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Trump perde consensi. “Il rimorso dell’acquirente”
In un servizio pubblicato da Axios, i due commentatori Jim VandeHei e Mike Allen scrivono che Trump, in termini di risultati concreti, ha sfornato i suoi primi sei mesi in modo storico. Enormi tagli fiscali. Attraversamenti di frontiera a livelli record. Entrate tariffarie in forte crescita. Attacchi aerei spettacolari in Iran. […] L'articolo Trump perde consensi. “Il rimorso dell’acquirente” su Contropiano.
ANALISI CRITICA DEI FATTI ECONOMICI CON ANDREA FUMAGALLI: LA CONFERENZA SULLA RICOSTRUZIONE UCRAINA; I DATI OCSE SUI SALARI REALI (E AL PALO) IN ITALIA; L’ORO ITALIANO NEI CAVEAU STATUNITENSI
Consueto appuntamento del venerdì mattina con l’Analisi critica dei fatti economici della settimana con l’economista e collaboratore di Radio Onda d’Urto Andrea Fumagalli. Nella puntata di venerdì 11 luglio viene approfondita la Conferenza sulla ricostruzione dell’Ucraina a guerra ancora in corso e senza vedere all’orizzonte spiragli di tregua; un approfondimento anche sui dati economici, dai numeri Ocse sui salari reali in Italia – ancora fanalino di coda – e sui dati della produzione in calo a maggio, con il comparto auto in forte crisi; in ultimo un focus sulle riserve auree italiane nei caveau degli Stati Uniti che preoccupano gli economisti. La puntata di venerdì 11 luglio 2025. Ascolta o scarica.
Il genocidio nell’economia
“L’orrore economico” era il titolo di un libro di trent’anni fa di Viviane Forrester, che denunciava le ingiustizie profonde e la violenza della globalizzazione liberista. Ora quell’orrore è giunto a compimento, diventando il sistema internazionale di affari che lucra sul genocidio del popolo palestinese. Lo documenta rigorosamente il rapporto “Economia […] L'articolo Il genocidio nell’economia su Contropiano.
ANALISI CRITICA DEI FATTI ECONOMICI CON ANDREA FUMAGALLI: IL “BIG BEAUTIFUL BILL” DI TRUMP, IL SUMMIT 2025 DEI BRICS, I DATI INAIL SUGLI INCIDENTI SUL LAVORO E L’INFLAZIONE
L’analisi critica dei fatti economici della settimana di venerdì 4 luglio 2025, come sempre insieme all’economista e collaboratore di Radio Onda d’Urto, Andrea Fumagalli. In questa puntata parliamo dell’approvazione, negli Usa, del “Big Beautiful Bill” voluto da Trump, dell’apertura del summit dei Brics in Brasile, dell’aumento dei prezzi del “carrello della spesa” e,  in chiusura, dei dati Inail riguardo gli infortuni sul lavoro. La Camera dei Rappresentanti Usa ha dato il via libera definitivo alla legge di bilancio fortemente voluta dal presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, che l’ha chiamata “Big Beautiful Bill”. Si tratta di una manovra economica ultraliberista che prevede, tra l’altro, l’aumento della spesa militare, il finanziamento di una campagna di deportazione di massa dei migranti e lo stanziamento di 4.500 miliardi di dollari per estendere le agevolazioni fiscali alle imprese. In cambio aumenterà il deficit di altri 3.400 miliardi di dollari in dieci anni. Dal 5 all’8 luglio 2025 si terrà in Brasile il diciassettesimo Summit dei BRICS. Gli stati fondatori – Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica – puntano a rafforzare la cooperazione con i sei nuovi membri: Egitto, Etiopia, Iran, Emirati Arabi Uniti, Indonesia e Arabia Saudita. Il blocco di stati che compongono i Brics rappresenta quasi il 50% della popolazione mondiale e genera circa il 40% del PIL globale. Un recente rapporto del Fondo Monetario Internazionale prevede che le economie Brics cresceranno del 3,4% nel 2025, superando la media globale del 2,8%. Gli undici paesi della coalizione rappresentano insieme il 24% del commercio globale. La composizione del summit riflette una nuova mappa del potere globale, in cui la rivalità tra Stati Uniti e Cina si estende sempre più coinvolgendo anche l’America Latina. Il significativo aumento dei prezzi che si registrò tra il 2021 e il 2023 – fino a oltre il 10% di inflazione – oggi è molto meno intenso. Nonostante questo il costo della vita sta continuando a salire.  Continuano a registrarsi rincari significativi e oltre la media per quanto riguarda il cibo e tutti i prodotti da supermercato, quelli raccolti nell’indice che l’Istat definisce il “carrello della spesa”, aumentato del 3,1%. Inail ha pubblicato i dati su infortuni e morti sul lavoro in Italia nel 2024. Lo scorso anno gli infortuni denunciati sono stati 593mila con una crescita dello 0,4% sul 2023 legata in particolare alla crescita delle denunce da parte di studenti in alternanza scuola-lavoro (il Pcto), che sono salite a 78mila. I casi mortali sono stati 1.202, uno in più rispetto al 2023. Per i lavoratori si registrano quattro decessi in meno, ma i 13 casi mortali rilevati tra gli studenti sono cinque in più rispetto agli otto dell’anno precedente. Le denunce di malattie professionali hanno toccato quota 88mila, il dato più elevato dal triennio 1976-1978, in crescita del 21,8% rispetto al 2023. L’analisi critica dei fatti economici della settimana con l’economista e collaboratore di Radio Onda d’Urto Andrea Fumagalli. Ascolta o scarica
ANALISI CRITICA DEI FATTI ECONOMICI CON ANDREA FUMAGALLI: L’INCONTRO SINDACATI – CONFINDUSTRIA, LE SPESE MILITARI NATO, “NO SPACE FOR BEZOS” E IL RISIKO BANCARIO
Consueto appuntamento del venerdì mattina: l’analisi critica dei fatti economici della settimana con l’economista e collaboratore di Radio Onda d’Urto, Andrea Fumagalli. I temi della puntata di oggi, venerdì 27 giugno: l’incontro sindacati Confindustria, la decisione degli alleati Nato di aumentare al 5% del Pil le spese militari, le proteste del collettivo No space for Bezos alle sue nozze a Venezia e il risiko bancario, stavolta con Monte dei Paschi di Siena. Dopo un anno, riparte il confronto tra Confindustria e sindacati confederali e, stando alle dichiarazioni di tutti i protagonisti, riparte alla grande. Portando con sé anche lo sblocco del contratto dei metalmeccanici: come ha dichiarato il presidente degli industriali Emanuele Orsini. Nelle tre ore di confronto, nella sede confindustriale, Orsini e i tre leader sindacali Maurizio Landini, Daniela Fumarola e Pierpaolo Bombardieri hanno parlato di tutto. Dalla revisione del patto della fabbrica alle politiche industriali, dalla rappresentanza