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La memoria cortissima delle comunità ebraiche italiane
Ormai un fatto mi appare acclarato: le comunità ebraiche italiane soffrono di dipendenza patologica da Israele. In particolare, quelle di Roma e Milano si sono distinte per delle dichiarazioni deliranti con cui tacciano di antisemitismo chiunque osi parlare delle sofferenze dei palestinesi di Gaza e Cisgiordania. Le comunità ebraiche italiane […] L'articolo La memoria cortissima delle comunità ebraiche italiane su Contropiano.
BRESCIA: NESSUN IMMOBILE RICORDERÀ SERGIO RAMELLI, IL CONSIGLIO PROVINCIALE BOCCIA LA PROPOSTA DI FDI
8 consiglieri di maggioranza alla Provincia di Brescia hanno votato a favore della proposta di due consiglieri di Fratelli d’Italia, Daniele Mannatrizio e Tommaso Brognoli, che avevano chiesto di dedicare un immobile a Sergio Ramelli. 9 i voti contrari su 17 presenti. La minoranza è uscita dall’aula, una decisione condivisa dal consigliere leghista Agostino Damiolini e da Laura Treccani di Lombardia Ideale. In questo modo è mancato il numero legale per approvare la mozione. Ramelli, militante del Fronte della Gioventù, era stato ucciso nel 1975 da alcuni militanti della sinistra extraparlamentare legati ad Avanguardia Operaia. La proposta di dedicare una proprietà della provincia a Ramelli aveva alimentato il dibattito politico e l’iniziativa era stata bollata da partiti, associazioni e sindacati che si riconoscono nella storia democratica e antifascista della Repubblica, come “di chiaro carattere propagandistico e strumentale, già messa in atto in altre realtà territoriali”. Si tratta della “strategia revisionista di un mondo politico che, anziché recidere le proprie connessioni con la forma peggiore assunta dal fascismo storico, quello della Repubblica Sociale Italiana, persegue il mantenimento di atteggiamenti ambigui e revisionisti”. Nel comunicato contrario alla proposta “provocatoria” si erano uniti PD, Rifondazione Comunista, Sinistra Italiana, AVS, Movimento 5 Stelle, Al lavoro per Brescia, Provincia Bene Comune e Brescia Attiva, CGIL, CISL e UIL, ANPI, Fiamme Verdi e ANED. La strategia di FdI per intitolare spazi pubblici a Ramelli prosegue in tutta Italia, ma non sempre attecchisce: nel bresciano lo scorso mese il Consiglio comunale di Mazzano aveva bocciato la proposta. A Lonato invece era passata a fine maggio, tra le proteste della cittadinanza. Il consigliere provinciale proponente e capogruppo di FdI, Daniele Mannatrizio, ha dichiarato che “per garantire comunque l’approvazione della mozione, verrà convocato un Consiglio provinciale straordinario per lunedì prossimo 4 agosto, a dimostrazione della ferma volontà politica di portare a compimento un atto di memoria e di civiltà”. Il commento di Francesco Bertoli, segretario generale della CGIL di Brescia. Ascolta o scarica
Militarizzazione dei lavoratori e fascismo aziendale
“Lei è già stato più volte punito per aver parlato in pubblico e alla stampa dei carichi di armi all’Aeroporto Montichiari di Brescia…lei ha rivendicato il diritto dei lavoratori di non essere addetti al carico e scarico delle armi… lei è venuto meno ai suoi doveri di fedeltà all’azienda.. lei […] L'articolo Militarizzazione dei lavoratori e fascismo aziendale su Contropiano.
Controllo e censura nelle scuole italiane: segnali evidenti di fascismo eterno
I segnali, abbastanza diffusi e premonitori, erano evidenti già prima, così come i segnali di un fascismo latente erano già manifesti prima nel 1922 nel suprematismo bianco, nel colonialismo muscolare, nel meccanismo repressivo delle opposizioni, nel razzismo biologico. Tuttavia, quei segnali divennero con il passare del tempo sempre più chiari e inconfutabili, ma anche condivisi dalla popolazione intera, intortata ad arte dall’apparato informativo di sistema e da quello scolastico, che lasciavano sempre meno spazio al pensiero critico e divergente. Analogamente, al giorno d’oggi diventa palese e incontrovertibile il diffuso processo di controllo dell’operato e dell’universo simbolico che si costruisce nelle scuole pubbliche, nonostante questo sia stato messo opportunamente al riparo dalla nostra Costituzione mediante il principio ella libertà educativa e del pluralismo culturale, che non richiedono di prestare giuramenti nei confronti di una qualche ideologia totalitaria, tirannica e antidemocratica.  Questa premessa potrebbe essere anche sufficiente per trasmettere, da docenti ed educatori, la nostra preoccupazione relativamente al clima che da qualche tempo si vive nelle scuole, un clima che provammo a documentare in uno dei momenti più cupi della nostra storia, cioè durante le prove tecniche di regime, ma allora c’era la pandemia e l’emergenza sanitaria imponeva di mettere davanti a tutto, anche davanti alla libertà soggettiva di trattamento sanitario, l’interesse collettivo e così con lo slogan di “sorvegliare e pulire” obbedimmo, ci vaccinammo e tornammo a scuola come soldatini, “armati” di disinfettanti, a sanzionare comportamenti che violassero la regola del distanziamento sociale, umano e fisico. Ma la nostra preoccupazione si è acuita qualche tempo fa, quando un editore poco coraggioso, il bolognese Zanichelli, non ha avuto nulla da eccepire davanti alle intimidazioni del Governo, che ha segnalato l’anomalia in un suo manuale e lui prontamente è ricorso alla sostituzione, al macero, alla rimozione della pagina incriminata. Noi lo abbiamo segnalato su ROARS e poche altre testate hanno avuto l’avventatezza di rilanciare la denuncia.  E, tuttavia, questa pratica di intervenire negli affari della scuola mediante circolari commemorative su ricorrenze imbarazzanti, come quelle sulla celebrazione del 4 novembre, con correzioni revisionistiche, come quelle sulle Foibe, intimidazioni diffuse e sanzioni ad personam, come nel caso di Christian Raimo, sta diventando una pratica abituale. E, allora, come dice Luciano Canfora, in questi casi «è legittimo allarmarsi quando si osservano repliche di quei comportamenti: intimidire l’opposizione con accuse inverosimili, intimidire singoli oppositori con raffiche di querele, metter sotto accusa o delegittimare gli organi di controllo, demonizzare i governi precedenti ventilando “commissioni d’inchiesta” a getto continuo, monopolizzare l’informazione (pronta, per parte sua, all’autocensura), progettare di stravolgere l’ordinamento costituzionale. È un sistema di controllo che potrebbe definirsi “reazionarismo capillare di massa”, facente perno su ceti medi impoveriti, antipolitici e vagamente xenofobi». Certo, ciò che intendiamo segnalare è che questa volta, a differenza del bolognese Zanichelli, il barese Alessandro Laterza, erede di una storica tradizione antifascista che risale nientedimeno che alla collaborazione con Benedetto Croce, non si è lasciato intimidire e ha sostenuto il lavoro dei suoi autori e delle sue autrici Caterina Ciccopiedi, Valentina Colombi, Carlo Greppi e Marco Meotto, storiche di professione, ricercatrici e docenti, dichiarando «Senza ricamarci troppo: siamo nell’anticamera della censura e della violazione di non so quanti articoli della Costituzione».  