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25 NOVEMBRE, BLOCCHIAMO TUTTO
La guerra, il genocidio e la violenza patriarcale sono unite dallo stesso filo, un filo rosso che ci vuole impaurit3, ricattabili, vittime sacrificabili, chius3 nei confini dei ruoli di genere tradizionali. Per questo, il 25 novembre sono stati indetti appuntamenti contro la violenza patriarcale in quasi tutte le città d’Italia. A Torino, gli appuntamenti sono due, alle 18.30 in Piazza Carlo Felice e alle 17 pre concentramento a Palazzo Nuovo, ma tutto il giorno sono previste iniziative, per rimanere aggiornat3, ascoltate la radio e seguite le pagine social di NUDM Torino. Abbiamo ricordato al telefono con Maria, di NUDM Torino, gli appuntamenti cittadini e fatto alcune riflessioni in vista di domani. Tutt3 in piazza!
Ogni chiave agitata tra le mani è una promessa
-------------------------------------------------------------------------------- Foto di Cecilia Casula -------------------------------------------------------------------------------- “Una donna che parla è una minaccia per chi vuole che stia zitta“: (Elif Shafak) Il 22 novembre Roma si è tinta di viola. Migliaia di persone, migliaia di voci, un solo grido: basta. Da Piazza della Repubblica a Porta San Giovanni, la città è diventata un fiume umano in movimento. Striscioni con i nomi delle donne uccise quest’anno sventolavano come bandiere di una guerra che non dovremmo combattere. Ogni nome era un grido silenzioso. Ogni passo, un richiamo alla città intera: la violenza contro le donne non è un fatto privato, non è una statistica da archiviare tra un caffè e l’altro. Le chiavi di casa – oggetti quotidiani, banali, necessari – sono diventate simboli di resistenza. Quelle stesse chiavi che aprono le porte delle nostre case, luoghi che dovrebbero essere rifugio ma che troppo spesso diventano prigioni. Leggere tra le mani dei manifestanti, perché simbolo di libertà. Pesanti nel loro significato, perché ricordano quanto sia ancora lungo il cammino verso una società che protegga davvero le donne. In mezzo alla folla, tra musica e fumogeni, bandiere palestinesi e trans, il messaggio era chiaro: la violenza di genere è sistemica, culturale, politica. Non basta la repressione se non cambia la mentalità. Non bastano le leggi se la cultura resta immobile. Le parole che feriscono Ma mentre le strade parlano di cambiamento, nei palazzi del potere risuonano parole di un’altra epoca. Proprio in questi giorni, dentro sale istituzionali lontane dal rumore della piazza, cadono affermazioni che sembrano arrivare da un altro secolo. Carlo Nordio ed Eugenia Roccella hanno parlato di “forza muscolare genetica”, di maschilismo biologico, di violenza millenaria e quindi, implicitamente, inarrestabile. Come se il DNA fosse un destino. Come se secoli di cultura, educazione e civiltà non contassero nulla di fronte a presunte inclinazioni naturali. È un discorso pericoloso. Deresponsabilizza chi agisce violenza e condanna chi la subisce a un’eterna vittimizzazione. Trasforma il crimine in natura, la scelta consapevole in inevitabile conseguenza biologica. Si predica la civiltà e nello stesso tempo la si nega. I numeri non mentono I dati Istat non mentono mai, anche quando vorremmo che lo facessero. Una donna su tre ha subito violenza fisica o sessuale nella sua vita. L’aumento più significativo riguarda le giovanissime tra i 16 e i 24 anni: dal 28,4 per cento al 37,6 per cento in dieci anni. La violenza arriva da chi conosciamo. Partner. Amici. Conoscenti. Non dall’estraneo nel buio del parcheggio, ma da chi condivide la nostra quotidianità, la nostra intimità, la nostra fiducia tradita. E le denunce? Solo il 3,8 per cento delle vittime si rivolge alle forze dell’ordine. Il resto resta nel silenzio, avvolto dalla paura, dalla vergogna, dalla sfiducia in un sistema che troppo spesso non protegge. L’educazione come arma di prevenzione Qui entra in gioco la scuola. La manifestazione ha ricordato una verità scomoda: prevenire la violenza non significa solo inasprire le pene. Significa educare. Insegnare ai giovani il rispetto, l’empatia, la parità. Insegnare la consapevolezza dei propri diritti e di quelli altrui. L’educazione sessuo-affettiva, quando ben strutturata, è uno strumento potente per interrompere la catena di violenza culturale che si tramanda di generazione in generazione. Ignorarla, come sostengono alcuni esponenti governativi, non è solo un errore: è una scelta. Una scelta che condanna le future generazioni a ripetere gli stessi schemi, gli stessi orrori, le stesse tragedie annunciate. È come lasciare le chiavi della città nelle mani di chi non sa riconoscere il valore della libertà altrui. La marea non si ferma In questa tempesta di numeri, di dolore, di storie negate, la manifestazione di Roma è stata un faro. Non Una di Meno e tutte le persone che hanno camminato insieme hanno ricordato che la prevenzione, l’educazione e il sostegno alle vittime non sono optional. Sono la base di una civiltà degna di questo nome. Ha scritto Marguerite Yourcenar: “Chiunque abbia sofferto sa che la violenza non ha mai forza sull’anima che resiste”. La marea viola non si placa alla fine del corteo. Resta nei cuori, nei pensieri, nella coscienza di chi sa che la violenza di genere non si cancella con dichiarazioni inadeguate di chi governa, ma con azioni concrete. Con l’ascolto. Con la cultura del rispetto. Con la giustizia. Ogni chiave agitata tra le mani dei manifestanti è una promessa: questa lotta non finirà finché ogni donna non potrà dire “Sono libera, sono al sicuro, sono ascoltata”. E quella promessa ci riguarda tutti. Chi manifesta e chi guarda. Chi governa e chi subisce. Chi parla e chi, finalmente, decide di ascoltare. -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE QUESTA INTERVISTA A RITA SEGATO: > Contro la legge del potere di morte -------------------------------------------------------------------------------- ALCUNE FOTO DEL CORTEO A ROMA DEL 22 NOVEMBRE: Foto di Barbara Bonomi Romagnoli Foto Cgil Roma Foto Marta Bonafoni Foto Donna Mancina Foto di Ass. Differenza donna Foto Robera Parravano Diawara Foto di Aurelio in comune Foto di Patrizia Piras Foto di Cattive ragazze Foto di Barbara Bonomi Romagnoli -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Ogni chiave agitata tra le mani è una promessa proviene da Comune-info.
