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Che cosa ha di inquietante l’autocoscienza maschile?
-------------------------------------------------------------------------------- Pixabay.com -------------------------------------------------------------------------------- Quelli che oggi chiamiamo “stereotipi di genere”, se li guardiamo più profondamente, ci accorgiamo che non si tratta di “differenze”, ma di un processo sempre in atto di “differenziazione”, la spaccatura che ha diviso, contrapposto nella loro complementarità, parti inscindibili dell’umano, come il corpo e il pensiero, la ragione e i sentimenti, la biologia e la storia, e che perciò stesso tende alla loro riunificazione. Femminilità e virilità parlano di rapporti e di gerarchie di potere, di sfruttamento e di violenza, ma è innegabile che ritornano, sotto un altro aspetto, come i volti di quel desiderio di unità, appartenenza intima, che è il sogno d’amore: “il miracolo che di due esseri complementari fa un solo essere armonioso” (Sibilla Aleramo). Di questa ambiguità delle figure di genere, strette dentro logiche di desiderio e di paura, di amore e di odio, di vita e di morte, a dare conto è stata finora la pratica che il femminismo ha chiamato “autocoscienza”: un pensiero e una parola spinti fin dentro le acque insondate della persona, ai confini tra inconscio e coscienza, tanto da portare allo scoperto vissuti che sfuggono alle costruzioni teoriche e al discorso politico tradizionalmente inteso, o che restano “impresentabili”. Nei rari casi in cui sono stati uomini a vincere, nelle loro scritture, la ritrosia a parlare di sé, a esporre sentimenti, fantasie, ritenute “naturali” inclinazioni femminili, non sono mancate voci critiche anche nel femminismo. Il vissuto di un figlio, l’intreccio di sentimenti opposti di amore e odio, tenerezza e violenza, affidamento e autonomia, destano comprensibilmente inquietudini nella donna che, suo malgrado, ha fatta propria come portato “naturale” la maternità: madre sempre e comunque, che abbia o non abbia avuto figli. Se è stato storicamente lo sguardo dell’uomo, l’ideologia del patriarcato, a identificarla con la sessualità e la maternità, è nell’immaginario di un figlio maschio che prende corpo negli anni dell’infanzia e della adolescenza una relazione destinata a prolungarsi nella vita amorosa adulta, con tutte le sue contraddizioni e ambivalenze. “Non c’è rivoluzione senza la liberazione delle donne”, scrivevamo nei volantini degli anni Settanta. Oggi direi “Non c’è liberazione senza una rivoluzione della coscienza maschile”. Se invece pensiamo che le donne siano “innocenti”, toccate dal patriarcato solo come vittime, e gli uomini malvagi “per natura”, allora non resta che chiederci perché continuiamo a mettere al mondo dei mostri. -------------------------------------------------------------------------------- Tra gli ultimi libri di Lea Melandri Come nasce il sogno d’amore e Dialogo tra una femminista e un misogino (Bollati Boringhieri). Nell’archivio di Comune, gli oltre duecento suoi articoli sono leggibili qui. -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Che cosa ha di inquietante l’autocoscienza maschile? proviene da Comune-info.
Il sessismo online e la “normalità” del dominio maschile
-------------------------------------------------------------------------------- Disegno di Giulia Crastolla -------------------------------------------------------------------------------- L’informazione sui siti online “Mia moglie” e “Phica.net” continua e permette di vedere, dietro l’attualità di eventi effettivamente sconcertanti – le foto rubate a donne senza il loro consenso e scambiate nel gruppo degli uomini attraverso i social – un fenomeno più esteso e legato solo in parte alle nuove tecnologie comunicative. L’insistenza sull’aspetto giudiziario e sull’effetto della visualizzazione online è sicuramente importante, così come l’invito che viene rivolto alle vittime perché denuncino la violenza subita. Ma c’è il rischio che venga così occultato il “sistema” che c’è dietro tutto questo, e cioè la “normalità” del dominio maschile, della cultura patriarcale che accompagna la nostra storia da sempre. Ciò che viene a mancare, se si continuano a mettere in evidenza solo questi aspetti, è un salto della coscienza politica. In altre parole, si rimanda ancora una volta la necessità di andare all’origine del rapporto tra i sessi, a quello spostamento o proiezione che l’uomo ha fatto sulla donna dell’animalità, di tutto ciò che a che fare col corpo, con l’appartenenza alla materia vivente e alla sua finitezza. Non è una novità, dal momento che ne parlano sia la cultura greco romana cristiana che il senso comune, il fatto di aver visto nella donna la sessualità, il corpo che genera e il corpo erotico, così come non dovrebbe stupire sapere che gli uomini vantano le loro conquiste femminili: “avere”, “possedere” una bella moglie. Parlare della “normalità” significa anche uscire dall’idea che il sessismo riguardi solo alcuni uomini, che sia un problema da rimandare alla patologia e alla illegalità, per cui la maggior parte dei loro simili può dire “io non sono così”. Un problema non secondario, quando si parla della relazione tra i sessi, è oggi la difficoltà degli uomini a pensarsi come “genere”, a vedere nella “virilità” un elemento identitario diventato anche per loro “destino naturale”, il marchio che assicura privilegi ma anche la mutilazione di tratti essenziali dell’umano. “Genere” sono state considerate storicamente solo le donne, anzi, la Donna, un tutto omogeneo, un ruolo, una funzione necessaria per “rendere buona la vita” all’altro sesso (Rousseau). Gli uomini, al contrario, si sono pensati come “individui”, persone prese nella loro singolarità, e come tali continuano a pensarsi, ragione per cui possono anche mettere distanza tra sé e quelli che considerano le devianze dei loro simili. Per un altro verso, si potrebbe dire che le donne rischiano a loro volta di restare legate a ruoli – madri, mogli, amanti, ecc. – che hanno dato loro un qualche potere, sostitutivo di altri da cui sono state escluse, un potere che non giova alla loro creatività e individuazione. Andare alla radice del sessismo vuole dire rendersi consapevoli che per lo sguardo maschile le donne sono ancora “essenzialmente corpi”. Quando si dice di una donna che ha subito violenza “se l’è cercata”, si va a toccare un pregiudizio di fondo della nostra cultura, e cioè l’identificazione delle donne con la sessualità. E il paradosso, come ha detto il femminismo degli anni Settanta con l’autocoscienza e la pratica dell’inconscio, è che la sessualità femminile è stata cancellata e che dominante storicamente è stata solo quella maschile. Tra l’altro, come ha sottolineato Carla Lonzi, una sessualità generativa che ha procurato non poche sofferenze alle donne per gravidanze indesiderate. Dietro le infinite forme di sessismo, diventate la “normale” violenza quotidiana, interiorizzata purtroppo come tale dalle donne stesse, c’è dunque una profonda misoginia, che passa allo stesso modo attraverso i saperi, le discipline scolastiche, la cultura alta che abbiamo ereditato e che ancora trasmettiamo, e il senso comune. Oggi si parla molto più che in passato di “educazione di genere”, e questo è senza dubbio un cambiamento della coscienza storica, ma di fatto, stando alla situazione attuale della scuola, si fa molto poco per renderla operate nei processi educativi fin dalla prima infanzia. Le giovani insegnanti, per lo più precarie, sanno i rischi che corrono, da parte dell’autorità scolastica o delle famiglie, quando tentanto di portare “il corpo a scuola”, di vedere nell’alunno la persona nella sua interezza, dando ascolto alle vite e a ciò che di “impresentabile” passa ancora “sotto i banchi”. Il disagio, l’insicurezza, la fragilità e la violenza diffusa tra gli adolescenti, oltre al sessismo e alla pornografia online degli adulti, sono gli altri temi ricorrenti di una lamentazione collettiva che spinge quasi inevitabilmente, se non verso un inasprimento della carcerazione minorile, a una svolta dell’educazione in chiave patologica, con ricorso quasi esclusivo agli esperti, psicologi e sessuologi. I social hanno senza dubbio modificato l’idea, che è stata del movimento antiautoritario nella scuola e del femminismo, di portare allo scoperto la materia di esperienza, la più universale dell’umano, sepolta nel “privato”, considerata “non politica”, fuori dalla cultura e dalla storia. Lo hanno fatto purtroppo ricalcando modalità note di spettacolarizzazione e voyeurismo, enfasi narcisistica e competizione, e lasciando di nuovo in ombra le consapevolezze che sono emerse da mezzo secolo e oltre fino ad oggi. Se la scuola rimane il deserto di un’educazione capace di andare alle radici dell’umano, il luogo di quell’analfabetismo dei sentimenti che è alla radice della violenza, i social non avranno difficoltà e prendere il sopravvento. -------------------------------------------------------------------------------- Pubblicato anche su il manifesto del 6 settembre -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Il sessismo online e la “normalità” del dominio maschile proviene da Comune-info.