Ora, se nel caso del manuale di Zanichelli ad essere contestato dal Governo era un passaggio in cui l’ONG Human Rights Watch riferiva di una maggiore disposizione all’accoglienza nell’impianto legislativo del Governo Conte rispetto a quello precedente sotto il dicastero di Matteo Salvini, in quest’ultimo caso è abbastanza curioso il motivo del contendere con intento intimidatorio. Ciò che si contesta, infatti, da parte della deputata di Fratelli d’Italia Augusta Montaruli nel volume di storia per il V anno dei Licei, Trame del tempo, è l’attribuzione di una sorta di continuità tra il fascismo e il partito al governo, la cui direzione è affidata a Giorgia Meloni, cioè lo stesso partito al quale la deputata Montaruli, che chiede ispezioni e accertamenti presso l’Associazione Italiana Editori, appartiene. Insomma, ha davvero del ridicolo questa evidenza autoaccusatoria, se non fosse tragica dal momento che il soggetto dal quale promana è chiaramente incapace di comprendere l’autogol commesso. Basterebbe pensarci un attimo per mettere a nudo il cortocircuito logico e politico in cui si è cacciata l’onorevole. Se, infatti, l’arguta parlamentare si fosse limitata a denunciare l’estraneità del partito guidato da Giorgia Meloni da retaggi fascisti, circostanza ovviamente improbabile giacché viene sbandierata dalla stessa Presidente del Consiglio dei ministri, avrebbe semplicemente smentito gli autori e si sarebbe automaticamente collocata lungo una linea difensiva autoassolutoria conforme allo scopo della denuncia a mezzo stampa. E, invece, al contrario, cosa fa l’onorevole Montaruli? Si spertica nell’intimidire in maniera fascistoide degli storici, i quali hanno avuto l’ardire di rilevare il retaggio fascista di soggetti politici che, del resto, rimangono incapaci di dichiararsi antifascisti. Insomma, se intimidisci degli storici per ciò che scrivono; se richiedi che il loro lavoro venga ispezionato, non si sa a quale titolo, dall’Associazione Nazionale Editori; se chiedi che venga svolta una interrogazione parlamentare sul loro operato, è chiaro che si tratta di un atteggiamento fascistoide, rispondente ad alcune di quelle caratteristiche di cui ci parlava Umberto Eco, nel suo Il fascismo eterno, in particolare quando il semiologo tra i punti fondamentali dell’Ur-fascismo citava l’avversione nei confronti di qualsiasi critica e la paura della differenza. Ecco, tutti questi segnali andrebbero pur sempre collocati, non dimentichiamolo, all’interno del quadro tracciato dalle nuove Indicazioni Nazionali per il curricolo della Scuola dell’infanzia e Scuole del Primo ciclo di istruzione, proprio quelle in cui la storia subiva un forte arretramento interpretativo di marca chiaramente colonialistica, circostanza, del resto, ampiamente criticata dagli storici e, in particolare, dalla Società Italiana di Didattica della Storia. Non a caso, proprio su questo tema, in un Convegno CESP a Palermo dal titolo Edward W. Said, la cultura dell’anti-colonialismo e la sua presenza nella scuola italiana avevamo provato ad indagare tra la manualistica in dotazione nelle scuole superiori quale fosse quella più incline ad un approccio inclusivo e meno occidentalista e il risultato era assolutamente favorevole a Caterina Ciccopiedi, Valentina Colombi, Carlo Greppi, Marco Meotto, Trame del tempo, Laterza, Roma-Bari, seguito da Andrea Giardina, Giovanni Sabbatucci, Vittorio Vidotto, I mondi della storia, Laterza, Roma-Bari e da pochi altri. Che i tempi siano quantomeno tenebrosi è, dunque, piuttosto chiaro. Se poi a tutto ciò ci aggiungiamo il culto della morte e l’ideologia della guerra, che comporta la lotta contro il pacifismo, giacché «Il pacifismo è allora collusione con il nemico, il pacifismo è cattivo perché la vita è una guerra permanente» con conseguente militarizzazione delle scuole, allora non si capisce davvero di cosa debba dolersene l’onorevole Montaruli per questa conclamata continuità storica e politica del Governo Meloni, il più a destra della storia italiana repubblicana, con l’Ur-fascismo.  Eppure, proprio dalla storia passata noi docenti ed educatori qualcosa l’abbiamo imparata, cioè abbiamo compreso il ruolo determinante dei professionisti della formazione nel costruire coscienze critiche non solo mediante discorsi e argomentazioni, ma anche attraverso azioni concrete, come il boicottaggio, ad esempio, vale a dire la scelta consapevole di un manuale più indipendente piuttosto che un altro più disposto ad obbedire e prono a sostituire, a censurare, a cassare dietro indicazione del Ministero. Insomma, a fronte di storici, storiche ed editori coraggiosi occorrerebbe altrettanto coraggio da parte della classe docente, per non rischiare di finire come le rane bollite. Michele Lucivero
Il terrore dei Khmer Rossi e il genocidio cambogiano. Intervista a Diego Siragusa
Diego Siragusa – nato ad Alcamo – è saggista, scrittore, intellettuale di sinistra e traduttore. Ha studiato Filosofia laureandosi con una tesi su Karl Popper ed è autore di tre volumi di poesie, due romanzi e vari saggi di storia e politica. Studioso del Medioriente e della colonizzazione della Palestina, ha raccolto le sue ricerche nell’opera Il terrorismo impunito, Perchè i crimini d’Israele minacciano la pace mondiale (Zambon 2012), La censura di Facebook agli ordini dei sionisti (Zambon 2020) e Dialogo Impossibile con un Rabbino. Israele e la tragedia dell’arroganza (Macrolibrarsi 2023). Ha tradotto l’opera monumentale di Alan Hart in 3 volumi: Sionismo il vero nemico degli ebrei e il libro di Udo Ulfkotte Giornalisti comprati. Nel 2017, per Zambon, pubblica Papa Francesco marxista? innovazione e continuità nella dottrina sociale della Chiesa e, nel 2025, per Arianna Editrice, pubblica Donne che Amano la Guerra. Selezionate, formate e pagate dai vertici del sistema militare finanziario e industriale occidentale. Con Siragusa abbiamo parlato dei fatti del genocidio cambogiano, di cui si è occupato molto scrivendo, insieme a Bovannrith Tho Nguon, Cercate l’Angkar pubblicato con Jaca Book vincendo il Premio Tiziano Terzani nel 2007. Come nasce il tuo libro “Cercate l’Angkar. Il terrore dei khmer rossi raccontato da un sopravvissuto cambogiano” (Jaca Book) con Bovannrith Tho Nguon? Mi ero occupato della Cambogia attivamente negli anni ’70 in quanto regione coinvolta nella guerra degli USA contro il Vietnam. Lessi molti articoli e reportage sul principe Sianouk e sul colpo di stato del generale Lon Nol che lo aveva deposto come capo di stato. Fu il classico cambio di regime diretto dagli Stati Uniti per indebolire la resistenza vietnamita che vinse la guerra e umiliò gli Stati Uniti che quella guerra avevano voluto e organizzato. Il movimento dei khmer rossi, ovvero il Partito Comunista Cambogiano, era riuscito, attraverso la lotta armata contadina, a rovesciare il regime di Lon Nol e a iniziare la costruzione di “una nuova società” che si rivelò un progetto autogenocidario folle. Parecchi anni dopo, nel 2007, conobbi un giovane microbiologo nella mia città che mi raccontò la sua avventura durante il regime dei khmer rossi. Decidemmo insieme di trasformare quel racconto in un libro. Spesso la confusione mediatica porta a conclusioni affrettate sulla figura di Pol Pot. A tal proposito mi viene in mente Tiziano Terzani quando parla delle “ragioni degli altri”. “Quello che Pol Pot ha fatto in Cambogia – scrive Terzani – non è diverso da quello che altri rivoluzionari hanno tentato prima di lui, e da quello che Mao ha cercato di fare con la Rivoluzione Culturale: bisogna eliminare la vecchia cultura, la memoria collettiva del passato, spazzare via il passato con tutti i suoi simboli e le catene di trasmissione dei suoi valori” (T. Terzani, In Asia, pp. 74-75).  