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Per una politica della possibilità qui e ora
PROTEGGERE IL SENSO DI ATTIVITÀ MARGINALIZZATE DALL’ECONOMIA CAPITALISTA (IL LAVORO DI CURA, L’AUTOPRODUZIONE, L’AGRICOLTURA DI SUSSISTENZA, IL VOLONTARIATO, LE PRATICHE COMUNITARIE), RICONOSCERE L’IMPORTANZA DI UNA “POLITICA DELLA POSSIBILITÀ” QUI E ORA, VIVERE LA RICERCA COME ESPERIMENTO E NON SOLO MOMENTO VALUTATIVO, PENSARE IL CAMBIAMENTO SEMPRE A PARTIRE DAL CAMBIAMENTO DI SÉ. SONO PASSATI OLTRE TRE DECENNI DA QUANDO IL PENSIERO DI J.K. GIBSON-GRAHAM HA COMINCIATO A SCUOTERE LE FONDAMENTA DELLA RICERCA E DELLA PRATICA MARXISTA DA UNA PROSPETTIVA FEMMINISTA POST-STRUTTURALISTA. J.K. GIBSON-GRAHAM È LO PSEUDONIMO ACCADEMICO SCELTO DALLE GEOGRAFE ECONOMICHE KATHERINE GIBSON E JULIE GRAHAM. OLTRE IL CAPITALOCENTRISMO. PER UNA POLITICA DELLA POSSIBILITÀ QUI E ORA (MIMESIS ED.) È IL LIBRO CHE RACCOGLIE ALCUNI SUOI SCRITTI PIÙ SIGNIFICATIVI E INTRODUCE PER LA PRIMA VOLTA IN ITALIA IL PENSIERO DI J.K. GIBSON-GRAHAM. L’INTRODUZIONE DI OLTRE IL CAPITALOCENTRISMO Laboratorio di intreccio di materiali naturali presso Cascina Rapello (in una frazione di Airuno a 15 km da Lecco), un angolo di mondo di cui si prende cura la cooperativa Liberi sogni -------------------------------------------------------------------------------- Sono passati ormai oltre tre decenni da quando il lavoro di J.K. Gibson-Graham ha iniziato a scuotere le fondamenta della ricerca e della pratica marxista da una prospettiva femminista post-strutturalista. J.K. Gibson-Graham è lo pseudonimo accademico scelto dalle geografe economiche Katherine Gibson e Julie Graham. Le due si sono conosciute negli anni Settanta durante il dottorato alla Clark University, in Massachusetts e sono presto diventate amiche. Da questa amicizia è nata un’intesa intellettuale profonda che avrebbe dato origine a una delle collaborazioni più longeve e influenti nell’ambito del pensiero geografico contemporaneo. Le tesi dottorali di entrambe si basavano sull’economia politica marxista per analizzare i processi di ristrutturazione economica che stavano portando al declino di alcune regioni industriali “tradizionali” in Australia (Gibson) e negli Stati Uniti (Graham). Dopo il conseguimento del dottorato, Gibson è tornata a lavorare in Australia (prima all’Università Nazionale Australiana, poi all’Università di Sydney, alla Monash e infine alla Western Sydney) mentre Graham ha continuato il suo percorso negli Stati Uniti, all’Università del Massachusetts ad Amherst, dove è rimasta fino alla sua morta nel 2010, dopo essere anche stata a capo del Dipartimento di Geoscienze. Nonostante la notevole distanza fisica in tempi precedenti a Internet, l’impegno condiviso nei confronti dell’economia politica e della sperimentazione intellettuale è proseguito senza interruzioni per oltre trent’anni. Come affermato da loro stesse, “abbiamo percorso un cammino personale che si arricchisce continuamente, man mano che emergono nuove sfide nel relazionarsi e nel pensare/scrivere insieme”. Il risultato di questi sforzi è stata una geografia economica femminista post-strutturalista teoricamente sofisticata che ha messo al centro il ruolo del soggetto e la capacità trasformativa dei processi di ricerca, trasformando profondamente il dibattito su economia e sviluppo all’interno della geografia e delle scienze sociali più in generale. Il primo articolo co-firmato da Gibson e Graham (ma non ancora con lo pseudonimo Gibson-Graham) del 1986 era un intervento teorico marxista che sviluppava la loro teoria sulla ristrutturazione economica includendo nuove forme di migrazione internazionale di lavoro a contratto. In quegli anni, l’influenza dell’analisi strutturale marxista stava cominciando a essere messa in discussione all’interno della geografia economica; per Gibson e Graham, l’incontro col femminismo post-strutturalista e l’economia marxista anti-essenzialista di Stephen Resnick e Richard Wolff, colleghi di Graham ad Amherst, sembra aver rappresentato un punto di svolta fondamentale verso il tentativo di riteorizzare capitalismo e classe. La firma unica di “Gibson-Graham” è nata in una stanza di dormitorio durante una conferenza femminista alla Rutgers University nel 1992. Da qui ha preso vita il loro primo articolo a firma Gibson-Graham, dal titolo memorabile Waiting for the revolution, or how to smash capitalism while working at home in your spare time (“Aspettando la rivoluzione, o come distruggere il capitalismo lavorando da casa nel tempo libero”), pubblicato sulla prestigiosa rivista Rethinking Marxism nel 1993. È proprio con la traduzione di questo testo che si apre la presente antologia, il cui obiettivo principale è introdurre il pubblico in lingua italiana ad alcuni dei principali concetti e contributi analitici proposti da Gibson-Graham nel corso della sua prolifica produzione teorica. Sebbene il lavoro di Gibson-Graham abbia avuto un’influenza notevole su numerosi dibattiti contemporanei in diversi ambiti disciplinari non solo in lingua inglese, ma anche in italiano (tra i più recenti, si veda ad esempio quello sul pluriverso), esso non è tuttavia disponibile in traduzione italiana. La presente antologia rappresenta quindi il tentativo di rimediare a questa mancanza, raccogliendo una serie di contributi pubblicati tra il 1993 e il 2010, inclusi alcuni dei capitoli contenuti all’interno delle due monografie che hanno reso Gibson-Graham maggiormente nota a livello internazionale: The End of Capitalism (As We Knew It) del 1996 e A Postcapitalist Politics del 2006. Come la stessa Gibson-Graham osserva nell’introduzione alla seconda edizione, la prima edizione di The End of Capitalism è stata pubblicata nel pieno dell’ossessione accademica per la globalizzazione capitalista, e rappresentava una sfida profonda alle forme accettate di marxismo e neo-marxismo che allora dominavano la geografia economica. Del resto, come si evince dalla sua biografia, Gibson-Graham stessa era profondamente immersa in queste tradizioni intellettuali e disciplinari, e questo si rifletteva nel suo interesse per la teorizzazione della classe sociale, emerso già nei primi lavori firmati con lo pseudonimo collettivo. Il libro si proponeva di sfidare i discorsi teorici basati su forze economiche disincarnate, sull’egemonia capitalista e sull’omogeneizzazione legata alla globalizzazione. Ispirata in particolare dagli approcci anti-essenzialisti al marxismo, Gibson-Graham voleva mettere in discussione l’essenzialismo e il riduzionismo dei discorsi economici sia tradizionali che marxisti, decostruendo l’economia per dimostrare che non si tratta di uno spazio chiuso con un’identità capitalista fissa, ma può essere aperta ad altre interpretazioni. Per realizzare tale obiettivo, influenzata dalla teoria femminista di Elizabeth Grosz sul fallocentrismo, Gibson-Graham ha introdotto il concetto di capitalocentrismo, il quale descrive il binarismo dominante del discorso economico che tende ad assegnare caratteristiche positive di unità e totalità al capitalismo, mentre le pratiche economiche non-capitaliste vengono subordinate al capitalismo, in quanto mancanti o insufficienti e comunque sempre ricondotte nell’orbita del capitalismo. Secondo Gibson-Graham, il discorso capitalocentrico finisce per ridurre e cancellare la differenza economica, per cui ogni pratica viene ricondotta all’unità capitalista. Il capitalocentrismo si presenta quindi come una modalità, una struttura o una tendenza a organizzare la differenza economica in un modo tale per cui le categorie, le pratiche, i soggetti e gli spazi capitalisti (ad esempio, il lavoro salariato, la proprietà privata, l’impresa capitalista) vengono considerati più reali, centrali, coerenti e determinanti rispetto ad altri (come il lavoro domestico, l’agricoltura di sussistenza familiare, il lavoro schiavistico, le cooperative di produzione, la cura, il mercato nero, i beni comuni, il lavoro forzato). Avvicinarsi a queste differenze realmente esistenti senza presumere che esse debbano necessariamente allinearsi secondo logiche predeterminate o identità che le surdeterminano è al centro dell’ormai celebre strategia di Gibson-Graham di “leggere per differenza piuttosto che per dominanza” (si vedano i capitoli 4 e 6). Sfidare il capitalocentrismo significa, quindi, per Gibson-Graham, rendere visibile la molteplicità di processi di classe capitalisti e non-capitalisti presenti all’interno di qualsiasi formazione economica. Contestando la coerenza e la permanenza del capitalismo attraverso la teorizzazione dell’economia come molteplicità di forme coesistenti — tra le altre, feudalesimi, schiavitù, produzione indipendente di merci, produzione domestica e varie forme di capitalismo — il suo lavoro mira ad aprire spazi concettuali non solo per molteplici letture dell’economia, ma anche per una vasta gamma di lotte politiche. Un esercizio intellettuale di tale portata richiede uno sforzo concettuale importante, che ha portato, forse più di qualunque altro contributo, all’introduzione di approcci nuovi, combinati in maniera creativa, nell’ambito della geografia economica. Ciò ha significato andare ben al di là della tendenza diffusa a confrontarsi con visioni eterodosse dell’economia, promuovendo un intervento teorico primario radicale. Ecco, quindi, che in The End of Capitalism, trovano spazio, accanto ad Althusser, Engels e Marx, anche Derrida, Foucault, Grosz, Irigaray, Haraway e Sedgwick. Se questi nomi potevano essere familiari a chi si occupava di geografia culturale, essi erano profondamente lontani dai programmi di studio sull’economia e lo sviluppo. Sulla scia di tali influenze, la decostruzione era lo strumento metodologico principale adottato nel libro al fine di rompere le narrazioni consolidate che plasmavano l’analisi e la politica della sinistra. Questa fase iniziale segnava l’inizio di un progetto intellettuale più ampio, culminato nell’ambizione di produrre un linguaggio e una politica della differenza economica. Ciò ha comportato, innanzitutto, la rottura con le concezioni egemoniche del capitalismo come descrittore economico e sociale predeterminato, aprendo la strada alla ridefinizione di concetti chiave del marxismo come quelli di classe e surplus. Tale progetto si è basato fortemente sulla “teoria debole” (weak theory) così come concettualizzata da Sedgwick in opposizione alla “teoria forte” (strong theory). Secondo Gibson-Graham, la teoria forte rappresenta un approccio distaccato e critico, caratterizzato da una posizione paranoica