
Ogni chiave agitata tra le mani è una promessa
Comune-info - Sunday, November 23, 2025
Foto di Cecilia Casula“Una donna che parla è una minaccia per chi vuole che stia zitta“:
(Elif Shafak)
Il 22 novembre Roma si è tinta di viola. Migliaia di persone, migliaia di voci, un solo grido: basta. Da Piazza della Repubblica a Porta San Giovanni, la città è diventata un fiume umano in movimento. Striscioni con i nomi delle donne uccise quest’anno sventolavano come bandiere di una guerra che non dovremmo combattere.
Ogni nome era un grido silenzioso. Ogni passo, un richiamo alla città intera: la violenza contro le donne non è un fatto privato, non è una statistica da archiviare tra un caffè e l’altro.
Le chiavi di casa – oggetti quotidiani, banali, necessari – sono diventate simboli di resistenza. Quelle stesse chiavi che aprono le porte delle nostre case, luoghi che dovrebbero essere rifugio ma che troppo spesso diventano prigioni. Leggere tra le mani dei manifestanti, perché simbolo di libertà. Pesanti nel loro significato, perché ricordano quanto sia ancora lungo il cammino verso una società che protegga davvero le donne.
In mezzo alla folla, tra musica e fumogeni, bandiere palestinesi e trans, il messaggio era chiaro: la violenza di genere è sistemica, culturale, politica. Non basta la repressione se non cambia la mentalità. Non bastano le leggi se la cultura resta immobile.
Le parole che feriscono
Ma mentre le strade parlano di cambiamento, nei palazzi del potere risuonano parole di un’altra epoca. Proprio in questi giorni, dentro sale istituzionali lontane dal rumore della piazza, cadono affermazioni che sembrano arrivare da un altro secolo. Carlo Nordio ed Eugenia Roccella hanno parlato di “forza muscolare genetica”, di maschilismo biologico, di violenza millenaria e quindi, implicitamente, inarrestabile. Come se il DNA fosse un destino. Come se secoli di cultura, educazione e civiltà non contassero nulla di fronte a presunte inclinazioni naturali.
È un discorso pericoloso. Deresponsabilizza chi agisce violenza e condanna chi la subisce a un’eterna vittimizzazione. Trasforma il crimine in natura, la scelta consapevole in inevitabile conseguenza biologica. Si predica la civiltà e nello stesso tempo la si nega.
I numeri non mentono
I dati Istat non mentono mai, anche quando vorremmo che lo facessero. Una donna su tre ha subito violenza fisica o sessuale nella sua vita. L’aumento più significativo riguarda le giovanissime tra i 16 e i 24 anni: dal 28,4 per cento al 37,6 per cento in dieci anni.
La violenza arriva da chi conosciamo. Partner. Amici. Conoscenti. Non dall’estraneo nel buio del parcheggio, ma da chi condivide la nostra quotidianità, la nostra intimità, la nostra fiducia tradita.
E le denunce? Solo il 3,8 per cento delle vittime si rivolge alle forze dell’ordine. Il resto resta nel silenzio, avvolto dalla paura, dalla vergogna, dalla sfiducia in un sistema che troppo spesso non protegge.
L’educazione come arma di prevenzione
Qui entra in gioco la scuola. La manifestazione ha ricordato una verità scomoda: prevenire la violenza non significa solo inasprire le pene. Significa educare. Insegnare ai giovani il rispetto, l’empatia, la parità. Insegnare la consapevolezza dei propri diritti e di quelli altrui.
L’educazione sessuo-affettiva, quando ben strutturata, è uno strumento potente per interrompere la catena di violenza culturale che si tramanda di generazione in generazione. Ignorarla, come sostengono alcuni esponenti governativi, non è solo un errore: è una scelta. Una scelta che condanna le future generazioni a ripetere gli stessi schemi, gli stessi orrori, le stesse tragedie annunciate. È come lasciare le chiavi della città nelle mani di chi non sa riconoscere il valore della libertà altrui.
La marea non si ferma
In questa tempesta di numeri, di dolore, di storie negate, la manifestazione di Roma è stata un faro. Non Una di Meno e tutte le persone che hanno camminato insieme hanno ricordato che la prevenzione, l’educazione e il sostegno alle vittime non sono optional. Sono la base di una civiltà degna di questo nome. Ha scritto Marguerite Yourcenar: “Chiunque abbia sofferto sa che la violenza non ha mai forza sull’anima che resiste”.
La marea viola non si placa alla fine del corteo. Resta nei cuori, nei pensieri, nella coscienza di chi sa che la violenza di genere non si cancella con dichiarazioni inadeguate di chi governa, ma con azioni concrete. Con l’ascolto. Con la cultura del rispetto. Con la giustizia.
Ogni chiave agitata tra le mani dei manifestanti è una promessa: questa lotta non finirà finché ogni donna non potrà dire “Sono libera, sono al sicuro, sono ascoltata”. E quella promessa ci riguarda tutti. Chi manifesta e chi guarda. Chi governa e chi subisce. Chi parla e chi, finalmente, decide di ascoltare.
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Contro la legge del potere di morte
ALCUNE FOTO DEL CORTEO A ROMA DEL 22 NOVEMBRE:

Foto di Barbara Bonomi Romagnoli
Foto Cgil Roma
Foto Marta Bonafoni
Foto Donna Mancina
Foto di Ass. Differenza donna
Foto Robera Parravano Diawara
Foto di Aurelio in comune
Foto di Patrizia Piras
Foto di Cattive ragazze
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