L’obiettivo di Pol Pot, ma anche di Ho Chi Minh, Mao, Stalin, Lenin, Trostsky, era quello di creare “uomini nuovi” (T. Terzani, La fine è il mio inizio, p. 154 sgg, p. 219 sgg.). Cosa pensi a riguardo, basandoti sui tuoi studi? Credi che Pol Pot volesse inizialmente creare uomini nuovi o fosse soltanto una pedina di uno scacchiere più ampio? Bisogna sempre fare un’analisi differenziata. Le rivoluzioni e le lotte di liberazione non sono tutte uguali: Cuba, la Russia e il Vietnam non hanno mai fatto tabula rasa della vecchia società. Davanti alla reazione spietata degli avversari, i rivoluzionari giacobini francesi e i bolscevichi sono stati costretti a usare metodi uguali per fini opposti. Nel caso dei khmer rossi, invece, vi fu un progetto di tabula rasa della vecchia società, di ritorno all’anno ZERO: uccisioni di capitalisti, borghesi, mercanti, intellettuali, militari, bonzi, monaci. Contavano solo i contadini, quelli massacrati dai bombardamenti americani ordinati dal presidente Nixon e nascosti al Congresso che doveva autorizzarli. Chi sono i capi dei khmer rossi: Pol Pot, Khieu Samphan, Son Sen, Jeng Sary; erano intellettuali che avevano studiato alla Sorbona di Parigi. La loro concezione del comunismo era primitiva e fortemente influenzata dal colpo di stato di Lon Nol e dagli effetti dei terribili bombardamenti americani eseguiti a “tappeto” che avevano ucciso migliaia di contadini e distrutto interi villaggi. Senza questo scenario di riferimento non si può capire l’esperimento folle del regime dei khmer rossi che identificarono nella modernità e nella tecnologia l’origine della deviazione della cultura occidentale alla quale contrapposero la cultura catartica della terra, il ritorno alla verginità originaria dell’uomo. Distrussero, infatti, le banche e i locali pubblici, la musica occidentale, il cinema, le fabbriche, tranne quelle che producevano i vestiti e le munizioni per le armi. Proibirono i libri e perseguitarono o eliminarono le persone istruite. Fu abolita anche la moneta e instaurato il baratto come metodo di controllo sull’intera popolazione cambogiana. Come e quando sale al potere e da chi viene sostenuto Pol Pot? Perché la gente sostenne inizialmente la rivoluzione dei Khmer Rossi? Il sostegno al regime dei khmer rossi senza dubbio vi fu. La maggioranza dei cambogiani era contadina e diffuso era il sentimento di vendetta contro gli americani. Il principe Sianouk, spodestato, si era alleato coi Khmer rossi coi quali aveva organizzato la resistenza e la lotta di liberazione contro il regime filoamericano di Lon Nol. Con la conquista del potere Sianouk fu “premiato” con la carica di capo dello stato. E’ curioso che, subito dopo la vittoria, i khmer rossi non insediano un governo, ma svuotano le città dirigendo la gente nella jungla dicendo che stanno arrivando le bombe degli americani. Il gruppo dirigente non si presenta come “partito” ma come “Organizzazione”, Angkar in lingua khmer. La gente che usciva da Phnom Pen chiedeva ai combattenti che dirigevano l’esodo: “Dove dobbiamo andare?” E i giovani combattenti, tra i quali vi errano anche donne, rispondevano: “Andate avanti. Cercate l’Angkar”, ovvero l’Organizzazione. Questo è il motivo per cui abbiamo intitolato il libro: CERCATE L’ANGKAR. Quali furono le conseguenze politiche immediate della rivoluzione dei Khmer Rossi? Quale soppressione della libertà dovettero subire i cambogiani? Furono soppresse tutte le libertà. Nel libro Bovannrith racconta come i suoi genitori e una sorellina morirono di fame. Il nome Bovannrith significa “oro splendente” ed era un nome “borghese”, aristocratico. Il mio amico, che all’epoca aveva tredici anni, capì’ che con quel nome non sarebbe sopravvissuto ed ebbe l’intelligenza di cambiarlo con “Tho” che significa “vaso” ed è comune tra i contadini. Quel secondo nome gli è rimasto. La lotta politica si svolse tra i gruppi dirigenti con continue purghe ed eliminazioni fisiche di oppositori o di sospettati di slealtà e tradimento. Pol Pot non fu eletto da nessuno. Era chiamato “Fratello numero 1” e aveva molta fiducia in Khieu Samphan uno dei dirigenti che sopravvisse alle tragedie del regime, soprannominato “il monaco” per il suo stile di vita morigerato e coerente con la sua idea di comunismo. Quando Sianouk cominciò a dissentire dai metodi dei khmer rossi, si dimise e il suo posto fu occupato da Khieu Samphan. Tutta questa storia è raccontata accuratamente da Philip Short nel suo libro “Pol Pot, storia di un incubo”. Consiglio a tutti questo libro… oltre a quello che ho scritto col mio amico Bovannrith… naturalmente.   Le tensioni tra Cambogia e Vietnam iniziarono già alla fine del 1976 quando Pol Pot accusò il Paese vicino d’essersi impossessato di territori storicamente appartenenti al popolo Khmer. Perché la Cambogia, che negli anni prima era stata – assieme al Vietnam e al Pathet Lao – al centro di una rivolta quasi interamente di matrice comunista contro l’occupazione francese dell’Indocina, si ritrova a fare guerra ad un Paese comunista come il Vietnam? Era una mossa strategica? La verità è questa: il regime di Pol Pot, ormai si deve chiamare così, aveva raggiunto un livello di ferocia sanguinaria che aveva costretto la parte moderata dei Khmer rossi ad organizzare una fuga verso il Vietnam e chiedere aiuto per fermare il genocidio della popolazione cambogiana. Fu così che un paese comunista, il Vietnam, dovette intervenire militarmente contro la Cambogia, diretta da una masnada di comunisti “sui generis”, per salvare la popolazione cambogiana dallo sterminio. A questo punto entra in scena il teatrino occidentale che avrebbe dovuto schierarsi col Vietnam, invece si schiera coi Khmer rossi pur di “contenere” il Vietnam che aveva sconfitto gli americani. “Hand off Cambodia” – tuonavano a Washington – “Giù le mani dalla Cambogia”. Come si svolse l’infinita ecatombe del “genocidio cambogiano”? Chi finì nelle grinfie dei Khmer Rossi? Nel libro Bovannrith racconta esperienze allucinanti. L’Angkar provvedeva a tutto: al cibo, ai vestiti, agli alloggi sempre in comune, donne e uomini rigidamente separati. Organizzava anche i matrimoni scegliendo a caso un ragazzo e una ragazza. Era proibito parlare, sussurrare, incontrarsi in due o tre poiché potevi essere sospettabile di complotto, di sovversione. Il mio amico ha rimosso dalla propria memoria scene terribili a cui ha assistito e che abbiamo visto nel film Urla del silenzio di Roland Joffé. Spesso le persone uccise erano seppellite ai piedi di alberi di arance e, durante la decomposizione dei corpi, Bovannrith osservava che le foglie degli alberi ingiallivano. Quale ruolo hanno gli Stati Uniti in questo massacro? Da quali cause esterne fu scatenato? Se gli Stati Uniti non avessero promosso il colpo di stato contro Sihanuk questa tragedia non sarebbe avvenuta. Gli USA sapevano che Sihanuk tollerava, ai confini del proprio paese, i movimenti militari vietnamiti attraverso il cosiddetto “sentiero di Ho Chi Mihn” che serviva come retrovia