Lo stato patriarcale è uno stato di guerra

Comune-info - Thursday, November 13, 2025
unsplash.com

L’intreccio mortifero di guerre, genocidi, riarmi, tregue e finte paci sta mostrando con tutta evidenza la radice delle dinamiche e dei costrutti del nostro modello di civiltà androcratico. Il suo orizzonte culturale è quello della guerra, che è sempre possibile e inevitabile, sempre presente in potenza e spesso in atto, un dato di fatto che non ha mai subito alcuna interruzione, almeno negli ultimi quattro, cinquemila anni. Ciò che in modo eloquente, una parlamentare norvegese, Berit Ås, ha sintetizzato con la frase “lo stato patriarcale è uno stato che si sta riprendendo dalla guerra, è in guerra o si sta preparando alla guerra”.

Nella tradizione politica occidentale, ma non solo in questa – il modello antropologico patriarcale è virale – scontri e conflitti, contese armate e violenza organizzata sono l’esito culminante dei rapporti di forza tra uomini nella costante lotta per il potere. La cosiddetta pace – l’assenza temporanea di belligeranza mediante un armistizio – risulta la condizione più probante per mantenere uno stato incessante di guerra, che continua infatti a esistere dietro la pace fittizia e l’ordine apparente. Attraverso il travestimento di fatti che non appaiono immediatamente bellici e che tuttavia li presume – spese militari, preparazione della difesa, continua produzione di armi, condizioni di austerità, cicli economici legati alla ricostruzione dei territori devastati ecc. –, la guerra replica modularmente sé stessa sotto mentite spoglie, delineandosi come parte costituente di questa formazione storica in un intreccio inestricabile con la politica. È quasi praticamente impossibile fare un’analisi della guerra senza confrontarsi con il patriarcato.

Interrogare i modi con cui vengono costruiti gli archivi e le teorie che costituiscono le nostre visioni del mondo è un’operazione fondamentale per scuotere le nostre abitudini mentali, oltre che per liberarle da molte menzogne. Le teorie che ultimamente circolano nell’ambito degli studi archeologici vedono per esempio la guerra infuriare ovunque e in ogni tempo, dal Paleolitico al Neolitico senza soluzione di continuità, mentre fino a poco tempo gli studiosi la associavano solo agli Stati basati sul dominio. La guerra era stata considerata rara e irrilevante nella storia degli inizi, perché erano semmai gli scontri e le faide a caratterizzare i conflitti, e non la violenza organizzata su larga scala, come avviene nelle civiltà strutturate in Stati gerarchici con un esercito permanente e un’autorità di comando. I conflitti e gli scontri delle epoche antiche non sono dunque equiparabili alla guerra, né tantomeno si possono definire belligeranti epoche della storia umana come il Paleolitico e il Neolitico. L’uso indiscriminato del termine “guerra” contribuisce a creare un’ideologia della guerra infinita, connaturata all’essere umano.

Nell’analizzare la teoria della guerra eterna, Goettner-Abendroth riporta le tesi di Lawrence Keeley, diventato oggi un modello di riferimento per l’archeologia contemporanea, mettendo in luce il metodo con cui costruisce le sue argomentazioni. Per corroborare la tesi della guerra eterna, scrive la studiosa, Keeley interpreta qualsiasi muro o fossato che circonda un villaggio neolitico come una fortificazione di tipo militare, quando poteva trattarsi più verosimilmente di sistemi di difesa contro gli animali selvatici o per drenare l’area d’insediamento nelle zone umide, e le mura per proteggersi dalle inondazioni e dal fango dei fiumi circostanti, oppure, ancora, fungere da luoghi di sepoltura, come testimoniano molte prove recenti. Allora, viste le tante possibilità, un’affermazione come “la violenza tra i villaggi aumenta proporzionalmente ai fossati” – la tesi di Keeley – risulta quantomeno bizzarra. Le tombe contenenti punte di freccia in selce, continua Goettner-Abendroth “non esprimono più doni per i defunti ma strumenti di morte, come se quasi nessuno potesse essere morto per cause naturali”, e le tombe con eccezionali cumuli di ossa, ordinate o alla rinfusa, sono senza eccezione prova di massacri, quando sappiamo che all’epoca esisteva la consuetudine di sepolture secondarie (Goettner-Abendroth, Le società matriarcali del passato e la nascita del patriarcato, Mimesis, 2023).