alla sicurezza sul lavoro, passando, anche, per i contratti ancora bloccati, in primo luogo, appunto, quello dei metalmeccanici. Al vertice Nato del 24 e 25 giugno, oltre alle guerre in Ucraina e Medio Oriente, si è parlato e deciso il nuovo budget occidentale per quanto riguarda le spese militari. Gli alleati si sono impegnati ad investire il 5% del Pil annuo in difesa e nelle spese relative alla sicurezza entro il 2035. In Italia si passerebbe dagli attuali 45 miliardi (pari a circa il 2% del Pil) di cui 35 miliardi in difesa e 10 in sicurezza, a 145 miliardi. E ancora: Monte dei Paschi di Siena ha comunicato di aver ricevuto dalla Banca Centrale Europea l’autorizzazione all’acquisizione del controllo diretto di Mediobanca.Che cosa rappresenta questo passaggio? Infine Venezia, con la coalizione No Space for Bezos impegnata a denunciare la svendita di un pezzo intero di città, occupata dalle nozze del patron di Amazon, Jeff Bezos, a Venezia. Una galassia degli attivisti che criticano questo farzoso matrimonio che si oppongono alla mercificazione e alla privatizzazione degli spazi pubblici. Andrea Fumagalli, docente di economia politica all’università di Pavia, nella conversazione di venerdì 27 giugno 2025. Ascolta o scarica  
Dove Trump ha fallito
Articolo di Marco Bertorello Allo scoccare dei primi cento giorni della nuova amministrazione Usa è iniziato il conteggio dei suoi progetti falliti, a conferma della loro irrealizzabilità. Tranne qualche raro caso di limitazione adottata dai contrappesi di una democrazia liberale, come la Corte costituzionale, la gran parte delle battute d’arresto appaiono provenire dal vivo del fronte economico.  PREMATURO DE PROFUNDIS DEL TRUMPISMO Il cosiddetto Liberation day, celebrato il 2 aprile del 2025, sembrava rappresentare la summa degli intenti trumpiani, apripista di una fase di ripiegamento sovranista della potenza statunitense, una ricentratura sulla propria economia a colpi di dazi, minacce e ritorsioni su scala globale. Tale fase ha visto quasi immediatamente un periodo di stop and go, di sospensione della gran parte dei provvedimenti adottati. Le relazioni con Canada, Messico, Europa e, persino, Cina, per quanto bilaterali e tese a sfruttare una sorta di sbilanciamento a favore della presunta potenza a stelle e strisce, sono state prima interrotte e poi riavviate, lasciando intendere che i provvedimenti adottati non erano definitivi, solo punti di partenza di trattative. Come se la teoria del fronte sovranista avesse cozzato subito con la cruda realtà. Difendere le proprie produzioni e, ancor più, provare a rilocalizzarle all’interno dei propri confini mediante una spinta politica dei dazi avrebbe infiammato l’economia stelle e strisce. Inflazione, crollo dei consumi, Borse in ritirata. Instabilità generalizzata che finirebbe per allontanare investimenti e, in definitiva, quella ripartenza per tornare grandi sbandierata in tutte le occasioni fino a diventare forte aspetto identitario. Al netto dell’instabile e umorale atteggiamento di Trump, è possibile che le principali mosse abbiano «spaventato» la nuova amministrazione? Fino al punto da far nascere nel mondo finanziario il nuovo acronimo Taco (Trump Always Chickens Out, letteralmente Trump fa sempre marcia indietro). Una compagine politica che da anni predica il rimedio dei dazi difficilmente si sorprende delle preliminari reazioni avverse degli ambienti economico-finanziari a livello globale? Il nuovo segretario al Tesoro Scott Bessent  non a caso ha parlato esplicitamente di «incertezza strategica». Per fare solo un esempio, se rompi con i principali paesi che acquistano i tuoi titoli di Stato oppure presenti un importante piano di riduzione delle tasse (per quanto simultaneo all’obiettivo di smantellare il welfare, sempre facile a dirsi meno a realizzarsi) il prezzo dell’indebitamento pubblico non può che aumentare al punto di rendere la spesa per interessi un fardello difficilmente sopportabile. Attualmente per gli Usa tale spesa supera quella militare. Improbabile che i piani di Trump non avessero messo in conto non solo le tensioni, ma anche le successive trattative per giungere ad accordi diversi dai formali obiettivi di partenza. Intanto, però, queste tensioni geopolitiche hanno prodotto già degli effetti negativi. Restando all’esempio di poc’anzi, si è verificato un importante spostamento di liquidità verso i titoli pubblici europei (per quanto il Vecchio continente non goda di buona salute) a danno di quelli statunitensi. Motivo per cui è sceso il costo del debito per paesi come l’Italia. LA RIVINCITA DEI MERCATI La gran parte dei critici liberali di Trump annunciavano così, con malcelato compiacimento, che ci sarebbe stata una rivincita dei mercati. Che Trump sarebbe stato fermato principalmente dalle loro inevitabili dinamiche. Costretto a un bagno di realtà. Ma questa non è una buona notizia.  Non lo è perché significherebbe che solo l’economia finanziarizzata e globale dominante può fermare la destra sovranista. Cioè quell’economia che in definitiva ha prodotto l’ascesa stessa di questa destra. Chi ha prodotto il male rappresenterebbe l’unica cura. Una dichiarazione d’impotenza per qualsiasi cambiamento. Possibile, dunque, che siamo tornati al vecchio adagio di Margaret Thatcher che non vi sarebbe nessuna alternativa? Intanto va precisato che il sovranismo piace a una parte significativa delle attuali classi dirigenti che lo ritengono una carta da giocarsi in questa fase di profondo stallo. La globalizzazione capitalistica è giunta a un limite. Nessun ciclo di crescita sostenuta è all’orizzonte. I paesi occidentali faticano e quelli emergenti hanno rallentato. La deglobalizzazione, per quanto misurata, con tanti se e ma, è ritenuta un’opzione praticabile. Lo dimostrano i consensi registrati da Trump proprio dentro le classi dirigenti statunitensi, proprio tra quelle élites che sono state protagoniste negli ultimi decenni della globalizzazione e dell’innovazione tecnica che l’ha accompagnata. In buona sostanza, di fronte all’ascesa della Cina e alla concorrenza europea la carta geopolitica e protezionista torna in voga. Con tutte le contraddizioni che può generare all’impresa statunitense stessa. Basti pensare alla produzione di iPhone in Cina.  