Lo stato patriarcale è uno stato di guerraunsplash.com
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L’intreccio mortifero di guerre, genocidi, riarmi, tregue e finte paci sta
mostrando con tutta evidenza la radice delle dinamiche e dei costrutti del
nostro modello di civiltà androcratico. Il suo orizzonte culturale è quello
della guerra, che è sempre possibile e inevitabile, sempre presente in potenza e
spesso in atto, un dato di fatto che non ha mai subito alcuna interruzione,
almeno negli ultimi quattro, cinquemila anni. Ciò che in modo eloquente, una
parlamentare norvegese, Berit Ås, ha sintetizzato con la frase “lo stato
patriarcale è uno stato che si sta riprendendo dalla guerra, è in guerra o si
sta preparando alla guerra”.
Nella tradizione politica occidentale, ma non solo in questa – il modello
antropologico patriarcale è virale – scontri e conflitti, contese armate e
violenza organizzata sono l’esito culminante dei rapporti di forza tra uomini
nella costante lotta per il potere. La cosiddetta pace – l’assenza temporanea di
belligeranza mediante un armistizio – risulta la condizione più probante per
mantenere uno stato incessante di guerra, che continua infatti a esistere dietro
la pace fittizia e l’ordine apparente. Attraverso il travestimento di fatti che
non appaiono immediatamente bellici e che tuttavia li presume – spese militari,
preparazione della difesa, continua produzione di armi, condizioni di austerità,
cicli economici legati alla ricostruzione dei territori devastati ecc. –, la
guerra replica modularmente sé stessa sotto mentite spoglie, delineandosi come
parte costituente di questa formazione storica in un intreccio inestricabile con
la politica. È quasi praticamente impossibile fare un’analisi della guerra senza
confrontarsi con il patriarcato.
Interrogare i modi con cui vengono costruiti gli archivi e le teorie che
costituiscono le nostre visioni del mondo è un’operazione fondamentale per
scuotere le nostre abitudini mentali, oltre che per liberarle da molte menzogne.
Le teorie che ultimamente circolano nell’ambito degli studi archeologici vedono
per esempio la guerra infuriare ovunque e in ogni tempo, dal Paleolitico al
Neolitico senza soluzione di continuità, mentre fino a poco tempo gli studiosi
la associavano solo agli Stati basati sul dominio. La guerra era stata
considerata rara e irrilevante nella storia degli inizi, perché erano semmai gli
scontri e le faide a caratterizzare i conflitti, e non la violenza organizzata
su larga scala, come avviene nelle civiltà strutturate in Stati gerarchici con
un esercito permanente e un’autorità di comando. I conflitti e gli scontri delle
epoche antiche non sono dunque equiparabili alla guerra, né tantomeno si possono
definire belligeranti epoche della storia umana come il Paleolitico e il
Neolitico. L’uso indiscriminato del termine “guerra” contribuisce a creare
un’ideologia della guerra infinita, connaturata all’essere umano.
Nell’analizzare la teoria della guerra eterna, Goettner-Abendroth riporta le
tesi di Lawrence Keeley, diventato oggi un modello di riferimento per
l’archeologia contemporanea, mettendo in luce il metodo con cui costruisce le
sue argomentazioni. Per corroborare la tesi della guerra eterna, scrive la
studiosa, Keeley interpreta qualsiasi muro o fossato che circonda un villaggio
neolitico come una fortificazione di tipo militare, quando poteva trattarsi più
verosimilmente di sistemi di difesa contro gli animali selvatici o per drenare
l’area d’insediamento nelle zone umide, e le mura per proteggersi dalle
inondazioni e dal fango dei fiumi circostanti, oppure, ancora, fungere da luoghi
di sepoltura, come testimoniano molte prove recenti. Allora, viste le tante
possibilità, un’affermazione come “la violenza tra i villaggi aumenta
proporzionalmente ai fossati” – la tesi di Keeley – risulta quantomeno bizzarra.
Le tombe contenenti punte di freccia in selce, continua Goettner-Abendroth “non
esprimono più doni per i defunti ma strumenti di morte, come se quasi nessuno
potesse essere morto per cause naturali”, e le tombe con eccezionali cumuli di
ossa, ordinate o alla rinfusa, sono senza eccezione prova di massacri, quando
sappiamo che all’epoca esisteva la consuetudine di sepolture secondarie
(Goettner-Abendroth, Le società matriarcali del passato e la nascita del
patriarcato, Mimesis, 2023).