La studiosa si chiede poi cosa abbiano a che fare con la violenza i meravigliosi terrapieni ovali o circolari dell’Europa centrale neolitica, che oggi sappiamo essere stati luoghi d’incontro, una sorta di templi a cielo aperto che svolgevano funzioni astronomiche, cerimoniali e sociali. Questa teoria, come molte altre che oggi vedono la guerra ovunque e in qualsiasi epoca “soddisfano però la proiezione nell’era neolitica delle condizioni a cui siamo abituati nel patriarcato”, scrive l’autrice.

Allo stesso tempo, Goettner-Abendroth critica la narrazione edulcorata delle società “pacifiche” promossa da certe letture semplificate, secondo le quali tutti i conflitti dovrebbero essere sempre risolti in modo non violento, tutti dovrebbero essere “madre” e amarsi l’un l’altro, regole e sanzioni non avrebbero ragione di esistere, tutti dovrebbero essere vegetariani e non tagliare gli alberi e così via. Anche se la proiezione in questo caso è positiva, non si tratta comunque di un miglioramento. Il punto è che un certo numero di società, in particolare quelle matriarcali, hanno saputo sviluppare una vasta gamma di strategie per la risoluzione dei conflitti e per il mantenimento della pace, grazie a strutture sociali e a valori culturali che non glorificano la violenza, di conseguenza la guerra non viene celebrata.

Prendere sul serio le organizzazioni sociali che hanno preceduto i nostri sistemi patriarcali, o altre forme di convivenza differenti da quelle che la modernità occidentale ha esportato, ci aiuta a capire la storia culturale dell’umanità in modo più differenziato e da più lati, e a smettere di proiettare i consueti valori patriarcali oltre che sul passato sul presente, e prendere così confidenza con altri principi. La rete dei codici si arricchisce, l’ordine dei segni si modifica, e con essi i presupposti per creare strutture improntate a un diverso modello antropologico. Può succedere che col tempo, il tempo si apra.

La guerra si è imposta ormai come “regime di verità”, è la bolla epistemologica in cui siamo immersi, ciò che fa sì che certi discorsi – la guerra è una componente innata della natura umana, è ineluttabile, sorge in parallelo ai primi villaggi – siano unanimemente accettati. Una verità che ha finito per funzionare storicamente attraverso la replicazione di idee, norme, dispositivi di sapere, codici, che vivificati continuamente dalla ripetizione di miti e modi ad hoc di formare le esperienze, si è affermata come dato universale, naturale e immutabile. Questo sistema eterogeneo di disposizioni, di cui la forza e il potere sono i valori trainanti e le alchimie militari i mezzi più efficaci per convalidarne e riprodurne la struttura, si è infine installato nei corpi e in tutti i luoghi dell’esistenza umana, mantenendo un ordine sociale la cui patologia oggi è sotto gli occhi di tutti.

Oltre ad abituarci alla verità della guerra, il nostro sistema di pensiero ci ha abituato all’idea di un patriarcato universale come fenomeno nato insieme alla cultura umana, che esiste da sempre, con le sue lotte intestine, guerre, le sue strutture parentali, i suoi scambi di donne, il suo dio e il suo dominio. Le scoperte dell’archeologia nel corso del Novecento ci consentono oggi di definire un quadro della storia della civiltà molto più ampio, complesso e differenziato, che dimostra, come scrive Luciana Percovich che “le datazioni consuete e le localizzazioni convenzionali ed eurocentriche della ‘culla della civiltà’ indicano semplicemente l’inizio di una civiltà, molto giovane e patriarcale, quella originata dall’urto delle invasioni indoeuropee tra l’Età del bronzo e del ferro, e a esse successiva. Ciò che finora abbiamo ritenuto la Storia della Civiltà è solo una tra le tante narrazioni, quella degli ultimi vincitori” (L. Percovich, Oscure madri splendenti. Le radici del sacro e delle religioni, Venexia 2007).

George Orwell, nel romanzo 1984, immagina un’epoca in cui un “Ministero della Verità” riplasma ogni idea e riscrive il presente secondo le esigenze del nuovo regime, cancellando tutto quello che prima era vero. Ma tutto questo è già successo molto tempo fa nei tempi antichi, ci ricorda Riane Eisler nel suo libro Il Calice e la Spada, il cui titolo fa riferimento a due metafore che rinviano a un modello sociale mutuale e a uno dominatore.

L’allontanamento della memoria dei fatti nella dimenticanza e nell’oblio è una tecnica di controllo culturale e politico che si ripete nel tempo, ma esiste una cancel culture di più forte impatto che ha fatto da spartiacque tra un prima e un dopo, un dopo che è ancora il nostro oggi: il lungo periodo durante il quale le antiche società dell’Europa e del Mediterraneo, e di altre parti del mondo, diedero vita a modelli di vita improntati ai valori della convivenza e della collaborazione; un’idea diversa di cultura, dove conflitti, scontri e contese non furono con ogni probabilità del tutto assenti e tuttavia non costituirono il telos dell’ordine sociale.

