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Più di 100.000 morti a Gaza
https://share.google/L4FBwftPKLRAeIa0v Die Zeit 24.11.25 Il numero di palestinesi morti nella guerra di Gaza è oggetto di acceso dibattito. La ZEIT ha dati secondo cui potrebbero essere morte significativamente più persone di quante ne si sapesse. Il numero di palestinesi uccisi nella guerra di Gaza potrebbe essere significativamente superiore a quanto si fosse precedentemente assunto. Secondo calcoli di un team di ricercatori del Max Planck Institute for Demographic Research di Rostock, almeno 100.000 persone sono apparentemente morte o uccise nella guerra, che dura più di due anni. I risultati della ricerca sono disponibili a ZEIT. "Non sapremo mai il numero esatto di morti", afferma Irena Chen, co-leader del progetto. "Stiamo solo cercando di stimare il più possibile quale potrebbe essere un ordine di grandezza realistico." Più morti a Gaza di quanto finora noto Morti nella guerra di Gaza, dal 7 ottobre 2023 al 6 ottobre 2025 Vittime confermate  -Stima Gli scienziati di Rostock hanno raccolto dati da varie fonti e effettuato un'estrapolazione statistica. Oltre ai dati del Ministero della Salute, sono stati inclusi anche un'indagine indipendente sulle famiglie e rapporti sui decessi dai social media. In ottobre, gli scienziati hanno pubblicato un articolo sul loro approccio sulla rivista Population Health Metrics. Questo articolo è stato sottoposto a revisione indipendente tra pari da esperti riconosciuti. Finora, l'unica fonte ufficiale per il numero di morti è stata il Ministero della Salute della Striscia di Gaza, che ha raggiunto 67.173 morti nei primi due anni di guerra. Tuttavia, l'agenzia è gestita da Hamas, motivo per cui i suoi dati sono messi in discussione dal governo israeliano e da osservatori internazionali. DIE ZEIT ha inoltre diffuso le informazioni del ministero solo con riserve. Tuttavia, non ci sono prove di manipolazione delle statistiche. Piuttosto, vari team di ricerca hanno già scoperto in passato che il Ministero della Salute è persino piuttosto conservatore. Ora è ben documentato che più persone morirono nella guerra tra Israele e Hamas di quanto indichi la cifra ufficiale. Studi diversi rilevano un alto numero di casi non segnalati. Il Ministero della Salute conta solo i decessi confermati per i quali, ad esempio, è disponibile un certificato di morte da un ospedale. Poiché molti ospedali hanno dovuto cessare le operazioni ordinate durante la guerra, il ministero ora utilizza anche i rapporti di decesso dei parenti, e un comitato controlla le informazioni. Le vittime sepolte sotto le macerie delle case esplose, ad esempio, spesso non vengono registrate. Un gruppo di ricercatori della London School of Hygiene and Tropical Medicine ha pubblicato un articolo sulla rivista The Lancet all'inizio di quest'anno. Zeina Jamaluddine e i suoi colleghi confrontarono diverse liste compilate indipendentemente di persone decedute. Due di questi provengono dal Ministero della Salute della Striscia di Gaza, il terzo si basa su necrologi sui social media. I ricercatori hanno scoperto che molti dei morti sono presenti solo in una o due liste. Dal grado di sovrapposizione, è possibile stimare quanti morti non compaiono in nessuna delle liste. Secondo questo, la segnalazione da parte del Ministero della Salute potrebbe essere di circa il 41 percento in meno. Un team guidato da Michael Spagat, professore al Royal Holloway College dell'Università di Londra, ha a sua volta condotto un sondaggio intorno al primo giorno dell'anno 2025, in cui dipendenti locali del Palestinian Center for Policy and Survey Research hanno visitato 2.000 famiglie e chiesto dove si trovassero i membri della famiglia. Il numero di possibili decessi determinati in questo modo comporta una potenziale segnalazione da parte del Ministero della Salute del 35 percento in meno. I ricercatori non possono escludere la possibilità che alcuni intervistati abbiano inventato i decessi. D'altra parte, la metodologia non copre le famiglie in cui tutti i membri sono deceduti. I ricercatori di Rostock ora si basarono sulle scoperte precedenti e