La studiosa si chiede poi cosa abbiano a che fare con la violenza i meravigliosi
terrapieni ovali o circolari dell’Europa centrale neolitica, che oggi sappiamo
essere stati luoghi d’incontro, una sorta di templi a cielo aperto che
svolgevano funzioni astronomiche, cerimoniali e sociali. Questa teoria, come
molte altre che oggi vedono la guerra ovunque e in qualsiasi epoca “soddisfano
però la proiezione nell’era neolitica delle condizioni a cui siamo abituati nel
patriarcato”, scrive l’autrice.
Allo stesso tempo, Goettner-Abendroth critica la narrazione edulcorata delle
società “pacifiche” promossa da certe letture semplificate, secondo le quali
tutti i conflitti dovrebbero essere sempre risolti in modo non violento, tutti
dovrebbero essere “madre” e amarsi l’un l’altro, regole e sanzioni non avrebbero
ragione di esistere, tutti dovrebbero essere vegetariani e non tagliare gli
alberi e così via. Anche se la proiezione in questo caso è positiva, non si
tratta comunque di un miglioramento. Il punto è che un certo numero di società,
in particolare quelle matriarcali, hanno saputo sviluppare una vasta gamma di
strategie per la risoluzione dei conflitti e per il mantenimento della pace,
grazie a strutture sociali e a valori culturali che non glorificano la violenza,
di conseguenza la guerra non viene celebrata.
Prendere sul serio le organizzazioni sociali che hanno preceduto i nostri
sistemi patriarcali, o altre forme di convivenza differenti da quelle che la
modernità occidentale ha esportato, ci aiuta a capire la storia culturale
dell’umanità in modo più differenziato e da più lati, e a smettere di proiettare
i consueti valori patriarcali oltre che sul passato sul presente, e prendere
così confidenza con altri principi. La rete dei codici si arricchisce, l’ordine
dei segni si modifica, e con essi i presupposti per creare strutture improntate
a un diverso modello antropologico. Può succedere che col tempo, il tempo si
apra.
La guerra si è imposta ormai come “regime di verità”, è la bolla epistemologica
in cui siamo immersi, ciò che fa sì che certi discorsi – la guerra è una
componente innata della natura umana, è ineluttabile, sorge in parallelo ai
primi villaggi – siano unanimemente accettati. Una verità che ha finito per
funzionare storicamente attraverso la replicazione di idee, norme, dispositivi
di sapere, codici, che vivificati continuamente dalla ripetizione di miti e modi
ad hoc di formare le esperienze, si è affermata come dato universale, naturale e
immutabile. Questo sistema eterogeneo di disposizioni, di cui la forza e il
potere sono i valori trainanti e le alchimie militari i mezzi più efficaci per
convalidarne e riprodurne la struttura, si è infine installato nei corpi e in
tutti i luoghi dell’esistenza umana, mantenendo un ordine sociale la cui
patologia oggi è sotto gli occhi di tutti.
Oltre ad abituarci alla verità della guerra, il nostro sistema di pensiero ci ha
abituato all’idea di un patriarcato universale come fenomeno nato insieme alla
cultura umana, che esiste da sempre, con le sue lotte intestine, guerre, le sue
strutture parentali, i suoi scambi di donne, il suo dio e il suo dominio. Le
scoperte dell’archeologia nel corso del Novecento ci consentono oggi di definire
un quadro della storia della civiltà molto più ampio, complesso e differenziato,
che dimostra, come scrive Luciana Percovich che “le datazioni consuete e le
localizzazioni convenzionali ed eurocentriche della ‘culla della civiltà’
indicano semplicemente l’inizio di una civiltà, molto giovane e patriarcale,
quella originata dall’urto delle invasioni indoeuropee tra l’Età del bronzo e
del ferro, e a esse successiva. Ciò che finora abbiamo ritenuto la Storia della
Civiltà è solo una tra le tante narrazioni, quella degli ultimi vincitori” (L.
Percovich, Oscure madri splendenti. Le radici del sacro e delle religioni,
Venexia 2007).
George Orwell, nel romanzo 1984, immagina un’epoca in cui un “Ministero della
Verità” riplasma ogni idea e riscrive il presente secondo le esigenze del nuovo
regime, cancellando tutto quello che prima era vero. Ma tutto questo è già
successo molto tempo fa nei tempi antichi, ci ricorda Riane Eisler nel suo libro
Il Calice e la Spada, il cui titolo fa riferimento a due metafore che rinviano a
un modello sociale mutuale e a uno dominatore.
L’allontanamento della memoria dei fatti nella dimenticanza e nell’oblio è una
tecnica di controllo culturale e politico che si ripete nel tempo, ma esiste una
cancel culture di più forte impatto che ha fatto da spartiacque tra un prima e
un dopo, un dopo che è ancora il nostro oggi: il lungo periodo durante il quale
le antiche società dell’Europa e del Mediterraneo, e di altre parti del mondo,
diedero vita a modelli di vita improntati ai valori della convivenza e della
collaborazione; un’idea diversa di cultura, dove conflitti, scontri e contese
non furono con ogni probabilità del tutto assenti e tuttavia non costituirono il
telos dell’ordine sociale.
