in campo economico. I socialisti di oggi tendono a non condividere lo scetticismo dei socialisti di ieri nei confronti dei modelli. Da una parte sanno che il totale discredito in cui la nozione di «socialismo» è sprofondata con il crollo del socialismo reale può riacquistare credibilità solo a fronte di argomenti circostanziati. Dall’altra parte è tramontata già da molto tempo l’illusione storicista secondo cui il mondo sarebbe inesorabilmente in marcia verso un radioso futuro socialista grazie alle contraddizioni insuperabili del capitalismo: se verso qualcosa siamo in marcia, è più probabile sia la catastrofe climatica. E allora è forse utile cercare di orientare la direzione verso cui scegliere di dirigersi grazie a cartine più dettagliate dei possibili, alternativi, punti di approdo.   MODELLI DI ECONOMIA SOCIALISTA CONTEMPORANEI Insieme ad André Pedersen Ystehede, economista del Ministero della Tassazione danese, in un articolo sul Journal of Economic Surveys abbiamo tentato di fare ordine nella letteratura economica contemporanea, identificando i principali filoni di ricerca alla base dei modelli di economia socialista oggi proposti a livello internazionale. Ne riassumerò di seguito tre, senza alcuna pretesa di esaustività, che sono a mio avviso i più rappresentativi delle tendenze in corso.  1) Socialismo come processo di «democratizzazione». A questo primo gruppo si possono ascrivere lavori come quello dell’economista francese Thomas Piketty. Il suo «socialismo partecipativo» punta a un duplice processo di democratizzazione sia delle tradizionali istituzioni della rappresentanza, che del governo delle imprese. Piketty è propugnatore di radicali politiche redistributive tramite la leva fiscale, con aliquote effettive che possono arrivare fino al 90% per redditi, eredità e patrimoni 10.000 volte superiori a quelli medi (la soglia è meramente indicativa visto che l’aliquota cresce in modo lineare insieme al multiplo rispetto ai valori medi. Si veda la tabella 17.1 nell’edizione italiana del suo libro Capitale e Ideologia per un esempio più dettagliato). A questo modello è sostanzialmente accostabile la cosiddetta Zucman Tax (dal nome dell’economista Gabriel Zucman, coautore di Piketty in diversi lavori), discussa recentemente – e respinta – dal parlamento francese. Nell’ottica del socialismo come processo di democratizzazione, una più equa ripartizione di reddito e ricchezza non è un fine in sé, bensì è funzionale a una più equa ripartizione del potere, un modo per tutelare il sistema democratico dalla distorsione a cui è soggetto quando si verifica l’accumulo di enormi ricchezze nelle mani di pochi. Anche le riforme di corporate governance proposte da Piketty sono animate dallo stesso spirito, come ad esempio quella di limitare al 10% i diritti di voto esercitabili dai singoli azionisti.  2)  Socialismo come «impresa volontaria». È una tendenza che ha origini molto antiche, in ultima analisi riconducibili alla ricorrente aspirazione di dare vita a comunità ideali ispirate a valori, pratiche, rapporti sociali diversi da quelli dominanti nel mondo circostante. È lo spirito che ha animato esperienze diversissime fra loro, dalle comuni agricole legate al cristianesimo protestante in Nordamerica, ai Kibbutz israeliani, alle utopie socialiste di Robert Owen e Charles Fourier nell’Ottocento, fino alle comuni hippy della nuova sinistra degli anni Sessanta del Novecento. Duncan Foley, economista americano della New School for Social Research di New York, ha più recentemente provato a delineare i tratti di una sorta di «comunità socialista nel capitalismo» ispirata dal successo delle pratiche di produzione di software open-source. La sua Lifenet si fonda sul contributo volontario dei cittadini per la produzione di un’ampia gamma di beni. I partecipanti al network – cui non sarebbe precluso svolgere un’attività anche nell’economia capitalista – non sono retribuiti per le loro prestazioni, ma possono attingere liberamente dal prodotto degli altri. Il potenziale squilibrio fra domanda e offerta dei singoli beni, in assenza di un sistema di prezzi flessibili che tenda a pareggiare i due lati del mercato, è un problema simile a quello che caratterizzò il «socialismo classico» con i suoi prezzi amministrati e la conseguente necessità di ricorrere al razionamento. Lifenet utilizzerebbe l’economia capitalista come un buffer, una valvola di scambio, un mercato straniero in cui esportare e dal quale importare prodotti finanziandosi col proprio surplus. L’ethos di «parsimonia» e «avversione allo spreco», che secondo Foley dovrebbe comunque animare i partecipanti di Lifenet, rimanda all’annosa questione del rapporto fra società socialista e i suoi, eventuali, prerequisiti etico-comportamentali.  