Tor Tre Teste 6 settembre 2025: iniziativa contro violenza sessuale e razzismo
A Tor Tre Teste è andato in scena l'ennesimo stupro nello schema che conosciamo: una donna è stata aggredita e violentata in strada, colpita dalla stessa violenza patriarcale che si consuma nelle case e che autorizza uomini a postare a altri uomini immagini intime rubate alle moglie e compagne. Invece di assistere alla solidarietà verso la donna, va in scena il solito copione del razzismo istituzionalizzato che istiga alla difesa delle "nostre donne" dall'invasore. Non cambia niente se a aggredire, stuprare o uccidere sia un marito o uno sconosciuto, quale sia la sua cittadinanza e se abbia i documenti in regola o meno: la matrice di quella violenza è la stessa e la militarizzazione della città, l'inasprimento delle pene, gli ergastoli post mortem non hanno mai funzionato per eliminarla. L'istigazione all'odio razziale e alla guerra tra poveri è una risposta propagandistica all'abbandono a se stesse delle periferie.Violenza sessuale e razzismo hanno la stessa radice patriarcale nel dominio e della sopraffazione su altri corpi e finché non faremo spazio ad altro, ad una trasformazione sociale e culturale radicale, la guerra ce l'avremo in casa e nella testa. Appuntamento a Tor Tre Teste il 6 settembre alle 10:30 a Piazza dell'Acquedotto Alessandrino angolo via delle fragole. Ne parliamo con una ocmpagna di NUDM Roma.
Liberarsi dal patriarcato e oltre
-------------------------------------------------------------------------------- unsplash.com -------------------------------------------------------------------------------- Sembra ci sia un abisso, e invece culturalmente v’è un piccolo balzo tra il fare ciò che si vuole delle foto di una donna e l’ammazzare la compagna o la moglie. Questo trascorso agosto in cui l’Italia, come dopo un sonno di pigri, s’è accorta via social di essere un Paese abitato da uomini arretrati, più ripugnanti dello stereotipo preistorico del cavernicolo tutto peli e grugniti, questo agosto in cui abbiamo scoperto migliaia di maschi – di qualsiasi ceto – pugnalare per anni i diritti di altrettante donne, diffondendo foto e su di esse sbavando su portali quali Phica e Mia moglie, questo trascorso agosto rimanda al giorno 30 agosto 1970: allora l’Italia si scandalizzò per l’assassinio di Anna Fallarino da parte del marito, il marchese Camillo Casati Stampa Di Soncino. Lui 45 anni, lei 41. Il nobiluomo, appassionato di caccia, quel giorno rientrò nel sontuoso appartamento di Roma con le idee ben chiare. La moglie e il suo amante venticinquenne, Massimo Minorenti, lo stavano aspettando in salotto. Lui prese il fucile, sparò tre colpi a lei, due all’amante, uno a se stesso. E che c’entra con gli scandali dell’agosto odierno? Il marchese, in accordo con la moglie, aveva un piacere: organizzare incontri sessuali per lei, stare lì ad osservare durante i rapporti, e fotografare. Gli inquirenti trovarono un diario di Casati, ricco di annotazioni su quegli incontri e accompagnato da oltre 1.500 fotografie di Fallarino nuda, da sola oppure negli amplessi. Sarebbero stati semplici affari loro, visto che era tutto concordato. Apparentemente: era il marchese a scegliere e pagare gli amanti, Minorenti compreso. Finché tra quest’ultimo e la donna nacque l’amore. Casati Stampa Di Soncino, già accortosi della situazione da tempo, il 30 agosto di cinquantacinque anni fa ammazzò la moglie perché non era più in suo possesso: prima in pieno accordo, poi per inerzia, lei aveva acconsentito per anni (così come per la chirurgia plastica al seno e all’addome, voluta da lui negli ultimi mesi), ma infine si era presa libertà dal marito, il quale – disse lo psicanalista Emilio Servadio – tramite l’osservazione degli incontri pagati per la moglie nascondeva anzitutto a sé una propria parte omosessuale (lo stesso nascondimento che forse attua chi utilizza «frocio» come insulto, che sia diretto a gay o eterosessuali: e ce ne sono ancora parecchie di queste persone, anziane, giovani, di destra e di sinistra, comunque bifolchi). L’utilizzo della donna, del suo corpo come fosse merce divisibile dalla persona. L’idea dell’esserne padroni. Una sostanziale, profonda ignoranza che non dipende dalla posizione sociale ma da un misero, spregevole sentimento dell’animo. Il bisogno di essere curati, nel senso buono. L’indizio, da uno scandalo, della malattia patriarcale che appesta la società intera (dopo l’omicidio del marchese, ci furono giornali che pur di vendere copie pubblicarono le foto di Fallarino nuda). La necessità di una visione pedagogica che educhi all’amore della propria e altrui vita. «La sola arma di cui disponiamo è la volontà di vivere, alleata alla coscienza che la propaga», ha scritto Raoul Vaneigem in Avviso agli studenti, 1995. Ecco che cos’hanno in comune la storiaccia del 1970 e quelle odierne via social. Colleghiamole ai femminicidi (nel 2024, uno ogni tre giorni) e alla più generale discriminazione impartita alle donne, che subiscono «rilevanti condizioni di svantaggio […] nell’ambito lavorativo, familiare e sociale», afferma un rapporto dell’Inps. Per costruire un mondo nuovo, ognuno ha la responsabilità della piccola, apparentemente banale lotta quotidiana. Quel che c’è intorno a sé, sperando prima o poi nell’abbraccio di veri scioperi generali. La grande rivoluzione è uno sberleffo di sangue della Storia. Dobbiamo vivere parlando, mostrandoci, essendo persone diverse da quelle comandate dal mercato, dal patriarcato, dal razzismo, dall’autoritarismo. Si inizia da qui. Pur non vedendo la fine. -------------------------------------------------------------------------------- Daniele Ferro, educatore e giornalista, è maestro elementare di sostegno -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Liberarsi dal patriarcato e oltre proviene da Comune-info.