calcolarono stime dettagliate della mortalità. Ana C. Gómez-Ugarte, Irena Chen e i loro colleghi hanno analizzato separatamente uomini e donne, così come diverse fasce d'età. Questo non solo porta a totali più precisi. È anche possibile distinguere in dettaglio chi sono i defunti. La qualità della registrazione dei decessi varia a seconda del genere e dell'età: le donne vengono conteggiate meno spesso rispetto agli uomini. Particolarmente spesso mancano dalle statistiche ufficiali i decessi con più di 60 anni. Nei primi due anni di guerra, cioè dall'attacco di Hamas a Israele il 7 ottobre 2023 al 6 ottobre di quest'anno, tra 99.997 e 125.915 persone sono morte o sono state uccise nei combattimenti nella Striscia di Gaza. La stima mediana dei ricercatori è di 112.069 persone. Inoltre, 1.983 israeliani sono stati uccisi, secondo il Ministero della Difesa israeliano. Solo le persone morte direttamente a causa dei combattimenti sono state contate – nella maggior parte dei casi a causa dei bombardamenti dell'Aeronautica Israeliana. Crollo dell'aspettativa di vita- donne-uomini Aspettativa di vita dalla nascita nella Striscia di Gaza Gli scienziati dell'Istituto Max Planck di Rostock hanno anche calcolato come la guerra abbia influenzato l'aspettativa di vita nella Striscia di Gaza. Prima della guerra, erano 77 anni per le donne e 74 anni per gli uomini. Per l'anno 2024, i demografi calcolano un valore di 46 anni per le donne e 36 per gli uomini. Inizialmente questo è solo un valore statistico. Dice: Se i combattimenti continuassero come negli ultimi anni, i palestinesi raggiungerebbero solo in media questa età. I dati mostrano quanto la vita civile nella Striscia di Gaza sia stata pericolosa recentemente. Giovani uomini sono i più colpiti I calcoli degli scienziati mostrano che circa il 27 percento dei caduti in guerra sono probabilmente bambini sotto i 15 anni, e circa il 24 percento sono donne. Secondo i ricercatori di Max Planck, la distribuzione stimata del bilancio delle vittime per età e genere è simile a quanto trovato in passato dalle Nazioni Unite per i genocidi. Nelle battaglie tra gruppi armati, invece, le morti sarebbero molto più concentrate sui giovani uomini.
I posti di blocco israeliani soffocano i palestinesi
Amira Hass, Haaretz, Israele Internazionale 1640 | 14 novembre 2025 Il tempo per spostarsi da un luogo a un altro in Cisgiordania è determinato dalle decisioni arbitrarie dei soldati di Tel Aviv, scrive la giornalista israeliana,                                                                                                                                      che vive nel territorio Gli ospiti sono stati invitati per festeggiare la buona notizia: i risultati degli esami della loro amica Lina sono negativi. Il cancro non è tornato. Tra un bicchiere di vino e l’altro, la padrona di casa racconta che l’esame è stato anticipato perché la persona che aveva l’appuntamento quel giorno non è riuscita ad arrivare: era rimasta imbottigliata tra posti di blocco e checkpoint (la differenza è che i secondi sono più strutturati e permanenti). Inizialmente l’esame di Lina (uno pseudonimo, come quello di altri intervistati) era stato fissato per la fine dell’anno, ma l’ospedale di Ramallah l’aveva messa in lista d’attesa per due date diverse. L’esperienza insegna che a causa dei blocchi – o di soldati insolitamente lenti, o di un’incursione militare in un quartiere o villaggio vicino – capita che qualcuno non si presenti. Alla prima data non c’erano state cancellazioni. Circa due settimane dopo, l’ospedale l’ha chiamata intorno alle 10 del mattino dicendole di andare lì immediatamente. “Eravamo felici, ma                                                                                                                                                     abbiamo anche pensato alla frustrazione e alla preoccupazione di una persona che non conosciamo e che non è riuscita ad andare all’appuntamento”, dicono Lina e il suo compagno. E loro sanno bene quanto sia rischioso saltare una pet-tc come quella a cui si è sottoposta Lina. Il macchinario di Ramallah (disponibile solo in un altro ospedale in