Corteo di Non Una di Meno a Roma: “Sabotiamo guerre e patriarcato”
Una fiumana di manifestanti di tutte le età, tra cui moltissimi giovanissimi e giovanissime, ha invaso oggi le strade di Roma mostrando una continuità ideale e pratica con le enormi manifestazioni di settembre e ottobre in solidarietà con la Palestina e la flotilla. Slogan, cartelli e striscioni contro il patriarcato, i femminicidi e la violenza di genere, ma anche tante bandiere palestinesi, curde e della pace collegano i temi che attraversano il lunghissimo corteo. Lo dimostrano i colori che si mischiano, dal fucsia di Non Una di Meno, al verde, rosso, bianco e nero della bandiera palestinese, al bianco e nero delle kefieh all’arcobaleno della bandiera della pace, fino alle bandiere triangolari verdi con la stella rossa delle donne curde. Mauro Carlo Zanella
Contro la legge del potere di morte
SIAMO ABITUATI A PERCEPIRE LO STUPRATORE COME UN SOGGETTO DEVIANTE E A SOTTOVALUTARE LA DIFFUSIONE , OVUNQUE, DEGLI STUPRI DI GRUPPO. LA FRATELLANZA MASCHILE CHE DIVENTA CORPORAZIONE MASCHILE, BASATA SULLA LEALTÀ DEGLI UOMINI TRA LORO E SUL CARATTERE GERARCHICO DELLA MASCOLINITÀ, È UNA STRUTTURA CHE SI RIPRODUCE IN TUTTI GLI ORDINI E IN TUTTE LE SOCIETÀ, IN TUTTI I RAPPORTI DI POTERE. DA LÌ VIENE ANCHE LA GUERRA, DICE RITA SEGATO, ANTROPOLOGA ARGENTINA, LE CUI RICERCHE SULLA VIOLENZA DI GENERE SONO UN RIFERIMENTO FONDAMENTALE NEGLI STUDI FEMMINISTI IN TUTTO IL MONDO. ANCHE PER QUESTO IL GENOCIDIO DI GAZA, COME DIMOSTRATO DA UN RAPPORTO PRESENTATO ALL’ONU, È STATO ACCOMPAGNATO DALL’USO SISTEMATICO DI VIOLENZE SESSUALI E DI GENERE DA PARTE DELLE FORZE DI SICUREZZA ISRAELIANE CONTRO DONNE E RAGAZZE PALESTINESI ARRESTATE. “GAZA È IN APPARENZA UN LONTANO ARCO DEL CRIMINE DELLO STUPRATORE COMUNE, CHE FA UNO SPETTACOLO DELLA SUA POTENZA… MA GAZA È ANCHE UNO SPETTACOLO. IL GENOCIDIO DI GAZA È TOTALMENTE DIVERSO DA TUTTI I PRECEDENTI GENOCIDI CHE HANNO COLPITO L’UMANITÀ. PERCHÉ TUTTI GLI ALTRI ANCORA INVOCAVANO LA FINZIONE GIURIDICA… GAZA ANNUNCIA CHE UNA NUOVA LEGGE È IN VIGORE, CHE È LA LEGGE DEL POTERE DI MORTE…”. CONTRO QUELLA “LEGGE” TANTE E TANTI SCENDERANNO IN PIAZZA SABATO 22 NOVEMBRE A ROMA CON IL CORTEO DI NON UNA DI MENO, “SABOTIAMO GUERRA E PATRIARCATO. PER IL DIRITTO ALL’AUTODETERMINAZIONE DEI CORPI E DEI POPOLI” Foto SOS Gaza -------------------------------------------------------------------------------- Le ricerche di Rita Segato, antropologa, scrittrice e attivista argentina sulla violenza di genere e, in particolare, le sue riflessioni sui femminicidi a Ciudad Juárez (Messico) sono un riferimento fondamentale negli studi femministi. Segato ritiene che la violenza maschile sia una questione di potere. Questo la porta a concepire il genocidio di Gaza come un’esibizione della «legge del potere di morte». Parliamo qui del genere come potere, dell’emergere di una nuova «etica» nel mondo in crisi e delle complesse strategie attuali del potere imperiale. Hai studiato qualcosa che solo Frantz Fanon poteva fare, cioè ascoltare gli stupratori e le donne violentate, che permette di conoscere a fondo i comportamenti patriarcali. Quando parli della crisi della fine dell’umano, quali cambiamenti puoi vedere rispetto a quei mostruosi violentatori che hai intervistato anni fa? Quello che ho scoperto in quel momento, e ho chiamato la fratria maschile, è il fatto che nello stupro c’è una disciplina della vittima, un rapporto verticale in cui la vittima è controllata, dominata, disciplinata, oppressa dal personaggio dello stupratore, che rappresenta la mascolinità. Ma c’è un’altra linea, un asse orizzontale, in cui il suo atto è diretto agli occhi degli altri uomini. L’analisi femminista si è sempre concentrata sul rapporto aggressore-aggressione, ma io affronto il rapporto ponendo l’attenzione anche sugli occhi che vedono lo stupro come spettacolo, quindi parlo di quel crimine come violenza espressiva, una denominazione molto valida. Non è una violenza strumentale, utilitaria della libido maschile che si appropria del corpo della donna. Chiariamo subito una cosa. L’ho detto finora: il crimine patriarcale è un crimine politico, non morale, religioso o consuetudinario. È la forma primaria di oppressione e di estrazione di plusvalore. E potremmo dire senza timore di sbagliarci che è un plusvalore di prestigio, di status. Se lo stupro è un fatto politico, di affermazione del potere, l’esibizione ha altri oggetti che non sono solo le vittime… Enfatizzo la questione della relazione tra gli uomini e credo che la novità del mio argomento sia l’enfasi nel dire che questa estrazione di valore dal corpo delle donne è la gioia, una gioia narcisistica, autoreferenziale. Il mio è un’analisi del potere che si appaga per la sua esposizione ad altri uomini e alla società. Il buon senso che abbiamo inculcato ci insegna a percepire lo stupratore come un soggetto anomalo, deviante, solitario, ma, tuttavia, le statistiche ci mostrano che la maggior parte dei crimini di stupro sono perpetrati in gruppi, in bande. Si tratta di un crimine «nella società». Come si relaziona questa fratria del potere maschile con le guerre attuali? L’aggressione sessuale è un crimine che, nonostante la quantità di leggi già ratificate, non può essere controllato. Questo tipo di violenza non cede. Ciò che accade nel presente è che la fratellanza maschile, la fratellanza maschile che ora descrivo come corporazione maschile, basata sulla lealtà degli uomini tra loro e sul carattere gerarchico della mascolinità, è una struttura che si replica e riproduce in tutti gli ordini, in tutte le società, in tutte le gerarchie, in tutti i rapporti in cui vediamo potere e disuguaglianza. Sono repliche di questo primo e basale ordine corporativo. Da lì viene anche la guerra. Parlando una volta a Buenaventura, costa del Pacifico colombiano, uno spazio iperviolento, qualcuno del pubblico mi ha chiesto: «Come si finisce questa guerra, che non può finire con un patto o un’amnistia perché è una guerra totalmente informale?». Una tale guerra si ferma smontando il mandato di mascolinità, che è il dispositivo che permette di reclutare i soldatini che formeranno le fazioni belliche. E come appare il genocidio del popolo palestinese in questa deriva analitica? Gaza è in apparenza un lontano arco del crimine dello stupratore comune, che fa uno spettacolo della sua potenza, che ha bisogno di esibirla, il che gli dà il titolo di maschio. Ma Gaza è anche uno spettacolo. Il genocidio di Gaza è totalmente diverso da tutti i precedenti genocidi che hanno colpito l’umanità. Perché tutti gli altri ancora invocavano la finzione giuridica, si nascondevano dietro l’ordine del diritto. Il primo genocidio e il più grande di tutti è stato la Conquista, e ci hanno sempre detto che a quel tempo regnavano le leggi delle Indie. Ma nessuno può credere che dal sud della Penisola, dall’altro lato del grande mare fino al Nuovo Mondo, queste leggi avessero qualche capacità di condurre alla vita. Qui c’è una palese menzogna, perché il continente latinoamericano è stato conquistato da bande, che erano di fatto