in cui la diversità viene appiattita nell’uguaglianza, spinta dalla necessità di rendere generalizzabile e universale la conoscenza generata dai processi di ricerca. La “forza” di tale teoria non proviene dalla sua efficacia ma dall’ampiezza e dal tipo di dominio che essa organizza. Laddove la teoria debole è vista come “poco più che una descrizione” che si occupa solo di fenomeni vicini o situati, la teoria forte ordina fenomeni vicini e lontani in un unico sistema, riconducendoli a un’unica causa comune. Estendendo la propria portata, la teoria forte assume una posizione sempre più anticipatoria, finendo per rivelare poco più che i risultati già presunti. Ne consegue che “tutto finisce per significare la stessa cosa, solitamente qualcosa di grande e minaccioso”. Nel caso della ricerca sulle pratiche economiche, questo si traduce nel liquidare come insignificanti le pratiche definite “alternative” solo perché non rientrano nei modelli dominanti. Tuttavia, il progetto di Gibson-Graham non si è limitato a decostruire il capitalocentrismo del linguaggio, portando alla luce la diversità di pratiche e soggettività economiche che già esistono qui e ora. Esso ha fornito gli strumenti (pratici) per realizzare quella che Gibson-Graham ha definito “politica della possibilità”. Tale progetto inizia a essere realizzato appieno in A Postcapitalist Politics, dove Gibson-Graham propone di abbandonare le narrazioni cupe di sfruttamento capitalista e impotenza per promuovere pratiche di pensiero critico che ripensino le economie come multiple e differenziate, creando nuovi spazi per l’azione collettiva e nuove possibilità di soggettivazione che conducano alla realizzazione della politica della possibilità. A Postcapitalist Politics rappresenta quindi l’invito alla comunità accademica a riconoscere il potere costitutivo dei propri approcci analitici e a comprendere che, attraverso il proprio lavoro, essa contribuisce a creare e a mettere in scena i mondi che si abitano. Il progetto ontologico sull’economia diversa che viene a delinearsi si fonda su un orientamento sperimentale alla ricerca (nella forma della ricerca-azione). Nelle parole di Gibson-Graham, quest’orientamento sperimentale si caratterizza per un interesse verso l’apprendimento piuttosto che verso il giudizio. Trattare qualcosa come un esperimento sociale significa aprirsi a ciò che esso ha da insegnarci, un’attitudine molto diversa dal compito critico di valutare se qualcosa sia buono o cattivo, forte o debole, mainstream o alternativo. L’approccio sperimentale riconosce che ciò che stiamo osservando è in cammino verso qualcos’altro, e si interroga su come poter partecipare a questo processo di divenire. Questo non significa che le nostre raffinate capacità critiche non abbiano un ruolo nella ricerca, ma che la loro espressione passa in secondo piano rispetto all’orientamento sperimentale. In linea con l’influenza del femminismo post-strutturalista e della teoria queer, tale orientamento sperimentale (alla ricerca e alla pratica politica) non può che passare per il soggetto, ovvero non esiste cambiamento possibile che non parta dal cambiamento di sé. Infatti, recita uno dei passaggi del capitolo Coltivare soggetti per un’economia di comunità: “Se cambiare noi stesse significa cambiare i nostri mondi, e la relazione è reciproca, allora il progetto di fare la storia non è mai qualcosa di lontano, ma è sempre qui, ai margini dei nostri corpi che sentono, pensano, provano emozioni e si muovono”. Per produrre cambiamento, questo processo di soggettivazione deve essere, per Gibson-Graham, collettivo e basato sul riconoscimento imprescindibile del nostro essere in relazione con altri esseri umani e non umani per la difesa e la riproduzione dei beni comuni. In questo modo, il lavoro di Gibson-Graham offre strumenti fondamentali per teorizzare e praticare l’alternativa qui e ora partendo da sé, abbracciando gioia, sperimentazione, ottimismo e possibilità. -------------------------------------------------------------------------------- [Cesare Di Feliciantonio 
e Antonella Clare Vitiello] -------------------------------------------------------------------------------- Riferimenti bibliografici Gibson-Graham J.K., The End of Capitalism (As We Knew It), University of Minnesota Press, Minneapolis 1996. Gibson-Graham J.K., A Postcapitalist Politics, University of Minnesota Press, Minneapolis 2006. Gibson-Graham J.K., Diverse economies: performative practices for ‘other worlds’, in “Progress in Human Geography”, XXXII, n. 5, 2008, pp. 613-632. Gibson K., Graham J., Situating migrants in theory: the case of Filipino migrant contract construction workers, in “Capital and Class”, XXIX, n. 1, 1986, pp. 130-149. Kothari A., Salleh A., Escobar A., Demaria F., Acosta A. (a cura di), Pluriverso. Dizionario del post-sviluppo, ed. it. a cura di M. Benegiamo, A. Dal Gobbo, E. Leonardi, S. Torre, Orthotes, Napoli 2021 Sedgwick E.K., Touching feeling: Affect, pedagogy, performativity, Duke University Press, Durham 2003. -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Per una politica della possibilità qui e ora proviene da Comune-info.
Guerra, patria, patriarcato
Improvvisamente la guerra è tornata. In questi seicento giorni ho partecipato a un crescendo di dibattiti. Spesso mi sono lasciata trasportare dalle emozioni, da incredulità, da rabbia. Da paura, anche, perché siamo nel centro della guerra: le basi militari sono … Leggi tutto L'articolo Guerra, patria, patriarcato sembra essere il primo su La Città invisibile | perUnaltracittà | Firenze.
La rabbia non basta
COSA STA SUCCEDENDO AI GIOVANI UOMINI? SIAMO DI FRONTE A UN PROFONDO ANALFABETISMO AFFETTIVO? CHI SE NE OCCUPA? PERCHÉ IL RICHIAMO ALL'”EDUCAZIONE DEI SENTIMENTI” NON È SUFFICIENTE? DOMANDE OLTRE L’INSOPPORTABILE E ILLUSORIA IDEA DI PREVENIRE E SCORAGGIARE I FEMMINICIDI AUMENTANDO LE PENE Bologna, 24 maggio: al Centro Sociale della Pace, con le Cattive maestre si ragiona di scuola a partire dal libro Dietro la cattedra, sotto il banco. Il corpo a scuola -------------------------------------------------------------------------------- Di fronte a un fenomeno quotidiano e allarmante come i femminicidi, soprattutto quando l’età dell’aggressore e della vittima si abbassano, non mi meraviglia l’indignazione e la rabbia che, soprattutto sui social, fanno seguito. Mi meraviglia invece che si possa pensare di prevenirli, scoraggiarli, aumentando le pene fino all’ergastolo. L’abbassamento dell’età, della vittima e dell’aggressore non può non interrogarci innanzi tutto su che cosa sta succedendo a giovani uomini, che cosa può spingere un abbandono, un rifiuto, la fine di una relazione quando si è ancora poco più che adolescenti, a un’azione così feroce di annientamento dell’altra. Al di là delle tante ragioni sociali, che sicuramente incidono – ambiente degradato, clima di guerra, predominio del più forte, ecc. -, non c’è dubbio che il peso maggiore viene dal cambiamento del rapporto tra i sessi. Le donne, già dall’adolescenza, sono oggi più consapevoli di quella che è stata storicamente la loro condizione, più decise nell’affermare la loro libertà. Il femminismo degli anni Settanta ha fatto fare un salto della coscienza storica e, se anche non ha cancellato la cultura patriarcale, il sessismo dominante, lo ha tolto dalla “naturalità” con cui è arrivato fino a noi. È di fronte a questa novità, imprevista, inaspettata, che scatta la reazione vendicativa di chi ha creduto, più o meno inconsapevolmente, di poter contare su corpi femminili, erotici e materni, obbedienti, sottomessi, attenti, come scriveva già Jean-Jacques Rousseau, a “rendere loro buona la vita”. L’ambiguità di un dominio particolare come quello maschile, intrecciato e confuso con le vicende più intime, viene oggi allo scoperto, e se è l’odio contro il femminile a prevalere, non è solo per un “possesso” che l’uomo si vede sfuggire, ma per la scoperta di una fragilità e dipendenza coperte finora dall’esistenza di corpi sociali rassicuranti riguardo a un privilegio millenario di superiorità “naturale”, intoccabile. È già accaduto, all’inizio del Novecento, che la comparsa dei movimenti femminili e femministi di emancipazione delle donne risvegliasse, insieme alla misoginia, la virilità guerriera che ha portato a due guerre mondiali e al nazifascismo. Dietro a quello che viene superficialmente definito “bullismo”, come sanno le donne che oggi insegnano, ci sono sessismo e razzismo, pregiudizi antichi e precoci per la storia millenaria che li ha trasmessi quasi inalterati. E c’è l’analfabetismo affettivo che ha la sua radice negli interrogativi che si pongono, spesso dolorosamente, nell’adolescenza per quanto riguarda il corpo e le passioni che lo attraversano, e cui nessuno risponde. Non la famiglia, che in qualche modo li crea, né la scuola, dove restano il “sottobanco”, il “fuori tema”. Nei tanti articoli e dibattiti che hanno fatto seguito al femminicidio di Martina Carbonaro, il richiamo all'”educazione dei sentimenti” di cui dovrebbe farsi carico la scuola, è ricorrente. Ma poco o niente si dice che l’educazione non è neutra, che sentimenti, sogni, emozioni, pulsioni, portano il segno delle costruzioni di genere, del diverso “destino” assegnato a un sesso e all’altro. Ancora meno si dice che chi, all’interno della scuola, prova ad affrontare la violenza maschile da questo punto di vista, viene osteggiato e ostacolato, a partire da decreti ministeriali repressivi, volti alla restaurazione di quegli stessi “valori” tradizionali che hanno garantito la durata storica della cultura patriarcale. -------------------------------------------------------------------------------- LIBRI Un suggerimento di lettura per chi tenta oggi coraggiosamente e faticosamente un cambiamento della scuola: Dietro la cattedra, sotto il banco. Il corpo a scuola, scritto da Lea Melandri insieme a Cattive Maestre e pubblicato da Prospero Editore. . . -------------------------------------------------------------------------------- Testo dell’intervento raccolto da “Tutta la città ne parla”, programma di Radio Tre, giovedì 29 maggio. Ospiti di Pietro Del Soldà, insieme a Lea Melandri: Dario Del Porto (giornalista), Maria Teresa Manente (avvocata), Matteo Lancini (psicologo e psicoterapeuta). Lea Melandri ha aderito alla campagna Partire dalla speranza e non dalla paura -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE: > Forse era il suo primo grande No -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo La rabbia non basta proviene da Comune-info.