e luogo di rifornimento per le truppe e la resistenza del Nor-Vietnam. Spesso gli americani bombardavano il sentiero di Ho Chi Mihn coi loro aerei B52 per interrompere una via logistica particolarmente utile. Fu così che a Washington pensarono che bisognava punire i cambogiani attraverso “bombardamenti segreti”, non autorizzati dal Congresso, che uccisero decine di migliaia di persone e distrussero interi villaggi. Le solite tecniche distruttive dei piloti americani: fare terra bruciata, uccidere masticando chewing gum e tornare alle rispettive basi come se avessero fatto una gita di piacere. Con Wikileaks, Julian Assange ci ha mostrato la vocazione criminale degli Stati Uniti. Il genocidio cambogiano oggi viene usato dalle destre conservatrici e neoliberali – tra i tanti argomenti – per dimostrare come sia lecita l’equiparazione tra fascismo, nazismo e comunismo come ugualmente “ideologie della morte”. Credi che sia giusto storicamente equiparare nazismo e comunismo? Solo i liberali potevano concepire questa equazione. Se, come studioso di storia, dovessi applicare questo metodo disonesto e antiscientifico, dovrei dire che anche il cristianesimo è equiparabile al nazismo. Quanti sono morti durante le crociate? Quanti liberi pensatori e donne, accusate di stregoneria, furono bruciati vivi? Quanti milioni di esseri umani furono uccisi e perseguitati perché rifiutavano la conversione al cristianesimo? Esaminiamo i crimini dei liberali: Cominciamo dalla Rivoluzione francese? La ghigliottina che lavorava a ritmo continuo? O, forse, è meglio parlare del colonialismo? Quasi tutti i paesi europei hanno saccheggiato l’Africa, l’Asia, l’America del Nord e l’America del sud. Le civiltà precolombiane sono scomparse, la tratta degli schiavi neri ha privato l’Africa della sua migliore gioventù. Sono stato in Senegal e ho visitato l’isola di Gore’ da dove partivano le navi negriere verso le Americhe. C’è ancora un grande ritratto di Giovanni Paolo II, affisso sulla facciata di una chiesa, che ha chiesto perdono per questo crimine commesso da molti cristiani negrieri e trafficanti. Vogliamo parlare dei 100 milioni di nativi nordamericani massacrati dai bianchi che hanno costruito gli Stati Uniti e il Canada sul loro sangue? E mi fermo qui perché dovrei parlare anche degli 8 milioni di africani fatti massacrare dal re Leopoldo del Belgio e dei crimini dei francesi in tutte le loro colonie, a cominciare dal sud est asiatico ovvero l’Indocina. Lorenzo Poli
Perchè la Brigata Ebraica viene contestata ogni 25 aprile?
Nei giorni scorsi si è parlato molto di un fantomatico gruppo partigiano chiamato “Brigata Ebraica”, che da una ventina d’anni partecipa alla festa del 25 aprile. Da anni ormai, nelle grandi città italiane, la partecipazione della cosiddetta “Brigata Ebraica” alle manifestazioni del 25 aprile viene contestata. A Roma anche quest’anno ai piedi della Piramide di Caio Cestio si sono contrapposti gli antifascisti filo-palestinesi e quelli filo-israeliani. Una contestazione che nasce dalla polarizzazione tra filo-israeliani e filo-palestinesi, dal diritto all’autodeterminazione e alla liberazione del popolo palestinese e dall’acuirsi del conflitto a Gaza e dell’atroce sistema di apartheid razzista, occupazione coloniale e “genocidio incrementale” che lo Stato d’Israele attua nei confronti della popolazione gazawi e della Cisgiordania. Eppure c’è un’altra ragione per cui la Brigata Ebraica è sempre stata contestata e di cui oggi si è persa un po’ di memoria: ovvero il suo ruolo controverso nella Resistenza antifascista. Per entrambe le ragioni, serve conoscere a fondo la storia della Brigata Ebraica. L’economista e giornalista Alberto Fazolo, in una lettera aperta al Presidente della Comunità Ebraica Fadlun, ha scritto: Egregio Presidente della Comunità Ebraica di Roma Victor Fadlun, il 25 aprile sono stato allontanato dal presidio romano della Brigata Ebraica e quindi non ho potuto documentarlo. Dopo la Cerimonia, Lei si è trattenuto con i giornalisti, in quel frangente sarei stato felice di potergli porre le seguenti due domande relative alle sue dichiarazioni appena rilasciate. Gliele propongo, confidando che mi voglia rispondere. La prima è nel merito del suo intervento, in cui ha detto che “la Brigata Ebraica sbarcò a Napoli nel settembre del 1943”. Noi però sappiamo che nacque un anno dopo (come si evince anche dai vostri gonfaloni). Non si tratta di un dettaglio da poco, dato che la polemica sulla Brigata Ebraica si incentra per lo più sulle tempistiche. Come arriva a sostenere che fosse operativa addirittura prima della propria fondazione? Rispondendo a una domanda sulla presenza nella medesima piazza dei filo-palestinesi ha detto “a Gerusalemme il Gran Mufti prendeva il caffè con Hitler”. Nel giudizio su Amin al-Husseini, non si può non concordare che si trattò di uno dei tanti maledetti nazisti che dopo il 1945 se la cavarono troppo bene. Ma nelle sue parole c’è un elemento che non torna, infatti a me non risulta che Hitler visitò Gerusalemme, che oltretutto era sotto il controllo degli Inglesi. O io non so di qualche viaggio di Hitler a Gerusalemme, o nelle sue affermazioni c’è un qualcosa che potrebbe essere o una svista, o qualcosa di ben peggiore. Lei dicendo che Hitler stava a Gerusalemme finisce a criminalizzare l’intero popolo palestinese per via delle azioni di un singolo fantoccio degli inglesi. Quindi le domando, quando Hitler avrebbe visitato Gerusalemme? Se a queste due domande non arrivassero risposte valide, sarebbe davvero difficile dire di non trovarsi di fronte ad una grossa e grave operazione revisionista. In attesa di una risposta, le invio i miei saluti Alberto Fazolo La Brigata Ebraica infatti non nasce all’interno del movimento della Resistenza italiana, ma bensì nacque su impulso dell’Agenzia Ebraica per Israele (chiamata anche Sochnut (agenzia) o JAFI, dall’acronimo inglese Jewish Agency for Israel), che era il prodromo dello Stato d’Israele. La Brigata Ebraica rappresenta il contributo militare degli ebrei coloni e Yishuv di Palestina nella Seconda Guerra Mondiale i quali rimasero inattivi fino a praticamente la fine del conflitto, lasciando che si consumasse l’orrore della guerra e della Shoah, senza intervenire. Dopo decine di milioni di morti, si mobilitarono solo quando vi fu concretamente la possibilità di costituire lo stato d’Israele e per farlo serviva partecipare alla guerra. Per questo venne mandato un numero simbolico di uomini ad arruolarsi nelle fila dell’esercito inglese. Non è un caso che la bandiera della Brigata Ebraica è la bandiera dello Stato d’Israele. Costoro arrivarono al fronte quando la guerra stava finendo, dopo la liberazione del campo di Auschwitz. Non contribuirono alla fine del nazismo, ma si limitarono ad inseguire i tedeschi in ritirata, combattendo per un mese. Pur non facendo quasi nulla, si intestarono la vittoria e la memoria. Ciò si pone in evidente antitesi con i valori della Resistenza, eppure in tempi recenti – nonostante le ombre che la coprono – la Brigata ebraica viene spacciata per la principale paladina della lotta antifascista e in difesa degli ebrei. Ovviamente si tratta di una strumentale manovra revisionista finalizzata a legittimare l’azione passata e presente d’Israele. Nella Germania nazista la