i gruppi armati che hanno ripulito il territorio. In Brasile queste bande hanno persino un nome e un monumento a San Pablo: i bandeirantes. Bande che hanno un sacco dei gruppi di stupratori attuali. In entrambi i casi sono maschi predatori della vita, delle donne e della natura. Certo, i bandeirantes percorsero tutto il territorio portoghese uccidendo indiani e ogni animale che trovavano, ripulendo i territori per poterli occupare. Il carattere fondante e fondamentale che hanno avuto le bande nella pulizia del nostro continente è la chiave per capire Gaza. Ho la sensazione che, mentre gli stupratori di Ciudad Juárez non ti abbiano disconnesso dal non-umano, Gaza sì, nonostante l’indignazione. Forse perché quest’ultima rappresenta una rottura con il concetto di “essere umano”. Questo genocidio è un punto di svolta della storia. Perché nell’Olocausto si poteva vedere, in filmati, la sorpresa degli eserciti alleati quando entravano in un campo di concentramento. Si poteva percepire in coloro che arrivavano la perplessità e l’orrore che sperimentavano perché era stato nascosto al mondo ciò che stava accadendo nei lager, perché c’era ancora un simulacro giuridico vigente, esisteva ancora una grammatica giuridica. Nel mio testo del 2009, Il grido inudibile, casualmente ripubblicato nel libro Scene di un pensiero imbarazzante nel 2023, ho detto che con lo sterminio palestinese è finita la grammatica giuridica. Quando non c’è più una legge che sia in grado di governare il comportamento, rimane solo la forza. La legge è una fede, una finzione, un discorso in cui mettiamo credito. Ma quella finzione giuridica cadde con Gaza. La credenza che esistesse un ordinamento giuridico che permettesse l’aspettativa di comportamento è scomparsa. Non si può non sapere cosa sta succedendo a Gaza. Con questa esibizione senza pudore e senza alcun diritto che la contenga, si può dire che Gaza annuncia che una nuova legge è in vigore, che è la legge del potere di morte. Il potere della morte è la legge. D’altra parte, nei momenti di divagazione, mi viene in mente che il sacrificio di Gaza è una specie di nuova crocifissione, proprio nello stesso luogo, che avrà come conseguenza di illuminare le coscienze in un modo nuovo. È una specie di epifania, e rendersi conto mi porta molte volte ad affermare che si tratta di un punto di svolta della storia, un cambiamento d’era. Persino alcuni membri delle forze armate degli Stati Uniti stanno gridando il loro disaccordo. Gaza illumina le coscienze in un modo nuovo. -------------------------------------------------------------------------------- 8 marzo 2022: foto di Non una di meno Milano -------------------------------------------------------------------------------- I nazisti nascondevano i campi, così come le dittature del Cono Sud (Argentina, Cile, Uruguay, ndt) nascondevano i centri di detenzione. Non osavano mostrare le torture o la loro stessa popolazione. Benjamin Netanyahu, al contrario, dice ai suoi che lo sterminio è necessario e lo dimostra. È una cosa quasi incredibile, enunciano, dicono senza la minima vergogna che stanno uccidendo per occupare quelle terre e fare affari. Ci sono registrazioni di soldati e anche civili israeliani che affermano l’importanza di uccidere tutti i palestinesi senza alcun problema etico o morale. Né legale. Durante la Conquista ci fu un noto dibattito tra Juan Ginés de Sepúlveda e Bartolomé de las Casas sul fatto che gli indigeni avessero un’anima; un dibattito di alto contenuto etico e politico. Ma qui tutto si riduce al potere di morte. È la novità del nostro tempo. Perché il potere di morte ha sostituito il diritto o, meglio, si è costituito esplicitamente nel diritto. Possiamo pensare che con la scomparsa della ragione umanitaria dall’orizzonte storico della nostra epoca sia caduta l’etica? Non lo vedo così. Ci troviamo di fronte a una nuova etica che si basa su idee che Hannah Arendt sviluppa in L’origine del totalitarismo, quando dice che sia nello stalinismo che nel fascismo emerge un diritto più rilevante dei diritti delle persone, che è il diritto della storia. Per i nazisti, il diritto della storia è costruito a partire dall’idea di una razza superiore, con l’obiettivo di ottenere la purezza della razza ariana. La legge storica, dunque, è quella che determina lo sterminio di tutto ciò che impedisce questo transito. Nel caso dello stalinismo, è un mondo egualitario senza classi. Tutto ciò che è disfunzionale, tutto ciò che impedisce o disturba il transito storico verso la destinazione preconcepita come obbligatoria, potrà essere eliminato. Come interviene il capitalismo? Oggi, la concezione della storia sostiene l’accumulo-concentrazione come valore, come il valore che orienta il corso della storia. Quasi direi che è la nuova utopia della storia, per quanto incredibile possa sembrare a molti. Tutto ciò che è disfunzionale all’accumulo-concentrazione deve essere eliminato. L’umanità perfetta è quella dei proprietari. Il dominio in corso del pianeta determina l’esistenza di un’eccedenza umana, quelli che non sono funzionali al processo di dominio, al processo dell’accumulazione del capitale, sono destinati alla morte. Questa è l’ideologia del presente. È il caso dei Donald Trump, Javier Milei e direi di tutta l’estrema destra europea e buona parte della destra. Non è, come pensiamo noi che lo facciamo dal campo critico, che c’è una crisi etica. C’è è un’altra etica, un’altra ideologia che è diventata egemonica. Ci troviamo di fronte a un quadro di valori che afferma il diritto, il dovere dell’accumulazione come superiore ai diritti delle persone. Questo capitalismo non è di sfruttamento del lavoro salariato, ma soprattutto di spogliamento, di guerra contro i popoli e la madre terra… , in cui una piccolissima minoranza si impadronisce del pianeta. Non dobbiamo più parlare di ineguaglianza perché è poco, ma di proprietà. Arendt menziona in un piè di pagina che Hitler, nel suo diario, scrive che i prossimi ad essere sterminati sarebbero i cardiaci. Ma tutti loro sono stati eletti democraticamente. Le definizioni di democrazia affermano, erroneamente, che una maggioranza nelle elezioni garantisce un ordine democratico. È un grande errore perché permette di intendere per democrazia una dittatura della maggioranza. Ci sono alcuni eletti che trasformano la democrazia in una dittatura. Non possiamo dimenticare che non c’è democrazia possibile senza pluralismo. C’è qualcosa che sta succedendo che è molto difficile da capire nella storia degli Stati Uniti in questo momento. È sorprendente il cambiamento di strategia nella guida di quel paese. E questo, che deve essere notato e considerato, si presenta difficile da capire perché è un rifiuto di una strategia di mezzo secolo. Pensiamo: quando finisce la seconda guerra mondiale, gli Stati Uniti sottraggono un vantaggio alla Russia – che, sebbene sia stata fondamentale nella vittoria contro il nazismo, non può approfittarne – si presenta al mondo come la democrazia, la sua cartolina al mondo è l’immagine di un paese che ha distrutto il male del totalitarismo. Da