Lo stesso Trump, sebbene come tutti i sovranisti sia convinto che il rilancio debba avvenire su consumi smisurati, su un ritorno all’età dell’oro di un capitalismo senza regole e vincoli ambientali, è costretto ad affermare:  «Bene, forse i bambini avranno due bambole invece di 30 bambole. Quindi forse le due bambole costeranno un paio di dollari in più di quanto costerebbero normalmente», cioè a dire che i bambini statunitensi potrebbero anche divertirsi evitando un eccesso di consumi. Non pensa alla decrescita, tantomeno felice, ma lancia un monito ai suoi elettori. Lo scontro con la Cina necessita, perlomeno in un primo momento, una riduzione dei consumi dettata anche da un aumento dei costi. E allora è costretto a individuare beni dal largo consumo di massa a cui bisognerà in qualche misura rinunciare. Un intervento che ci dice quanto la strada intrapresa sia poco conosciuta e forse imprevedibile nel suo proseguire. Va detto però che il sovranismo non è certo un’opzione che va contro il capitale. Non solo generalmente ha come obiettivo la riduzione delle tasse proporzionalmente a chi già ha di più, ma intende rilanciare un’economia di mercato basata su una supercompetizione tra paesi e soprattutto all’interno di ogni paese. Quel che non riesce più con la globalizzazione si prova a portarlo a casa con un mercato senza regole su una scala ridotta. I principi iperliberisti affermatisi in questi ultimi decenni rimangono centrali. Il dominio del finanzcapitalismo resta il tratto di fondo del sovranismo. PROTEZIONISMO VS GLOBALIZZAZIONE Se per essere avversari di Trump tocca difendere unicamente il modello liberista il corto circuito appare evidente. Detto ciò, per immaginare qualcosa di diverso occorre comprendere le difficoltà che registra la politica protezionista del sovranismo a tutte le longitudini. E per comprenderne i limiti occorre riflettere sul grado di profondità raggiunto dai processi di globalizzazione produttiva e finanziaria.  Le delocalizzazioni d’impresa e la liberalizzazione dei mercati di capitali hanno dato vita a un complesso apparato che fa circolare risorse economiche e finanziarie, il cui grado di compenetrazione è molto difficile non solo da ridurre, ma alle volte persino comprendere e mappare. Il problema sorge ogni qual volta si affaccia il tentativo di arrestare o soltanto ridurre la circolazione finanziaria e produttiva. Gli scompensi appaiono immediatamente. Basti pensare che negli Usa, come del resto in tutti i principali paesi occidentali, non basta la volontà di riportare a casa le proprie fabbriche. Oltre Atlantico ormai mancano apparati industriali, manodopera e competenze sufficienti per tale obiettivo. Il problema perlomeno dovrebbe essere posto in tempi medio-lunghi per risultare credibile, invece si scontra con le urgenze del momento. Va aggiunto che non esiste soltanto un lato oscuro della globalizzazione produttiva e degli scambi, ma anche una sua razionalità. Importare prodotti assenti nei propri territori oppure scambiare merci tra paesi dove esiste un’abbondanza di competenze nel produrle può creare benefici reciproci. Sempre che vi sia la giusta attenzione a non abusare di scambi, dunque di trasporti inquinanti. Persino la finanza potrebbe avere effetti benefici se avesse come unico scopo quello di reperire risorse dove ci sono per poi investirle dove vi è la necessità produttiva di impiegarle. Il problema, dunque, è quello di chi governa produzioni e finanza. Se il movente all’agire è il profitto e la necessità di far accrescere costantemente, magari esponenzialmente, il capitale, allora non c’è globalizzazione o sovranismo che tenga. Riportare le produzioni a casa nostra, avere una finanza completamente libera d’investire a casa nostra e nei paesi amici, non risolve i problemi di diseguaglianza e inquinamento. Semplicemente ne riduce la portata geografica, non quella politica. PROBLEMI DI UN’ALTERNATIVA Si tratta allora di riconoscere che il sovranismo tenta di dare risposte (inadeguate) a problemi spesso reali. Al netto di chiusura, razzismo, retrivo conservatorismo culturale rappresentato da tanta parte del sovranismo stesso.  Proviamo a mettere l’accento non più sul sovranismo, ma sulla necessità di sovranità, cioè su quel principio che intende recuperare un controllo democratico della sfera politica ed economica per poter contenere/scalzare il liberismo. Un principio astrattamente corretto, ma che non è in grado di fare i conti con gli attuali assetti economico-finanziari. Riportare al centro la vita del pianeta e delle persone implica avere un’economia che non è più al servizio della finanza. Un certo grado di repressione finanziaria e di controllo di capitali diventerebbe allora operazione necessaria e inaggirabile. Mettendo in conto preliminari difficoltà e ostacoli, ad esempio un problema col costo dell’indebitamento pubblico e la possibile fuga di capitali. Vi è il concreto rischio che il prezzo dei titoli di Stato aumenti in relazione a una rarefazione di investitori istituzionali, e non, sul piano internazionale. Tale evenienza va circoscritta con una possibile ristrutturazione selettiva e democratica del debito sovrano, che incentivi la ricerca di nuovi investitori nazionali, a partire da quelli sotto il controllo pubblico, ma anche grazie a un inevitabile protagonismo della banca centrale in quanto prestatore di ultima istanza. Tutti passaggi complicati e necessari, ma non sufficienti. Prima o poi emergerà un limite di un sistema fondato sull’indebitamento senza fine su cui stanno scivolando tutti i principali paesi al mondo, a cui neppure il principio di potenza politica e militare potrà sottrarsi. I Cds (cioè quelle polizze a cui si ricorre per assicurare i propri investimenti finanziari contro il possibile default di un paese in cui si è investito) riguardanti gli Stati uniti hanno ormai raggiunto un costo paragonabile a quelli italiani e di poco inferiore a quelli greci. Un costo non elevatissimo, ma che descrive le preoccupazioni che muovono una parte degli stessi attori finanziari. Risulta immediatamente evidente, dunque, come un percorso che intenda sottrarsi ai meccanismi attualmente dominanti impatterebbe con problemi di ordine generale e sovranazionale. Gli assetti sono tali oramai che ripiegare su una scala nazionale o locale, per quanto apparentemente plausibile sul