NAPOLI: CENTINAIA IN CORTEO “PER MARTINA E PER TUTTE”
Dopo il femminicidio della 14enne Martina Carbonaro, uccisa dal fidanzato 18enne perché – ha dichiarato lui stesso – “non voleva più stare con lui”, giovedì 29 maggio 2025 in centinaia si sono radunate in piazza San Domenico alle ore 20 per poi partire in corteo per le vie del centro di Napoli precedute dallo striscione “Ci vogliamo libere, felici e vive“. Domani, sabato 31 maggio 2025, alle ore 21, nuovo appuntamento di lotta in piazza Gianturco ad Afragola, la città del Napoletano in cui viveva Martina. Il racconto della manifestazione su Radio Onda d’Urto con Azzurra, degli Studenti Autorganizzati Campani, una delle realtà che avevano chiamato la piazza. Ascolta o scarica.
La libertà di esserci
C’È UNA INESAURIBILE E DIFFUSA RICERCA DI SENSO, NATURALMENTE IGNORATA DA COLORO CHE SONO IN ALTO, CHE NON SMETTE DI ALIMENTARE LA CRITICA AL PATRIARCATO E DI APRIRE IL CONCETTO DI LIBERAZIONE, MA CHE NELLO STESSO TEMPO NON VUOLE INSEGUIRE IL CARROZZONE DELLE PARI OPPORTUNITÀ, NÉ CHIUDERSI IN UNA GABBIA IDENTITARIA, COME PUÒ DIVENTARE PERFINO IL DICHIARARSI FEMMINISTA. “IN QUESTA SOGGETTIVITÀ IN MOVIMENTO – SCRIVE ANTONIETTA LELARIO, PRENDENDO SPUNTO DA ALCUNI IMPORTANTI INTERVENTI DI LEA MELANDRI E LAURA COLOMBO – POSSIAMO CERCARE INSIEME QUALE CIVILTÀ VOGLIAMO COSTRUIRE, DONNE E UOMINI CON UNA NUOVA RELAZIONE FRA NOI E CON CHIUNQUE SI SENTA COINVOLTO IN QUESTO PROCESSO. OGNUNO CONTRIBUENDO CON LA PROPRIA VOCE AL MONDO COMUNE…” Mural realizzato a San Lorenzo, Roma. Foto di Nilde Guiducci -------------------------------------------------------------------------------- L’articolo di Lea Melandri (Quel cordone ombelicale che lega ancora la donna alla madre) e la lettera al Manifesto di Laura Colombo (Non si fraintenda la differenza sessuale, pensiero in relazione) hanno riaperto questioni di fondamentale importanza su cui penso dovremmo intervenire in molti e in molte. Io vorrei riprenderle sulla base della mia esperienza e delle mie scelte, discusse nel circolo “La merlettaia di Foggia”. Non solo ruoli Un’accusa molto diffusa fatta al patriarcato è di aver ruolizzato le donne e di aver costruito una cultura stereotipata, dando un’immagine spregiativa dell’essere donna. Il noto monologo di Paola Cortellesi sulla differente percezione di alcune parole al femminile e al maschile ne è prova evidente, così alcuni corsi a scuola contro gli stereotipi di genere, come si usa dire, o l’uso e l’abuso che ne fa la pubblicità. Questa critica è più facile da accogliere perché non apre interrogativi sulle cause, non solleva questioni di fondo: sul piano simbolico si può affrontare con la vecchia arma dell’indignazione morale o dell’ironia a seconda delle situazioni, mentre sul piano politico, pur non precludendo altri sviluppi, ne suggerisce alcuni molto comodi. La proposta più diffusa è l’invito a lottare, pretendendo la parità. Un esempio: il ruolo di casalinga viene ribaltato se anche gli uomini lavano i piatti e accompagnano i bambini a scuola, come in effetti succede ormai in molte coppie. E giustizia è fatta. E se non è fatta, si tratta solo di insistere in un’ottica di modernizzazione dei costumi. C’è un altro esempio più sottile: se l’uso del nudo femminile viene denunciato come offensivo, basta portare sul mercato anche il nudo maschile. Così parità e inclusione si prendono a braccetto invadendo la lingua e l’immaginario, con buona pace delle analisi che vedono nella rappresentazione del nudo, a fini commerciali, i corpi ridotti a cosa e l’estensione ad altri soggetti come aggravante. Né alcuno sviluppo hanno avuto i coraggiosi tentativi di distinguere erotismo e pornografia, libertà sessuale e uso strumentale dell’altro, prevalentemente della donna, ma, appunto, non cambierebbe niente se fosse di altri. Per inciso, quale educazione sessuale si vuole dare ai e alle giovani se non si riaprono queste questioni con un dibattito sulla sessualità che permetta alle donne di dire la propria esperienza e il proprio desiderio? Dal punto di vista dei partiti tutti, appare evidente che sono ancora indecisi fra un riconoscimento della differenza femminile sempre in termini di pochezza su cui hanno costruito il carrozzone delle pari opportunità, dal Parlamento ai Comuni, e la proposta di inclusione nelle logiche partitiche, dove essere donna diventa qualcosa da esibire, non espressione di differenza pensata e collegata alla politica delle donne. Con uno sguardo altrettanto miope, si vede nella maternità solo un ruolo e un destino a cui il patriarcato condannava le donne, cancellando così ogni nesso tra libertà e necessità e non prendendo in alcuna considerazione il desiderio femminile di maternità. Quando non essere d’accordo è una ricchezza Grande è il disordine in cui siamo trascinate come seconda metà del cielo! Qui non c’è tempo di approfondire, ma voglio ricordare la Carta delle donne come tentativo di alcune elette nel Parlamento italiano di sottrarsi a questa morsa soffocante e di proporre altro. Insomma, la radicalità del pensiero femminile genera ancora sordità e paura. Voglio rispondere attraverso le parole di Pietro Ingrao dette, quando era presidente della Camera dei deputati, a Rossana Rossanda (Le altre Bompiani 1979). Si sente l’eco della sua cultura nell’uso del termine emancipazione che lui prende dalla tradizione comunista dove emancipazione del proletariato voleva dire far saltare la divisione in classi sociali. Quindi la parola ha ben altro spessore rispetto all’emancipazione come accomodamento nell’ordine esistente, che molta parte del movimento femminista ha criticato lavorando sulla differenza fra emancipazione, liberazione e libertà. Pietro Ingrao: “Affrontare la questione dell’emancipazione femminile comporta affrontare punti di fondo dell’organizzazione della società in generale. Ti faccio un esempio. Se vuoi affrontare davvero il problema donna/lavoro, devi investire caratteri e dimensioni dello sviluppo, occupazione, qualità e organizzazione del lavoro, fino allo stesso senso del lavoro. Contemporaneamente – ecco dove la dimensione diventa diversa – vai ad incidere sulle forme di riproduzione della società, sul modo di concepire la sessualità, i rapporti di coppia, i rapporti tra padri e figli, l’educazione, il rapporto tra passato e presente, forme e natura dell’assistenza eccetera. Cioè, una concezione storica, secolare del privato, tutta una concezione dello Stato, tutto il rapporto fra Stato e privato”. Tante di queste questioni il femminismo della differenza le sta coraggiosamente portando avanti per esempio attraverso il manifesto Sottosopra Immagina che il lavoro discusso in tutta Italia e in molte assemblee sindacali, attraverso la proposta di Autoriforma gentile della scuola che ha tentato di dare parola politica alle molte forme di esperienza libera dell’insegnare che continuano ad esserci e attraverso la rete delle Città vicine nella quale donne e uomini legati al pensiero della differenza danno voce al rapporto con la città e al nostro presente difficile, ma anche ricco di nuove intuizioni. Dove abbiamo trovato in questi anni la forza di non lasciarci trascinare dalla sordità a cui facevo riferimento prima? Beh, parlo per me e per tantissime di noi con cui ho relazioni politiche, lo abbiamo fatto mantenendo la critica agli stereotipi come traccia, ma cercando il nodo di fondo su cui è stata costruita la cultura patriarcale. L’ordine simbolico della madre Così scriveva negli anni ‘70 del ‘900 Adrienne Rich: “Il rapporto madre-figlio è il rapporto umano fondamentale. Con la creazione della famiglia patriarcale questo nucleo è stato oggetto di violenza. La donna non è stata solo svilita in quello che era il suo pieno significato e la sua piena capacità. Non è stata soltanto rinchiusa entro limiti strettamente definiti. Pur imprigionata e resa inoffensiva in un unico aspetto del suo essere, quello materno, ella resta oggetto di sfiducia, sospetto, misoginia, in forme sia evidenti sia nascoste. E gli organi di riproduzione femminili, la matrice della vita umana, sono diventati uno dei bersagli favoriti della tecnologia patriarcale. (Nato di donna, Garzanti 1977) In seguito, Luisa Muraro con il saggio L’ordine simbolico della madre ci ha ricordato che ciò che il patriarcato ha temuto, e che ancora si continua a temere, è il significato simbolico contenuto nella esperienza materna. E lì c’è anche una ricchezza, lei diceva. A me viene in mente la mia esperienza come madre e come figlia: obblighi imposti e libertà, desiderio e rischio, dolore e gioia insieme, riconoscimento e paura, amore e rabbia, incrocio di sguardi e tono di voce, bisogno di futuro e garanzie di vita, prime parole date e ricevute, apertura a ciò che il nuovo nato insegna e sollecita dentro chi se ne prende cura, consapevolezza della dipendenza e necessità di nutrire l’indipendenza. Vita simbolica in atto. Come si vede da quanto riesco a dire, è un miscuglio fertile di detto e non detto, di visibile e invisibile che niente ha a che vedere con i codici binari del patriarcato. Molto ha a che vedere con la vita, fuori da ogni schema. E ciò che