lì si costituisce come una nazione montata su due zampe: una di queste è il potere stesso, economico e bellico. Cioè la nazione più ricca e meglio armata del mondo e, progressivamente, con la migliore intelligenza bellica (spionaggio, capacità di infiltrazione, ecc.). Ma l’altra gamba su cui poggia la sua potenza è quella dell’egemonia: la «finzione democratica», la «finzione giuridica» di pieni diritti per la loro cittadinanza. L’egemonia era il potere di seduzione degli Stati Uniti, la terra della libertà dove migrano i perseguitati dal nazismo e dal fascismo, ma anche quelli perseguitati da Stalin. Un paese che sembrava offrire opportunità a tutti. Esatto. Dopo il 1948, in una seconda tappa di questo processo di costruzione del l’egemonia nel mondo, cioè della presentazione al mondo di una serie di valori capaci di rappresentare gli interessi di tutta la gente, sorge un pezzo mancante, assunto negli anni ’60 da Lyndon Johnson, dopo l’assassinio di John F. Kennedy: la lotta contro il razzismo e la fine dell’apartheid negli stati del sud; la grande legge sui diritti civili, che proibiva la discriminazione razziale e la segregazione negli spazi pubblici, nell’istruzione e nel lavoro, e la legge sul diritto di voto degli afroamericani e delle altre minoranze. Sono convinta che quest’ultimo dimostra questo impegno per il consolidamento dell’egemonia dei valori americani nel mondo. È un primo passo negli anni sessanta, attraverso il quale questa democrazia diffonde l’idea dell’integrazione razziale. In un secondo momento, viene presentato il passo successivo di tale sforzo e si verifica in concomitanza con la caduta del muro di Berlino. Gli Stati Uniti danno un nuovo passo egemonico che è il multiculturalismo, che intendo come contropartita al gesto di restituire i loro stati alle nazioni che componevano l’Unione Sovietica. Due gesti, est e ovest, di stampo democratico. Il gesto del mondo capitalista, liberale, il gesto dell’Occidente, chiama e rende visibili quelle che oggi chiamiamo identità politiche e offre loro diritti e risorse. Il mondo passa a percepire le donne, gli afrodiscendenti, gli indigeni, le sessualità dissidenti LGBTTTIQ+ come identità querelanti sulla scena pubblica. Di ciascuno di questi appezzamenti, come ha sottolineato il grande intellettuale nero statunitense Cornel West, una parte otterrà l’inclusione e un’altra parte, la maggioranza, rimarrà esclusa. Analizzo a lungo questo tema nel mio libro La nazione e i suoi altri del 2017,e oggi sono fortemente critica della trappola della minoritarizzazione nella quale ci ha immerso il multiculturalismo. La proposta multiculturale, sostenuta da fondi di tutti gli organi di cooperazione statunitensi, è stata un terzo momento di costruzione e sforzo per l’egemonia. Perché dici questo del multiculturalismo? Perché ha chiaramente costruito un regime di colonialità all’interno dei movimenti sociali. All’interno del movimento nero, per esempio, impone forme di auto-identificazione, comportamenti, costruzione dell’immagine e lotta che non nascono dalla storia coloniale e schiavista della latinità. Nel mio libro sul tema insisto su una distinzione tra identità politiche multiculturali e «alterità storiche», che nascono da altre storie, con strutture di alienazione, discriminazione ed esclusione proprie. Le donne del mondo hanno percepito e denunciato il carattere colonizzatore del femminismo eurocentrico. In Brasile, per esempio, è molto chiara la forma di discriminazione e dominazione all’interno del movimento LGBTQ+, che, sebbene abbia permesso conquiste, allo stesso tempo ha imposto, a volte in modo doloroso, il suo modello. Nelle nostre società ci sono forme molto ancestrali di uomini femminili. Nel candomblé c’è una transitività di genere molto forte. Ma appare il gay statunitense che deve andare in palestra, creare muscolatura, e passa ad imporsi come modello. Questo è uno degli esempi della colonialità all’interno dei movimenti sociali. Oggi posso dire che sono fortemente critica dell’identitarismo, della minoritarizzazione e del wokismo. Ogni differenza è universale. Menziono tutto questo per rendere visibile che ci sono state almeno tre fasi dello sforzo degli Stati Uniti per presentare al mondo e, in verità, influenzare il mondo attraverso la costruzione di progetti di immagine democratica. Questo è ciò che sto descrivendo come la costruzione di un’egemonia mondiale. Questi tre periodi – la vittoria sull’oppressione nazista nella seconda guerra mondiale, la fine dell’apartheid e il multiculturalismo – sono stati parte del progetto egemonico degli Stati Uniti. Anche la scienza e l’industria cinematografica e televisiva fanno parte di questa strategia. Ma, e questo è ciò che bisogna capire, la strategia dell’egemonia viene improvvisamente cancellata. L’idea di una nazione democratica viene distrutta e il mondo assiste a un cambiamento radicale di rotta, un cambio di discorso e di costruzione d’immagine radicale. Sono convinta che il nostro sforzo d’ora in poi sia quello di cercare di capire perché il Nord si decide per questo cambiamento di strategia e di rotta. Perché sceglie la costruzione di un’altra immagine per se stesso, in cui la misoginia, il razzismo, la guerra, lo sterminio e persino l’appoggio al genocidio diventano la cartolina, l’auto-immagine della nazione presentata al mondo. Perché si rinuncia al progetto di paese egemonico, in termini di valori e immagine democratica. Quale strategia lo sostituisce? -------------------------------------------------------------------------------- Pubblicata originariamente su Brecha -------------------------------------------------------------------------------- -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Contro la legge del potere di morte proviene da Comune-info.
Sabotiamo guerra e patariarcato
Parliamo del percorso di avvicinamento al Corteo nazionale contro la violenza patriarcale di sabato 22 novembre che, con lo slogan "sabotiamo guerra e patriarcato", partirà alle ore 14:30 da Piazza della Repubblica. Nella realtà contemporanea, le forme di violenza patriarcale sono innumerevoli, soprattutto in un paese che si prepara al riarmo, approfondendo disuguaglianze e discriminazioni, e in cui la guerra è diventata la regola dei rapporti sociali; esse però si materializzano nella loro forma più brutale in Palestina, dove viene completamente negato il diritto all'autodeterminazione della popolazione palestinese. La battaglia è immensa ma ovunque si sente pulsare il desiderio di liberazione dalla violenza patriarcale, in un rapporto di arricchimento reciproco tra vecchie e nuove generazioni. Per un’antiviolenza femminista e transfemminista, finanziata e libera dall’ideologia punitivista e confessionale. Per una scuola libera da condizionamenti e diktat, per la libertà di ricerca e di insegnamento, per l’educazione sessuo-affettiva dalla scuola dell’infanzia all’università. Contro la manovra finanziaria. Noi la guerra non la paghiamo! Né complici né vittime della conversione bellica. Per il diritto all’autodeterminazione dei corpi e dei popoli.    