piano logico-formale, rischia di essere un percorso che porta a morire di inedia. Indubbiamente l’alternativa nazionalista (e persino quella sovrano-democratica di sinistra) appare un’opzione concreta e praticabile per la sua immediatezza perché prefigura un recupero del controllo di una realtà imprendibile. Non è un caso che molte Cancellerie europee guardino con favore a obiettivi simbolici, comunque inquietanti, come la difesa dei confini mediante una logica neocoloniale che non esclude persino il trasferimento di migranti in centri di detenzione in paesi terzi. Un modo ingannevole di affrontare il problema senza intaccarne le cause. Sul piano finanziario e produttivo, però, la battaglia è ancor più complicata e si gioca su un livello globale o perlomeno sovranazionale. Qui la rivendicazione di sovranità, cioè di poter tornare a decidere autonomamente e democraticamente del proprio ordine, scivola irrimediabilmente nell’impotenza. Cioè lottare per un controllo sul piano nazionale o locale è un’opzione incapace di sottrarsi all’accerchiamento.  La libertà incontrastata di capitali strangola i tentativi locali di insubordinazione all’ordine globale. Perciò servirebbero strategie sovranazionali tese a costruire relazioni democratiche e orizzontali tra soggetti politici e sociali. Al giurista tedesco Dieter Grimm che chiede se manchi un oggetto della sovranità si può rispondere affermativamente, nella misura in cui si ammette che per riprendere sovranità sulla cosa pubblica, con scelte democraticamente assunte, è necessario fare un salto in alto. Un salto in termini geografici. Al predominio delle logiche del capitale globale non si può rispondere solo a livello territoriale, ma con un’alleanza su una scala superiore, più larga. D’altronde fu proprio la sovranità nazionale a cedere allo strapotere tecnico e politico del capitale globale, facendo venire meno la potenza della politica, facendo emergere la funzionalità economica della sfera statuale al mercato monopolizzato dal capitale. Tornare semplicemente indietro è un’operazione meccanica illusoria.  SPERIMENTARE UN’ALTERNATIVA SOVRANAZIONALE Per sottrarsi al potere economico globale e ai suoi meccanismi, cioè a quel potere di fatto realmente esistente, sono necessarie nuove alleanze e una nuova governance sovranazionale. In grado di limitare la concorrenza tra paesi in termini di offerta fiscale, welfare, diritti e sicurezza sul lavoro, regole a tutela dell’ambiente.  Si tratta allora di costruire delle barriere per impedire una concorrenza internazionale fuori controllo. Superare barriere verticali, erette su dei muri, e creare alleanze politiche e sociali trasversali e transnazionali. Nella consapevolezza che l’efficacia si può dare solo con un respiro che superi i confini politici tradizionali. Se il livello di organizzazione del capitale è globale, non è pensabile sottrarsi da quel livello. Tale approccio dovrebbe comportare la costruzione di coalizioni sociali in grado di arginare la razzializzazione del lavoro e dei territori, la loro imperante e crescente frammentazione. Un impegno, dunque, contro quel dilagante razzismo funzionale al dominio economico attuale. In definitiva, non il recupero di una politica nazionale, ma l’invenzione di una politica sovranazionale. Una politica che ponga al centro la gestione della sfera economica. Una gestione che deve superare i falsi miti della naturalità del libero mercato e della supercompetizione. Riportando al ruolo di protagonisti coloro che fino a oggi hanno subito.  Si tratta di individuare dei luoghi da dove iniziare. L’Europa, un continente incapace per ora di sottrarsi ai dettami delle proprie multinazionali e contestualmente dei propri capitali nazionali, potrebbe essere un bel terreno di verifica. Come potrebbero esserlo gli Stati uniti (a partire dal dismettere la concorrenza tra uno Stato e l’altro) assieme a Messico e Canada. Esattamente il contrario delle annessioni politiche attualmente minacciate. Ma anche la Cina e i paesi emergenti asiatici. Come il continente sudamericano. Si tratterebbe di affermare una sorta di geopolitica contro la competizione, alleanze politiche e sociali fondate su luoghi geograficamente determinati, ma alla ricerca di coalizioni che reimpostino il sistema economico su principi di cooperazione, di scambi tesi al soddisfacimento dei bisogni, non basati su una vampiresca costante ricerca di profitti che fa del capitale un attore completamente fuori controllo. Un modello senza dubbio complesso, che ribalterebbe gli attuali assunti dominanti, ma che si offre in risposta all’attuale crisi ambientale e sociale.  Un recente libro del geografo Paul Richardson sottolinea come l’invenzione della nazione sia relativamente recente e sia stata concretamente un portato dell’industrializzazione. Senza lingua, cultura, urbanizzazione, il precedente mondo centrato sulla figura contadina non avrebbe mai potuto riconoscersi nell’idea di nazione. Prima dello Stato-nazione l’Impero, con le sue frammentazioni, appariva intramontabile. Una trasformazione paragonabile a quella che condusse all’affermazione dello Stato-nazione non è certo dietro l’angolo. Ma nuove combinazioni tra locale e sovranazionale potrebbero affermarsi dalla crisi della globalizzazione e dall’inefficacia del sovranismo.  Questa prospettiva è urgente quanto inattuale, però è importante provare a indicarne le potenzialità. Un’anticipazione di futuro, attraverso l’individuazione di possibili attori e processi di inedite ricomposizioni. Oggi sono pensabili nuovi confini meno verticali e più orizzontali. Dove la ricerca di coesione comunitaria sia al contempo tesa al riconoscimento di altre realtà corrispondenti. Una sorta di nuova conformazione geopolitica in grado di contrastare le crescenti tendenze alla centralizzazione e uniformizzazione, capace di creare relazioni, legami e senso di appartenenza, su più livelli. Un asse localglobale che potrebbe aderire più coerentemente alle materiali trasformazioni socio-economiche contemporanee. Basti pensare cosa potrebbe rappresentare in termini di cambio di paradigma politico e culturale se in uno dei luoghi sovranazionali sopra individuati si affermasse la costruzione di una piattaforma sindacale per le rivendicazioni di una categoria di lavoro basate sulle catene