ho detto non è che uno dei possibili accessi al sapere che quella esperienza dà. In un’altra situazione e con altri interlocutori io per prima direi altre cose. Quello che non cambia è la sua radicalità, se nell’esperienza madre-figlio/a leggiamo questa vita simbolica, se a questa diamo significato politico e la portiamo nelle nostre relazioni. O lo riconosciamo, laddove si presenta. Se la valorizziamo nella lingua, che è ciò che tutti abbiamo a disposizione per dare forma al mondo. Certo ricordo un convegno a Pinarella – ero allora giovanissima -, in cui si discusse e si litigò su se la nostra politica dovesse dare o non dare riconoscimento alla relazione con la madre. Non ci furono conclusioni. Ma ormai la questione era aperta. La genealogia femminile Sta di fatto che per tantissime di noi indicibile è stata, in questi anni, la gioia di ricercare un riferimento nelle donne che ci hanno preceduto. Ne è nata una passione per la letteratura scritta da donne e una sua rivalutazione che è sotto gli occhi di tutti. E il campo della letteratura e dell’arte sono solo i più evidenti. Tener conto di chi prima di noi l’aveva già detto ha cambiato i parametri della conoscenza e, introducendo la soggettività, lo stesso modo di conoscere. I saperi non sono più gli stessi ed è apparsa la profonda ingiustizia che lo stampo patriarcale aveva loro imposto per esempio nel rapporto con la natura. Così come, tornando alla vita personale come luogo in cui si vedono i cambiamenti del mondo, molte di noi hanno imparato a riconoscere ciascuna la propria madre e a praticare la lingua della gratitudine. Grande è stata la bellezza di scoprire che alle nostre spalle non c’era vuoto simbolico, ma donne che avevano patito la ferita inferta dal patriarcato al rapporto madre /figlia o figlio, e vi avevano posto riparo, come nell’arte giapponese dello Kintsugi, lasciandoci tracce dorate. Sottolineo: non canoni rigidi e chiusi, ma tracce dorate per chi di noi è in una inesauribile ricerca di sé e non vuole chiudersi in gabbie identitarie come può diventare anche il dichiararsi femminista se non è continua ricerca di senso. E nemmeno vuole lasciarsi schiacciare nel nuovo ruolo oppositivo già bello e pronto: una generazione contro l’altra, le donne contro gli uomini, chi ha capito contro chi non ha capito, eccetera. Quale civiltà Grazie a questo scarto, politica di relazione, politica del simbolico, politica del desiderio, femminismo della differenza sono equivalenti per dire una politica, come dice una mia cara amica, che mette l’accento su ciò di cui ci sentiamo ricche. È una politica che nessuno può toglierci perché è nelle nostre mani, si nutre delle nostre relazioni e del nostro desiderio per “mettere al mondo” ciò che sogniamo e di cui sentiamo la mancanza. E in questa soggettività in movimento possiamo cercare insieme quale civiltà vogliamo costruire, donne e uomini con una nuova relazione fra noi e con chiunque si senta coinvolto in questo processo. Ognuno contribuendo con la propria voce al mondo comune. -------------------------------------------------------------------------------- Antonietta Lelario (Circolo la Merlettaia di Foggia) -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo La libertà di esserci proviene da Comune-info.
L’Europa che non c’è
L’UE CHE VEDE NEMICI DAPPERTUTTO ED È OSSESSIONATA DAL RIARMO FA PAURA. È L’EUROPA DELL’ASSORDANTE SILENZIO SULLO STERMINIO DEL POPOLO PALESTINESE. EPPURE IN BASSO MIGLIAIA DI PERSONE IN TUTTA EUROPA, A COMINCIARE DAI GRUPPI DI DONNE, NON HANNO SMESSO DI COSTRUIRE PERCORSI DIVERSI, PARTENDO DALLA RIVOLUZIONE DELLA CURA: L’EUROPA CHE OGGI NON C’È DEVE SAPER RIPARTIRE DA QUI 11/11/2023 Barcellona, Manifestazione di solidarietà con la Palestina – Xavi Ariza – Di Fotomovimiento (CC BY-NC-ND) -------------------------------------------------------------------------------- Leggere, anche sommariamente, la lunghissima relazione/risoluzione al Parlamento europeo sulla difesa approvata il 2 aprile 2025 ci fa piombare in un’Europa che non avremmo mai pensato potesse essere la “nostra Europa”. Vede nemici dappertutto. Dalla Russia che si preparerebbe a invaderci, alla Cina, minaccia per il mondo. Sta con l’Ucraina fino alla vittoria (!). Con Israele e il suo “diritto all’auto difesa”. Muri ovunque per proteggere i confini. Miliardi su miliardi per Nato e armi, militarizzazione dell’educazione nelle scuole e, ovviamente, approvazione del piano ReArm Europe. Una Unione europea che fa paura. Fa orrore per il silenzio assordante che ha steso un sudario sulla distruzione e lo sterminio del popolo palestinese che Israele sta operando su Gaza, con le bombe, la fame, la sete, le malattie, con le espulsioni violente in Cisgiordania. Un nuovo genocidio che non sconvolge né provoca reazioni nella Ue, che non siano qualche stanco comunicato o qualche burocratica riga, ogni tanto. Insostenibile umanamente, ancor prima che politicamente. Ha ragione il Collettivo femminista palestinese (Pfc) [organizzazione di femministe palestinesi/arabe – con sede principalmente a Turtle Island (Stati Uniti), NdR] – a sostenere che La Palestina è una questione femminista (Nada Elia, Edizioni Alegre, 2024). Perché colpita quotidianamente, e da decenni, da tutto quello contro cui il femminismo si batte, o dovrebbe battersi: violenza, oppressione, sfruttamento, colonialismo. C’è una donna, preziosa relatrice speciale delle Nazioni unite per i Territori occupati, che parla di fatti e responsabilità con parole sincere oneste e coraggiose. Si chiama Francesca Albanese, e gli Usa ne chiedono il licenziamento. «Lo sguardo del femminismo, almeno di quello in cui mi riconosco, si è sempre rivolto al mondo, oltre i confini, ’antipatriottico‘ e antinazionalista – scrive Virginia Woolf nel 1938 in Le tre ghinee (Feltrinelli) – […] dirò, da outsider della cittadinanza quale sono, come donna, non ho un Paese. Come donna non voglio un Paese. Come donna, il mio Paese è il mondo intero…». Il testo è stato richiamato nei giorni nostri nel bel libro di Bianca Pomeranzi Femministe di un unico mondo (Fandango Libri, 2024). Oggi, la guerra è di nuovo al centro del dibattito pubblico in una Europa idealmente nata per sconfiggere l’eventualità di un altro disastro, dopo le decine di milioni di morti nella Prima guerra mondiale. Un obiettivo già scricchiolante negli anni Novanta nei Balcani. Tuttavia, sembrava, ancora all’ordine del giorno. Invece, adesso sembra scomparso il discorso pubblico su come cambiare l’Europa, come realizzare un’Europa sociale di uguaglianza, libertà, accoglienza di chi è costretto a fuggire, spesso da guerre scatenate o sostenute dall’Europa stessa. Proprio quello su cui per molti anni il femminismo ha maggiormente insistito, per un’Europa aperta al mondo. Dalle Conferenze e Forum delle donne culminate a Pechino e Huairou (conferenza Onu e Forum delle donne) nel 1995, alla Marcia mondiale delle donne per la liberazione da guerre, povertà e violenza del 2000, dal Forum sociale europeo del 2002, alla Libertà delle donne nel XXI secolo – oltre tutti i fondamentalismi (2017) -, fino alla riflessione sulla cura, durante e dopo la pandemia COVID-19. Le relazioni con altri femminismi attraverso il mondo, hanno portato a “contaminarsi”, assorbendo, più o meno consapevolmente, quello che bell hooks – pseudonimo di Gloria Jean Watkins – insegna con il suo Il femminismo è per tutti (Feltrinelli, 2021):  «La teoria femminista rivoluzionaria va di continuo elaborata e rielaborata perché si rivolga a noi, nel nostro presente»; cercando di tenere conto dell’esistenza di connessioni, relazioni, intersezioni, sovrapposizioni, senza le quali dice Angela Davis, «resteremo per sempre imprigionate in un mondo che ci appare come bianco e maschile, eterosessuale e cisgender, capitalista e centrato sugli Stati Uniti o sull’Europa». Necessariamente, non siamo state indifferenti all’Europa, né al radicamento nel presente. A Bruxelles nel 2000 la grande manifestazione della Marcia mondiale delle donne, si espresse criticamente sull’Europa, meglio la vigente Unione europea, per un’altra Europa possibile, contro guerre, povertà, violenza. E nel nostro Paese, al tempo del Pnrr Next Generation EU, come gruppo femminista della Società della cura denunciavamo anche il concetto di sicurezza che vi era contenuto e che la pandemia stessa aveva messo in discussione: «La pandemia COVID-19 ha dimostrato che la nostra sicurezza dipende dall’accesso all’assistenza sanitaria, all’approvvigionamento alimentare, all’istruzione, a redditi dignitosi. Sicurezza è prendersi cura l’uno/a dell’altro/a e del mondo. Le armi non possono fornire nulla di tutto ciò. Benvenuto il Trattato per la proibizione delle armi nucleari, ma anche l’Italia, che “’”ospita” quaranta testate nucleari, deve ratificarlo. Le armi non sono servite a darci sicurezza contro la pandemia, e non serviranno contro il riscaldamento globale e le sue conseguenze. La pandemia ha mostrato che le minacce alla sicurezza umana sono globali, non contenute da confini nazionali militarizzati; ha messo in luce la fallacia di politiche che incentivano gli investimenti