[Normale Follia] Sabotiamo guerra e patriarcato
Autodeterminazione dei popoli, dei nostri corpi e delle nostre vite". Dal 20, giornata del TDOR, alla manifestazione del 22 contro la violenza  patriarcale, al 25 con i cortei e iniziative in tutte le città, allo sciopero del 28 e alla manifestazione del 29 per la Palestina, saremo in agitazione permanente occupando le piazze per unire le lotte. Con un nuovo libro "Dalla fiaba alla fiaba" di Eleonora Fé d'Ostiani, iniziamo ad immergerci nella storia di Raperonzolo
Dalla culla alla tomba: quanto è estesa la maternità?
-------------------------------------------------------------------------------- Foto di Nilde Guiducci -------------------------------------------------------------------------------- Non dovremmo meravigliarci se gli uomini uccidono le donne. Finché sono identificate, e nell’immaginario ancora dominante lo sono tuttora, con la sessualità e la maternità, considerate dall’uomo doti femminile “al suo servizio”, o a lui finalizzate, è scontato che esploda la possessività nel momento in cui le donne decidono, separandosi, di non essere più quel corpo a disposizione. È questa idea della donna, posta a fondamento della nostra, così come di tutte le civiltà finora conosciute, che va scalzata in modo radicale, dalla cultura alta, come dal senso comune, e da quella rappresentazione di sé e del mondo forzatamente fatta propria anche dal sesso femminile. È sulla “normalità”, dentro cui la violenza è meno visibile, ma per questo più insidiosa, che va portata l’attenzione. Rendersi indispensabili, “far trovare buona la vita all’altro” è stato a lungo il modo alienante con cui le donne hanno cercato di riempire il vuoto apertosi all’origine nell’amore di sé. Nell’illusione di “foggiare se stesse” hanno impegnato tutte le loro energie nello sforzo di aiutare l’altro a divenire se stesso. La dedica che Andrè Gorz scrive nel libro dedicato alla moglie, Lettera a D. Storia di un amore, dice: “A te, Kay che, dandomi te, mi hai dato Io”. Ma quanto è estesa la maternità delle donne se, oltre a bambini, malati, anziani sono chiamate a curare, sostenere psicologicamente e moralmente uomini in perfetta salute? Come si può pensare che questo corpo femminile presente nella vita dell’uomo dalla nascita alla tomba, passando per la la scuola, l’assistenza nelle malattie, cioè attraverso i bisogni primari dell’umano, non alimenti, più o meno consapevolmente pulsioni di fuga, aggressività, fantasie omicide, in chi ne teme la stretta quanto l’abbandono? -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE QUESTO ARTICOLO DI ROSANGELA PESENTI: > Domande sull’assassino -------------------------------------------------------------------------------- CORTEI E AZIONI, 22 NOVEMBRE ROMA, 25 NOVEMBRE IN TUTTE LE CITTÀ: -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Dalla culla alla tomba: quanto è estesa la maternità? proviene da Comune-info.
Lo stato patriarcale è uno stato di guerra
unsplash.com -------------------------------------------------------------------------------- L’intreccio mortifero di guerre, genocidi, riarmi, tregue e finte paci sta mostrando con tutta evidenza la radice delle dinamiche e dei costrutti del nostro modello di civiltà androcratico. Il suo orizzonte culturale è quello della guerra, che è sempre possibile e inevitabile, sempre presente in potenza e spesso in atto, un dato di fatto che non ha mai subito alcuna interruzione, almeno negli ultimi quattro, cinquemila anni. Ciò che in modo eloquente, una parlamentare norvegese, Berit Ås, ha sintetizzato con la frase “lo stato patriarcale è uno stato che si sta riprendendo dalla guerra, è in guerra o si sta preparando alla guerra”. Nella tradizione politica occidentale, ma non solo in questa – il modello antropologico patriarcale è virale – scontri e conflitti, contese armate e violenza organizzata sono l’esito culminante dei rapporti di forza tra uomini nella costante lotta per il potere. La cosiddetta pace – l’assenza temporanea di belligeranza mediante un armistizio – risulta la condizione più probante per mantenere uno stato incessante di guerra, che continua infatti a esistere dietro la pace fittizia e l’ordine apparente. Attraverso il travestimento di fatti che non appaiono immediatamente bellici e che tuttavia li presume – spese militari, preparazione della difesa, continua produzione di armi, condizioni di austerità, cicli economici legati alla ricostruzione dei territori devastati ecc. –, la guerra replica modularmente sé stessa sotto mentite spoglie, delineandosi come parte costituente di questa formazione storica in un intreccio inestricabile con la politica. È quasi praticamente impossibile fare un’analisi della guerra senza confrontarsi con il patriarcato. Interrogare i modi con cui vengono costruiti gli archivi e le teorie che costituiscono le nostre visioni del mondo è un’operazione fondamentale per scuotere le nostre abitudini mentali, oltre che per liberarle da molte menzogne. Le teorie che ultimamente circolano nell’ambito degli studi archeologici vedono per esempio la guerra infuriare ovunque e in ogni tempo, dal Paleolitico al Neolitico senza soluzione di continuità, mentre fino a poco tempo gli studiosi la associavano solo agli Stati basati sul dominio. La guerra era stata considerata rara e irrilevante nella storia degli inizi, perché erano semmai gli scontri e le faide a caratterizzare i conflitti, e non la violenza organizzata su larga scala, come avviene nelle civiltà strutturate in Stati gerarchici con un esercito permanente e un’autorità di comando. I conflitti e gli scontri delle epoche antiche non sono dunque equiparabili alla guerra, né tantomeno si possono definire belligeranti epoche della storia umana come il Paleolitico e il Neolitico. L’uso indiscriminato del termine “guerra” contribuisce a creare un’ideologia della guerra infinita, connaturata all’essere umano. Nell’analizzare la teoria della guerra eterna, Goettner-Abendroth riporta le tesi di Lawrence Keeley, diventato oggi un modello di riferimento per l’archeologia contemporanea, mettendo in luce il metodo con cui costruisce le sue argomentazioni. Per corroborare la tesi della guerra eterna, scrive la studiosa, Keeley interpreta qualsiasi muro o fossato che circonda un villaggio neolitico come una fortificazione di tipo militare, quando poteva trattarsi più verosimilmente di sistemi di difesa contro gli animali selvatici o per drenare l’area d’insediamento nelle zone umide, e le mura per proteggersi dalle inondazioni e dal fango dei fiumi circostanti, oppure, ancora, fungere da luoghi di sepoltura, come testimoniano molte prove recenti. Allora, viste le tante possibilità, un’affermazione come “la violenza tra i villaggi aumenta proporzionalmente ai fossati” – la tesi di Keeley – risulta quantomeno bizzarra. Le tombe contenenti punte di freccia in selce, continua Goettner-Abendroth “non esprimono più doni per i defunti ma strumenti di morte, come se quasi nessuno potesse essere morto