Cisgiordania) può esaminare al massimo dieci pazienti al giorno. Richiede un materiale radioattivo, che è acquistato in Israele e portato in ospedale in quantità contate per gli esami del giorno. Dato che la maggior parte dei pazienti non viene da Ramallah, la lista è composta anche considerando le restrizioni al movimento imposte da Israele. Più lunghi e più lenti Secondo i documenti ufficiali e i dati dell’ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari (Ocha), ci sono 877 checkpoint e posti di blocco sparsi intorno alle enclave palestinesi della Cisgiordania (note come aree A e B). Circa un quarto (220) sono stati creati dopo l’ottobre 2023; tra febbraio e settembre di quest’anno ne sono stati alle- stiti 28. Un’indagine della Commissione palestinese per la resistenza al muro e agli insediamenti realizzata a settembre ne ha contati 911 totali, di cui ottanta costruiti dall’inizio del 2025. Questa leggera discrepanza indica la grande quantità dei blocchi, la loro diffusione e la facilità con cui sono allestiti, quindi il loro numero a volte dipende dal giorno. Inoltre, ci sono posti di blocco temporanei a sorpresa: i soldati sostano per una o due ore tra i villaggi o all’ingresso di un villaggio, fermando tutte le macchine e controllando il documento d’identità di autisti e passeggeri, a volte anche fotografandoli. La loro posizione varia, ma la pratica è sempre la stessa. Secondo il dipartimento per i negoziati dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina, a settembre sono comparsi 495 checkpoint temporanei e dati simili si erano registrati nei mesi precedenti. Questi vari blocchi stradali delineano i contorni artificiali delle “sacche” territoriali palestinesi A e B, che costituiscono il 40 per cento della Cisgiordania. Allontanano – o escludono del tutto – i palestinesi dalle strade più veloci all’interno della Cisgiordania, usate prevalentemente dagli israeliani. Così per i palestinesi i tragitti in auto diventano più lunghi e a volte il traffico si blocca. L’incertezza è un fattore costante di ogni itinerario. Tirare a indovinare Mentre era in attesa, Lina ha incontrato una giovane paziente oncologica che vive in un villaggio a sud di Nablus. Avrebbe potuto sottoporsi alla chemioterapia all’ospedale dell’università Al Najah, a un quarto d’ora da casa sua, in tempi normali. Tuttavia, dall’ottobre 2023 l’accesso sud alla Route 60 (la superstrada principale) per Nablus è bloccato da quello che è conosciuto come il checkpoint di Hawara. Per lei la strada per Ramallah non è più breve né la più veloce, ma almeno è sicura di arrivare. Il checkpoint di Hawara è noto per essere chiuso, ma ci sono anche cancelli metallici dove i soldati giocano a fare “apri e chiudi”, senza una regola precisa, sicuramente non per i palestinesi. In altre parole, molti possono solo provare a indovinare quale situazione troveranno: i soldati non ci sono e il varco è aperto; i soldati non ci sono ma il varco è chiuso; i soldati ci sono e il varco è chiuso; i soldati ci sono e il varco è aperto, ma fermano e controllano i conducenti con una lentezza che sembra voluta. Tuttavia, a un varco aperto può seguirne uno chiuso, o può esserci un ingorgo stradale creato dal balletto di chiusure e deviazioni forzate attraverso i villaggi su stradine che non sono pensate per il traffico interurbano. “Dille quanti dossi stradali incontri ogni giorno” suggerisce Abu Nihad, un tassista di Ramallah, al suo amico che guida sulla strada per Tulkarem. Invece di prendere la strada Nablus-Anabta, che è bloccata dal checkpoint di Einav, deve destreggiarsi tra le vie sterrate e non asfaltate dei villaggi circostanti. “A volte passo per un checkpoint e il traffico scorre normalmente”, spiega Abu Nihad. “Quando torno indietro, dieci minuti dopo, il cancello è chiuso e devo fare un altro percorso, oppure aspettare mezz’ora prima che riapra”. Abu Nihad considera questi ritardi un’umiliazione. Come molti altri palestinesi ha il sospetto che il vero motivo per creare blocchi a determinati orari sia che i soldati hanno ricevuto l’ordine di tenere le strade libere per i veicoli israeliani, così da ridurre gli ingorghi delle ore