nella ’sicurezza militarizzata‘ a scapito della sicurezza umana e della salute collettiva». Il paradigma della cura indicava la strada per una rivoluzione della cura. In piena pandemia, l’Assemblea della Magnolia, voluta dalla Casa internazionale delle donne e sostenuta da tantissime associazioni, gruppi e individue, nel 2021 proponeva un approccio radicale e femminista, «Per cambiare i meccanismi sociali ed economici che proteggono un sistema di potere fatto di gender pay gap, di cultura della violenza e dello stupro, di cristallizzazione dei ruoli di genere nelle famiglie, di connivenza con la cultura patriarcale, rivendichiamo di essere femministe e quindi contro le guerre, contro l’aumento delle spese militari e per la proibizione assoluta delle armi nucleari». Un auspicio e un desiderio difficili, non senza conflitto. Quelli di voler cambiare un sistema patriarcale di potere sociale, economico, culturale basato sulla disuguaglianza, pervaso di violenza spesso impunita: dalla discriminazione all’omofobia, allo stupro e al femminicidio. La rivoluzione della cura, infatti, prevedeva il rispetto e il riconoscimento dell’altra e dell’altro, di tutte le soggettività, dei diritti e le libertà di tutte e di tutti, native/i e migranti, a partire dal diritto alla cittadinanza. Quegli anni appaiono come tempi lontanissimi, anche se sono trascorsi solo quatto/cinque anni. Oggi il discorso pubblico prevalente, veicolato dalla politica e dai mass media dominanti, è la creazione del nemico, come durante la Guerra fredda. L’Europa quindi deve difendersi da possibili attacchi, la nostra sicurezza sta nelle armi e tecnologie militari. Infatti, a loro vanno 800 miliardi! Mentre lo stato sociale continua a sgretolarsi. Entriamo in un’economia di guerra: altro che l’economia sociale solidale, mandiamo i nostri figli e nipoti a sorbirsi un’educazione al militare. Insostenibile essere cittadina di una Unione europea, in cui il potere ha visi di donne, eclatante conferma, se ce n’era bisogno, che le donne non sono “naturalmente” contro la guerra, la violenza e le armi, al contrario, possono rivelare l’altra faccia del patriarcato. Colpevolmente estranee e ignare delle sagge e molto attuali parole del 2015 di Lidia Menapace: «Sono sempre dell’opinione che ripudiare la guerra e quindi avere una politica estera favorevole alla trattativa e ridurre le spese per gli armamenti siano le migliori prevenzioni della catastrofe bellica, opinione che la diffusione delle armi di distruzione di massa non fa che confermare». -------------------------------------------------------------------------------- Articolo tratto dal Granello di Sabbia n. 54 di Aprile- Maggio 2025: “L’Europa che non c’è“ -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo L’Europa che non c’è proviene da Comune-info.
Voci contro il riarmo globale
-------------------------------------------------------------------------------- Foto tratta dalla pag. fb CND/Campaign for nuclear disarmament -------------------------------------------------------------------------------- Questo articolo fa parte di Voci di pace -------------------------------------------------------------------------------- Fuori dalla RAF Lakeneath, in Inghilterra, si è svolto nei giorni dal 14 al 26 aprile un campo antinucleare che ha visto la partecipazione di centinaia di attiviste e attivisti da ogni parte del mondo. La Royal Air Force Lakenheath, situata nei pressi del villaggio inglese di Lakenheath (contea di Suffolk), ospita la United States Air Force, da cui negli anni sono partiti aerei diretti in Kuwait, Iraq e Afghanistan. Grazie alle mobilitazioni e alle proteste, nel 2008 le armi nucleari sono state rimosse dalla base. Oggi, dinanzi al rischio che la RAF Lakenheat – che già ospita cacciabombardieri F-35 con caratteristiche stealth – possa nuovamente ospitare testate nucleari statunitensi (bombe B61-12) la protesta è ripresa grazie all’iniziativa della Lakenheath Alliance for Peace, una coalizione formata da oltre cinquanta reti e associazioni impegnate contro il riarmo in Inghilterra e nel mondo. Della coalizione fanno parte realtà storiche, come la Campaign for Nuclear Disarmament (CND), attiva dal 1958 per il disarmo nucleare e che ha contribuito attivamente alle mobilitazioni che hanno portato alla stipula di trattati storici quali il Partial Test Ban Treaty (Trattato sulla messa al bando parziale degli esperimenti nucleari, 1963), il Nuclear Non-Proliferation Treaty (Trattato di non proliferazione nucleare, 1968) e l’Intermediate-Range Nuclear Forces Treaty (Trattato sui missili nucleari a medio raggio, 1987). Oltre a CND fanno parte dell’Alleanza di Lakenheath, fra gli altri, anche Trident Ploughshares, CodePink- Donne per la Pace, International Peace Bureau (IPB), XR Extinction Rebellion, International Physicians for the Prevention of Nuclear War (IPPNW), Global Women for Peace United Against NATO/Donne Unite contro la NATO, coordinamento, quest’ultimo, nato a Bruxelles nel 2023. Nelle intense giornate concluse con la conferenza internazionale sulla pace del 24 aprile, tutte le associazioni coinvolte hanno chiesto al governo britannico di non ospitare le bombe nucleari statunitensi nella base militare di Lakenheath e, più in generale, hanno rivolto un appello in favore del disarmo a livello globale e contro la corsa al riarmo annunciata dai governi europei come soluzione alla crisi globale, mobilitandosi collettivamente per rifiutare la dottrina della deterrenza nucleare e riaffermare la necessità del disarmo quale unica garanzia possibile di sicurezza a livello globale. A questo proposito, a Lakenheath si è voluto anche richiamare l’attenzione sul ruolo della base nello sterminio del popolo palestinese, oltre che sulle gravissime conseguenze delle attività della RAF Lakenheath – e di tutte le basi militari statunitensi in Europa – sui cambiamenti climatici in atto. I danni della catena del nucleare sono stati recentemente descritti e analizzati da un importante rapporto della Women International League for Peace and Freedom (WILPF), presente a Lakenheath, dal titolo ‘Petrobromance’, Nuclear Priesthood, & Police Repression. Feminist Confrontations of Violent Industries, and Movement to Abolish Them. Il documento1 – uscito nel 2024 e curato da Ray Acheson, Katrin Geyer, Genevieve Riccoboni e Laura Varella – illustra, da una prospettiva femminista e decoloniale, le conseguenze dell’industria nucleare e dei combustibili fossili sulle comunità coinvolte nel ciclo di produzione e smaltimento delle scorie, riportando esempi dei danni arrecati alle comunità in ogni parte del mondo in termini di inquinamento ambientale, perdita di sovranità territoriale e incremento della vulnerabilità sociale e ambientale. Tutti questi temi sono stati dibattuti e hanno animato le sessioni a Lakenheath, grazie a un programma ricco e vastissimo, con incontri, workshop (come quello su antimilitarismo e femminismo antimperialista), recital, eventi musicali (con un messaggio della cantautrice folk Peggy Seeger), cori di protesta e azioni dirette, come quella che ha visto il 25 aprile dodici attiviste (donne, non binarie e attiviste trans) bloccare il cancello di ingresso della base. Il blocco realizzato il 26 aprile è stato preceduto da un corso di formazione sull’azione diretta non violenta. Inevitabile il legame, storico e simbolico, con la tradizione dei campi femministi antimilitaristi, primo fra tutti quello di Greenham Common. Fra i momenti più significativi delle giornate sulla pace e la non violenza va, infatti, annoverato l’incontro con le attiviste della storica protesta di Greenham Common (evento fondativo del pacifismo femminista), organizzata a partire dal 1981 contro lo stoccaggio di missili da crociera nella base militare RAF Greenham Common (nel Berkshire, Inghilterra). Se a Lakenheath abbiamo ritrovato – a distanza di più di quarant’anni, e in condizioni ovviamente mutate – le stesse modalità di organizzazione e gli stessi dispositivi di protesta (cori, canti politici, performance, blocchi dei cancelli) che hanno fatto di Greenham il “primo” campo femminista antimilitarista, è perché, a partire da allora, esiste ed è rintracciabile una genealogia della mobilitazione femminista contro la guerra, le armi atomiche, la devastazione ambientale e il rischio di distruzione totale. Sull’importanza di Greenham e, più in generale, dei campi di pace nella storia dell’attivismo femminista pacifista e antinucleare, prende le mosse un’antologia uscita nel 2023, a cura di Catherine Eschle e Alison Bartlett, dal titolo Feminism and Protest Camps. Entaglements, Critiques and Re-Imaginings (Bristol University Press). A partire dagli anni ’80, molte esperienze si sono richiamate a quella protesta, come il campo di Menwith Hill, una base Usa per le comunicazioni satellitari situata nella contea inglese dello Yorkshire, descritto nel capitolo di Finn Mackay You Can’t Kill the Spirit” (But You Can Try): Gendered Contestations and Contradictions at Menwith Hill Women’s Peace Camp. Per tornare a Lakenheath, la conferenza internazionale sulla pace che ha chiuso la mobilitazione (24 aprile), è stata introdotta da Kate Hudson, già segretaria generale di Campaign for Nuclear Disarmament (CND), e ha visto la partecipazione di relatrici e relatori da Inghilterra, Scozia, Belgio, Germania, Francia, Olanda, Cipro, Giappone, Corea del Sud e Italia. Della delegazione italiana presente a Lakenheath ha fatto parte anche Abbasso la guerra OdV, un centro di documentazione su guerra, pace, disarmo, militarismo e antimilitarismo e non violenza, con sede a Varese (rappresentato dal presidente Elio Pagani). Wilpf Italia è stata fra le associazioni che da subito hanno sostenuto il LAP, diffondendone programma e contenuti in diverse iniziative previste nell’ambito del progetto Abolire il nucleare con i saperi, la memoria, le reti, i territori, fra cui il l’incontro organizzato alla Casa Internazionale delle Donne di Roma il 23 novembre 2024), che ha visto la partecipazione da remoto dell’attivista britannica Angie Zelter, fra le promotrici del LAP e animatrice fin dagli anni ’80 di campagne internazionali contro il nucleare (come la Snowball Campaign negli anni ’80), oltre che fondatrice di diversi gruppi, tra cui Trident Ploughshares, organizzazione per il disarmo nata nel 1998 per opporsi con metodi non violenti al programma Trident per l’approvvigionamento di armi nucleari nel Regno Unito. Zelter è anche autrice di importanti lavori come Trident on Trial: The Case for People’s Disarmament (2001) e Activism for Life (2021). Dal 9 aprile è, inoltre, disponibile sul sito della WILPF il volume NPT Briefing Book (frutto del lavoro del Reaching Critical Wil-RCW, il programma di disarmo della WILPF), una guida per comprendere l’impatto umanitario delle armi nucleari, delle spese globali per il riarmo e dei rischi nucleari, in concomitanza con la terza sessione (28 aprile-9 maggio 2025) del Comitato preparatorio per la Conferenza di revisione del Trattato di non proliferazione delle armi nucleari, prevista a New York a novembre 2026. Il Comitato preparatorio ha il compito di affrontare questioni sostanziali e procedurali relative alla prossima Conferenza di revisione. Le centinaia di voci che si sono unite a Lakenheath hanno lanciato un messaggio importante contro la guerra in un’epoca di riarmo e di attacco al diritto umanitario. L’attivismo e la riflessione femminista e pacifista hanno da tempo sottolineato i rischi impliciti in una logica securitaria e militarizzata, estesa oramai a livello globale, e resa ancora più pericolosa delle tecnologie (la cui finta neutralità è da decenni denunciata dalle scienziate femministe e dalla riflessione femminista si scienza e tecnologia) e dall’intelligenza artificiale messa al servizio di programmi di morte e distruzione (si veda a questo proposito la campagna internazionale contro le armi autonome “Stop Killer Robots”, lanciata nel 2013). Con il sostegno della campagna, WILPF ha pubblicato due rapporti a firma di Ray Acheson, in cui l’attivista analizza, da una prospettiva femminista, i rischi delle armi autonome (Autonomous Weapons and Patriarchy e Autobomous Weapons and Gender Based Violence) come strumenti di distruzione di massa. Alla base, spiega Acheson, c’è un modello basato su ideali di supremazia, interessi dell’industria militare, ossessioni securitarie e svalorizzazione della vita umana (e della vita in generale). Anche su questi temi possiamo rintracciare una genealogia, ripercorrendo, e riattualizzando nella riflessione, il lavoro di attiviste, scienziate, pensatrici, scrittrici che, adottando una prospettiva femminista, si sono sforzate di dimostrare i nessi tra guerra e strutture di potere; tra gerarchie e violenza; scoprendo i fili invisibili che legano le diverse forme di oppressione. Riallacciare i nodi di quella riflessione e riscoprirne il potenziale per svelare le trame di potere e sostenere azioni di protesta non violente è quanto è stato fatto a Lakenheath, raccogliendo dal passato per seminare oggi nuove idee e generare nuove resistenze. -------------------------------------------------------------------------------- Abbasso la guerra OdV Campaign for Nuclear Disarmament (CND) Code Pink-Women for Peace Extinction Rebellion Global Women for Peace United Against NATO International Physicians for the Prevention of Nuclear War Lakenheath Alliance for Peace Trident Ploughshares Reaching Critical Will -------------------------------------------------------------------------------- Per leggere notizie sul campo di Lakenheath: Seven anti-nuclear activists arrested at RAF Lakenheath blockade Police update after seven arrests at RAF Lakenheath base | East Anglian Daily Times Seven arrests made after blockade at RAF Lakenheath RAF Lakenheath blockaded by protesters as seven arrested ‘I am not here for protest, I am here to prevent a crime’ | Morning Star -------------------------------------------------------------------------------- 1 Il rapporto è scaricabile all’indirizzo: https://www.wilpf.org/publications/petrobromance-nuclear-priesthood-and-police-repression-feminist-confrontations-of-violent-industries-and-movements-to-abolish-them/. -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Voci contro il riarmo globale proviene da Comune-info.
Il lavoro delle donne palestinesi
VIOLENZE, MOLESTIE SESSUALI, IMPOSSIBILITÀ DI ACCEDERE A TERRENI AGRICOLI E MERCATI LOCALI, POVERTÀ, BASSI SALARI. LA CONDIZIONE DI SFRUTTAMENTO E DI DIPENDENZA DELLE DONNE PALESTINESI IMPIEGATE NEGLI INSEDIAMENTI ILLEGALI ISRAELIANI IN CISGIORDANIA E A GERUSALEMME EST, DICE OXFAM, È TERRIFICANTE. LA MAGGIOR PARTE DELLE DONNE GUADAGNA MENO DI 25 EURO AL GIORNO ED È SPINTA VERSO IMPIEGHI DI SFRUTTAMENTO. ANCHE NEL BUIO C’È CHI PAGA UN PREZZO PIÙ ALTO Foto di Gaza FREEstyle -------------------------------------------------------------------------------- Il rapporto Oxfam di marzo sulla condizione di sfruttamento e di dipendenza delle donne palestinesi impiegate negli insediamenti illegali israeliani in Cisgiordania e a Gerusalemme est (scaricabile qui) testimonia una situazione terrificante: l’espansione degli insediamenti israeliani, la confisca di terreni e le restrizioni al commercio, alla circolazione e allo sviluppo palestinesi hanno sistematicamente creato condizioni di povertà e disoccupazione che spingono un numero sempre maggiore di palestinesi verso un lavoro di sfruttamento. Ostacoli strutturali, le politiche israeliane di controllo delle risorse e le limitazioni al commercio e allo sviluppo economico, hanno reso molte donne incapaci di trovare un lavoro locale sicuro e dignitoso, spingendole verso impieghi di sfruttamento negli insediamenti. Elaborato in collaborazione con i partner di Oxfam, il Palestine Economic Policy Research Institute (MAS) e la Mother School Society (MSS) hanno svolto un prezioso lavoro di ricerca che ha fornito le basi per questo report con testimonianze dirette, interviste e ricerche sul campo, compreso il caso di studio sull’impiego delle donne nella valle del Giordano. Attualmente, oltre 6.500 donne palestinesi lavorano negli insediamenti israeliani, principalmente nel settore agricolo (65,5%) e manifatturiero (33,3%) con un numero in costante aumento negli ultimi anni. Fanno parte di una forza lavoro molto più ampia; circa 29.000 palestinesi lavorano negli insediamenti israeliani, la stragrande maggioranza dei quali sono uomini, il che riflette una estesa dipendenza economica creata dalle politiche israeliane. In totale, oltre 193.000 palestinesi lavorano in Israele e negli insediamenti israeliani e le donne ne rappresentano solo una piccola frazione, sottolineando le particolari vulnerabilità che affrontano in queste condizioni di sfruttamento. Dopo la Guerra dei Sei Giorni del 1967 Israele mantiene un’occupazione militare del territorio palestinese. In oltre cinquantasette anni, Israele ha sistematicamente stabilito e espanso insediamenti in violazione del diritto internazionale. Oggi la popolazione dei coloni nella Cisgiordania occupata, inclusa Gerusalemme Est, continua a crescere e supera ormai i 700.000 coloni israeliani. Gli insediamenti e le infrastrutture a essi associate occupano ormai quasi il 35% di Gerusalemme Est e il 10% della Cisgiordania. Il periodo successivo all’ottobre 2023 ha visto un’accelerazione allarmante dell’espansione degli insediamenti, con effetti devastanti sull’economia e l’occupazione palestinesi. Secondo Peace Now, Israele ha illegalmente sequestrato 23,7 km2 di terra palestinese nella Cisgiordania occupata solo nel 2024, più di quanto confiscato nei precedenti trent’anni insieme. Prima dell’ottobre 2023, i tassi di disoccupazione per le donne palestinesi in tutto il territorio occupato variavano tra il 23% e il 29% con un tasso di disoccupazione cumulativo del 40%, il doppio di quello degli uomini. Tuttavia, a seguito dell’offensiva militare israeliana su Gaza nell’ottobre 2023, la situazione economica si è drasticamente deteriorata. La Cisgiordania ha subito un declino economico senza precedenti, con una seguente perdita di 306.000 posti di lavoro dall’ottobre 2023. Tra l’inizio di ottobre 2023 e la fine di settembre 2024, il tasso di disoccupazione nella