per cause naturali”, e le tombe con eccezionali cumuli di ossa, ordinate o alla rinfusa, sono senza eccezione prova di massacri, quando sappiamo che all’epoca esisteva la consuetudine di sepolture secondarie (Goettner-Abendroth, Le società matriarcali del passato e la nascita del patriarcato, Mimesis, 2023). La studiosa si chiede poi cosa abbiano a che fare con la violenza i meravigliosi terrapieni ovali o circolari dell’Europa centrale neolitica, che oggi sappiamo essere stati luoghi d’incontro, una sorta di templi a cielo aperto che svolgevano funzioni astronomiche, cerimoniali e sociali. Questa teoria, come molte altre che oggi vedono la guerra ovunque e in qualsiasi epoca “soddisfano però la proiezione nell’era neolitica delle condizioni a cui siamo abituati nel patriarcato”, scrive l’autrice. Allo stesso tempo, Goettner-Abendroth critica la narrazione edulcorata delle società “pacifiche” promossa da certe letture semplificate, secondo le quali tutti i conflitti dovrebbero essere sempre risolti in modo non violento, tutti dovrebbero essere “madre” e amarsi l’un l’altro, regole e sanzioni non avrebbero ragione di esistere, tutti dovrebbero essere vegetariani e non tagliare gli alberi e così via. Anche se la proiezione in questo caso è positiva, non si tratta comunque di un miglioramento. Il punto è che un certo numero di società, in particolare quelle matriarcali, hanno saputo sviluppare una vasta gamma di strategie per la risoluzione dei conflitti e per il mantenimento della pace, grazie a strutture sociali e a valori culturali che non glorificano la violenza, di conseguenza la guerra non viene celebrata. Prendere sul serio le organizzazioni sociali che hanno preceduto i nostri sistemi patriarcali, o altre forme di convivenza differenti da quelle che la modernità occidentale ha esportato, ci aiuta a capire la storia culturale dell’umanità in modo più differenziato e da più lati, e a smettere di proiettare i consueti valori patriarcali oltre che sul passato sul presente, e prendere così confidenza con altri principi. La rete dei codici si arricchisce, l’ordine dei segni si modifica, e con essi i presupposti per creare strutture improntate a un diverso modello antropologico. Può succedere che col tempo, il tempo si apra. La guerra si è imposta ormai come “regime di verità”, è la bolla epistemologica in cui siamo immersi, ciò che fa sì che certi discorsi – la guerra è una componente innata della natura umana, è ineluttabile, sorge in parallelo ai primi villaggi – siano unanimemente accettati. Una verità che ha finito per funzionare storicamente attraverso la replicazione di idee, norme, dispositivi di sapere, codici, che vivificati continuamente dalla ripetizione di miti e modi ad hoc di formare le esperienze, si è affermata come dato universale, naturale e immutabile. Questo sistema eterogeneo di disposizioni, di cui la forza e il potere sono i valori trainanti e le alchimie militari i mezzi più efficaci per convalidarne e riprodurne la struttura, si è infine installato nei corpi e in tutti i luoghi dell’esistenza umana, mantenendo un ordine sociale la cui patologia oggi è sotto gli occhi di tutti. Oltre ad abituarci alla verità della guerra, il nostro sistema di pensiero ci ha abituato all’idea di un patriarcato universale come fenomeno nato insieme alla cultura umana, che esiste da sempre, con le sue lotte intestine, guerre, le sue strutture parentali, i suoi scambi di donne, il suo dio e il suo dominio. Le scoperte dell’archeologia nel corso del Novecento ci consentono oggi di definire un quadro della storia della civiltà molto più ampio, complesso e differenziato, che dimostra, come scrive Luciana Percovich che “le datazioni consuete e le localizzazioni convenzionali ed eurocentriche della ‘culla della civiltà’ indicano semplicemente l’inizio di una civiltà, molto giovane e patriarcale, quella originata dall’urto delle invasioni indoeuropee tra l’Età del bronzo e del ferro, e a esse successiva. Ciò che finora abbiamo ritenuto la Storia della Civiltà è solo una tra le tante narrazioni, quella degli ultimi vincitori” (L. Percovich, Oscure madri splendenti. Le radici del sacro e delle religioni, Venexia 2007). George Orwell, nel romanzo 1984, immagina un’epoca in cui un “Ministero della Verità” riplasma ogni idea e riscrive il presente secondo le esigenze del nuovo regime, cancellando tutto quello che prima era vero. Ma tutto questo è già successo molto tempo fa nei tempi antichi, ci ricorda Riane Eisler nel suo libro Il Calice e la Spada, il cui titolo fa riferimento a due metafore che rinviano a un modello sociale mutuale e a uno dominatore. L’allontanamento della memoria dei fatti nella dimenticanza e nell’oblio è una tecnica di controllo culturale e politico che si ripete nel tempo, ma esiste una cancel culture di più forte impatto che ha fatto da spartiacque tra un prima e un dopo, un dopo che è ancora il nostro oggi: il lungo periodo durante il quale le antiche società dell’Europa e del Mediterraneo, e di altre parti del mondo, diedero vita a modelli di vita improntati ai valori della convivenza e della collaborazione; un’idea diversa di cultura, dove conflitti, scontri e contese non furono con ogni probabilità del tutto assenti e tuttavia non costituirono il telos dell’ordine sociale. Per quanto riguarda l’Europa Antica, sappiamo che tra il 6500 e il 3500 a. C. circa, e a Creta fino al 1450 a.C., le società non erano costituite da piccoli villaggi sparsi abitati da selvaggi, ma da stanziamenti che raggiunsero anche le dimensioni di vere città, dotate di vaste reti di comunicazione e scambi, ricche di arte e cultura, prive di centri di comando, gerarchie ed élite. Le sue genti non produssero armi letali, non eressero bastioni in muratura e altre strutture difensive, come avrebbero fatto la maggioranza dei nostri antenati a partire dall’Età del bronzo. Eressero invece templi alti diversi piani, magnifiche tombe-santuari, case spaziose, e crearono raffinate ceramiche e sculture. Vantavano una scrittura sacra, e tessitori e tessitrici, esperte ed esperti specializzati nella lavorazione dell’oro e del rame, e artigiane e artigiani che producevano un’ampia gamma di sofisticati manufatti (M. Gimbutas, La Civiltà della Dea, Vol 1, Stampa Alternativa, 2012). E in Anatolia, nella città di Çatal Hüyük, dei 150 dipinti murari sopravvissuti che decoravano gli innumerevoli templi, non ve ne è uno che rappresenti una scena di conflitto o di lotta, né di guerra o tortura. Fu un periodo di notevole creatività e stabilità, un’età contraddistinta da un convivere non belligerante. Grazie all’approccio multidisciplinare di Marija Gimbutas, che combina archeologia, mitologia, linguistica e storiografia, consentendole di calarsi nella realtà sia materiale sia spirituale di quelle epoche, sappiamo che a ispirare e a modellare le vicende degli umani era una figura cosmogonica femminile, increata, che esisteva da sempre, immanente alla natura, Signora della vita, della morte e della rigenerazione