persecuzione contro gli ebrei iniziò il 15 settembre 1935 con la promulgazione delle cosiddette “Leggi di Norimberga”. Il 18 settembre 1938 Mussolini annunciò l’adozione delle “Leggi razziali” in Italia. In Germania, il primo atto di violenza sistematica contro gli ebrei da parte dei nazisti ci fu il 9 novembre 1938, in quella che è passata alla storia come “La notte dei cristalli”. A quel punto, fu palese a tutto il mondo che l’odio professato dai nazisti si era già trasformato in sterminio. Eppure, le affermazioni orribili e ciniche di Ben Gurion sul destino dei bambini tedeschi, arrivarono circa un mese dopo. Ben Gurion, “padre della patria” d’Israele, infatti dichiarò: “se sapessi di poter salvare tutti i bambini della Germania portandoli in Inghilterra o soltanto la metà di loro portandoli in Palestina, opterei per la seconda soluzione” (Ben Gurion al CC del Mapai, 7 dicembre 1938.) Questa frase deve essere sempre tenuta a mente per capire il ruolo e l’obiettivo della Brigata ebraica: non lottare per la libertà e salvare le vite (nemmeno degli ebrei), ma favorire la nascita dello Stato d’Israele. Come scrisse Segev, uno dei più affermati storici israeliani nato a Gerusalemme il primo marzo 1945 proprio da profughi tedeschi che vi erano arrivati nel 1935: “Ben Gurion, temendo che ‘la coscienza umana’ potesse spingere alcuni paesi ad aprire le porte agli ebrei tedeschi ammonì: ‘Il sionismo è in pericolo’”(Segev T., (2001), Il Settimo milione, Mondadori. Pag. 27.) Il pericolo che lui vedeva era che non si riuscisse a formare lo Stato d’Israele, ma non che decine di milioni di persone – tra cui alcuni milioni di ebrei – morissero per colpa dei nazisti. Solo quando questi due temi si intrecciarono, Ben Gurion utilizzò in chiave strumentale il secondo a favore del primo. Ogni tentativo di riabilitare Ben Gurion e il suo progetto, deve passare attraverso questa considerazione. Il primo gesto concreto per cercare di creare una unità combattente formata esclusivamente da ebrei di Palestina durante la Seconda Guerra Mondiale ci fu il 3 settembre 1939, due giorni dopo l’invasione della Polonia. La domanda fu formalmente rivolta alle autorità coloniali britanniche che controllavano quei territori dal capo del dipartimento politico dell’Agenzia Ebraica, ma la richiesta fu respinta perché gli inglesi non si fidavano ad armare le popolazioni locali, temendo una conseguente lotta per l’autodeterminazione. In Inghilterra l’idea di coinvolgere delle unità di ebrei nella lotta contro il nazismo piaceva alla politica per l’impatto mediatico che poteva offrire la cosa (Churchill era cautamente favorevole), mentre il Colonial Office e il War Office erano decisamente contrari. Il sospetto era alimentato dal fatto che la proposta dell’Agenzia Ebraica fosse volta ad ottenere il controllo armato del territorio palestinese, non di fermare il nazismo. Così nel 1940, dopo un incontro tra Churchill e Chaim Azriel Weizmann (presidente dell’Organizzazione Sionista Mondiale), gli inglesi diedero agli ebrei coloni di Palestina la possibilità di arruolarsi in formazioni ausiliarie del proprio esercito, per contribuire alla lotta contro il nazismo, cosa che però  in pochi fecero davvero. Ciò probabilmente alimentò i sospetti degli inglesi sul fatto che magari le rappresentanze sioniste non avevano molto interesse al conflitto, ma si preoccupavano prevalentemente di creare delle formazioni armate da usare per la costruzione dello Stato d’Israele. Un successivo tentativo di far contribuire le popolazioni ebraiche coloniali di Palestina alla lotta contro il nazismo venne effettuato nel 1942, quando gli inglesi costituirono una formazione combattente mista di arabi ed ebrei, il Palestine Regiment, il quale assorbì coloro che già in precedenza erano arruolati nelle truppe ausiliarie. Complessivamente vi si arruolarono circa 1.600 ebrei e 1.200 arabi. La cosa sollevò l’indignazione di molti ebrei, in particolare di quelli provenienti da Germania e Austria che accusarono “l’Agenzia ebraica di miopia politica, di non vedere cioè come la guerra contro Hitler fosse da ritenersi prioritaria rispetto alla difesa degli insediamenti ebraici di Palestina”. Le autorità inglesi constatarono la sparizione di molte armi, munizioni ed esplosivi dai depositi del Palestine Regiment: i soldati ebrei rifornivano così gli arsenali del futuro Stato d’Israele. Dopo la vittoria di Stalingrado per mano sovietica, il 18 aprile 1943 ci fu una delle più gloriose pagine di Resistenza della Seconda Guerra Mondiale, la Rivolta del ghetto di Varsavia, in cui con poche armi e tanta determinazione, si condusse “una lotta senza speranza, in grado di offrire soltanto una morte dignitosa”6. Il 10 luglio del 1943 gli americani e gli inglesi sbarcarono in Sicilia e per gli ebrei di Palestina si presentò concretamente l’opportunità di poter andare a contribuire alla liberazione degli ebrei europei dalle persecuzioni nazifasciste. Ma ciò non venne fatto, se non molto tempo dopo, nel marzo 1944, quando si riaprirono le trattative tra Agenzia Ebraica per Israele e il Governo britannico per formare una unità combattente di soli ebrei coloni di Palestina. Nel luglio 1944, si trovò una lunga trattativa in cui si parlò della possibilità di costituire uno Stato ebraico in Palestina alla fine della guerra. La decisione di creare la Brigata Ebraica “può essere quindi vista come prova che già nell’estate del 1944 esponenti dell’establishment britannico, e in particolare Winston Churchill, stavano rivalutando positivamente l’idea della partizione della Palestina mandataria”. Il 28 settembre 1944 Churchill comunicò ufficialmente alla Camera dei Comuni la creazione della Brigata Ebraica, che nel frattempo aveva già iniziato a formarsi in Egitto. Gli ebrei coloni di Palestina non risposero in massa alla chiamata per lottare contro il nazismo e non perché non ci fossero soldati già addestrati pronti a farlo. “Si stima che alla fine del 1944 gli uomini su cui l’Agenzia ebraica poteva davvero contare per impiego immediato […] fossero circa 37 000”, ma di questi davvero in pochi si arruolarono unendosi alla Brigata Ebraica. “Il numero di suoi effettivi ebrei era di circa 4.000 uomini e non tutti erano ebrei palestinesi”. C’erano poi anche dei non ebrei. I soldati erano provenienti da 54 diversi Paesi e avevano un’estrazione sociale molto eterogenea. La Brigata era organizzata in tre battaglioni da circa 750 uomini ciascuno e qualche altra compagnia aggregata. Tenendo presente che ci sono stati casi di persone che hanno militato nella Brigata ebraica, ma vi si sono uniti dopo la fine delle ostilità e non hanno quindi mai combattuto, ad oggi non è chiaro quanti ebrei coloni di Palestina abbiano effettivamente combattuto nella Seconda Guerra Mondiale. Si tratta comunque di numeri irrisori. Si ha quindi un riscontro al sospetto che nell’interesse della maggioranza dei sionisti di Palestina non vi fosse come priorità quella di sconfiggere Hitler e di fermare la Shoah, bensì quella di formare lo Stato d’Israele. Quindi, partecipare simbolicamente al fianco di quelli che ormai erano i vincitori della guerra, avrebbe dato il diritto alla Brigata Ebraica di avanzare pretese per il dopoguerra. Su questa simbolica partecipazione si sarebbe costruita la legittimità e la pretesa