Per quanto riguarda l’Europa Antica, sappiamo che tra il 6500 e il 3500 a. C. circa, e a Creta fino al 1450 a.C., le società non erano costituite da piccoli villaggi sparsi abitati da selvaggi, ma da stanziamenti che raggiunsero anche le dimensioni di vere città, dotate di vaste reti di comunicazione e scambi, ricche di arte e cultura, prive di centri di comando, gerarchie ed élite. Le sue genti non produssero armi letali, non eressero bastioni in muratura e altre strutture difensive, come avrebbero fatto la maggioranza dei nostri antenati a partire dall’Età del bronzo. Eressero invece templi alti diversi piani, magnifiche tombe-santuari, case spaziose, e crearono raffinate ceramiche e sculture. Vantavano una scrittura sacra, e tessitori e tessitrici, esperte ed esperti specializzati nella lavorazione dell’oro e del rame, e artigiane e artigiani che producevano un’ampia gamma di sofisticati manufatti (M. Gimbutas, La Civiltà della Dea, Vol 1, Stampa Alternativa, 2012). E in Anatolia, nella città di Çatal Hüyük, dei 150 dipinti murari sopravvissuti che decoravano gli innumerevoli templi, non ve ne è uno che rappresenti una scena di conflitto o di lotta, né di guerra o tortura. Fu un periodo di notevole creatività e stabilità, un’età contraddistinta da un convivere non belligerante.

Grazie all’approccio multidisciplinare di Marija Gimbutas, che combina archeologia, mitologia, linguistica e storiografia, consentendole di calarsi nella realtà sia materiale sia spirituale di quelle epoche, sappiamo che a ispirare e a modellare le vicende degli umani era una figura cosmogonica femminile, increata, che esisteva da sempre, immanente alla natura, Signora della vita, della morte e della rigenerazione e guardiana dei suoi misteri. In nessun documento preistorico sono state trovate infatti immagini di un dio padre del cielo, creatore, signore degli eserciti. Le donne svolsero un ruolo decisivo nel mantenere un equilibrio tra i sessi e con agli ecosistemi, grazie a un’interconnessione costante di terra, cosmo, umanità nel rispetto della vitalità della materia. Quelle culture ci consegnano un notevole corpo di modelli culturali, politici, economici e spirituali non ancora mediati dalle dinamiche del potere patriarcale e dalla sua mitografia western, intrisa di tirocini dell’uomo eroe-guerriero sprezzante del pericolo che tronca con la vita dei corpi, delle donne, dei figli e delle relazioni. È appena un taglio, ma può farci vedere ciò che s’invola al di sopra della nostra stantia attualità.

Atene, nel V secolo, al culmine dell’organizzazione civica e del sistema democratico, non aveva dimenticato ancora del tutto l’esperienza di quel passato, ma non potendo più ammetterla nel discorso ufficiale civico già governato dall’unica verità patriarcale, la dislocò nello spazio del teatro, nella tragedia. Derealizzato e neutralizzato, il grido della memoria di un tempo governato da una grammatica diversa del vivere e il ricordo di eventi accaduti in un antico passato che continuavano a dividere la città, poterono essere così reintegrati nella polis. Nicole Loraux ha scritto libri fondamentali sull’oblio della divisione iniziale connaturata al Politico in Occidente, rimettendo in discussione i temi della democrazia, dell’esclusione del femminile dalla città, del non detto. La studiosa ci invita a produrre una sorta di corto-circuito tra presente e passato e a connettere eventi distanti tra loro in un esercizio di contro-memoria, di “anacronismo controllato”, non tanto per rintracciare delle similitudini, quanto invece per “andare verso il passato con delle domande del presente per ritornare verso il presente”.

Il pensiero teorico e le pratiche prodotte dalle donne in un secolo e mezzo di decostruzione della realtà patriarcale hanno scompaginato gli assetti sociali e le rappresentazioni simboliche della forza e del potere, una rivoluzione antropologica lunga, lenta e complessa, non priva di conflitti e diaspore, che continua tuttavia a mettere in campo un’idea differente di politica. Relazione, interdipendenza, cura, vulnerabilità, orizzontalità sono tra i concetti più ricorrenti per risignificare la base di una politica non violenta. Un corpo di pensiero estremamente ricco, articolato e differenziato, poco frequentato dall’intellighenzia maschile, e oggi spesso contaminato da un certo attivismo performativo che rasenta l’autoreferenzialità, come stiamo vedendo anche in questi giorni. Ma la potenza del femminismo è un campo magnetico che continuerà a ravvivare il nostro coraggio creativo, portandoci oltre i cedimenti, le intrusioni e i patriarcalismi di ritorno.