e guardiana dei suoi misteri. In nessun documento preistorico sono state trovate infatti immagini di un dio padre del cielo, creatore, signore degli eserciti. Le donne svolsero un ruolo decisivo nel mantenere un equilibrio tra i sessi e con agli ecosistemi, grazie a un’interconnessione costante di terra, cosmo, umanità nel rispetto della vitalità della materia. Quelle culture ci consegnano un notevole corpo di modelli culturali, politici, economici e spirituali non ancora mediati dalle dinamiche del potere patriarcale e dalla sua mitografia western, intrisa di tirocini dell’uomo eroe-guerriero sprezzante del pericolo che tronca con la vita dei corpi, delle donne, dei figli e delle relazioni. È appena un taglio, ma può farci vedere ciò che s’invola al di sopra della nostra stantia attualità. Atene, nel V secolo, al culmine dell’organizzazione civica e del sistema democratico, non aveva dimenticato ancora del tutto l’esperienza di quel passato, ma non potendo più ammetterla nel discorso ufficiale civico già governato dall’unica verità patriarcale, la dislocò nello spazio del teatro, nella tragedia. Derealizzato e neutralizzato, il grido della memoria di un tempo governato da una grammatica diversa del vivere e il ricordo di eventi accaduti in un antico passato che continuavano a dividere la città, poterono essere così reintegrati nella polis. Nicole Loraux ha scritto libri fondamentali sull’oblio della divisione iniziale connaturata al Politico in Occidente, rimettendo in discussione i temi della democrazia, dell’esclusione del femminile dalla città, del non detto. La studiosa ci invita a produrre una sorta di corto-circuito tra presente e passato e a connettere eventi distanti tra loro in un esercizio di contro-memoria, di “anacronismo controllato”, non tanto per rintracciare delle similitudini, quanto invece per “andare verso il passato con delle domande del presente per ritornare verso il presente”. Il pensiero teorico e le pratiche prodotte dalle donne in un secolo e mezzo di decostruzione della realtà patriarcale hanno scompaginato gli assetti sociali e le rappresentazioni simboliche della forza e del potere, una rivoluzione antropologica lunga, lenta e complessa, non priva di conflitti e diaspore, che continua tuttavia a mettere in campo un’idea differente di politica. Relazione, interdipendenza, cura, vulnerabilità, orizzontalità sono tra i concetti più ricorrenti per risignificare la base di una politica non violenta. Un corpo di pensiero estremamente ricco, articolato e differenziato, poco frequentato dall’intellighenzia maschile, e oggi spesso contaminato da un certo attivismo performativo che rasenta l’autoreferenzialità, come stiamo vedendo anche in questi giorni. Ma la potenza del femminismo è un campo magnetico che continuerà a ravvivare il nostro coraggio creativo, portandoci oltre i cedimenti, le intrusioni e i patriarcalismi di ritorno. Mi piace evocare una tra le più potenti creatrici di pensiero del femminismo radicale, Mary Daly, che con le sue opere ci ha insegnato a “volare attraverso terre malvage, tempi malvagi”, aprendo nuovi spazi e dimensioni di lotta sintonizzati anche sull’attivismo psichico: sincronicità, ginergia, presenza transtemporale delle nostre antenate. Scrive in Quintessenza: “Serve che le donne rimuovano le immagini che riflettono e rinforzano le strutture e il marchio del folle sado-stato patriarcale. Serve che le donne pratichino un esorcismo”. E Isabelle Stengers, in Stregoneria capitalista. Pratiche di uscita dal sortilegio, scrive che il sistema capitalista è una forma contagiosa di possessione collettiva che funziona come un incantesimo, una sorta di stregoneria che cattura gli esseri umani bloccandone i pensieri, le percezioni, i desideri. “È necessario un contro-sortilegio che attivi nuovi modi di apprendere il mondo e la materia che lo abita”. Forse, la patologia generale di questo sistema ha finito per installarsi come un virus nelle nostre cellule, che oggi si ribellano e si mobilitano per cercare nuove risorse fuori dai percorsi stretti dell’asfittica razionalità occidentale. Esiste una profonda stratificazione di depositi di memoria nei nostri corpi che va oltre l’economia del ricordo tracciata nei supporti, nei documenti, per quanto testimonianze, tracce e documenti siano sempre più numerosi da quando archeologhe, antropologhe e storiche sono scese in campo per raccontare un’altra storia. Stati, modi del corpo che risalgono a una coscienza mitico-psichica, potenziali dormienti, chimiche corporee di un tempo altro. Se liberiamo la magia dalla facciata retriva che secoli di esasperato positivismo, e oggi di disciplinamento neoliberale, hanno provocato ai nostri sistemi percettivi e alle nostre potenzialità mentali orientandoli verso un’unica direzione, riusciremo nuovamente ad attivare nuove sensibilità e intelligenze per ritrovare il piacere e la meraviglia per una “nuova danza del presente”. All’ONU, intanto, c’è già chi grida al rogo, al rogo, una strega col suo libro degli incantesimi si aggira nelle nostre stanze! L’appellativo di strega pronunciato da un ottuso fantoccio del potere ci offende, ma questa parola per noi ha tutta un’altra storia, la storia di quante nel corso del tempo hanno saputo vedere e nominare, scavalcando la rete delle menzogne. Infine, che gli attuali criteri dell’istruzione scolastica continuino a proporre la Grecia classica come culla dei nostri valori essenziali, e che i programmi d’insegnamento della storia inizino con un periodo che risale solo al 2000 a.C., cioè in pieno patriarcato conclamato, dovrebbe sollevare qualche interrogativo di fronte all’imponente mole di dati oggi a nostra disposizione. E che l’insieme di società che si erano diffuse nelle valli del Danubio dell’Antica Europa, che fiorirono stabilmente e pacificamente per un periodo di circa tremila anni, rimangano un interdetto per la nostra cultura, nonostante siano la base indigena dell’Europa, è una vera soggezione storica e sociale. “La memoria collettiva umana va rimessa a fuoco… Il Neolitico europeo non è stato un tempo ‘prima della Civiltà’” ci ricorda Marija Gimbutas. Nell’Europa del riarmo, nella nostra bella Europa foriera di fame, carestie, guerre, conquiste e genocidi, nella nobile Europa della superiorità morale, civile e intellettuale indiscussa dei Socrate, Cartesio, Hegel & co, che qualche mese fa alcuni illustri intellettuali hanno brandito come vessillo di eccellenza mondiale, le antiche culture danubiane e dell’Egeo ci raccontano che l’umanità è stata capace anche di non scegliere le catene, il sangue, l’orrore. Non conosciamo i nomi dei loro filosofi e delle loro donne di pensiero, ma possiamo ammirarne i loro linguaggi nei meravigliosi affreschi e rilievi, nelle raffinate sculture e statuette, nei templi ornati di simboli che celebrano la vita e non la morte. C’è politica fuori dalla Storia. -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Lo stato patriarcale è uno stato di guerra proviene da Comune-info.