Per quanto riguarda l’Europa Antica, sappiamo che tra il 6500 e il 3500 a. C.
circa, e a Creta fino al 1450 a.C., le società non erano costituite da piccoli
villaggi sparsi abitati da selvaggi, ma da stanziamenti che raggiunsero anche le
dimensioni di vere città, dotate di vaste reti di comunicazione e scambi, ricche
di arte e cultura, prive di centri di comando, gerarchie ed élite. Le sue genti
non produssero armi letali, non eressero bastioni in muratura e altre strutture
difensive, come avrebbero fatto la maggioranza dei nostri antenati a partire
dall’Età del bronzo. Eressero invece templi alti diversi piani, magnifiche
tombe-santuari, case spaziose, e crearono raffinate ceramiche e sculture.
Vantavano una scrittura sacra, e tessitori e tessitrici, esperte ed esperti
specializzati nella lavorazione dell’oro e del rame, e artigiane e artigiani che
producevano un’ampia gamma di sofisticati manufatti (M. Gimbutas, La Civiltà
della Dea, Vol 1, Stampa Alternativa, 2012). E in Anatolia, nella città di Çatal
Hüyük, dei 150 dipinti murari sopravvissuti che decoravano gli innumerevoli
templi, non ve ne è uno che rappresenti una scena di conflitto o di lotta, né di
guerra o tortura. Fu un periodo di notevole creatività e stabilità, un’età
contraddistinta da un convivere non belligerante.
Grazie all’approccio multidisciplinare di Marija Gimbutas, che combina
archeologia, mitologia, linguistica e storiografia, consentendole di calarsi
nella realtà sia materiale sia spirituale di quelle epoche, sappiamo che a
ispirare e a modellare le vicende degli umani era una figura cosmogonica
femminile, increata, che esisteva da sempre, immanente alla natura, Signora
della vita, della morte e della rigenerazione e guardiana dei suoi misteri. In
nessun documento preistorico sono state trovate infatti immagini di un dio padre
del cielo, creatore, signore degli eserciti. Le donne svolsero un ruolo decisivo
nel mantenere un equilibrio tra i sessi e con agli ecosistemi, grazie a
un’interconnessione costante di terra, cosmo, umanità nel rispetto della
vitalità della materia. Quelle culture ci consegnano un notevole corpo di
modelli culturali, politici, economici e spirituali non ancora mediati dalle
dinamiche del potere patriarcale e dalla sua mitografia western, intrisa di
tirocini dell’uomo eroe-guerriero sprezzante del pericolo che tronca con la vita
dei corpi, delle donne, dei figli e delle relazioni. È appena un taglio, ma può
farci vedere ciò che s’invola al di sopra della nostra stantia attualità.
Atene, nel V secolo, al culmine dell’organizzazione civica e del sistema
democratico, non aveva dimenticato ancora del tutto l’esperienza di quel
passato, ma non potendo più ammetterla nel discorso ufficiale civico già
governato dall’unica verità patriarcale, la dislocò nello spazio del teatro,
nella tragedia. Derealizzato e neutralizzato, il grido della memoria di un tempo
governato da una grammatica diversa del vivere e il ricordo di eventi accaduti
in un antico passato che continuavano a dividere la città, poterono essere così
reintegrati nella polis. Nicole Loraux ha scritto libri fondamentali sull’oblio
della divisione iniziale connaturata al Politico in Occidente, rimettendo in
discussione i temi della democrazia, dell’esclusione del femminile dalla città,
del non detto. La studiosa ci invita a produrre una sorta di corto-circuito tra
presente e passato e a connettere eventi distanti tra loro in un esercizio di
contro-memoria, di “anacronismo controllato”, non tanto per rintracciare delle
similitudini, quanto invece per “andare verso il passato con delle domande del
presente per ritornare verso il presente”.
Il pensiero teorico e le pratiche prodotte dalle donne in un secolo e mezzo di
decostruzione della realtà patriarcale hanno scompaginato gli assetti sociali e
le rappresentazioni simboliche della forza e del potere, una rivoluzione
antropologica lunga, lenta e complessa, non priva di conflitti e diaspore, che
continua tuttavia a mettere in campo un’idea differente di politica. Relazione,
interdipendenza, cura, vulnerabilità, orizzontalità sono tra i concetti più
ricorrenti per risignificare la base di una politica non violenta. Un corpo di
pensiero estremamente ricco, articolato e differenziato, poco frequentato
dall’intellighenzia maschile, e oggi spesso contaminato da un certo attivismo
performativo che rasenta l’autoreferenzialità, come stiamo vedendo anche in
questi giorni. Ma la potenza del femminismo è un campo magnetico che continuerà
a ravvivare il nostro coraggio creativo, portandoci oltre i cedimenti, le
intrusioni e i patriarcalismi di ritorno.