di punta al mattino e nel pomeriggio. “Non è solo umiliante”, aggiunge Lina. “Ogni volta che ci mettiamo in macchina – o decidiamo di non farlo – ho la sensazione che ci venga rubato il tempo”. In uno studio recente il Palestine economic policy research institute (Mas) ha calcolato quanto tempo è rubato. Sulla base di un campione di cento veicoli pubblici che passavano quasi tutta la giornata in strada per cinque giorni a settimana nell’ottobre 2023, lo studio ha rilevato che ogni tragitto breve nel distretto di Nablus comportava in media un ritardo di 23 minuti a causa di posti di blocco e sbarramenti. Il dato è stato ottenuto confrontando questi viaggi con quelli dei “giorni normali” (cioè prima della guerra). Il tragitto verso e da Gerico comportava 43 minuti persi, mentre per la tratta da Nablus alla Cisgiordania centrale o meridionale i ritardi si allungavano di circa un’ora. Tuttavia, la portata di questo tempo perso diventa evidente quando si guarda al quadro generale: secondo la stessa ricerca ogni giorno erano perse 191.146 ore lavorative a causa dei checkpoint e dei posti di blocco. Le ore perdute costavano all’economia palestinese circa 764.600 dollari (660mila euro) al giorno, più o meno 16,8 milioni di dollari al mese. Questi costi derivavano non solo dalle attese ma anche dai tentativi di aggirare i blocchi: i conducenti che preferivano cercare tratte alternative spendevano di più in carburante e questa quotidiana spesa supplementare ammontava a circa 19.200 dollari, che sommati diventavano 6 milioni all’anno. Ogni automobilista lo sperimenta in prima persona. Abu Nihad non si prende più la briga di calcolare le sue perdite; conta solo i motivi che le hanno causate. Le persone viaggiano meno; le attese ai posti di blocco fanno sprecare gasolio; sulle strade sterrate gli pneumatici si consumano più velocemente e si usa più carburante; i guasti ai veicoli sono più frequenti. Lina ha saputo dal medico che una delle sue pazienti, che vive a nord di Ramallah, ha smesso di andare in ospedale per le terapie. Quando il medico l’ha chiamata per chiederle spiegazioni, lei ha detto che non poteva permettersi il trasporto pubblico e preferiva risparmiare il poco che aveva per sfamare i figli. Allora lui le ha mandato i soldi per coprire le spese di viaggio per i tre mesi, ma lei li ha dati ai suoi figli. La rinuncia a viaggiare in auto è un fenomeno generale ed è uno dei sintomi della crisi economica in Cisgiordania. Decine di migliaia di famiglie hanno perso la loro fonte primaria di sussistenza quando Israele ha vietato l’ingresso dei lavoratori palestinesi dopo il 7 ottobre 2023. L’Autorità nazionale palestinese (Anp) non è in grado di pagare interamente i salari ai dipendenti pubblici, perché Israele confisca una quota significativa delle entrate del ministero delle finanze dell’Anp ottenute con i dazi sulle importazioni. Gli impiegati lavorano in ufficio solo pochi giorni a settimana, gli insegnanti tengono le lezioni su Zoom due o tre giorni a settimana, quando è possibile. Regole più severe Daliya, un’abitante di Gerusalemme Est che lavora in Cisgiordania, conosce bene i posti di blocco. “È evidente come contribuiscono a frammentare il nostro territorio, ma è difficile spiegare come hanno preso il controllo delle nostre vite”. Agli occhi di un osservatore esterno, ogni blocco è un “non-evento”. “Quando il traffico è congestionato al checkpoint di Qalandiya puoi lamentarti dell’aumento delle auto private e della cultura consumistica, dimenticando che tre corsie convergono in un unico posto di blocco e che questi posti di blocco di fatto separano i palestinesi tra loro”. E offre altri esempi: “Quando il tragitto alternativo comporta una salita ripida, chi sente il cuore degli autisti martellare nei loro veicoli grossi e ansimanti? Quando un varco è chiuso, l’immobilità non si vede: l’insegnante che non arriva in classe, la riunione che si svolge senza alcuni partecipanti. Quando in una strada asfaltata vuota e fatiscente spuntano un’estate dopo l’altra rovi e cardi, non vedi il trattore o il carretto trainato da un asino che un tempo passavano qui per raggiungere gli uliveti o le sorgenti