Domande sull’assassino
unsplash.com -------------------------------------------------------------------------------- Ogni tre giorni un uomo porta a compimento la costruzione della sua identità come assassino. Per quanto tempo si è preparato emotivamente alla ferocia? Come ha scelto l’arma, il momento, l’agguato? Con chi ha parlato delle motivazioni? Chi è stato accanto a lui, casualmente o quotidianamente, sentendo la sua cupa rabbia, ascoltando le ragioni come se fossero ragionevoli? Ogni tre giorni un uomo uccide una donna per motivi futili. Un tempo i motivi futili erano considerati attenuanti o addirittura legittimi, importanti, giusti. L’esercizio di una qualsiasi libertà da parte di una donna un tempo era motivo di riprovazione o addirittura reato. La legge è cambiata, la mentalità è arretrata. La mentalità degli uomini è recalcitrante rispetto alla legge, continua a considerare le donne come oggetti di proprietà, esattamente come agli albori della legge. Ogni tre giorni un uomo porta a compimento il progetto che lo rende un assassino. In quale faglia oscura della normalità costruisce il suo progetto fino ad agirlo? In quale tessuto benevolo di complicità costruisce la sua legittimazione? Non c’è molto da sapere della vittima, ogni storia è diversa e ha tratti comuni, sempre gli stessi. Dobbiamo cominciare a illuminare il normale percorso degli assassini. Chi frequentava? Dove mangiava, faceva la spesa, lavorava? Con chi andava al bar? Con chi parlava di calcio, di donne, della sua ex? Aveva fratelli e sorelle? Cognati, amici, genitori, zie, zii? Dove andava la sera? E la domenica? Non è un momento, non è follia. È il percorso che cresce un assassino, passo dopo passo. E l’assassino non vive solo ad ogni passo. -------------------------------------------------------------------------------- Tra i libri di Rosangela Pesenti, Come sono diventata femminista (Manni ed.). -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE: > Prima che accada l’irreparabile -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Domande sull’assassino proviene da Comune-info.
Il corpo delle donne e la tecnoscienza
-------------------------------------------------------------------------------- Foto di Nilde Guiducci -------------------------------------------------------------------------------- Il corpo delle donne è da sempre un campo di battaglia. Sul corpo delle donne, e intorno ad esso, si giocano gli interessi del mercato e si svolgono gli scontri della politica e della religione, con la complicità della tecnoscienza. Una delle nuove frontiere del mercato capitalistico sono infatti gli ovociti. Le nostre cliniche acquistano ovuli da donatrici dell’India, del Sud America o dell’Est Europa a prezzi ridicoli, per venderli ai facoltosi occidentali che intendono approfittare di questi “beni”. Il sistema capitalistico, allo stesso tempo, chiede alle donne attive in aziende pubbliche e private di rimandare la maternità o comunque di contenere questo desiderio che le allontanerebbe dal posto di lavoro. Le donne devono stare sul mercato in modo competitivo. E così la denatalità cresce in Europa, e in altri paesi occidentali, schiudendo un’area di business anche rispetto alla capacità di generare, ambito che condensa in sé vertiginosi rimandi simbolici. I corpi delle donne, a lungo sotto tutela del patriarcato, oggi sono sempre più in mano al meccanismo “neutro” del profitto a ogni costo. Una volta rappresentavano soprattutto la “risorsa” per eccellenza per la riproduzione della vita, intesa come prolungamento della specie e rigenerazione della futura forza lavoro da sfruttare. Ora diventano il luogo in cui si gioca il desiderio senza limiti di poter acquistare persino un essere umano, mentre un numero spropositato di bambini aspetta ancora che si semplifichino le procedure, troppo spesso lunghe e macchinose, dell’adozione. Governare la riproduzione è da sempre un compito specifico del potere patriarcale, sia per finalità di controllo che per le sue ricadute strettamente economiche. Del resto in molti sono disposti a pagare pur di avere un bambino e di soddisfare il loro bisogno di immortalità per interposta persona. Peraltro ciò accade, paradossalmente, in una società dove il diritto alla casa e i diritti minimi del lavoro sono spesso negati, quasi a confermare con plastica evidenza la frattura tra pochi soggetti dotati di adeguate possibilità economiche e il vasto numero di famiglie che faticano ad arrivare a fine mese e a rispondere alle necessità di base dei loro figli. L’invadenza del tecno-capitalismo nelle nostre vite, fino ai recessi più nascosti della nostra esistenza biologica, solleva dunque quesiti etici e politici enormi, e rende indispensabile una riflessione in controtendenza: come mettere dei limiti a questa deriva? Il concetto di limite, infatti, è quello decisivo in questo passaggio d’epoca, là dove la furia nichilista e illimitata del sistema non riesce ad autoregolarsi. Si parla tanto ad esempio di conciliazione fra lavoro retribuito e maternità, tuttavia sarebbe meglio pensare non tanto a riconciliare ma ad organizzare diversamente il lavoro, per lasciare tempo anche alla cura della vita. Non si tratta quindi, in prima battuta, di vietare o fare leggi che bandiscano queste pratiche, ma di mettere in questione una società capitalistica che grazie alla tecnoscienza porta il mercato a dominare ogni ambito della vita cancellando le dimensioni più fragili e preziose del nostro essere al mondo. La maternità è un luogo simbolico che apre riflessioni su ciò che sfugge alle leggi del mercato, su quell’indisponibile che mostra che un figlio non “spetta” a qualsiasi individuo indifferentemente. La maternità, cui la donna può liberamente acconsentire o meno, non è un “diritto”. Non a caso la femminista francese Sylviane Agacinski, senza mezzi termini, ha accostato i “ventri affittati” della maternità surrogata alla prostituzione. Come con la prostituzione la pratica dell’utero in affitto prospera dove c’è miseria, realizzando un nuovo tipo di colonialismo che si basa sullo sfruttamento del corpo delle donne secondo politiche integrate di marketing, produzione e consegna del “prodotto finito” ai legittimi “acquirenti”. Tutto deve tradursi in merce, tutto si compra e si vende. Non è solo un business, ma una cultura, una tendenza generale che ci porta a ragionare in questi termini. Come insegna Luisa Muraro, oggi combattere davvero per la libertà significa quindi riuscire a gestire con saggezza la potenza tecnoscientifica e soprattutto difendersi dal mercato, che non è più progresso, ma una macchina che avanza con somma indifferenza per le questioni etiche decisive. Eliminare le condizioni economiche di svantaggio, che spingono le donne in difficoltà ad accettare determinate pratiche pur di guadagnare qualcosa, è uno dei passi fondamentali. Con esso dobbiamo impegnarci per una rivoluzione culturale che restituisca ai corpi viventi una reale capacità di autodeterminazione, cosa impossibile dove le ingiustizie sociali prodotte dal neoliberismo rendono quasi impossibile scegliere “liberamente”. -------------------------------------------------------------------------------- Pubblicato sui blog del fattoquotidiano.it (e qui con l’autorizzazione dell’autrice) -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Il corpo delle donne e la tecnoscienza proviene da Comune-info.