produttive e del valore che la coinvolgono, prescindendo dai singoli confini nazionali. Una piattaforma capace di rigettare il principio competitivo su salari e diritti del lavoro. Sarebbe una rivoluzione copernicana in favore della creazione di nuovi poteri tesi a limitare e poi sovvertire il primato del mercato monopolistico liberista. Un obiettivo che preliminarmente può arrivare dal basso, ma che non deve escludere il coinvolgimento e il favore immediato e diretto di istituzioni politiche locali o nazionali. Una gestione sperimentale fatta di molteplici vettori e piani. Economia pubblica, economia partecipata, economia privata. Dove però la terza componente non sia il dominus assoluto, certo un fattore di dinamizzazione, ma governato, mai monopolista. E dove la prima non sia più sinonimo di inefficienza, ma di indirizzo e al contempo di organizzazione di ultima istanza in tutti quei settori dove solo le risorse pubbliche possono intervenire in maniera adeguata.  Quindi pianificazione e programmazione per investimenti verdi, economia solidale, mercato dovrebbero trovare nuovi e più avanzati equilibri. Tali scelte, però, non possono avere come epicentro la scala locale, ma quella sovranazionale. Cioè un luogo in grado di arginare il potere ricattatorio del grande capitale e del suo sistema supercompetitivo. Un tale ambiente rimetterebbe persino in gioco l’impresa cooperativa e mutualistica, cioè quell’impresa nata dai migliori propositi e poi fagocitata dalle dinamiche di mercato. È la costruzione di un inedito contesto che consentirebbe di agire per il meglio a un’impresa fondata su soci-lavoratori, che permetterebbe di svilupparne le migliori potenzialità. Non un’ipotetica, quanto negata, convivenza in un mercato supercompetitivo. Un percorso indubbiamente a ostacoli, difficile da prefigurare, ricco di difficoltà. Ma che può rappresentare un progetto più fruibile e credibile in quanto non andrebbe a cozzare immediatamente e irreparabilmente con quelle forze esterne e inquietanti che strangolano i tentativi locali di cambiamento, finendo per rendere il cambiamento stesso una prospettiva inafferrabile. *Marco Bertorello lavora nel porto di Genova, collabora con il manifesto ed è autore di saggi su economia, moneta e debito fra cui Non c’è euro che tenga (Alegre, 2014) e, con Danilo Corradi, Capitalismo tossico (Alegre, 2011) e Lo strano caso del debito italiano (Alegre, 2023). L'articolo Dove Trump ha fallito proviene da Jacobin Italia.
ANALISI CRITICA DEI FATTI ECONOMICI CON ANDREA FUMAGALLI: IL SI’ CONDIZIONATO DELL’UE A UNICREDIT, I CONTRATTI DI LAVORO DEI METALMECCANICI E LAVORARI DELLA SANITA’ E G7 CANADESE
Consueto appuntamento del venerdì mattina, con l’analisi critica dei fatti economici della settimana con l’economista e collaboratore di Radio Onda d’Urto Andrea Fumagalli. I temi della puntata di oggi, venerdì 20 giugno: la posizione dell’UE per quanto riguarda l’opa di Unicredit su Banco Bpm, lo sciopero dei metalmeccanici per il rinnovo del contratto, e l’accordo per il contratto sanità, infine, la chiusura del G7 in Canada e i temi economici affrontati. BANCHE – Via libera condizionato dell’Antitrust europeo all’offerta sul Banco Bpm lanciata da Unicredit. L’indagine della Commissione aveva rilevato che a livello locale, l’operazione proposta avrebbe sollevato problemi di concorrenza nei mercati dei depositi e dei prestiti. Secondo Bruxelles, l’operazione proposta e non solleverebbe invece problemi di concorrenza, poiché diversi altri concorrenti consolidati rimarrebbero attivi sul mercato dopo l’operazione. CONTRATTI – Sciopero oggi di 8 ore dei metalmeccanici. Alla base della protesta i problemi legati alle trattative per il rinnovo del contratto nazionale che riguarda oltre un milione e mezzo di lavoratori. Il contratto di lavoro è scaduto a giugno dello scorso anno, ma le trattative sono completamente ferme. Dopo diversi mesi di trattative è stato trovato invece un accordo per il rinnovo del contratto collettivo nazionale del personale del Servizio Sanitario Nazionale, con un aumento medio mensile di 172,37 euro per tredici mensilità. Firmato da Cisl Fp e altri sindacati non confederali, non ha invece l’avallo di Cgil e Uil, che ritengono le tutele e gli adeguamenti di stipendio del nuovo accordo insufficienti. G7 – Il G7 in Canada non è si limitato a discutere di temi militari, ma affrontato anche dossier centrali come i flussi migratori, di intelligenza artificiale e protezione del clima, in un momento in cui il Canada sta affrontando nuovamente una stagione di incendi molto intensi. Al centro dell’agenda economica soprattutto dazi e situazione economica globale, messa in crisi dalla politica commerciale protezionistica di Donald Trump. Andrea Fumagalli, docente di economia politica all’università di Pavia. Ascolta o scarica
Cosa è il tecnopanico e perché non serve a criticare la tecnologia (e Big Tech)
Immagine in evidenza:  unsplash  Non è un mistero il fatto che viviamo in tempi distopici, dove le interconnessioni tra tecnologia e politica illuminano un presente caratterizzato da controversie, diritti violati, potere sempre più concentrato. È una realtà politico-economica che in alcune sue sfumature fa impallidire le narrazioni più scure del cyberpunk, come scrive il collettivo Acid Horizon, ma sono anche tempi che vengono, spesso, molto mal raccontati. Specialmente nei media mainstream, da quasi una decina di anni, i toni attorno alle tecnologie si sono fatti spesso apocalittici: secondo queste narrazioni, la rete ha ucciso la democrazia, mandato al potere il nuovo autoritarismo, ci ha reso soli, stupidi e sudditi. Tutto perché passiamo gran parte del nostro tempo online o interagendo con tecnologie digitali.  Quello che spesso viene chiamato “techlash”, ovvero il clima di manifesta e crescente ostilità verso la tecnologia che si è instaurato nel dibattito pubblico a partire dallo scandalo Cambridge Analytica è un fenomeno ancora in corso che, se da un lato ha favorito fondamentali discussioni critiche attorno alla tecnologia, aperto importanti percorsi legislativi e di regolamentazione e ha chiuso un momento di euforico e acritico entusiasmo nei confronti del “progresso” della Silicon Valley, dall’altro ha anche scoperchiato il vaso di Pandora del catastrofismo più superficiale e vacuo. Peraltro, quel catastrofismo è l’altro lato della medaglia del “tecnoentusiasmo”: un mix di determinismo, ascientificità, hype e profezie che si autoavverano.  