Mi piace evocare una tra le più potenti creatrici di pensiero del femminismo radicale, Mary Daly, che con le sue opere ci ha insegnato a “volare attraverso terre malvage, tempi malvagi”, aprendo nuovi spazi e dimensioni di lotta sintonizzati anche sull’attivismo psichico: sincronicità, ginergia, presenza transtemporale delle nostre antenate. Scrive in Quintessenza: “Serve che le donne rimuovano le immagini che riflettono e rinforzano le strutture e il marchio del folle sado-stato patriarcale. Serve che le donne pratichino un esorcismo”. E Isabelle Stengers, in Stregoneria capitalista. Pratiche di uscita dal sortilegio, scrive che il sistema capitalista è una forma contagiosa di possessione collettiva che funziona come un incantesimo, una sorta di stregoneria che cattura gli esseri umani bloccandone i pensieri, le percezioni, i desideri. “È necessario un contro-sortilegio che attivi nuovi modi di apprendere il mondo e la materia che lo abita”.

Forse, la patologia generale di questo sistema ha finito per installarsi come un virus nelle nostre cellule, che oggi si ribellano e si mobilitano per cercare nuove risorse fuori dai percorsi stretti dell’asfittica razionalità occidentale. Esiste una profonda stratificazione di depositi di memoria nei nostri corpi che va oltre l’economia del ricordo tracciata nei supporti, nei documenti, per quanto testimonianze, tracce e documenti siano sempre più numerosi da quando archeologhe, antropologhe e storiche sono scese in campo per raccontare un’altra storia. Stati, modi del corpo che risalgono a una coscienza mitico-psichica, potenziali dormienti, chimiche corporee di un tempo altro. Se liberiamo la magia dalla facciata retriva che secoli di esasperato positivismo, e oggi di disciplinamento neoliberale, hanno provocato ai nostri sistemi percettivi e alle nostre potenzialità mentali orientandoli verso un’unica direzione, riusciremo nuovamente ad attivare nuove sensibilità e intelligenze per ritrovare il piacere e la meraviglia per una “nuova danza del presente”.

All’ONU, intanto, c’è già chi grida al rogo, al rogo, una strega col suo libro degli incantesimi si aggira nelle nostre stanze! L’appellativo di strega pronunciato da un ottuso fantoccio del potere ci offende, ma questa parola per noi ha tutta un’altra storia, la storia di quante nel corso del tempo hanno saputo vedere e nominare, scavalcando la rete delle menzogne.

Infine, che gli attuali criteri dell’istruzione scolastica continuino a proporre la Grecia classica come culla dei nostri valori essenziali, e che i programmi d’insegnamento della storia inizino con un periodo che risale solo al 2000 a.C., cioè in pieno patriarcato conclamato, dovrebbe sollevare qualche interrogativo di fronte all’imponente mole di dati oggi a nostra disposizione. E che l’insieme di società che si erano diffuse nelle valli del Danubio dell’Antica Europa, che fiorirono stabilmente e pacificamente per un periodo di circa tremila anni, rimangano un interdetto per la nostra cultura, nonostante siano la base indigena dell’Europa, è una vera soggezione storica e sociale. “La memoria collettiva umana va rimessa a fuoco… Il Neolitico europeo non è stato un tempo ‘prima della Civiltà’” ci ricorda Marija Gimbutas.

Nell’Europa del riarmo, nella nostra bella Europa foriera di fame, carestie, guerre, conquiste e genocidi, nella nobile Europa della superiorità morale, civile e intellettuale indiscussa dei Socrate, Cartesio, Hegel & co, che qualche mese fa alcuni illustri intellettuali hanno brandito come vessillo di eccellenza mondiale, le antiche culture danubiane e dell’Egeo ci raccontano che l’umanità è stata capace anche di non scegliere le catene, il sangue, l’orrore. Non conosciamo i nomi dei loro filosofi e delle loro donne di pensiero, ma possiamo ammirarne i loro linguaggi nei meravigliosi affreschi e rilievi, nelle raffinate sculture e statuette, nei templi ornati di simboli che celebrano la vita e non la morte. C’è politica fuori dalla Storia.

L'articolo Lo stato patriarcale è uno stato di guerra proviene da Comune-info.