di costituire lo Stato d’Israele. Il 5 novembre 1944 la Brigata venne trasferita dall’Egitto a Taranto che, con l’Italia divisa in due dalla guerra, era nelle retrovie e ben lontana dai luoghi di combattimento. Dopo cinque giorni fu inviata a Fiuggi. Il quartier generale si insediò alle terme, mentre il comando si sistemò al Grand Hotel Palazzo della Fonte. A Fiuggi la Brigata passò quattro mesi ad addestrarsi, seppur “non potevano certo dirsi i soldati più efficienti dell’esercito britannico”. Il 27 gennaio 1945 l’Armata Rossa liberò Auschwitz. Lo sterminio degli ebrei in qualche modo andò ancora avanti per quattro mesi, ma quella viene generalmente indicata come la conclusione della Shoah. All’epoca la Brigata Ebraica stava ancora alle terme di Fiuggi e il suo contributo nel porre fine a quell’orrore è stato quindi nullo. Il 26 febbraio 1945 la Brigata lasciò Fiuggi diretta in Romagna. Venne aggregata al Quinto corpo d’armata, che era un contenitore in cui confluirono diverse truppe straniere. La Brigata Ebraica fu messa sotto al comando dell’Ottava divisione indiana. Lì vi erano anche una divisione neozelandese, uno squadrone corazzato nordirlandese e militari italiani arruolatisi volontari con gli Alleati. Dieci anni dopo l’inizio delle persecuzioni contro gli ebrei, a guerra praticamente finita, la Brigata ebraica divenne operativa e si presentò al fronte per tallonare per qualche giorno i tedeschi in ritirata: “La Brigata arrivò in Italia quando le sorti della guerra erano ormai decise. Partecipò soltanto a qualche scaramuccia” (Segev (2001) p. 136). Il primo vero scontro a fuoco della Brigata ebraica con i tedeschi ci fu il 14 marzo 1945, l’ultima azione di guerra fu il 14 aprile 1945. Gli ebrei coloni di Palestina che caddero nelle fila della Brigata Ebraica furono 30 e a questi vanno aggiunti 27 ebrei inglesi (non volontari, ma coscritti) Combattendo per un mese con qualche migliaio di uomini (a conflitto praticamente finito) e avendo qualche decina di morti, gli ebrei coloni di Palestina si poterono collocare tra i vincitori della Seconda Guerra Mondiale. Ma si intestarono la vittoria e poi pure la memoria. Scrive Fantoni che per Moshe Shertok (direttore del dipartimento politico dell’Agenzia ebraica), il contributo degli uomini della Brigata Ebraica “alla vittoria contro il nazifascismo era secondario, quello che contava davvero era che la loro presenza avrebbe propiziato la nascita dello Stato ebraico. […]. L’obiettivo ultimo e di maggiore importanza […] doveva però essere la creazione d’Israele”. Gli altri, concentrati solo sulla costruzione del proprio Stato, rimasero indifferenti alla sorte delle decine di milioni di persone morte durante la guerra, soprattutto di coloro che lottarono per la vita e la libertà di tutti, nonché per costruire un mondo migliore. Scrive Segev che a Gerusalemme “Un monumento onora i 200.000 soldati ebrei caduti combattendo con l’Armata Rossa durante la seconda guerra mondiale. Il memoriale, situato tra le tombe dei soldati israeliani, sembra quasi voler rivendicare un’appartenenza postuma delle vittime all’esercito israeliano e al movimento sionista. Proclama, in un certo senso, che quegli uomini e quelle donne sono caduti non per difendere l’Unione Sovietica nella sua guerra contro i nazisti, bensì per difendere il popolo ebraico e per realizzare la fondazione dello Stato d’Israele” (Segev (2001) p. 387.). Segev fa intendere che si tratta di sciacallaggio storiografico al fine di alleviare il senso di colpa e di vergogna per non aver cercato d’impedire l’orrore della Seconda Guerra Mondiale e della Shoah. L’Agenzia Ebraica e la quasi totalità degli ebrei coloni di Palestina non intervennero tutta la Seconda Guerra Mondiale e, mentre morivano decine di milioni di persone e l’incubo dello sterminio flagellava gli ebrei europei, se ne stavano tranquilli al riparo sotto il protettorato britannica. A questo episodio di ignavia si deve aggiungere anche il collaborazionismo di gran parte delle autorità ebraiche allo sterminio degli stessi ebrei. “Non potevamo immaginare che i tedeschi sarebbero riusciti a coinvolgere nelle loro azioni anche elementi ebraici, e cioè che gli ebrei avrebbero condotto alla morte altri ebrei” – così dichiarò Yitzhak Zuckerman, uno dei capi della eroica rivolta ebraica del ghetto di Varsavia (19 aprile – 16 maggio 1943), nel libro A Surplus of Memory (Oxford, 1993, p. 210). Fu la stessa Hannah Arendt che in “La banalità del male” prese di mira e criticò aspramente il collaborazionismo dell’élite ebraica nello sterminio della massa degli ebrei. > Dossier “No alla memoria a senso unico”, 5. H. Arendt sul collaborazionismo > dell’élite ebraica nello sterminio della massa degli ebrei Non dobbiamo dimenticarci infatti che sionismo e nazismo ebbero rapporti molto ravvicinati fin dal 1933 con gli Accordi di Haavara, accordo firmato il 25 agosto 1933 dopo tre mesi di colloqui tra la Federazione Sionista Tedesca, la Banca Anglo-Palestinese (sotto la direttiva dell’Agenzia Ebraica) e le autorità economiche della Germania nazista. Fu un fattore importante nel rendere possibile la migrazione di circa 60.000 ebrei tedeschi in Palestina tra il 1933 ed il 1939 per colonizzare il territorio palestinese. Israele nacque nel 1948, ma già da prima dell’inizio della Seconda Guerra Mondiale gli ebrei coloni di Palestina si erano dati una loro forma di statualità con delle forze armate (milizie clandestine o simili) che potevano contare su decine di migliaia di uomini. Tra tutti questi, solo in pochi decisero di arruolarsi volontari per andare a lottare contro il nazismo e per cercare di porre fine all’Olocausto. Quello della Brigata Ebraica è stato un atteggiamento opportunistico e strategico, contrario allo spirito di liberazione che ha animato tutti quelli che hanno combattuto per la Resistenza antifascista e anti-nazista. Mentre in ogni parte del mondo partivano per il fronte milioni di persone, anche volontariamente, qualcun altro si teneva da parte, indifferente. Un atteggiamento in antitesi rispetto ai valori della Resistenza, fatta da volontari partigiani che hanno lottato per sconfiggere il nazismo e per porre fine alle sue ingiustizie e le persecuzioni che conduceva contro ebrei, rom, sinti, omosessuali, partigiani, Testimoni di Geova, oppositori politici, comunisti, etc… . Chi si è tenuto da parte è in qualche misura corresponsabile e come tale va condannato. La Brigata Ebraica non ha contribuito all’esito della guerra e si è affacciata al fronte solo quando la vicenda si stava chiudendo, a differenza dei tantissimi altri ebrei italiani e non degli di nota che hanno lottato nella Resistenza partigiana fin da subito. In tal senso va riconosciuta anche la totale differenza tra la Brigata Ebraica e l’insurrezione anti-nazista degli ebrei del Ghetto di Varsavia. Per questo non c’è motivo d’essere riconoscenti alla Brigata Ebraica: quel poco che hanno fatto non era per la libertà e la giustizia, ma solo per legittimare la fondazione del proprio Stato coloniale. Ma soprattutto il loro atteggiamento è da stigmatizzare, in particolar modo di fronte alle nuove generazioni, perché sia chiaro che quella condotta ha favorito il nazismo. L’azione della Brigata Ebraica fu estremamente positiva per Israele poichè in cambio di una