3) «Socialismo di mercato». L’idea di fondo è quella di combinare una preponderante proprietà pubblica o collettiva delle aziende, e il mercato come sistema privilegiato di allocazione delle risorse. La rinnovata centralità della questione dei diritti di proprietà e della distribuzione primaria è qui vista come un’alternativa alla crisi del modello socialdemocratico, nel momento in cui la capacità di re-distribuzione delle autorità pubbliche è sempre più compromessa dalla competizione fiscale fra gli Stati. Il «socialismo azionario» discusso nei lavori dell’economista italiano – e docente alla Freie Universität di Berlino – Giacomo Corneo ha un certo sentore marxiano nell’ambizione di utilizzare i più avanzati metodi di organizzazione della produzione del capitalismo a servizio di un’economia di tipo alternativo. Fra questi, il mercato azionario, ovvero lo strumento con cui la classe capitalista ha affrontato il problema «principale-agente» nel rapporto coi propri manager. Gli interessi di questi ultimi possono divergere significativamente da quelli degli azionisti, siano questi ultimi soggetti privati o, come nel caso del «socialismo azionario», l’intera collettività. La contrattazione delle azioni offre la possibilità di radunare un’enorme quantità di informazione dispersa e utilizzarla a servizio di dispositivi per il disciplinamento della governance di impresa. Corneo immagina un’economia sostanzialmente duale: da una parte grandi aziende quotate e partecipate da un fondo sovrano pubblico, i cui dividendi verrebbero girati al bilancio statale; dall’altra un sistema di piccole e medie aziende, fondamentali per garantire dinamismo economico e un efficace sistema di incentivi all’innovazione, l’assenza dei quali ha segnato la sconfitta storica delle economie pianificate del socialismo reale. All’interno di questa cornice, tre sono le sfide istituzionali con cui il socialismo azionario si cimenta: 1) Il processo di creazione del fondo, per il quale si possono invocare i casi della Nuova Zelanda o di Singapore come esempi di Stati nei quali fondi sovrani sono stati costituiti senza fare affidamento sulle rendite di riserve naturali (come nel caso della Norvegia o delle petromonarchie del Golfo). 2) L’apparato di regole a garanzia di una gestione efficiente del settore pubblico. 3) Un sistema di demarcazione fra settore pubblico e privato che non deprima gli animal spirits del capitale privato e favorisca al contempo l’accumulazione di capitale pubblico. IL FILO (ROSSO) CONDUTTORE È possibile individuare tratti comuni fra queste tendenze, come anche fra i mille altri rivoli della letteratura accademica neosocialista a cui qui non ho potuto fare cenno? Proviamo ad abbozzarne alcuni: a) È pressoché universale l’accento posto sull’importanza della partecipazione democratica e di una cittadinanza attiva, oltre che sulla tutela dei diritti civili e politici garantiti dalle moderne democrazie liberali. Si è persa traccia, in sostanza, di qualsiasi suggestione di «dittatura del proletariato» o di privilegio da accordare a un determinato partito o «avanguardia politica» anche solo di portata «transitoria».  