Cisgiordania ha raggiunto una media del 34,9% mentre a Gaza è triplicato, arrivando al 79,7%. La recessione economica ha colpito sia uomini che donne. Gli uomini hanno subito un calo dell’occupazione superiore al 28% e il loro tasso di disoccupazione è triplicato. L’impatto economico della guerra è stato sostanziale con un calo del PIL reale nel territorio occupato pari in media al 32,2% nell’ultimo anno. La Cisgordania ha registrato una contrazione del 21,7%, mentre il PIL di Gaza è crollato del 84,7%. Il numero di posti di blocco in Cisgiordania è aumentato da 567 all’inizio di ottobre 2023 a 700 a febbraio 2024. Le donne palestinesi, come gli uomini, affrontano anche sfide aggiuntive attinenti al genere, tra cui un maggior rischio di molestie sessuali, violenza e l’impossibilità di accedere a terreni agricoli o mercati locali, aggravando ulteriormente la disoccupazione. L’Autorità Palestinese, che impiega molte donne palestinesi, ha una forte dipendenza dagli aiuti e ha subito riduzioni degli aiuti e delle entrate, limitando significativamente la sua capacità di fornire servizi e di funzionare come governo. I dipendenti dell’AP hanno ricevuto solo salari parziali negli ultimi tre anni. Questi ostacoli strutturali, aggravati dalle politiche israeliane di confisca di terreni, le restrizioni alla circolazione, il controllo sulle risorse e le limitazioni al commercio e allo sviluppo economico, hanno reso molte donne incapaci di trovare un lavoro sicuro e dignitoso a livello locale, spingendole verso impieghi di sfruttamento negli insediamenti. Sebbene gli uomini palestinesi siano stati a lungo impiegati negli insediamenti israeliani, prevalentemente nell’edilizia e l’agricoltura, il loro numero ha subito notevoli fluttuazioni, raggiungendo un picco di circa 25.000 nel 2023, per poi calare bruscamente a causa delle chiusure successive al 7 ottobre. Le donne palestinesi sono concentrate in modo sproporzionato nei lavori agricoli e di trasformazione alimentare, a causa delle norme di genere, delle restrizioni alla mobilità e delle minori barriere all’accesso. Questi settori sono anche caratterizzati da salari più bassi, minori tutele e maggiori rischi di sfruttamento, molestie e furto salariale a causa del lavoro informale e stagionale e delle condizioni isolate. Circa il 47,6% delle donne palestinesi impiegate nella produzione agricola negli insediamenti e il 19,6% impiegate nel settore manifatturiero, lavorava in precedenza per imprese palestinesi. Sono state costrette, però, a cercare lavoro negli insediamenti israeliani illegali a causa della mancanza di alternative. Il reddito giornaliero medio delle donne che lavorano negli insediamenti ha mostrato che la maggioranza delle donne (65,5%) ha un reddito giornaliero inferiore a 100 shekel/giorno (25 euro circa), che è meno della metà del salario minimo nella stessa Israele. Questa disparità salariale è particolarmente preoccupante, dato il tasso di inflazione di Israele che, a settembre 2024, si attestava al 3,5%. La stragrande maggioranza delle donne che lavorano negli insediamenti israeliani (94%) non ha contratti scritti. Più del 71% ha segnalato le lunghe ore di lavoro. Le interviste con donne impiegate negli insediamenti hanno rivelato che una parte significativa di loro lavora su due turni (mattina e sera) per guadagnare abbastanza denaro, il che causa stress cronico mentale e fisico. Secondo l’indagine condotta dalla Mother School Society un sorprendente 93% di donne ha riferito di lavorare in condizioni malsane e non sicure. Ad esempio, alcune lavorano nei campi con pesticidi pericolosi senza norme di sicurezza o dispositivi di protezione. Le donne hanno riferito di furto salariale e trattenuta dei benefici promessi, discriminazione razziale, nonché molestie, aggressioni sessuali e violenza fisica. Nonostante la sua natura sfruttatrice e i salari bassi, il lavoro negli insediamenti spesso offre retribuzioni leggermente superiori a quelle disponibili nel mercato di lavoro palestinese, rendendolo una necessità per molte. Per le donne la coercizione economica è aggravata dalle pressioni sociali: spesso, esse agiscono come principali o uniche fonti di reddito nelle loro famiglie. Il 60% di loro riferisce che il proprio reddito è la principale fonte di sostentamento della famiglia. La situazione nella Valle del Giordano è emblematica di come l’espansione degli insediamenti israeliani e la repressione economica costringano le donne palestinesi al lavoro di sfruttamento. Oggi, una piccola minoranza di coloni israeliani (circa 12.788) controlla circa il 95% della Valle del Giordano, mentre la maggioranza palestinese si ritrova confinata in un misero 5%. Durante la Guerra dei Sei Giorni circa l’88% della popolazione palestinese nella Valle del Giordano è stata sfollata con la forza. Le conseguenti ondate di confisca di terre da parte del governo israeliano e dei coloni hanno lasciato i restanti 60.000 palestinesi in uno stato sempre più isolato e precario. Le comunità palestinesi nella Valle del Giordano soffrono una grave carenza idrica dovuta a queste restrizioni a politiche che impediscono alle comunità di costruire infrastrutture legate all’acqua. Questa privazione sistematica costringe le famiglie palestinesi nella Valle del Giordano a spendere una gran parte del loro reddito per l’acqua, erodendo le basi dei loro mezzi di sussistenza e, in violazione anche dei diritti più elementari, impedendo loro l’attuazione di pratiche agricole sostenibili. Nei villaggi di Al-Jiftlik e Al Zubeidat, più della metà della forza lavoro femminile è impiegata negli insediamenti israeliani invece che nell’economia locale: il 63% e il 50% delle lavoratrici di Al-Zubeidat e di Aljiftlik rispettivamente lavorano in questi ambienti di sfruttamento. Nell’ottobre 2023, circa il 26% delle donne impiegate in questi insediamenti ha perso il lavoro. Rompere questo ciclo di dipendenza richiede lo smantellamento dei sistemi di occupazione e di repressione imposti da Israele. Ciò significa affrontare le barriere strutturali che perpetuano la povertà e lo sfruttamento, creando al contempo opportunità per potenziare le donne palestinesi e fortificare le comunità. Rivitalizzare l’economia palestinese non è solo necessario, ma urgente. Richiede di garantire l’accesso dei palestinesi alla terra e alle risorse, porre fine allo sfruttamento del loro lavoro e consentire loro di costruire economie locali resilienti. Per questo le raccomandazioni fornite da Oxfam agli stati terzi e alla comunità internazionale sono importanti. Ne citiamo alcune: esercitare pressione sul governo di Israele affinché rispetti il diritto internazionale, smantellando gli insediamenti illegali, cessando le violazioni dei diritti e ponendo fine alla sua occupazione illegale e rispettando le misure delineate nel Parere Consultivo della Corte Internazionale di Giustizia (CIG) sull’illegalità delle politiche e pratiche israeliane nei territori occupati. Interrompere i trasferimenti di armi e l’assistenza militare a Israele che consentono l’espansione dell’insediamento e la violazione dei diritti. L’UE dovrebbe sospendere il suo accordo di associazione con Israele ai sensi dell’articolo 2, fino a quando Israele non interromperà le attività di insediamento e rispetterà il diritto internazionale. L’ANP e i suoi ministri dovrebbero: sviluppare e attuare politiche che creino opportunità di lavoro per le donne nelle industrie locali, al fine di ridurre la loro dipendenza dall’impiego negli insediamenti. E ancora: istituire centri di sviluppo aziendale nelle zone rurali per sostenere le donne imprenditrici e fornire loro una formazione professionale mirata alle esigenze del mercato. Ampliare i programmi di protezione sociale al fine di assistere le donne che abbandonano il lavoro negli insediamenti e offrire sostegno finanziario per opportunità di lavoro alternative. Rafforzare i programmi di lavoro che offrono alle donne opportunità di lavoro alternative, in particolare in settori quali l’agricoltura, l’artigianato, e la trasformazione alimentare. Sviluppare iniziative economiche rurali al fine di promuovere la crescita del lavoro locale e i mezzi di sostentamento sostenibili per le donne palestinesi. Sviluppare e attuare politiche che creino opportunità di lavoro per le donne nelle industrie locali. Istituire centri di sviluppo aziendale nelle zone rurali al fine di sostenere le donne imprenditrici. Ampliare i programmi di protezione sociale al fine di assistere le donne che abbandonano il lavoro negli insediamenti. Rafforzare i programmi di lavoro che offrono alle donne opportunità di lavoro alternative. Sviluppare iniziative economiche rurali al fine di promuovere la crescita del lavoro locale. É poi urgente estendere la platea dei donatori e istituire fondi di emergenza al fine di fornire sostegno finanziario o in natura temporaneo alle donne che abbandonano il lavoro negli insediamenti. Ciò contribuirebbe a coprire i loro bisogni di base mentre cercano un impiego alternativo. -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Il lavoro delle donne palestinesi proviene da Comune-info.