d’acqua. Non vedi la vita che c’era una volta”. Questi non-eventi determinano e invadono la vita quotidiana, non solo nel luogo in cui accadono – cioè sulle strade – ma anche nelle conversazioni di ogni giorno, a scuola, al supermercato, in famiglia; condizionano le decisioni su dove vivere (a nord o a sud di un checkpoint), le spese, i conti in banca e la pressione sanguigna. Questa era la realtà anche sette anni fa, quando i checkpoint e i posti di blocco erano 706, o nel 2023 quando il numero era sceso a 645. Da due anni però la situazione sta peggiorando. Questa realtà porta i palestinesi a trovare nuove definizioni di disperazione. “Quando muore uno di noi, per loro è un sollievo, è un peso in meno”, dice Abu Nihad. “Ma noi siamo reclusi senza essere ufficialmente incarcerati. Io muoio ogni giorno”. Le forme di questa reclusione sono molte, l’unico limite è l’immaginazione di chi stabilisce i blocchi: cubi di cemento o cumuli di terra e pietre in mezzo a una strada, fossati costeggiati da terrapieni; varchi metallici sempre chiusi, o aperti a intermittenza; quelli chiusi e aperti a distanza; quelli che i soldati vengono ad aprire e chiudere con una chiave; i posti di controllo presidiati dai soldati 24 ore su 24 sette giorni su sette e quelli chiusi quando i soldati tornano alla base a mezzogiorno; quelli chiusi a orari fissi, e quelli chiusi al traffico in base a qualche oscura decisione o, come sostengono i palestinesi, “all’umore del soldato di turno”. Il medico di Lina, che arriva dalla zona di Betlemme, passa ogni giorno da quello che viene chiamato il checkpoint Container a Wadi Nar: tutto il traffico palestinese tra il sud e il nord della Cisgiordania passa da lì. Una breve pausa degli agenti della polizia di frontiera per andare in bagno o mangiare un panino è sufficiente a paralizzare il traffico per mezz’ora o più. Di fatto, è sufficiente che la polizia di frontiera chieda a ogni auto di fermarsi per cinque secondi, senza dare neppure un’occhiata al documento di identità del                                                                                                                                    conducente o senza aprire il portabagagli per formare un serpentone di auto dalla cima della collina fino alla vallata, che si muove di cento metri all’ora. In passato capitava che l’esercito israeliano alleggerisse la pressione dopo alcune settimane o mesi di restrizioni più rigide. Oggi la tendenza è imporre politiche più severe. L’Ocha ha constatato che vent’anni fa circa tre quarti dei vari blocchi stradali erano costituiti da cumuli di terra e barriere di cemento, quindi erano temporanei e facilmente rimovibili. Oggi si tende a usare più spesso infrastrutture stabili, il che indica un’istituzionalizzazione dei limiti al movimento. A maggio di quest’anno c’erano 94 checkpoint presidiati dai militari sempre, sette giorni su sette, mentre altri 153 erano sorvegliati per poche ore al giorno. Sui 223 varchi metallici contati dall’Ocha a settembre, 127 erano abitualmente chiusi. Il loro scopo evidentemente non è solo bloccare: sopra ogni struttura ci sono videocamere per il riconoscimento facciale, che registrano anche tutte le targhe. In questo modo, dice Daliya, “ci muoviamo tra una sensazione di claustrofobia in ogni enclave circondata da checkpoint, blocchi, postazioni militari, avamposti e insediamenti e la consapevolezza di essere costantemente sotto sorveglianza”. L’esercito israeliano non ha risposto alla richiesta di Haaretz sul numero di varchi metallici e su chi decide quando chiuderli e aprirli, o ordina ai soldati di fotografare i conducenti palestinesi. Si è anche rifiutato di commentare se i ritardi hanno lo scopo di facilitare il movimento dei cittadini ebrei dagli insediamenti al territorio israeliano vero e proprio.                                                                                                                                                  “Le decisioni sulla creazione dei posti di blocco”, ha detto un portavoce, “così come le loro aperture e chiusure sono prese sulla base di valutazioni operative e per motivi di sicurezza. La loro disposizione serve a consentire il controllo operativo e una difesa efficace dell’intera area. La politica sui posti di blocco cambia a seconda della situazione sul campo, unendo le necessità in materia di sicurezza con la possibilità di viaggiare nell’area”. Nell’ambito delle attività militari, ha concluso, “dispositivi tecnologici sono usati nel rispetto del diritto internazionale per tutelare la sicurezza. L’uso di questi dispositivi ha consentito di sventare decine di attentati                                                                                                                               terroristici, in parte grazie ai posti di blocco.” fdl
Pena di morte ed espulsioni, il futuro di Silwan e Cisgiordania
Pena di morte ed espulsioni, il futuro di Silwan e Cisgiordania | il manifesto Michele Giorgio Il Manifesto Terra rimossa Avanza alla Knesset la legge voluta da Itamar Ben Gvir per colpire i «terroristi palestinesi». A Silwan altre famiglie espulse dalle loro case Una manifestazione contro le demolizioni di case a Gerusalemme -Mostafa Gli avvocati erano riusciti a strappare ai giudici israeliani lo slittamento di qualche settimana degli ordini di espulsione di decine di famiglie palestinesi a Silwan, ai piedi della città vecchia di Gerusalemme. Ma due, la Odeh e la Sweiki, domenica hanno già visto occupata e confiscata la loro casa. Un’altra, la Rajabi, ha ricevuto la «visita» della polizia e presto perderà la sua abitazione. L’ombra dei coloni israeliani e della legge israeliana a senso unico grava sempre di più su Silwan e sui rioni di Batn al Hawa e Bustan. Dopo anni di battaglie legali, gli sfratti politici nella zona araba della città occupata da Israele nel 1967 diventano esecutivi con l’impiego di decine di poliziotti. Il clima è cupo e a renderlo più opprimente è il dibattito sulla «pena di morte per i terroristi» (palestinesi), in corso ad appena tre chilometri di distanza da Silwan, alla Knesset, per iniziativa del ministro israeliano della Sicurezza, Itamar Ben Gvir. La legge verrà approvata «rapidamente e senza compromessi» dal parlamento, ha promesso Ben Gvir. Quando sarà approvata in via definitiva, i giudici manderanno davanti al boia coloro che avranno commesso l’omicidio di un israeliano per motivi nazionalistici, quindi solo i palestinesi. «La situazione è pessima, peggiora giorno dopo giorno. Siamo disperati, non sappiamo dove andare e a chi chiedere aiuto» ci dice al telefono Zohair Rajabi, attivista di Batn al Hawa e cugino di Nasser Rajabi, al quale potrebbero portare via la casa nel giro di qualche giorno. «Nasser – racconta Zohair – ha cinque figli, uno dei quali disabile. Gli israeliani gli porteranno via la casa e per lui e la sua famiglia trovare un alloggio sarà impossibile. In città gli affitti sono altissimi per i nostri stipendi molto bassi». La famiglia Rajabi è solo una delle tante a vivere con la paura costante di perdere la propria casa. L’ordine di sfratto stabilisce che dovrà uscire dall’abitazione entro il primo dicembre. Altrimenti sarà cacciata via con la forza. Sullo sfondo di queste sentenze ci sono le organizzazioni dei coloni israeliani. Durante i due anni di offensiva contro Gaza, al riparo dagli obiettivi delle telecamere, i coloni e le autorità israeliane sono riusciti a cambiare ulteriormente il volto di Silwan. Oltre alle evacuazioni di Batn al Hawa, è vicino al completamento lo scavo della via Erodiana e avanza il piano di demolizione del rione Bustan. Questi progetti cambieranno il volto dell’intera Silwan, aumentando il numero dei coloni e rendendo la vita più complicata agli abitanti palestinesi. L’organizzazione israeliana Ateret Cohanim rivendica la proprietà di oltre 5.200 metri quadrati di terreno, sostenendo che appartenevano a ebrei yemeniti fin dal 1881. L’argomento legale si fonda su di un trust istituito nel 1890 per ospitare immigrati ebrei dallo Yemen, abbandonato negli anni Trenta e poi riattivato nel 2001 con il trasferimento del diritto di gestione ad Ateret Cohanim da parte del cosiddetto Custode israeliano delle proprietà degli assenti. Da allora, 87 famiglie palestinesi hanno ricevuto ordini di sgombero, citazioni