b) Riguardo alla proprietà pubblica, i teorici neosocialisti adottano generalmente un approccio flessibile e pragmatico. Se le scelte in materia si devono confrontare con l’evidenza empirica a disposizione, è naturale che saranno sempre scelte contingenti, suscettibili di revisione nel momento in cui emergesse un’evidenza di tipo diverso. Ne deriva un atteggiamento molto più aperto all’intervento pubblico in economia di quanto le socialdemocrazie europee siano state disposte a concedere nei primi decenni successivi alla fine della Guerra fredda. Ma nessuna preclusione di principio verso l’impresa privata. Nel «socialismo classico» l’impresa privata semplicemente non aveva ragione di esistere, dato che il rapporto fra lavoratore e proprietario del capitale privato si configurava come «sfruttamento» (l’unica cosa somigliante a un’iniziativa economica privata di una certa rilevanza era l’impresa familiare agricola: singole famiglie potevano prendere in gestione un lotto di terreno appartenente a una cooperativa o a un’azienda agricola statale, per poi venderne i prodotti direttamente ai consumatori al dettaglio. Ma si trattava, appunto, di imprese familiari, che non contemplavano rapporti di lavoro salariato). Lo stesso pragmatismo si applica nella scelta del mercato concorrenziale come strumento principale di allocazione delle risorse. Il che non significa che specifici ambiti, come ad esempio quello dell’istruzione e della sanità, non possano funzionare avvalendosi di sistemi di coordinamento differenti.  c) I contributi neosocialisti degli anni recenti provengono da economisti con background teorici diversi. È noto che alcuni dei padri dell’economia neoclassica, da Knut Wicksell fino a Kenneth Arrow, avessero simpatie socialiste. Il grande economista austriaco, e feroce antisocialista, Ludwig von Mises sosteneva che «persone con idee diverse sulla natura e le origini del valore economico» – intendeva: anche gli economisti che non condividono la teoria marxista del valore-lavoro – «possono essere socialiste sulla base dei loro sentimenti». Ma all’epoca del socialismo reale le contrapposizioni teoriche e quelle politiche tendevano a sovrapporsi con una certa facilità. Oggi il campo degli economisti neosocialisti si caratterizza per una – a tratti sorprendente – pluralità nelle scuole di pensiero cui fanno riferimento i suoi protagonisti.  Sintetizzando ulteriormente questi spunti, un elemento trasversale nelle proposte dei «nuovi socialisti» è la propensione verso soluzioni pratiche che attingono, con eclettica disinvoltura, alla tradizione liberale e a quella democratica, oltre che a quella socialista. Intervenendo nel dibattito sulla possibile riforma dei sistemi del socialismo reale negli anni Sessanta del Novecento, l’economista marxista Maurice Dobb ammoniva che «cambiare un sistema economico non è come preparare un dolce e una torta»: non si possono mischiare liberamente gli ingredienti sulla base dei propri gusti.  I neosocialisti contemporanei non sembrano troppo preoccupati di scegliere ingredienti assai diversi fra loro per preparare la propria torta. Dopo il sewer socialism, è in arrivo un cake socialism? *Emilio Carnevali è professore associato di Economia politica presso il Dipartimento di Scienze economiche e statistiche dell’Università di Salerno. L'articolo Dal socialismo delle fogne a quello delle torte proviene da Jacobin Italia.
IVECO: LA COMMISSIONE UE APPROVA LA VENDITA A TATA MOTORS.
L’acquisizione di Iveco da parte dell’indiana Tata Motors compie un nuovo passo in avanti con il via libera della Commissione Europea. La vendita di tutto il pacchetto Iveco (esclusa la divisione “Defence” che sarà inglobata da Leonardo) al colosso indiano dell’automotive compie quindi uno step importante con l’approvazione di Bruxelles, che certifica (era poco più che una formalità) come l’operazione non sollevi questioni particolari in tema di concorrenza e antitrust. Un terzo abbondante dei 36mila dipendenti del gruppo Iveco lavorano in Italia, 4mila in Lombardia, tra Suzzara (Mantova) e Brescia. Radio Onda d’Urto ha intervistato Maurizio Ponti, delegato sindacale Fiom nello stabilimento bresciano di Iveco. Ascolta o scarica.
[Greve] MAGMA
Da Bruxelles, Greve riprende il filo della crescente mobilitazione contro la manovra finanziaria del governo Belga. Al netto dell'aumento sensibile della repressione, i compagni e le compagne di Greve constatano una radicalizzazione crescente delle piazze; e, seppur non trovando riferimenti conosciuti per descriverne la composizione; avanzano delle ipotesi per provare a capirla.