piccola comparsata a fine guerra, riuscì ad ottenere lo Stato. Non si può concludere una trattazione sulla Brigata ebraica senza far riferimento alle attività condotte dopo la conclusione della Seconda Guerra Mondiale, cioè fino a quando non venne sciolta, nell’estate del 1946 (si noti che fu operativa per più tempo dopo la guerra, piuttosto che durante). La narrativa dominante ci racconta esclusivamente dell’opera svolta per dare assistenza agli ebrei di tutta Europa e del ruolo avuto nel organizzare la migrazione verso Israele. Tuttavia c’è dell’altro che merita d’essere approfondito, in particolare le varie forme di vendetta perpetrate. Dopo la fine della guerra la Brigata si stabilì nei pressi di Tarvisio, una posizione strategica per intercettare i profughi ebrei in arrivo dall’Europa settentrionale e orientale. Questi venivano accolti, rifocillati e poi accompagnati in Israele. Quell’area (su tutti i lati dei confini) era quella in cui risiedevano diversi nazisti, che vi erano ritornati dopo la fine della guerra. Gli uomini della Brigata ebraica iniziarono ad andare a caccia di nazisti uccidendone un numero imprecisato, ma verosimilmente compreso tra alcune decine e i 1.500. Queste esecuzioni fanno emergere una serie di questioni politiche, di cui due sono le principali e più interessanti: 1. Negli ultimi venti anni abbiamo assistito ad un processo di glorificazione della Brigata ebraica. Questo ha investito la società e le istituzioni, sono state fatte celebrazioni ed eretti monumenti. Però in questo processo di glorificazione vengono omesse tante cose, tra cui il fatto che l’attività principale della Brigata ebraica fu di fare vendette dopo la guerra andando a caccia di nazisti e fascisti. Segev (2001) riporta che per alcuni suoi membri era “la vendetta il compito più importante per la Brigata”. Quindi, con questo processo si riconoscerebbe la legittimità di uccidere nazisti e fascisti anche dopo la guerra. Chi scrive non vuole giudicare a tal riguardo, ma non può non notare un’evidente contraddizione: i più grandi sostenitori della Brigata Ebraica sono anche i maggior detrattori della Resistenza italiana; coloro che ancora oggi lanciano le più feroci condanne delle vendette successive alla Liberazione (per esempio, Giuliano Ferrara); coloro che chiamano “vendette” le azioni della resistenza antifascista jugoslava e italiana sul “confine orientale” avvenute dal 1943 in poi, ovvero nel bel mezzo della Resistenza e non postume; coloro che chiamano “martiri delle foibe” gerarchi nazisti e dirigenti del PNF che avevano contribuito all’occupazione e all’italianizzazione fascista delle terre slave, oltre alla reclusione di 200.000 slavi in campi di concentramento dal 1941. 2. La seconda questione che sollevano queste esecuzioni riguarda la finalità di tali gesti. Come già esposto, gli ebrei coloni e Yishuv di Palestina non lottarono per fermare la Shoah, ma arrivarono sul campo di battaglia a cose fatte, dieci anni dopo l’inizio delle persecuzioni contro gli ebrei, perché avevano come priorità la costruzione dello Stato d’Israele e non salvare le vite. Chi era rimasto a guardare per dieci anni senza intervenire, senza cercare d’impedire, dopo la fine della guerra andò a compiere delle vendette. Quale giudizio politico andrebbe espresso al riguardo? Chi non ha fatto nulla per impedire è complice, quindi non è che con quelle azioni si cercasse una riabilitazione? Anche per questo va rimarcata la differenza tra gli aderenti alla Brigata Ebraica e i partigiani che fecero azioni a guerra finita. Il giudizio politico si intreccia con quello morale, che si formula guardando anche ad altre azioni che, se non ascrivibili direttamente alla Brigata ebraica – in quanto verosimilmente condotte solo da alcuni elementi – la coinvolgono in episodi terrificanti. Scrive Segev che tra i membri della Brigata Ebraica “Alcuni sfogarono la propria rabbia sui prigionieri di guerra tedeschi e devastarono le proprietà dei civili”, e prosegue più avanti dicendo che “alcune azioni erano puri e semplici atti di teppismo”, come il giorno in cui i vendicatori “si nascosero ai margini di una strada e cominciarono a sparare su tutto quello che si muoveva, o come quell’altra volta che uccisero anche un’ebrea scampata all’Olocausto”. Segev liquida come “teppismo” ciò che sarebbe più corretto chiamare “terrorismo”: ammazzarono persone a caso senza una logica e un motivo, senza che venissero mai puniti. Questa modalità d’azione ricorda il modus operandi dell’Irgun Tzvai Leumi (ארגון צבאי לאומי), un gruppo paramilitare terroristico di stampo sionista-revisionista d’estrema destra che operò nel corso del mandato britannico della Palestina dal 1931 al 1948, facendo strage di palestinesi con il fine di de-arabizzare la Palestina. Come già detto, la Brigata Ebraica salì sul carro dei vincitori a guerra praticamente finita, combatté per un mese tallonando i tedeschi in ritirata, si pose in antitesi con i valori della Resistenza, alla fine della guerra alcuni suoi membri si macchiarono di orribili crimini per i quali non vennero puniti; ma alla luce di tutto ciò, lo Stato italiano ha deciso di premiarla con la medaglia d’oro al valor militare. La motivazione sa di farsa: “operò durante la seconda guerra mondiale e offrì un notevole contributo alla liberazione della Patria e alla lotta contro gli invasori nazisti”. Non può sfuggire il fatto che si sia trattato di un’operazione politica di revisionismo storico per istituzionalizzare il supporto ad Israele e per delegittimare le contestazioni. Fermo restando il rispetto per i morti, certe pagine di storia forse è meglio consegnarle all’oblio, perché c’è ben poco di cui andar fieri. Ma se qualcuno rispolvera degli eventi per usarli in maniera strumentale in un processo revisionista di legittimazione e di occultamento dei crimini d’Israele, si assume la responsabilità dell’aspra critica che poi si solleva. È da credere che la presenza delle bandiere della Brigata Ebraica (che coincidono con quella di Israele) nelle piazze del 25 aprile sia solo strumentale e abbia poco a che fare non solo con la lotta partigiana, ma persino con le operazioni militari degli alleati. Articolo ispirato dall’articolo  I millantati crediti della “Brigata Ebraica”. Un po’ di storia che va conosciuta del giornalista Alberto Fazolo per Contropiano.org, riportando ampie citazioni. Ringraziamo Alberto Fazolo per la profondità delle fonti storiche che porta nella sua argomentazione. Lorenzo Poli
A Biella un giorno prima