legali e minacce. Domenica, durante l’irruzione della polizia, Asmahan al-Shweiki, una settantenne, ha avuto un collasso ed è stata portata all’ospedale. La situazione non è diversa nella Cisgiordania occupata. Nel villaggio di Umm al-Khair, a sud di Hebron, gli abitanti attendono l’arrivo dei bulldozer militari israeliani. Quattordici strutture, tra cui il centro comunitario e la serra, saranno demolite. Molti residenti hanno ricostruito le case distrutte decine di volte. Israele parla di «costruzioni illegali». Ma ottenere un permesso di costruzione per i palestinesi è quasi impossibile: secondo l’organizzazione Bimkom, tra il 2016 e il 2021 il 99% delle richieste è stato respinto. I coloni dell’insediamento di Carmel, accanto al villaggio, hanno spesso preso parte ad atti di violenza. All’inizio del 2025, un settler ha ucciso l’attivista Awdah Hathaleen mentre si trovava nel centro destinato ora alla demolizione. Nei villaggi cisgiordani, nel frattempo, non si arrestano gli attacchi dei coloni contro gli uliveti. A Khirbet al-Taban, nella zona di Masafer Yatta, sono stati sradicati circa settanta alberi nelle ultime ore. Tra i 14 palestinesi feriti nel fine settimana a Beita ci sono anche cinque giornalisti picchiati dai coloni. La fotoreporter della Reuters, Ranin Sawafteh, ha subito fratture e contusioni. Dall’ottobre 2023, con l’inizio della guerra a Gaza, la violenza dei coloni e gli spari delle forze israeliane in Cisgiordania e a Gerusalemme Est sono aumentati drasticamente: oltre mille palestinesi sono stati uccisi e migliaia arrestati.
I palestinesi senza futuro in Cisgiordania
Gideon Levy -Haaretz (Internazionale 1638 | 31 ottobre 2025)   A Gaza vengono uccise r costrette alla fuga meno persone rispetto ai mesi scorsi, ma in Cisgiordania le cose vanno avanti come se non ci fosse stato alcun cessate il fuoco   (Il mese di ottobre ha registrato il numero mensile più alto di attacchi da parte dei coloni israeliani contro i palestinesi da quando l'ONU ha iniziato a tenerne traccia nel 2006.ndr) Il muro vicino a Ramallah In Cisgiordania nessuno ha sentito parlare del cessate il fuoco a Gaza: né l’esercito, né i coloni, né l’amministrazione civile, né ovviamente i tre milioni di palestinesi che vivono sotto la loro tirannia. Non percepiscono minimamente la fine della guerra. Da Jenin a Hebron non si vede nessun cessate il fuoco. Per due anni in Cisgiordania c’è stato un regno del terrore oscurato dalla guerra nella Striscia, che ha fatto da pretesto discutibile e da cortina fumogena, e non ci sono segnali che questo regno stia per finire. Tutti i decreti draconiani imposti ai palestinesi il 7 ottobre 2023 restano in vigore, e alcuni sono stati resi ancora più duri. La violenza dei coloni non si ferma, e lo stesso vale per il coinvolgimento dell’esercito e della polizia israeliana negli scontri. A Gaza vengono uccise e costrette alla fuga meno persone rispetto ai mesi scorsi, ma in Cisgiordania le cose vanno avanti come se non ci fosse stato alcun cessate il fuoco. L’amministrazione Trump, così attiva e risoluta a Gaza, chiude gli occhi sulla Cisgiordania e mente a se stessa sulla situazione nella regione. Per loro è sufficiente bloccare l’annessione. “Non succederà perché ho dato la mia parola ai paesi arabi”, ha detto il 23 ottobre il presidente Donald Trump, mentre alle sue spalle Israele fa di tutto per distruggere, derubare e impedire la possibilità di vivere in Cisgiordania. A volte sembra che il capo del comando centrale dell’esercito israeliano Avi Bluth – leale e obbediente al suo superiore, il ministro della finanze Bezalel Smotrich, che è anche nel ministero della difesa – stia conducendo un esperimento in collusione con coloni e forze di polizia: vediamo quanto possiamo tormentarli prima che esplodano. La speranza che la loro sete di violenza si placasse una volta interrotti i bombardamenti a Gaza è stata spazzata via. La guerra nella Striscia era solo una scusa. Nel momento in cui i mezzi d’informazione non parlano della Cisgiordania e alla maggior parte degli israeliani e degli statunitensi non importa niente di quello che succede lì, il tormento può andare avanti. Anzi, il 