Per una politica della possibilità qui e ora
PROTEGGERE IL SENSO DI ATTIVITÀ MARGINALIZZATE DALL’ECONOMIA CAPITALISTA (IL LAVORO DI CURA, L’AUTOPRODUZIONE, L’AGRICOLTURA DI SUSSISTENZA, IL VOLONTARIATO, LE PRATICHE COMUNITARIE), RICONOSCERE L’IMPORTANZA DI UNA “POLITICA DELLA POSSIBILITÀ” QUI E ORA, VIVERE LA RICERCA COME ESPERIMENTO E NON SOLO MOMENTO VALUTATIVO, PENSARE IL CAMBIAMENTO SEMPRE A PARTIRE DAL CAMBIAMENTO DI SÉ. SONO PASSATI OLTRE TRE DECENNI DA QUANDO IL PENSIERO DI J.K. GIBSON-GRAHAM HA COMINCIATO A SCUOTERE LE FONDAMENTA DELLA RICERCA E DELLA PRATICA MARXISTA DA UNA PROSPETTIVA FEMMINISTA POST-STRUTTURALISTA. J.K. GIBSON-GRAHAM È LO PSEUDONIMO ACCADEMICO SCELTO DALLE GEOGRAFE ECONOMICHE KATHERINE GIBSON E JULIE GRAHAM. OLTRE IL CAPITALOCENTRISMO. PER UNA POLITICA DELLA POSSIBILITÀ QUI E ORA (MIMESIS ED.) È IL LIBRO CHE RACCOGLIE ALCUNI SUOI SCRITTI PIÙ SIGNIFICATIVI E INTRODUCE PER LA PRIMA VOLTA IN ITALIA IL PENSIERO DI J.K. GIBSON-GRAHAM. L’INTRODUZIONE DI OLTRE IL CAPITALOCENTRISMO Laboratorio di intreccio di materiali naturali presso Cascina Rapello (in una frazione di Airuno a 15 km da Lecco), un angolo di mondo di cui si prende cura la cooperativa Liberi sogni -------------------------------------------------------------------------------- Sono passati ormai oltre tre decenni da quando il lavoro di J.K. Gibson-Graham ha iniziato a scuotere le fondamenta della ricerca e della pratica marxista da una prospettiva femminista post-strutturalista. J.K. Gibson-Graham è lo pseudonimo accademico scelto dalle geografe economiche Katherine Gibson e Julie Graham. Le due si sono conosciute negli anni Settanta durante il dottorato alla Clark University, in Massachusetts e sono presto diventate amiche. Da questa amicizia è nata un’intesa intellettuale profonda che avrebbe dato origine a una delle collaborazioni più longeve e influenti nell’ambito del pensiero geografico contemporaneo. Le tesi dottorali di entrambe si basavano sull’economia politica marxista per analizzare i processi di ristrutturazione economica che stavano portando al declino di alcune regioni industriali “tradizionali” in Australia (Gibson) e negli Stati Uniti (Graham). Dopo il conseguimento del dottorato, Gibson è tornata a lavorare in Australia (prima all’Università Nazionale Australiana, poi all’Università di Sydney, alla Monash e infine alla Western Sydney) mentre Graham ha continuato il suo percorso negli Stati Uniti, all’Università del Massachusetts ad Amherst, dove è rimasta fino alla sua morta nel 2010, dopo essere anche stata a capo del Dipartimento di Geoscienze. Nonostante la notevole distanza fisica in tempi precedenti a Internet, l’impegno condiviso nei confronti dell’economia politica e della sperimentazione intellettuale è proseguito senza interruzioni per oltre trent’anni. Come affermato da loro stesse, “abbiamo percorso un cammino personale che si arricchisce continuamente, man mano che emergono nuove sfide nel relazionarsi e nel pensare/scrivere insieme”. Il risultato di questi sforzi è stata una geografia economica femminista post-strutturalista teoricamente sofisticata che ha messo al centro il ruolo del soggetto e la capacità trasformativa dei processi di ricerca, trasformando profondamente il dibattito su economia e sviluppo all’interno della geografia e delle scienze sociali più in generale. Il primo articolo co-firmato da Gibson e Graham (ma non ancora con lo pseudonimo Gibson-Graham) del 1986 era un intervento teorico marxista che sviluppava la loro teoria sulla ristrutturazione economica includendo nuove forme di migrazione internazionale di lavoro a contratto. In quegli anni, l’influenza dell’analisi strutturale marxista stava cominciando a essere messa in discussione all’interno della geografia economica; per Gibson e Graham, l’incontro col femminismo post-strutturalista e l’economia marxista anti-essenzialista di Stephen Resnick e Richard Wolff, colleghi di Graham ad Amherst, sembra aver rappresentato un punto di svolta fondamentale verso il tentativo di riteorizzare capitalismo e classe. La firma unica di “Gibson-Graham” è nata in una stanza di dormitorio durante una conferenza femminista alla Rutgers University nel 1992. Da qui ha preso vita il loro primo articolo a firma Gibson-Graham, dal titolo memorabile Waiting for the revolution, or how to smash capitalism while working at home in your spare time (“Aspettando la rivoluzione, o come distruggere il capitalismo lavorando da casa nel tempo libero”), pubblicato sulla prestigiosa rivista Rethinking Marxism nel 1993. È proprio con la traduzione di questo testo che si apre la presente antologia, il cui obiettivo principale è introdurre il pubblico in lingua italiana ad alcuni dei principali concetti e contributi analitici proposti da Gibson-Graham nel corso della sua prolifica produzione teorica. Sebbene il lavoro di Gibson-Graham abbia avuto un’influenza notevole su numerosi dibattiti contemporanei in diversi ambiti disciplinari non solo in lingua inglese, ma anche in italiano (tra i più recenti, si veda ad esempio quello sul pluriverso), esso non è tuttavia disponibile in traduzione italiana. La presente antologia rappresenta quindi il tentativo di rimediare a questa mancanza, raccogliendo una serie di contributi pubblicati tra il 1993 e il 2010, inclusi alcuni dei capitoli contenuti all’interno delle due monografie che hanno reso Gibson-Graham maggiormente nota a livello internazionale: The End of Capitalism (As We Knew It) del 1996 e A Postcapitalist Politics del 2006. Come la stessa Gibson-Graham osserva nell’introduzione alla seconda edizione, la prima edizione di The End of Capitalism è stata pubblicata nel pieno dell’ossessione accademica per la globalizzazione capitalista, e rappresentava una sfida profonda alle forme accettate di marxismo e neo-marxismo che allora dominavano la geografia economica. Del resto, come si evince dalla sua biografia, Gibson-Graham stessa era profondamente immersa in queste tradizioni intellettuali e disciplinari, e questo si rifletteva nel suo interesse per la teorizzazione della classe sociale, emerso già nei primi lavori firmati con lo pseudonimo collettivo. Il libro si proponeva di sfidare i discorsi teorici basati su forze economiche disincarnate, sull’egemonia capitalista e sull’omogeneizzazione legata alla globalizzazione. Ispirata in particolare dagli approcci anti-essenzialisti al marxismo, Gibson-Graham voleva mettere in discussione l’essenzialismo e il riduzionismo dei discorsi economici sia tradizionali che marxisti, decostruendo l’economia per dimostrare che non si tratta di uno spazio chiuso con un’identità capitalista fissa, ma può essere aperta ad altre interpretazioni. Per realizzare tale obiettivo, influenzata dalla teoria femminista di Elizabeth Grosz sul fallocentrismo, Gibson-Graham ha introdotto il concetto di capitalocentrismo, il quale descrive il binarismo dominante del discorso economico che tende ad assegnare caratteristiche positive di unità e totalità al capitalismo, mentre le pratiche economiche non-capitaliste vengono subordinate al capitalismo, in quanto mancanti o insufficienti e comunque sempre ricondotte nell’orbita del capitalismo. Secondo Gibson-Graham, il discorso capitalocentrico finisce per ridurre e cancellare la differenza economica, per cui ogni pratica viene ricondotta all’unità capitalista. Il capitalocentrismo si presenta quindi come una modalità, una struttura o una tendenza a organizzare la differenza economica in un modo tale per cui le categorie, le pratiche, i soggetti e gli spazi capitalisti (ad esempio, il lavoro salariato, la proprietà privata, l’impresa capitalista) vengono considerati più reali, centrali, coerenti e determinanti rispetto ad altri (come il lavoro domestico, l’agricoltura di sussistenza familiare, il lavoro schiavistico, le