TECNOPANICO, IL SAGGIO DI ALBERTO ACERBI Il nuovo saggio di Alberto Acerbi, ricercatore del Dipartimento di sociologia e ricerca sociale dell’Università di Trento, Tecnopanico (Il Mulino) affronta proprio la genesi di quel catastrofismo e delle paure su cui si basa, puntando a smontare alcuni miti e false credenze della vulgata tecnologica contemporanea. Guardando principalmente a quello che pensiamo di sapere su disinformazione, teorie del complotto, algoritmi e implicazioni psicologiche dell’uso dei social media, il saggio di Acerbi fornisce soprattutto una panoramica degli studi sul tema che cerca di portare al centro del dibattito i risultati della ricerca, che in molti casi è sanamente non conclusiva, e lo fa con un sano scetticismo.  Per quanto sia fondamentale non negare le complicazioni e le problematicità di questo momento storico-tecnologico – come dicevamo fortemente distopico – resta importante navigare quei problemi basandosi su dati reali e non su narrazioni di comodo e alternativamente allarmistiche o di acritico entusiasmo. E, soprattutto, senza cadere in un facile panico morale che serve per lo più a sviare la discussione e l’analisi del presente. Anche perché, spiega Acerbi, quasi tutti i “presenti” hanno puntato pigramente il dito contro le nuove tecnologie di quei momenti, che si sono in seguito diffuse e sono divenute tra le più rappresentative di quelle epoche. A ogni tecnologia corrisponde quindi un nuovo “panico”. “Il panico attorno alla tecnologia non si manifesta esclusivamente con le tecnologie di comunicazione e digitali, anzi, uno dei temi principali del libro riguarda proprio l’importanza di assumere una ‘lunga prospettiva’ sulle reazioni alle tecnologie passate. In questo modo possiamo osservare dei pattern comuni e capire meglio quello che sta accadendo oggi”, spiega Acerbi a Guerre di Rete. “Ci sono panici che possiamo avere ma possiamo andare più lontano nel passato: la radio, i romanzi, la stampa o addirittura la scrittura. Pensiamo per esempio alla stampa. Negli anni successivi alla sua diffusione in Europa c’erano preoccupazioni che ricordano quelle di oggi: moltiplicazione incontrollata di informazioni, circolazione di falsità e via dicendo. L’aspetto interessante è che la società si è adattata alla stampa con altre invenzioni, come gli indici analitici e le enciclopedie, e tramite cambiamenti di comportamenti che puntano a risolvere questi problemi”.  UNA CONCEZIONE DETERMINISTICA DELLE TECNOLOGIE Alla base del “tecnopanico” c’è una concezione deterministica delle tecnologie, che le inquadra come forze indipendenti dalla produzione umana o dal contesto socio-politico che le produce, capaci in maniera autonoma di generare effetti diretti nella società, come se non fossero un prodotto di quest’ultima, ma una forza aliena. Secondo Acerbi, in particolare, queste forme di panico “considerano l’introduzione delle tecnologie come un processo a senso unico, in cui una nuova tecnologia cambia in modo deterministico le nostre abitudini, la nostra società e la nostra cultura”. Al contrario, come invece insegnano, per esempio, decenni di studi sulla costruzione sociale della tecnologia, nessuna innovazione, nemmeno quella più potente (come l’AI, ci arriviamo) ha queste capacità. Eppure, il “tecnopanico” è dappertutto e spesso, anzi, guida le scelte di policy e di regolamentazione delle tecnologie digitali, sedendosi ai tavoli dei legislatori più spesso degli esperti. Anche perché il “tecnopanico” ha megafoni molto forti. “Sicuramente oggi il ‘tecnopanico’ è diventato mainstream. Una ragione è l’integrazione capillare della tecnologia nella vita quotidiana: tutti abbiamo un’esperienza personale e diretta di smartphone, social media e via dicendo”, spiega ancora Acerbi. “Questo è un pattern con caratteristiche ricorrenti: il riferimento a un’epoca precedente in cui le cose erano migliori. Pensiamo all’idea di epoca della ‘post-verità’, che necessariamente suppone l’esistenza di un’epoca ‘della verità’. L’amplificazione da parte di media che spesso sono in diretta concorrenza con le tecnologie, come gli attacchi ai social media dai canali di informazione tradizionali, creano una narrazione in cui il pubblico è visto come passivo, vulnerabile, facilmente manipolabile”.  MISINFORMAZIONE, DISINFORMAZIONE E INFORMATION DISORDER La credenza che vuole gli essere umani vulnerabili e manipolabili è al centro, per esempio, del “tecnopanico” con cui spesso si parla di mis- e disinformazione e, in generale, dei fenomeni connessi all’information disorder. “Ci sono varie ragioni che spiegano il successo delle narrazioni allarmistiche riguardo alla disinformazione online. Una è semplicemente che, rispetto all’epoca pre-social media, la disinformazione è visibile e quantificabile. Ma ci sono ragioni più profonde”, spiega l’autore di Tecnopanico. Queste ragioni sono spesso politiche: “La disinformazione fornisce una causa e possibilmente una soluzione semplice a problemi complessi. È facile pensare che le persone che votano diversamente da noi, o che sono contrarie ai vaccini, siano influenzate primariamente dalla disinformazione. In questo modo, però, non si guarda alle cause strutturali, che hanno radici sociali, culturali, ed economiche più complesse”.  Inoltre, siamo naturalmente propensi a pensare che siano le altre persone a essere predisposte a cadere in false credenze e mai noi stessi, un elemento verificato da Acerbi stesso in un esperimento con Sacha Altay (Experimental psychologist dell’Università di Zurigo, nda): “Abbiamo chiesto ai partecipanti quanto pensassero che la disinformazione online fosse diffusa e pericolosa insieme ad altre domande. Il fattore che prediceva meglio quanto i partecipanti fossero preoccupati della disinformazione online era la differenza tra la loro abilità percepita di identificare informazioni false e quello che pensavano degli altri. C’è anche un nome per questo: effetto terza persona”. Ovviamente, la disinformazione esiste, e questo spiega perché si sia vista crescere l’attenzione verso di essa da parte della ricerca, del mondo dell’informazione e della politica. Il problema, però, emerge quando si utilizza questa facile spiegazione per dare ragione di fenomeni sociali e politici profondi, complessi e di lungo periodo. Per esempio, la Brexit non è avvenuta per causa diretta della disinformazione sui social media e Donald Trump non ha vinto – due volte – le elezioni presidenziali a causa solamente della propaganda digitale. Spesso, però, questi fenomeni, che certamente concorrono al clima politico contemporaneo e al rendere le sue dinamiche ancora più complesse, vengono utilizzati come prova conclusiva per dare una giustificazione a rivolgimenti politici radicali.  