Biella, così come Genova, altra città medaglia d’oro al valor militare per la Resistenza, si è liberata un giorno prima del 25 aprile. Non ha dovuto attendere gli alleati. Già all’alba del 24 aprile i tedeschi lasciavano la città. Il CLN concordava con il maggiore Zanotti del battaglione “Pontida” la resa e l’abbandono di Biella da parte dei suoi 400 uomini. Attraverso la mediazione di don Antonio Ferraris, luminosa figura di prete antifascista, si otteneva anche la resa a Cossato del “Montebello”. Alle 18 i partigiani della II Brigata Garibaldi entravano in città e venivano sommersi di fiori dalla popolazione che applaudiva, urlava la propria gioia, esponeva i tricolori. Nel suo discorso del 24 aprile il sindaco di Biella, città medaglia d’oro per la Resistenza, ha espresso due auspici che potrebbero essere anche condivisibili, solo che mancano ad oggi le condizioni, a cominciare dal suo stesso intervento. Il primo auspicio formulato dal sindaco è di superare le divisioni guardando al futuro “uniti come Paese e come italiani”. Insomma un 25 aprile che non sia più divisivo ma trovi tutti concordi nel festeggiare la Liberazione. Questo è possibile solo a patto che si condanni da parte dell’estrema destra in modo fermo e chiaro il fascismo mettendone in luce non solo gli aspetti più eclatanti come le leggi razziste ma anche la profonda natura criminale manifestatasi soprattutto tra il 1943 e il 1945: l’eliminazione della democrazia, le torture e le uccisioni degli oppositori, la sciagurata entrata in guerra a fianco dei nazisti. Il fascismo è nato con il preciso intento di eliminare in modo violento gli avversari. Ha fatto bene l’oratrice dell’ANPI nazionale Michela Cella il 24 aprile e Biella a ricordare che Mussolini sosteneva che se c’è il consenso bene, altrimenti c’è la forza. Non c’è stato bisogno del resto di attendere la RSI per rendersi conto della natura violenta del regime. Già nel 1919 avevano dimostrato di che pasta erano fatti, mettendo a ferro e fuoco le sedi di sindacati, partiti e giornali di opposizione, ucciso e picchiato e torturato. E poi la soppressione della libertà e della democrazia. Non sarebbe stato superfluo il 24 aprile ricordare tutto ciò ed esprimersi in modo chiaro in proposito. Poi c’è quella fiamma presente nel simbolo di Fratelli d’Italia che potrebbe essere spenta è invece ancora lì, nel simbolo del partito, a ricordare la continuità con l’MSI, il partito con evidenti legami con l’esperienza fascista nato per volontà di personaggi che venivano diritti dal regime e che certo non lo avevano rinnegato. Giorgio Almirante segretario per decenni dell’MSI che come capogabinetto RSI aveva diramato la direttiva ai prefetti del 17 maggio 1944 “Alle ore 24 del 25 maggio scade il termine stabilito per la presentazione ai posti militari e di Polizia Italiani e Tedeschi agli sbandati ed appartenenti a bande. Tutti coloro che non si saranno presentato saranno considerati fuori legge e passati per le armi mediante fucilazione nella schiena.” Pino Romualdi, vicesegretario e poi presidente MSI, nel 1944 in risposta alla uccisione in battaglia di due squadristi aveva prelevato sette prigionieri politici facendoli fucilare in piazza in sua presenza. Scriveva il 6 giugno 1944 “Procedere subito alla incarcerazione di qualche migliaio di persone ed al loro invio in campo di concentramento. Formare anzi un vasto campo di concentramento nella nostra provincia o in qualche provincia viciniore. Sopprimere il massimo numero di persone sospette”. E poi Rodolfo Graziani, anch’egli per un periodo presidente MSI, massacratore di decine di migliaia di libici e etiopi nelle guerre coloniali da lui dirette con uso anche di armi chimiche. Junio Valerio Borghese, sepolto come papa Francesco a Santa Maria Maggiore, la guida della famigerata X Mas, presidente nel 1951 del MSI, partito da cui poi si stacca per avvicinarsi alle frange eversive extraparlamentari e tentare il golpe del dicembre 1970 insieme a pezzi di apparati statali e delle forze armate. Anche con la presa di distanza dalla stagione missina si farebbe un passo decisivo verso quanto auspicato dal sindaco per una destra capace di fare i conti con il passato e tener fede ai propri intenti. Il secondo auspicio espresso dal sindaco è relegare fascismo e antifascismo al contesto storico evitando di usare questi termini in modo improprio nella dialettica politica contemporanea. Anche in questo caso mancano i presupposti. Se il regime fascista, come afferma il sindaco, è finito con la morte di Mussolini così non è stato per i tanti fascisti che anche se compromessi con il regime sono stati prontamente amnistiati per i crimini commessi, reintegrati nel sistema giudiziario, nelle forze dell’ordine, nella politica, fin dall’immediato dopoguerra, usati in chiave anticomunista dai servizi USA e dai servizi segreti deviati del nostro Paese. Per non parlare di trame nere e stragi e tentativi golpisti che hanno caratterizzato decenni di storia italiana. Insomma, come ha affermato di recente il prof. Charlie Barnao alla manifestazione di Lace di Donato, il grosso problema del dopoguerra è stata la palingenesi del fascismo che ha reso tutto molto complicato. Il sindaco ha ricordato che “la guerra civile si protrasse ancora per mesi dopo la fine del conflitto”. In realtà possiamo parlare anche di un paio d’anni nel corso dei quali si consumarono vendette e rappresaglie a carico di fascisti o presunti tali. Una fase iniziata già con lo scempio dei corpi di Mussolini e dei suoi a piazzale Loreto. Ma quando scoppia una guerra civile il cui motore è alimentato dall’ odio e dal desiderio di vendetta tutto può succedere e nulla si può più controllare. E’ chiaro che naturalmente con la lucidità di analisi che consente il distacco temporale di 80 anni da allora non si può che esprimere orrore anche per questa fase della guerra civile. Si può concordare con il sindaco quando afferma che non ha senso appioppare l’epiteto di fascista a chiunque manifesti un indirizzo politico o sostenga un’idea conservatrice. In questo modo si rischia anche di abusare del termine, banalizzarlo e alla fine svuotarlo di significato. Se considerassimo ad esempio fascista la sbagliata politica ostile ai migranti dovremmo iscrivere a questa categoria anche l’ex ministro PD Minniti col suo memorandum Italia-Libia. Ma è un fatto che chiaro rigurgiti neofascisti oggi sono sotto agli occhi di tutti, fenomeni nostalgici, le violenza squadrista che in varie occasioni si è manifestata nella società, usando a volte come arena anche gli stadi, le selve di braccia tese nel saluto romano in situazione disparate, il fascino di miti e riti del fascismo che coinvolge giovani e giovanissimi, i tricolori ben in vista ai balconi di Biella con il simbolo della Repubblica di Salò, iniziative preoccupanti delle istituzioni come quella del Comune di Affile . In questo Comune vicino a Roma nel 2012 è stato realizzato, con soldi pubblici, addirittura un mausoleo dedicato a Graziani, “il più sanguinario assassino del colonialismo italiano” come lo definì Angelo Del Boca. Ma neppure questo è sufficiente per configurare il reato di apologia di fascismo. Evidenti sono le colpe e lacune della scuola, e un grosso peso lo riveste l’ignoranza della storia, ma è comunque un dato di fatto di cui tenere conto. E quindi se il fascismo, almeno come elemento culturale non pare accantonato, anche l’antifascismo è bene che non sia messo in soffitta o confinato in biblioteca. Come ha affermato Sergio Mattarella “E’ sempre tempo di resistenza, sempre attuali i suoi valori”. E speriamo il prossimo 25 aprile che il Presidente voglia celebrarlo magari proprio a Biella un giorno prima. Giuseppe Paschetto
1. Overtura: autarchia linguistica e guerra ai forestierismi
  “Oltre di questo io voglio che tu consideri, come le lingue non possono esser semplici, ma conviene che sieno miste coll’altre lingue; ma quella lingua si chiama d’una patria, la quale converte i vocaboli ch’ella ha accattati da altri, nell’uso suo, ed è sì potente, che i vocaboli accattati non la disordinano ma la […]