cooperative di produzione, la cura, il mercato nero, i beni comuni, il lavoro forzato). Avvicinarsi a queste differenze realmente esistenti senza presumere che esse debbano necessariamente allinearsi secondo logiche predeterminate o identità che le surdeterminano è al centro dell’ormai celebre strategia di Gibson-Graham di “leggere per differenza piuttosto che per dominanza” (si vedano i capitoli 4 e 6). Sfidare il capitalocentrismo significa, quindi, per Gibson-Graham, rendere visibile la molteplicità di processi di classe capitalisti e non-capitalisti presenti all’interno di qualsiasi formazione economica. Contestando la coerenza e la permanenza del capitalismo attraverso la teorizzazione dell’economia come molteplicità di forme coesistenti — tra le altre, feudalesimi, schiavitù, produzione indipendente di merci, produzione domestica e varie forme di capitalismo — il suo lavoro mira ad aprire spazi concettuali non solo per molteplici letture dell’economia, ma anche per una vasta gamma di lotte politiche. Un esercizio intellettuale di tale portata richiede uno sforzo concettuale importante, che ha portato, forse più di qualunque altro contributo, all’introduzione di approcci nuovi, combinati in maniera creativa, nell’ambito della geografia economica. Ciò ha significato andare ben al di là della tendenza diffusa a confrontarsi con visioni eterodosse dell’economia, promuovendo un intervento teorico primario radicale. Ecco, quindi, che in The End of Capitalism, trovano spazio, accanto ad Althusser, Engels e Marx, anche Derrida, Foucault, Grosz, Irigaray, Haraway e Sedgwick. Se questi nomi potevano essere familiari a chi si occupava di geografia culturale, essi erano profondamente lontani dai programmi di studio sull’economia e lo sviluppo. Sulla scia di tali influenze, la decostruzione era lo strumento metodologico principale adottato nel libro al fine di rompere le narrazioni consolidate che plasmavano l’analisi e la politica della sinistra. Questa fase iniziale segnava l’inizio di un progetto intellettuale più ampio, culminato nell’ambizione di produrre un linguaggio e una politica della differenza economica. Ciò ha comportato, innanzitutto, la rottura con le concezioni egemoniche del capitalismo come descrittore economico e sociale predeterminato, aprendo la strada alla ridefinizione di concetti chiave del marxismo come quelli di classe e surplus. Tale progetto si è basato fortemente sulla “teoria debole” (weak theory) così come concettualizzata da Sedgwick in opposizione alla “teoria forte” (strong theory). Secondo Gibson-Graham, la teoria forte rappresenta un approccio distaccato e critico, caratterizzato da una posizione paranoica in cui la diversità viene appiattita nell’uguaglianza, spinta dalla necessità di rendere generalizzabile e universale la conoscenza generata dai processi di ricerca. La “forza” di tale teoria non proviene dalla sua efficacia ma dall’ampiezza e dal tipo di dominio che essa organizza. Laddove la teoria debole è vista come “poco più che una descrizione” che si occupa solo di fenomeni vicini o situati, la teoria forte ordina fenomeni vicini e lontani in un unico sistema, riconducendoli a un’unica causa comune. Estendendo la propria portata, la teoria forte assume una posizione sempre più anticipatoria, finendo per rivelare poco più che i risultati già presunti. Ne consegue che “tutto finisce per significare la stessa cosa, solitamente qualcosa di grande e minaccioso”. Nel caso della ricerca sulle pratiche economiche, questo si traduce nel liquidare come insignificanti le pratiche definite “alternative” solo perché non rientrano nei modelli dominanti. Tuttavia, il progetto di Gibson-Graham non si è limitato a decostruire il capitalocentrismo del linguaggio, portando alla luce la diversità di pratiche e soggettività economiche che già esistono qui e ora. Esso ha fornito gli strumenti (pratici) per realizzare quella che Gibson-Graham ha definito “politica della possibilità”. Tale progetto inizia a essere realizzato appieno in A Postcapitalist Politics, dove Gibson-Graham propone di abbandonare le narrazioni cupe di sfruttamento capitalista e impotenza per promuovere pratiche di pensiero critico che ripensino le economie come multiple e differenziate, creando nuovi spazi per l’azione collettiva e nuove possibilità di soggettivazione che conducano alla realizzazione della politica della possibilità. A Postcapitalist Politics rappresenta quindi l’invito alla comunità accademica a riconoscere il potere costitutivo dei propri approcci analitici e a comprendere che, attraverso il proprio lavoro, essa contribuisce a creare e a mettere in scena i mondi che si abitano. Il progetto ontologico sull’economia diversa che viene a delinearsi si fonda su un orientamento sperimentale alla ricerca (nella forma della ricerca-azione). Nelle parole di Gibson-Graham, quest’orientamento sperimentale si caratterizza per un interesse verso l’apprendimento piuttosto che verso il giudizio. Trattare qualcosa come un esperimento sociale significa aprirsi a ciò che esso ha da insegnarci, un’attitudine molto diversa dal compito critico di valutare se qualcosa sia buono o cattivo, forte o debole, mainstream o alternativo. L’approccio sperimentale riconosce che ciò che stiamo osservando è in cammino verso qualcos’altro, e si interroga su come poter partecipare a questo processo di divenire. Questo non significa che le nostre raffinate capacità critiche non abbiano un ruolo nella ricerca, ma che la loro espressione passa in secondo piano rispetto all’orientamento sperimentale. In linea con l’influenza del femminismo post-strutturalista e della teoria queer, tale orientamento sperimentale (alla ricerca e alla pratica politica) non può che passare per il soggetto, ovvero non esiste cambiamento possibile che non parta dal cambiamento di sé. Infatti, recita uno dei passaggi del capitolo Coltivare soggetti per un’economia di comunità: “Se cambiare noi stesse significa cambiare i nostri mondi, e la relazione è reciproca, allora il progetto di fare la storia non è mai qualcosa di lontano, ma è sempre qui, ai margini dei nostri corpi che sentono, pensano, provano emozioni e si muovono”. Per produrre cambiamento, questo processo di soggettivazione deve essere, per Gibson-Graham, collettivo e basato sul riconoscimento imprescindibile del nostro essere in relazione con altri esseri umani e non umani per la difesa e la riproduzione dei beni comuni. In questo modo, il lavoro di Gibson-Graham offre strumenti fondamentali per teorizzare e praticare l’alternativa qui e ora partendo da sé, abbracciando gioia, sperimentazione, ottimismo e possibilità. -------------------------------------------------------------------------------- [Cesare Di Feliciantonio 
e Antonella Clare Vitiello] -------------------------------------------------------------------------------- Riferimenti bibliografici Gibson-Graham J.K., The End of Capitalism (As We Knew It), University of Minnesota Press, Minneapolis 1996. Gibson-Graham J.K., A Postcapitalist Politics, University of Minnesota Press, Minneapolis 2006. Gibson-Graham J.K., Diverse economies: performative practices for ‘other worlds’, in “Progress in Human Geography”, XXXII, n. 5, 2008, pp. 613-632. Gibson K., Graham J., Situating migrants in theory: the case of Filipino migrant contract construction workers, in “Capital and Class”, XXIX, n. 1, 1986, pp. 130-149. Kothari A., Salleh A., Escobar A., Demaria F., Acosta A. (a cura di), Pluriverso. Dizionario del post-sviluppo, ed. it. a cura di M. Benegiamo, A. Dal Gobbo, E. Leonardi, S. Torre, Orthotes, Napoli 2021 Sedgwick E.K., Touching feeling: Affect, pedagogy, performativity, Duke University Press, Durham 2003. -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Per una politica della possibilità qui e ora proviene da Comune-info.