Mi piace evocare una tra le più potenti creatrici di pensiero del femminismo
radicale, Mary Daly, che con le sue opere ci ha insegnato a “volare attraverso
terre malvage, tempi malvagi”, aprendo nuovi spazi e dimensioni di lotta
sintonizzati anche sull’attivismo psichico: sincronicità, ginergia, presenza
transtemporale delle nostre antenate. Scrive in Quintessenza: “Serve che le
donne rimuovano le immagini che riflettono e rinforzano le strutture e il
marchio del folle sado-stato patriarcale. Serve che le donne pratichino un
esorcismo”. E Isabelle Stengers, in Stregoneria capitalista. Pratiche di uscita
dal sortilegio, scrive che il sistema capitalista è una forma contagiosa di
possessione collettiva che funziona come un incantesimo, una sorta di
stregoneria che cattura gli esseri umani bloccandone i pensieri, le percezioni,
i desideri. “È necessario un contro-sortilegio che attivi nuovi modi di
apprendere il mondo e la materia che lo abita”.
Forse, la patologia generale di questo sistema ha finito per installarsi come un
virus nelle nostre cellule, che oggi si ribellano e si mobilitano per cercare
nuove risorse fuori dai percorsi stretti dell’asfittica razionalità occidentale.
Esiste una profonda stratificazione di depositi di memoria nei nostri corpi che
va oltre l’economia del ricordo tracciata nei supporti, nei documenti, per
quanto testimonianze, tracce e documenti siano sempre più numerosi da quando
archeologhe, antropologhe e storiche sono scese in campo per raccontare un’altra
storia. Stati, modi del corpo che risalgono a una coscienza mitico-psichica,
potenziali dormienti, chimiche corporee di un tempo altro. Se liberiamo la magia
dalla facciata retriva che secoli di esasperato positivismo, e oggi di
disciplinamento neoliberale, hanno provocato ai nostri sistemi percettivi e alle
nostre potenzialità mentali orientandoli verso un’unica direzione, riusciremo
nuovamente ad attivare nuove sensibilità e intelligenze per ritrovare il piacere
e la meraviglia per una “nuova danza del presente”.
All’ONU, intanto, c’è già chi grida al rogo, al rogo, una strega col suo libro
degli incantesimi si aggira nelle nostre stanze! L’appellativo di strega
pronunciato da un ottuso fantoccio del potere ci offende, ma questa parola per
noi ha tutta un’altra storia, la storia di quante nel corso del tempo hanno
saputo vedere e nominare, scavalcando la rete delle menzogne.
Infine, che gli attuali criteri dell’istruzione scolastica continuino a proporre
la Grecia classica come culla dei nostri valori essenziali, e che i programmi
d’insegnamento della storia inizino con un periodo che risale solo al 2000 a.C.,
cioè in pieno patriarcato conclamato, dovrebbe sollevare qualche interrogativo
di fronte all’imponente mole di dati oggi a nostra disposizione. E che l’insieme
di società che si erano diffuse nelle valli del Danubio dell’Antica Europa, che
fiorirono stabilmente e pacificamente per un periodo di circa tremila anni,
rimangano un interdetto per la nostra cultura, nonostante siano la base indigena
dell’Europa, è una vera soggezione storica e sociale. “La memoria collettiva
umana va rimessa a fuoco… Il Neolitico europeo non è stato un tempo ‘prima della
Civiltà’” ci ricorda Marija Gimbutas.
Nell’Europa del riarmo, nella nostra bella Europa foriera di fame, carestie,
guerre, conquiste e genocidi, nella nobile Europa della superiorità morale,
civile e intellettuale indiscussa dei Socrate, Cartesio, Hegel & co, che qualche
mese fa alcuni illustri intellettuali hanno brandito come vessillo di eccellenza
mondiale, le antiche culture danubiane e dell’Egeo ci raccontano che l’umanità è
stata capace anche di non scegliere le catene, il sangue, l’orrore. Non
conosciamo i nomi dei loro filosofi e delle loro donne di pensiero, ma possiamo
ammirarne i loro linguaggi nei meravigliosi affreschi e rilievi, nelle raffinate
sculture e statuette, nei templi ornati di simboli che celebrano la vita e non
la morte. C’è politica fuori dalla Storia.
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