LA SVOLTA DI CAMBRIDGE ANALYTICA E IL TECHLASH Uno dei momenti di svolta in questi dibattiti, e che viene spesso considerato come l’inizio di questo tipo di techlash, è stato lo scandalo Cambridge Analytica del 2018. Cambridge Analytica ha aperto un varco nel business, per lo più oscuro, della propaganda politica digitale, sollevando enormi interrogativi legati ai temi di data justice e costretto Meta a un’operazione trasparenza inedita. Presto, però, le conseguenze politiche dello scandalo, poiché toccavano Donald Trump e il “Leave” nel contesto della Brexit, hanno preso il sopravvento nella copertura mediatica e anche nella cultura pop. La storia aveva in sé diversi elementi fondativi del “tecnopanico”: l’uso potenzialmente manipolatorio delle tecnologie digitali, la loro applicazione in politica, le connessioni con forze politiche di estrema destra, tratti potenzialmente criminosi e una genesi giornalistica non usuale: un leak. E i toni sensazionalistici hanno presto preso il sopravvento su quella che, invece, poteva essere una necessaria analisi di come l’economia dei dati fosse progressivamente diventata un colabrodo, con conseguenze sui diritti di tutte le personei.  “Da subito, nel caso di Cambridge Analytica, i ricercatori avevano mostrato che gli effetti reali delle campagne di CA erano quantomeno dubbi. C’erano punti importanti: la raccolta e l’uso opaco dei dati personali, le pratiche delle piattaforme digitali, la mancanza di trasparenza e accountability, ma questo veniva oscurato da una narrazione semplificata e drammatica, centrata su un colpevole chiaro e su effetti immediati e spettacolari”, spiega Alberto Acerbi che, in Tecnopanico, dedica un capitolo al caso. Una dinamica simile, in relazione ai rischi “esistenziali” della tecnologia, si vede oggi all’opera nel modo in cui l’intelligenza artificiale viene narrata nel dibattito pubblico, una fucina sempre proficua di “tecnopanico”, con paure, spesso, più fantascientifiche che altro.  “La narrazione semplificata ed esagerata, ripetuta in modo analogo da accusatori e dai CEO delle aziende di AI,  impone un focus su scenari apocalittici o su episodi sensazionalistici, più che su temi cruciali come i bias nei dataset, le implicazioni sul lavoro o il potere di pochi attori nel dettare le regole dello sviluppo tecnologico”, continua Acerbi. “Anche in questo caso, per ora, le ricerche mostrano effetti tutto sommato limitati: per esempio, molti ricercatori e soprattutto i media erano preoccupati dell’influenza dell’AI nell’anno elettorale 2024. Si pensava a falsi e propaganda super-efficace. Oggi possiamo dire che niente di ciò è successo”. L’utilizzo dell’AI a fini di propaganda politica nell’anno in cui la metà della popolazione del pianeta è andata a votare è infatti risultato molto ridotto, come confermato da diverse analisi. Anche i deepfake, una delle tecnologie più dibattute in questo terreno, al momento hanno trovato un’applicazione limitata – ma crescente – nella propaganda politica, mentre continuano invece a essere un fenomeno amplissimo e drammatico nel contesto della misoginia online, della diffusione non consensuale di materiale intimo e della violenza facilitata dalla tecnologia. GLI EFFETTI COLLATERALI DEL TECNOPANICO Uno dei meriti maggiori di Tecnopanico è quello di mostrare come queste narrazioni dedicate alla tecnologia siano spesso molto simili tra loro e adattabili alle caratteristiche delle tecnologie verso cui vengono indirizzate e come abbiano la capacità di diventare molto potenti, specialmente nel mainstream, spesso finendo per indebolire anche le critiche più sostanziali, necessarie e radicali: “Uno degli effetti collaterali più perversi del tecnopanico è proprio questo:  rende molto più difficile articolare obiezioni e analisi ragionate, basate su dati e riflessioni approfondite, senza essere immediatamente inglobati (o respinti) dentro una narrazione allarmistica già saturata”, spiega Acerbi. Questo accade anche alla ricerca accademica, che fatica a spingere i suoi risultati e il suo punto di vista: “Quando ogni critica viene assorbita in un ecosistema comunicativo dominato da titoli sensazionalistici, indignazione morale e profezie apocalittiche, le voci più pacate rischiano di suonare troppo distaccate o addirittura complici del sistema. In realtà penso sia il contrario. Come scrivo nel libro, ho spesso notato una strana convergenza tra tecno-ottimisti e tecno-catastrofisti: entrambi pensano che le tecnologie abbiano un effetto deterministico e dirompente sugli individui e sulla società e che il nostro ruolo sia soprattutto passivo. Come visto negli esempi di cui abbiamo parlato, le narrazioni allarmistiche fanno molto comodo a coloro che controllano questi strumenti: legittimano il loro (presunto) potere e oscurano i problemi più pressanti”, conclude Acerbi.   Questo è particolarmente evidente in relazione all’AI, attorno alla quale il dibattito è ancora sensazionalistico e spesso guidato dalle aziende, che hanno tutto l’interesse a farsi percepire come le uniche depositarie delle soluzioni necessarie a tenere sotto controllo i pericoli connessi alla tecnologia che esse stesse stanno creando. Il risultato è far, di nuovo, passare l’AI come qualcosa di magico, depositario di poteri e tratti inspiegabili e di difficile controllo, forse prossimi alla presa del potere, come vuole il topos narrativo più abusato relativo alla tecnologia. Alla società digitale in cui ci troviamo, però, servono meno narrazioni e più ricerca, meno profezie e più policy e, in definitiva, meno tecnopanico e più critica. L'articolo Cosa è il tecnopanico e perché non serve a criticare la tecnologia (e Big Tech) proviene da Guerre di Rete.