Guerra, patria, patriarcato
Improvvisamente la guerra è tornata. In questi seicento giorni ho partecipato a un crescendo di dibattiti. Spesso mi sono lasciata trasportare dalle emozioni, da incredulità, da rabbia. Da paura, anche, perché siamo nel centro della guerra: le basi militari sono … Leggi tutto L'articolo Guerra, patria, patriarcato sembra essere il primo su La Città invisibile | perUnaltracittà | Firenze.
La rabbia non basta
COSA STA SUCCEDENDO AI GIOVANI UOMINI? SIAMO DI FRONTE A UN PROFONDO ANALFABETISMO AFFETTIVO? CHI SE NE OCCUPA? PERCHÉ IL RICHIAMO ALL'”EDUCAZIONE DEI SENTIMENTI” NON È SUFFICIENTE? DOMANDE OLTRE L’INSOPPORTABILE E ILLUSORIA IDEA DI PREVENIRE E SCORAGGIARE I FEMMINICIDI AUMENTANDO LE PENE Bologna, 24 maggio: al Centro Sociale della Pace, con le Cattive maestre si ragiona di scuola a partire dal libro Dietro la cattedra, sotto il banco. Il corpo a scuola -------------------------------------------------------------------------------- Di fronte a un fenomeno quotidiano e allarmante come i femminicidi, soprattutto quando l’età dell’aggressore e della vittima si abbassano, non mi meraviglia l’indignazione e la rabbia che, soprattutto sui social, fanno seguito. Mi meraviglia invece che si possa pensare di prevenirli, scoraggiarli, aumentando le pene fino all’ergastolo. L’abbassamento dell’età, della vittima e dell’aggressore non può non interrogarci innanzi tutto su che cosa sta succedendo a giovani uomini, che cosa può spingere un abbandono, un rifiuto, la fine di una relazione quando si è ancora poco più che adolescenti, a un’azione così feroce di annientamento dell’altra. Al di là delle tante ragioni sociali, che sicuramente incidono – ambiente degradato, clima di guerra, predominio del più forte, ecc. -, non c’è dubbio che il peso maggiore viene dal cambiamento del rapporto tra i sessi. Le donne, già dall’adolescenza, sono oggi più consapevoli di quella che è stata storicamente la loro condizione, più decise nell’affermare la loro libertà. Il femminismo degli anni Settanta ha fatto fare un salto della coscienza storica e, se anche non ha cancellato la cultura patriarcale, il sessismo dominante, lo ha tolto dalla “naturalità” con cui è arrivato fino a noi. È di fronte a questa novità, imprevista, inaspettata, che scatta la reazione vendicativa di chi ha creduto, più o meno inconsapevolmente, di poter contare su corpi femminili, erotici e materni, obbedienti, sottomessi, attenti, come scriveva già Jean-Jacques Rousseau, a “rendere loro buona la vita”. L’ambiguità di un dominio particolare come quello maschile, intrecciato e confuso con le vicende più intime, viene oggi allo scoperto, e se è l’odio contro il femminile a prevalere, non è solo per un “possesso” che l’uomo si vede sfuggire, ma per la scoperta di una fragilità e dipendenza coperte finora dall’esistenza di corpi sociali rassicuranti riguardo a un privilegio millenario di superiorità “naturale”, intoccabile. È già accaduto, all’inizio del Novecento, che la comparsa dei movimenti femminili e femministi di emancipazione delle donne risvegliasse, insieme alla misoginia, la virilità guerriera che ha portato a due guerre mondiali e al nazifascismo. Dietro a quello che viene superficialmente definito “bullismo”, come sanno le donne che oggi insegnano, ci sono sessismo e razzismo, pregiudizi antichi e precoci per la storia millenaria che li ha trasmessi quasi inalterati. E c’è l’analfabetismo affettivo che ha la sua radice negli interrogativi che si pongono, spesso dolorosamente, nell’adolescenza per quanto riguarda il corpo e le passioni che lo attraversano, e cui nessuno risponde. Non la famiglia, che in qualche modo li crea, né la scuola, dove restano il “sottobanco”, il “fuori tema”. Nei tanti articoli e dibattiti che hanno fatto seguito al femminicidio di Martina Carbonaro, il richiamo all'”educazione dei sentimenti” di cui dovrebbe farsi carico la scuola, è ricorrente. Ma poco o niente si dice che l’educazione non è neutra, che sentimenti, sogni, emozioni, pulsioni, portano il segno delle costruzioni di genere, del diverso “destino” assegnato a un sesso e all’altro. Ancora meno si dice che chi, all’interno della scuola, prova ad affrontare la violenza maschile da questo punto di vista, viene osteggiato e ostacolato, a partire da decreti ministeriali repressivi, volti alla restaurazione di quegli stessi “valori” tradizionali che hanno garantito la durata storica della cultura patriarcale. -------------------------------------------------------------------------------- LIBRI Un suggerimento di lettura per chi tenta oggi coraggiosamente e faticosamente un cambiamento della scuola: Dietro la cattedra, sotto il banco. Il corpo a scuola, scritto da Lea Melandri insieme a Cattive Maestre e pubblicato da Prospero Editore. . . -------------------------------------------------------------------------------- Testo dell’intervento raccolto da “Tutta la città ne parla”, programma di Radio Tre, giovedì 29 maggio. Ospiti di Pietro Del Soldà, insieme a Lea Melandri: Dario Del Porto (giornalista), Maria Teresa Manente (avvocata), Matteo Lancini (psicologo e psicoterapeuta). Lea Melandri ha aderito alla campagna Partire dalla speranza e non dalla paura -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE: > Forse era il suo primo grande No -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo La rabbia non basta proviene da Comune-info.