Grazie Bergoglio
-------------------------------------------------------------------------------- 2023: Bergoglio incontra Mediterranea Saving Humans. Foto di Mediterranea -------------------------------------------------------------------------------- Ci vorrà ancora molto tempo prima che la Chiesa – che ha assunto in sé il femminile come Madre Chiesa – abbandoni la visione tradizionale dei generi e la condanna della donna che interrompe volontariamente una gravidanza. Sulla figura della Madonna, la Chiesa cattolica ha costruito la sua comunità di “uomini celibi”. “I comportamenti delle donne e indirettamente degli uomini si dovevano misurare con un immaginario femminile cattolico – si legge nel libro di Luisa Accati, Il mostro e la bella (Raffaello Cortina Editore 1998) – dominante nel costume e nella cultura: il modello di Madre – Vergine, centrato sul ruolo materno nella sua accezione di protezione e cura dei figli”. Ma ci sono anche voluti secoli prima che comparisse un papa che ne avrebbe ricordato le origini evangeliche, impugnandole con tanta passione contro gli orrori con cui i grandi poteri oggi stanno portando morte e devastazione del mondo. Tra la valanga dei riconoscimenti e degli attestati di affetto che ha fatto seguito sui social alla notizia della sua morte, non sono mancati commenti, soprattutto da parte di alcune donne, femministe, che hanno voluto ricordare i suoi giudizi misogini contro l’aborto. Purtroppo, bisogna dire che le logiche di guerra si riproducono anche quando parliamo dell’individuo, contrapponendo in lui il buono e il cattivo e cancellando quella delle due parti che non ci corrisponde o non ci piace. Quando papa Bergoglio ha condannato come “assassinio” l’aborto, io, come del resto hanno fatto tante altre femministe, ho criticato molto duramente quello che poteva diventare un “incitamento all’odio”. Ma ho continuato a riconoscergli un impegno tenace e coraggioso sulle questioni sociali di primo piano nella deriva autoritaria e bellicista in cui sta precipitando il mondo. Era una lucidità e una determinazione che non avvertivo nella maggior parte di politici e intellettuali che si considerano di sinistra. Il valore di una persona va visto nel contesto in cui vive e si forma, nelle contraddizioni e ambiguità di ogni vita, nelle scelte che non ci piacciono, come nella possibilità che possano cambiare. Andare incontro a tutti, porsi al di fuori del cerimoniale e delle regole che è tenuto a rispettare una figura sacra come il rappresentante di Dio in terra, cercare il dialogo tra potenze che si combattono per il dominio del mondo, e dire nel medesimo tempo che “non è con le armi che si arriva alla pace”, è l’umanità di chi sa vedere contrasti e limiti dentro di sé, prima che negli altri. Sta in questo la meritata “popolarità” dalle radici cristiane del papa che, come il suo lontano omonimo, Francesco D’Assisi, ha rivoluzionato la Chiesa e stupito il mondo. “Obiettivo di Francesco – scrive Antonio Attisani nel suo libro La rivoluzione artistica di Francesco – non è mai quello di proporre un comportamento esemplare, bensì di fare comprendere qualcosa con una chiarezza inequivocabile. Lo scopo dell’azione e l’energia impiegata configurano un elementare ma potente rito di iniziazione, nel corso del quale la comprensione di un principio è appunto trasmessa fisicamente”. Non diverso è stata la parte che ha avuto il corpo di Bergoglio – la voce, i gesti, le espressioni del viso – nella spontaneità e nel calore verso chiunque lo incontrasse. Circondati da patriarchi, da maschilisti, da mariti che uccidono, da uno scatenamento di virilismo guerriero, come è possibile non essere in grado di riconoscere la speranza e la forza che ci ha dato quest’uomo sulla possibilità di dire no a tutti gli orrori da cui siamo circondati, e capire che non ha senso chiedergli qualcosa che è lontano dalla sua storia e purtroppo lo sarà ancora a lungo per tutte le religioni? Possiamo vedere il suo valore e insieme i suoi limiti? Mi rendo conto che con il populismo che avanza in vari Stati del mondo è sempre più difficile capire in che cosa sia diversa la “popolarità” che circonda una persona, il suo pensiero e il suo operato. Nell’ultimo caso si tratta di gratitudine e amore meritati e ricambiati, nell’altro dell’uso di bisogni, emozioni, sentimenti, speranze, spinte viscerali, al solo scopo di raccogliere consensi per finalità opposte. Nella giornata della sua morte, il dolore per la perdita di un papa che ha fatto della predicazione di Cristo la sua missione culturale, etica e politica, si è alternato con la gioia profonda di constatare quanto le sue parole, i suoi scritti, le sue molteplici apparizioni pubbliche da “uomo come tanti”, siano in questi giorni più vive e presenti che mai, esempio di lotta e resistenza non violenta che forse non dimenticheremo. A chi ha fatto notare che, nonostante la forte presenza di un papa combattivo per la giustizia, per le vittime della guerra, della povertà, dei regimi autocratici, dello sfruttamento capitalista, delle migrazioni, delle devastazioni climatiche, le conversioni alla religione non sono aumentate, forse non è inutile ricordare che la parola di Cristo non ha inteso costruire un regno ma una visione dell’umano incentrata sull’amore, la solidarietà, la compassione. Forse a volte basterebbe dire grazie. -------------------------------------------------------------------------------- Pubblicato anche sul manifesto. Lea Melandri ha aderito alla campagna Partire dalla speranza e non dalla paura -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Grazie Bergoglio proviene da Comune-info.
Quel cordone ombelicale che lega ancora la donna alla madre
CHE COSA TEMONO DI PERDERE OGGI DONNE CHE HANNO CONOSCIUTO, INSIEME A DIRITTI E LIBERTÀ, LA STRAORDINARIA FORZA CHE VIENE DA UN MOVIMENTO COME IL FEMMINISMO, DALLA COMPARSA DI “SOGGETTI NON BINARI”, PERSONE TRANSGENDER DAL MASCHILE AL FEMMINILE? unsplash.com -------------------------------------------------------------------------------- Neppure la diversità biologica tra un sesso e l’altro sembra rientrare in un binarismo perfetto. Ma, sicuramente, a marcare una differenza e una contrapposizione netta, nella loro complementarità, sono le identità o costruzioni di genere. Nate dall’immaginario dell’uomo figlio, come proiezione sulla donna madre della parte più inquietante dell’umano – un corpo che lo ancorava alla nascita e alla morte, alla materia vivente, alle pulsioni incontrollabili della sessualità -, le figure o i ruoli del maschile e del femminile, non potevano non entrare in urto, sia pure con accentuazioni diverse per ogni singolo e singola, con il sesso di appartenenza. Già agli inizi del Novecento, è la voce di Sibilla Aleramo a nominare l’impossibilità di far coincidere la sua femminilità con il ruolo materno: “In me la madre non si integrava con la donna”. Non era il rifiuto del suo sesso, né di un corpo capace di procreare che la spingeva a cercare per sé una collocazione diversa da quello che era ancora considerato il “destino naturale” della donna, ma la consapevolezza di quella “inumana idea” che è “l’immolazione materna”. Pochi decenni dopo, è Simone de Beauvoir a scrivere: “Donne non si nasce, si diventa”, e a riprenderla con consapevolezze nuove sarà la generazione del femminismo degli anni Settanta. Il primo passo di un processo di liberazione da modelli imposti è cominciato perciò riconoscendo che i corpi arrivano alla storia già segnati, o come si dice oggi, “performati”, dalla cultura patriarcale. Un copione, che interessa sia uomini che donne, ha pesato per millenni come una corazza sulle loro vite, con la sola differenza che agli uni è stato dato il privilegio di governare il mondo in quanto “natura superiore” e alle altre di garantire loro le cure essenziali per la sopravvivenza. L’alienazione prodotta dalle gabbie del femminile e del maschile si può pensare che abbia comportato per entrambi i sessi adattamenti, sofferenze, ribellioni e diserzioni, raggiri, desiderio di vie di fuga. Se i rapporti di potere e le violenze che vi si sono accompagnate si sono fatti strada nella coscienza storica con tanta lentezza, forse è proprio perché ognuno dei due generi ha continuato a cercare nell’altro l’interezza mancante al proprio essere. Il femminismo, nelle sue manifestazioni più radicali, non poteva evitare di chiedersi quanto il fatto di aver incorporato la rappresentazione del mondo di un “padre padrone”, che non aveva mai smesso di esserle anche figlio, avesse spinto la donna a strappare da quel ruolo un qualche potere e piacere, a farsi forte, contro l’assoggettamento, della certezza della sua indispensabilità. Un cordone ombelicale senza tagli, se ha rassicurato un uomo figlio di poter perpetuare nella sua vita adulta le cure ricevute nell’infanzia, per l’altro ha dato alla donna la possibilità di trovare nel suo essere madre un riconoscimento. Non si spiega altrimenti l’ammirazione femminile di cui hanno goduto i teorici dell’amore romantico, come Jules Michelet e Paolo Mantegazza, nel sovrapporre la relazione filiale materna alla relazione amorosa adulta. “Finché il cuoricino della nuova creatura batte dal profondo delle viscere materne – scrive Mantegazza ne Le estasi umane (P. Mantegazza Editore, Milano 1887) – il figlio è membro vivo della madre, è carne della carne di lei, è sangue del suo del suo sangue; ma anche quando il frutto si è staccato dal ramo che l’ha nutrito, non cessa per questo di esser membro delle membra materne. L’ovario più non lo abbraccia, ma lo stringono ancora le braccia innamorate, lo riscaldano i baci e le carezze (…) Feto o bambino, fanciullo o giovinetto, uomo o vecchio, il figlio dell’uomo porta sempre sulla pelle, nel cuore, nel pensiero lembi di quel velo materno, che per nove mesi lo ha custodito e alimentato”. Quanto conta il prolungamento dell’amore nella sua forma originaria, che fa di una moglie o di una amante una madre, nella confusione tra sesso e genere? Che cosa temono di perdere oggi donne che hanno conosciuto, insieme a diritti e libertà, la straordinaria forza che viene da un movimento come il femminismo, dalla comparsa di “soggetti non binari”, persone transgender dal maschile al femminile? Nel dichiararsi d’accordo con la sentenza emessa il 16 aprile dalla Corte Suprema britannica, secondo cui una persona transgender con un certificato che la riconosce come donna non potrà essere considerata una donna ai fini della legge e godere perciò delle tutele previste per chi è nata biologicamente femmina, la ministra per le Pari opportunità Eugenia Roccella ha detto: “Le donne hanno fatto una grande fatica, un incredibile percorso verso la libertà e poi si sono trovate scavalcate da uomini che si sentono donne”. E ha concluso che questo altro non è che “una nuova forma di patriarcato” che mette le donne “in condizione di marginalità, subalternità, esclusione, discriminazione”. Adottare a proprio uso categorie che si vorrebbero combattere ormai è diventata la pratica di chiunque si oppone a cambiamenti di un ordine dato, e non meraviglia più di tanto. Allo stesso modo, come si vede dall’acceso dibattito che ne è seguito, non è difficile riconoscere in certe affermazioni, del tipo “donne si nasce”, che uno dei dualismi della cultura patriarcale come “sesso e genere” non ha mai smesso di essere divisivo per il femminismo italiano e non solo. Dalla lettura di tanti commenti che stanno passando sui social, appare chiaro che il materno è ancora visto come destino naturale della donna, e il “genere”, sia pure risignificato e spostato sul piano simbolico, come ha fatto fin dagli anni Ottanta il “pensiero della differenza” nella elaborazione che ne ha fatto la Libreria delle donne di Milano – l’ “ordine simbolico della madre” -, quello assegnato dalla cultura millenaria di un sesso solo. Il pericolo, che non può realisticamente venire da una infima minoranza di persone transgender, sembra ancora quello di perdere l’unico potere che assicura alle donne un riconoscimento. -------------------------------------------------------------------------------- Pubblicato anche sul manifesto del 24 aprile 2025 -------------------------------------------------------------------------------- Lea Melandri ha aderito alla campagna Partire dalla speranza e non dalla paura -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Quel cordone ombelicale che lega ancora la donna alla madre proviene da Comune-info.