Grandi navi: cosa resta ai livornesi
Domenica 25 maggio, come in altre occasioni, Livorno, scende in piazza a denunciare l’insostenibilità dell’abnorme sviluppo del traffico crocieristico. Ma questa volta lo fa insieme ad attivisti di Firenze, Lucca, Pisa e La Spezia. Livorno quest’anno riceverà oltre 370 navi … Leggi tutto L'articolo Grandi navi: cosa resta ai livornesi sembra essere il primo su La Città invisibile | perUnaltracittà | Firenze.
Festival dell’economia: flash – mob di Extinction Rebellion in Piazza Duomo a Trento
In concomitanza con l’inaugurazione del Festival dell’Economia di Trento, Extinction Rebellion ha manifestato in piazza Duomo, per sottolineare la cecità del sistema economico davanti alla crisi climatica. Disposte in Piazza del Duomo con gli occhi bendati, hanno esposto cartelli che recitavano: “Difendere l’economia o la vita?” e “Corriamo bendati verso l’estinzione”. Un’azione simbolica di Extinction Rebellion per evidenziare la miopia di governi e imprese che continuano a sostenere un modello di sviluppo basato sulla crescita infinita. “Stiamo continuando ad espandere un sistema economico che trasforma il clima globale ad una velocità senza precedenti<”, dichiara Silvana, gli occhi coperti da una benda nera. Assieme alle altre< persone, è entrata in azione durante il Festival <“per denunciare l’ipocrisia di un modello che ignora gli obiettivi di riduzione delle emissioni climalteranti<“. Le bende agli occhi delle giovani di Extinction Rebellion richiamano l’attenzione sulla mancanza di visione di governi e aziende, ancora lontani da una pianificazione dell’azzeramento delle emissioni di anidride carbonica. Nel 2023, l’industria globale dei combustibili fossili ha ricevuto sussidi pubblici diretti pari a oltre 600 miliardi di dollari, mentre l’FMI stima che includendo anche quelli indiretti il dato raggiunga i 7000 miliardi<, circa il 7% del PIL mondiale. Intanto, il 2024 è stato l’anno più caldo mai registrato, nonché il primo ad oltrepassare l’obiettivo di 1,5 °C< sopra alla media del periodo 1850-1900 fissato dagli accordi di Parigi. Dietro a incontri e conferenze su tematiche cruciali, si celano i finanziamenti di aziende come Intesa Sanpaolo, Leonardo, Enel, Snam, realtà che, mentre si propongono come protagoniste della svolta sostenibile, continuano a investire massicciamente in fonti fossili, contribuendo al collasso climatico. La “crescita verde”, proposta come modello capace di unire crescita economica e protezione del pianeta, ipotizza un disaccoppiamento tra la crescita del PIL e l’impatto ambientale, ma a livello globale questo disaccoppiamento strutturale non si osserva. Come afferma l’Agenzia Europea per l’Ambiente: “La crescita economica è strettamente legata all’aumento della produzione, del consumo e dell’uso delle risorse, e ha effetti dannosi sull’ambiente naturale e sulla salute umana”. “Il titolo del Festival “Rischi e scelte fatali. L’Europa al bivio” appare tristemente profetico” conclude Silvana “il vero bivio non è tra guerra e sicurezza, ma tra una politica che continua a ignorare i limiti ecologici del pianeta e un cambiamento radicale che metta al centro giustizia climatica, disarmo e sostenibilità reale“.   Fonti * BBC, https://www.bbc.com/news/articles/c30dn5dn53jo * World Metereological Organisation, https://wmo.int/news/media-centre/wmo-confirms-2024-warmest-year-record-about-155degc-above-pre-industrial-level * Our World In Data, https://ourworldindata.org/how-much-subsidies-fossil-fuels * CMCC, https://www.cmcc.it/it/articolo/crescita-verde-emerge-scetticismo-tra-chi-studia-le-politiche-climatiche * Economia Circolare, https://economiacircolare.com/crescita-economica-disaccoppiamento-sostenibilita-eea/#:~:text=Dall’Eea%20al%20Nobel%20Parisi,non%20%C3%A8%20pi%C3%B9%20una%20certezza&text=%E2%80%9CLa%20crescita%20economica%20%C3%A8%20strettamente,economica%20fanno%20male%20al%20Pianeta. * Valori, https://valori.it/intesa-sanpaolo-banca-fossile-assemblea-recommon/   Extinction Rebellion