NAPOLI: CENTINAIA IN CORTEO “PER MARTINA E PER TUTTE”
Dopo il femminicidio della 14enne Martina Carbonaro, uccisa dal fidanzato 18enne perché – ha dichiarato lui stesso – “non voleva più stare con lui”, giovedì 29 maggio 2025 in centinaia si sono radunate in piazza San Domenico alle ore 20 per poi partire in corteo per le vie del centro di Napoli precedute dallo striscione “Ci vogliamo libere, felici e vive“. Domani, sabato 31 maggio 2025, alle ore 21, nuovo appuntamento di lotta in piazza Gianturco ad Afragola, la città del Napoletano in cui viveva Martina. Il racconto della manifestazione su Radio Onda d’Urto con Azzurra, degli Studenti Autorganizzati Campani, una delle realtà che avevano chiamato la piazza. Ascolta o scarica.
La libertà di esserci
C’È UNA INESAURIBILE E DIFFUSA RICERCA DI SENSO, NATURALMENTE IGNORATA DA COLORO CHE SONO IN ALTO, CHE NON SMETTE DI ALIMENTARE LA CRITICA AL PATRIARCATO E DI APRIRE IL CONCETTO DI LIBERAZIONE, MA CHE NELLO STESSO TEMPO NON VUOLE INSEGUIRE IL CARROZZONE DELLE PARI OPPORTUNITÀ, NÉ CHIUDERSI IN UNA GABBIA IDENTITARIA, COME PUÒ DIVENTARE PERFINO IL DICHIARARSI FEMMINISTA. “IN QUESTA SOGGETTIVITÀ IN MOVIMENTO – SCRIVE ANTONIETTA LELARIO, PRENDENDO SPUNTO DA ALCUNI IMPORTANTI INTERVENTI DI LEA MELANDRI E LAURA COLOMBO – POSSIAMO CERCARE INSIEME QUALE CIVILTÀ VOGLIAMO COSTRUIRE, DONNE E UOMINI CON UNA NUOVA RELAZIONE FRA NOI E CON CHIUNQUE SI SENTA COINVOLTO IN QUESTO PROCESSO. OGNUNO CONTRIBUENDO CON LA PROPRIA VOCE AL MONDO COMUNE…” Mural realizzato a San Lorenzo, Roma. Foto di Nilde Guiducci -------------------------------------------------------------------------------- L’articolo di Lea Melandri (Quel cordone ombelicale che lega ancora la donna alla madre) e la lettera al Manifesto di Laura Colombo (Non si fraintenda la differenza sessuale, pensiero in relazione) hanno riaperto questioni di fondamentale importanza su cui penso dovremmo intervenire in molti e in molte. Io vorrei riprenderle sulla base della mia esperienza e delle mie scelte, discusse nel circolo “La merlettaia di Foggia”. Non solo ruoli Un’accusa molto diffusa fatta al patriarcato è di aver ruolizzato le donne e di aver costruito una cultura stereotipata, dando un’immagine spregiativa dell’essere donna. Il noto monologo di Paola Cortellesi sulla differente percezione di alcune parole al femminile e al maschile ne è prova evidente, così alcuni corsi a scuola contro gli stereotipi di genere, come si usa dire, o l’uso e l’abuso che ne fa la pubblicità. Questa critica è più facile da accogliere perché non apre interrogativi sulle cause, non solleva questioni di fondo: sul piano simbolico si può affrontare con la vecchia arma dell’indignazione morale o dell’ironia a seconda delle situazioni, mentre sul piano politico, pur non precludendo altri sviluppi, ne suggerisce alcuni molto comodi. La proposta più diffusa è l’invito a lottare, pretendendo la parità. Un esempio: il ruolo di casalinga viene ribaltato se anche gli uomini lavano i piatti e accompagnano i bambini a scuola, come in effetti succede ormai in molte coppie. E giustizia è fatta. E se non è fatta, si tratta solo di insistere in un’ottica di modernizzazione dei costumi. C’è un altro esempio più sottile: se l’uso del nudo femminile viene denunciato come offensivo, basta portare sul mercato anche il nudo maschile. Così parità e inclusione si prendono a braccetto invadendo la lingua e l’immaginario, con buona pace delle analisi che vedono nella rappresentazione del nudo, a fini commerciali, i corpi ridotti a cosa e l’estensione ad altri soggetti come aggravante. Né alcuno sviluppo hanno avuto i coraggiosi tentativi di distinguere erotismo e pornografia, libertà sessuale e uso strumentale dell’altro, prevalentemente della donna, ma, appunto, non cambierebbe niente se fosse di altri. Per inciso, quale educazione sessuale si vuole dare ai e alle giovani se non si riaprono queste questioni con un dibattito sulla sessualità che permetta alle donne di dire la propria esperienza e il proprio desiderio? Dal punto di vista dei partiti tutti, appare evidente che sono ancora indecisi fra un riconoscimento della differenza femminile sempre in termini di pochezza su cui hanno costruito il carrozzone delle pari opportunità, dal Parlamento ai Comuni, e la proposta di inclusione nelle logiche partitiche, dove essere donna diventa qualcosa da esibire, non espressione di differenza pensata e collegata alla politica delle donne. Con uno sguardo altrettanto miope, si vede nella maternità solo un ruolo e un destino a cui il patriarcato condannava le donne, cancellando così ogni nesso tra libertà e necessità e non prendendo in alcuna considerazione il desiderio femminile di maternità. Quando non essere d’accordo è una ricchezza Grande è il disordine in cui siamo trascinate come seconda metà del cielo! Qui non c’è tempo di approfondire, ma voglio ricordare la Carta delle donne come tentativo di alcune elette nel Parlamento italiano di sottrarsi a questa morsa soffocante e di proporre altro. Insomma, la radicalità del pensiero femminile genera ancora sordità e paura. Voglio rispondere attraverso le parole di Pietro Ingrao dette, quando era presidente della Camera dei deputati, a Rossana Rossanda (Le altre Bompiani 1979). Si sente l’eco della sua cultura nell’uso del termine emancipazione che lui prende dalla tradizione comunista dove emancipazione del proletariato voleva dire far saltare la divisione in classi sociali. Quindi la parola ha ben altro spessore rispetto all’emancipazione come accomodamento nell’ordine esistente, che molta parte del movimento femminista ha criticato lavorando sulla differenza fra emancipazione, liberazione e libertà. Pietro Ingrao: “Affrontare la questione dell’emancipazione femminile comporta affrontare punti di fondo dell’organizzazione della società in generale. Ti faccio un esempio. Se vuoi affrontare davvero il problema donna/lavoro, devi investire caratteri e dimensioni dello sviluppo, occupazione, qualità e organizzazione del lavoro, fino allo stesso senso del lavoro. Contemporaneamente – ecco dove la dimensione diventa diversa – vai ad incidere sulle forme di riproduzione della società, sul modo di concepire la sessualità, i rapporti di coppia, i rapporti tra padri e figli, l’educazione, il rapporto tra passato e presente, forme e natura dell’assistenza eccetera. Cioè, una concezione storica, secolare del privato, tutta una concezione dello Stato, tutto il rapporto fra Stato e privato”. Tante di queste questioni il femminismo della differenza le sta coraggiosamente portando avanti per esempio attraverso il manifesto Sottosopra Immagina che il lavoro discusso in tutta Italia e in molte assemblee sindacali, attraverso la proposta di Autoriforma gentile della scuola che ha tentato di dare parola politica alle molte forme di esperienza libera dell’insegnare che continuano ad esserci e attraverso la rete delle Città vicine nella quale donne e uomini legati al pensiero della differenza danno voce al rapporto con la città e al nostro presente difficile, ma anche ricco di nuove intuizioni. Dove abbiamo trovato in questi anni la forza di non lasciarci trascinare dalla sordità a cui facevo riferimento prima? Beh, parlo per me e per tantissime di noi con cui ho relazioni politiche, lo abbiamo fatto mantenendo la critica agli stereotipi come traccia, ma cercando il nodo di fondo su cui è stata costruita la cultura patriarcale. L’ordine simbolico della madre Così scriveva negli anni ‘70 del ‘900 Adrienne Rich: “Il rapporto madre-figlio è il rapporto umano fondamentale. Con la creazione della famiglia patriarcale questo nucleo è stato oggetto di violenza. La donna non è stata solo svilita in quello che era il suo pieno significato e la sua piena capacità. Non è stata soltanto rinchiusa entro limiti strettamente definiti. Pur imprigionata e resa inoffensiva in un unico aspetto del suo essere, quello materno, ella resta oggetto di sfiducia, sospetto, misoginia, in forme sia evidenti sia nascoste. E gli organi di riproduzione femminili, la matrice della vita umana, sono diventati uno dei bersagli favoriti della tecnologia patriarcale. (Nato di donna, Garzanti 1977) In seguito, Luisa Muraro con il saggio L’ordine simbolico della madre ci ha ricordato che ciò che il patriarcato ha temuto, e che ancora si continua a temere, è il significato simbolico contenuto nella esperienza materna. E lì c’è anche una ricchezza, lei diceva. A me viene in mente la mia esperienza come madre e come figlia: obblighi imposti e libertà, desiderio e rischio, dolore e gioia insieme, riconoscimento e paura, amore e rabbia, incrocio di sguardi e tono di voce, bisogno di futuro e garanzie di vita, prime parole date e ricevute, apertura a ciò che il nuovo nato insegna e sollecita dentro chi se ne prende cura, consapevolezza della dipendenza e necessità di nutrire l’indipendenza. Vita simbolica in atto. Come si vede da quanto riesco a dire, è un miscuglio fertile di detto e non detto, di visibile e invisibile che niente ha a che vedere con i codici binari del patriarcato. Molto ha a che vedere con la vita, fuori da ogni schema. E ciò che ho detto non è che uno dei possibili accessi al sapere che quella esperienza dà. In un’altra situazione e con altri interlocutori io per prima direi altre cose. Quello che non cambia è la sua radicalità, se nell’esperienza madre-figlio/a leggiamo questa vita simbolica, se a questa diamo significato politico e la portiamo nelle nostre relazioni. O lo riconosciamo, laddove si presenta. Se la valorizziamo nella lingua, che è ciò che tutti abbiamo a disposizione per dare forma al mondo. Certo ricordo un convegno a Pinarella – ero allora giovanissima -, in cui si discusse e si litigò su se la nostra politica dovesse dare o non dare riconoscimento alla relazione con la madre. Non ci furono conclusioni. Ma ormai la questione era aperta. La genealogia femminile Sta di fatto che per tantissime di noi indicibile è stata, in questi anni, la gioia di ricercare un riferimento nelle donne che ci hanno preceduto. Ne è nata una passione per la letteratura scritta da donne e una sua rivalutazione che è sotto gli occhi di tutti. E il campo della letteratura e dell’arte sono solo i più evidenti. Tener conto di chi prima di noi l’aveva già detto ha cambiato i parametri della conoscenza e, introducendo la soggettività, lo stesso modo di conoscere. I saperi non sono più gli stessi ed è apparsa la profonda ingiustizia che lo stampo patriarcale aveva loro imposto per esempio nel rapporto con la natura. Così come, tornando alla vita personale come luogo in cui si vedono i cambiamenti del mondo, molte di noi hanno imparato a riconoscere ciascuna la propria madre e a praticare la lingua della gratitudine. Grande è stata la bellezza di scoprire che alle nostre spalle non c’era vuoto simbolico, ma donne che avevano patito la ferita inferta dal patriarcato al rapporto madre /figlia o figlio, e vi avevano posto riparo, come nell’arte giapponese dello Kintsugi, lasciandoci tracce dorate. Sottolineo: non canoni rigidi e chiusi, ma tracce dorate per chi di noi è in una inesauribile ricerca di sé e non vuole chiudersi in gabbie identitarie come può diventare anche il dichiararsi femminista se non è continua ricerca di senso. E nemmeno vuole lasciarsi schiacciare nel nuovo ruolo oppositivo già bello e pronto: una generazione contro l’altra, le donne contro gli uomini, chi ha capito contro chi non ha capito, eccetera. Quale civiltà Grazie a questo scarto, politica di relazione, politica del simbolico, politica del desiderio, femminismo della differenza sono equivalenti per dire una politica, come dice una mia cara amica, che mette l’accento su ciò di cui ci sentiamo ricche. È una politica che nessuno può toglierci perché è nelle nostre mani, si nutre delle nostre relazioni e del nostro desiderio per “mettere al mondo” ciò che sogniamo e di cui sentiamo la mancanza. E in questa soggettività in movimento possiamo cercare insieme quale civiltà vogliamo costruire, donne e uomini con una nuova relazione fra noi e con chiunque si senta coinvolto in questo processo. Ognuno contribuendo con la propria voce al mondo comune. -------------------------------------------------------------------------------- Antonietta Lelario (Circolo la Merlettaia di Foggia) -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo La libertà di esserci proviene da Comune-info.
L’Europa che non c’è
L’UE CHE VEDE NEMICI DAPPERTUTTO ED È OSSESSIONATA DAL RIARMO FA PAURA. È L’EUROPA DELL’ASSORDANTE SILENZIO SULLO STERMINIO DEL POPOLO PALESTINESE. EPPURE IN BASSO MIGLIAIA DI PERSONE IN TUTTA EUROPA, A COMINCIARE DAI GRUPPI DI DONNE, NON HANNO SMESSO DI COSTRUIRE PERCORSI DIVERSI, PARTENDO DALLA RIVOLUZIONE DELLA CURA: L’EUROPA CHE OGGI NON C’È DEVE SAPER RIPARTIRE DA QUI 11/11/2023 Barcellona, Manifestazione di solidarietà con la Palestina – Xavi Ariza – Di Fotomovimiento (CC BY-NC-ND) -------------------------------------------------------------------------------- Leggere, anche sommariamente, la lunghissima relazione/risoluzione al Parlamento europeo sulla difesa approvata il 2 aprile 2025 ci fa piombare in un’Europa che non avremmo mai pensato potesse essere la “nostra Europa”. Vede nemici dappertutto. Dalla Russia che si preparerebbe a invaderci, alla Cina, minaccia per il mondo. Sta con l’Ucraina fino alla vittoria (!). Con Israele e il suo “diritto all’auto difesa”. Muri ovunque per proteggere i confini. Miliardi su miliardi per Nato e armi, militarizzazione dell’educazione nelle scuole e, ovviamente, approvazione del piano ReArm Europe. Una Unione europea che fa paura. Fa orrore per il silenzio assordante che ha steso un sudario sulla distruzione e lo sterminio del popolo palestinese che Israele sta operando su Gaza, con le bombe, la fame, la sete, le malattie, con le espulsioni violente in Cisgiordania. Un nuovo genocidio che non sconvolge né provoca reazioni nella Ue, che non siano qualche stanco comunicato o qualche burocratica riga, ogni tanto. Insostenibile umanamente, ancor prima che politicamente. Ha ragione il Collettivo femminista palestinese (Pfc) [organizzazione di femministe palestinesi/arabe – con sede principalmente a Turtle Island (Stati Uniti), NdR] – a sostenere che La Palestina è una questione femminista (Nada Elia, Edizioni Alegre, 2024). Perché colpita quotidianamente, e da decenni, da tutto quello contro cui il femminismo si batte, o dovrebbe battersi: violenza, oppressione, sfruttamento, colonialismo. C’è una donna, preziosa relatrice speciale delle Nazioni unite per i Territori occupati, che parla di fatti e responsabilità con parole sincere oneste e coraggiose. Si chiama Francesca Albanese, e gli Usa ne chiedono il licenziamento. «Lo sguardo del femminismo, almeno di quello in cui mi riconosco, si è sempre rivolto al mondo, oltre i confini, ’antipatriottico‘ e antinazionalista – scrive Virginia Woolf nel 1938 in Le tre ghinee (Feltrinelli) – […] dirò, da outsider della cittadinanza quale sono, come donna, non ho un Paese. Come donna non voglio un Paese. Come donna, il mio Paese è il mondo intero…». Il testo è stato richiamato nei giorni nostri nel bel libro di Bianca Pomeranzi Femministe di un unico mondo (Fandango Libri, 2024). Oggi, la guerra è di nuovo al centro del dibattito pubblico in una Europa idealmente nata per sconfiggere l’eventualità di un altro disastro, dopo le decine di milioni di morti nella Prima guerra mondiale. Un obiettivo già scricchiolante negli anni Novanta nei Balcani. Tuttavia, sembrava, ancora all’ordine del giorno. Invece, adesso sembra scomparso il discorso pubblico su come cambiare l’Europa, come realizzare un’Europa sociale di uguaglianza, libertà, accoglienza di chi è costretto a fuggire, spesso da guerre scatenate o sostenute dall’Europa stessa. Proprio quello su cui per molti anni il femminismo ha maggiormente insistito, per un’Europa aperta al mondo. Dalle Conferenze e Forum delle donne culminate a Pechino e Huairou (conferenza Onu e Forum delle donne) nel 1995, alla Marcia mondiale delle donne per la liberazione da guerre, povertà e violenza del 2000, dal Forum sociale europeo del 2002, alla Libertà delle donne nel XXI secolo – oltre tutti i fondamentalismi (2017) -, fino alla riflessione sulla cura, durante e dopo la pandemia COVID-19. Le relazioni con altri femminismi attraverso il mondo, hanno portato a “contaminarsi”, assorbendo, più o meno consapevolmente, quello che bell hooks – pseudonimo di Gloria Jean Watkins – insegna con il suo Il femminismo è per tutti (Feltrinelli, 2021):  «La teoria femminista rivoluzionaria va di continuo elaborata e rielaborata perché si rivolga a noi, nel nostro presente»; cercando di tenere conto dell’esistenza di connessioni, relazioni, intersezioni, sovrapposizioni, senza le quali dice Angela Davis, «resteremo per sempre imprigionate in un mondo che ci appare come bianco e maschile, eterosessuale e cisgender, capitalista e centrato sugli Stati Uniti o sull’Europa». Necessariamente, non siamo state indifferenti all’Europa, né al radicamento nel presente. A Bruxelles nel 2000 la grande manifestazione della Marcia mondiale delle donne, si espresse criticamente sull’Europa, meglio la vigente Unione europea, per un’altra Europa possibile, contro guerre, povertà, violenza. E nel nostro Paese, al tempo del Pnrr Next Generation EU, come gruppo femminista della Società della cura denunciavamo anche il concetto di sicurezza che vi era contenuto e che la pandemia stessa aveva messo in discussione: «La pandemia COVID-19 ha dimostrato che la nostra sicurezza dipende dall’accesso all’assistenza sanitaria, all’approvvigionamento alimentare, all’istruzione, a redditi dignitosi. Sicurezza è prendersi cura l’uno/a dell’altro/a e del mondo. Le armi non possono fornire nulla di tutto ciò. Benvenuto il Trattato per la proibizione delle armi nucleari, ma anche l’Italia, che “’”ospita” quaranta testate nucleari, deve ratificarlo. Le armi non sono servite a darci sicurezza contro la pandemia, e non serviranno contro il riscaldamento globale e le sue conseguenze. La pandemia ha mostrato che le minacce alla sicurezza umana sono globali, non contenute da confini nazionali militarizzati; ha messo in luce la fallacia di politiche che incentivano gli investimenti nella ’sicurezza militarizzata‘ a scapito della sicurezza umana e della salute collettiva». Il paradigma della cura indicava la strada per una rivoluzione della cura. In piena pandemia, l’Assemblea della Magnolia, voluta dalla Casa internazionale delle donne e sostenuta da tantissime associazioni, gruppi e individue, nel 2021 proponeva un approccio radicale e femminista, «Per cambiare i meccanismi sociali ed economici che proteggono un sistema di potere fatto di gender pay gap, di cultura della violenza e dello stupro, di cristallizzazione dei ruoli di genere nelle famiglie, di connivenza con la cultura patriarcale, rivendichiamo di essere femministe e quindi contro le guerre, contro l’aumento delle spese militari e per la proibizione assoluta delle armi nucleari». Un auspicio e un desiderio difficili, non senza conflitto. Quelli di voler cambiare un sistema patriarcale di potere sociale, economico, culturale basato sulla disuguaglianza, pervaso di violenza spesso impunita: dalla discriminazione all’omofobia, allo stupro e al femminicidio. La rivoluzione della cura, infatti, prevedeva il rispetto e il riconoscimento dell’altra e dell’altro, di tutte le soggettività, dei diritti e le libertà di tutte e di tutti, native/i e migranti, a partire dal diritto alla cittadinanza. Quegli anni appaiono come tempi lontanissimi, anche se sono trascorsi solo quatto/cinque anni. Oggi il discorso pubblico prevalente, veicolato dalla politica e dai mass media dominanti, è la creazione del nemico, come durante la Guerra fredda. L’Europa quindi deve difendersi da possibili attacchi, la nostra sicurezza sta nelle armi e tecnologie militari. Infatti, a loro vanno 800 miliardi! Mentre lo stato sociale continua a sgretolarsi. Entriamo in un’economia di guerra: altro che l’economia sociale solidale, mandiamo i nostri figli e nipoti a sorbirsi un’educazione al militare. Insostenibile essere cittadina di una Unione europea, in cui il potere ha visi di donne, eclatante conferma, se ce n’era bisogno, che le donne non sono “naturalmente” contro la guerra, la violenza e le armi, al contrario, possono rivelare l’altra faccia del patriarcato. Colpevolmente estranee e ignare delle sagge e molto attuali parole del 2015 di Lidia Menapace: «Sono sempre dell’opinione che ripudiare la guerra e quindi avere una politica estera favorevole alla trattativa e ridurre le spese per gli armamenti siano le migliori prevenzioni della catastrofe bellica, opinione che la diffusione delle armi di distruzione di massa non fa che confermare». -------------------------------------------------------------------------------- Articolo tratto dal Granello di Sabbia n. 54 di Aprile- Maggio 2025: “L’Europa che non c’è“ -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo L’Europa che non c’è proviene da Comune-info.