7 ottobre è stata un’occasione storica per i coloni e i loro collaboratori, che hanno avuto la possibilità di fare quello che per anni non avevano osato fare. Non è più possibile essere palestinesi in Cisgiordania. Non è stata distrutta come Gaza, non sono morte decine di migliaia di persone, ma lì la vita è diventata impossibile. Non sappiamo per quanto tempo Israele potrà stringere ancora la sua morsa senza che avvenga un’esplosione di violenza, stavolta giustificata. Circa duecentomila palestinesi della Cisgiordania che prima lavoravano in Israele da due anni sono disoccupati. I salari di decine di migliaia di dipendenti dell’Autorità nazionale palestinese sono stati ridotti in modo significativo, perché Israele ha trattenuto le tasse che riscuote per conto della stessa Autorità nazionale palestinese. Ovunque ci sono povertà e disagio. E lo stesso vale per i posti di blocco. Non ce ne sono mai stati così tanti, di sicuro non per tutto questo tempo. Adesso se ne contano a centinaia. Ogni insediamento ha recinzioni di ferro che si aprono e chiudono a turno. Non c’è modo di sapere cosa è aperto e cosa è chiuso né, cosa ancora più importante, quando. È tutto arbitrario. Tutto avviene su pressione dei coloni, che hanno assoggettato l’esercito israeliano. Ecco come stanno le cose da quando Bezalel Smotrich è ministro della Cisgiordania. Dal maledetto 7 ottobre sono stati istituiti circa 120 nuovi avamposti di insediamenti, quasi sempre in modo violento, per un totale di decine di migliaia di acri, il tutto con il sostegno dello stato. Non passa settimana senza che sia creato un avamposto. Anche la portata della pulizia etnica, il vero obiettivo dei coloni, è senza precedenti: il 24 ottobre su Haaretz la giornalista Hagar Shefaz ha ricordato che nel corso della guerra a Gaza gli abitanti di ottanta villaggi palestinesi in Cisgiordania sono fuggiti per paura dei coloni che si erano impadroniti dei loro territori. Il volto della Cisgiordania sta cambiando. Trump può vantarsi di aver fermato l’annessione, ma ormai l’annessione è più radicata che mai. Dal centro di comando che l’esercito statunitense ha istituito a Kiryat Gat si può vedere Gaza, ma non si vede Kiryat Arba, l’insediamento alle porte di Hebron. La Cisgiordania sta chiedendo a gran voce un intervento internazionale esattamente come fa la Striscia di Gaza. I soldati, siano essi statunitensi, europei, emiratini o perfino turchi, devono proteggere i suoi abitanti. Qualcuno deve salvarli dalle grinfie dell’esercito israeliano e dei coloni. Immaginate un soldato straniero che a un posto di blocco impedisce il passaggio a coloni teppisti che stanno per commettere un pogrom. Un sogno. GIDEON LEVY è un giornalista del quotidiano israeliano Haaretz, su cui è uscito questo articolo.
I nomi dei 95 medici ed operatori sanitari palestinesi tenuti in ostaggio da Israele
Israele continua a detenere 80 medici e operatori sanitari palestinesi provenienti da Gaza e 15 dalla Cisgiordania occupata. di Hanna Duggal e Mohammed Haddad Al Jazeera, 22 ottobre 2025 Sempre più medici e operatori sanitari si stanno mobilitando e chiedono un intervento per ottenere il rilascio del dottor Hussam Abu Safia e di almeno altri 94 medici palestinesi attualmente tenuti in ostaggio dalle autorità israeliane. Lunedì, in un evento organizzato da Healthcare Workers Watch (HWW) e Amnesty International UK, medici e operatori sanitari hanno protestato davanti al St Thomas' Hospital nel centro di Londra, chiedendo il rilascio immediato e incondizionato di tutti gli operatori sanitari attualmente detenuti, in condizioni spaventose, in Israele. La protesta arriva pochi giorni dopo che un tribunale israeliano ha prorogato la detenzione arbitraria di Abu Safia per altri sei mesi in base alla legge sui combattenti illegali, legge ampiamente condannata nel mondo. Healthcare Workers Watch (HWW), Amnesty International UK, medici e operatori sanitari protestano davanti al St Thomas' Hospital nel centro di Londra il 20 ottobre [Immagine per gentile concessione di Healthcare Workers Watch] Altri cinque operatori sanitari sono morti o sono stati uccisi mentre erano detenuti da Israele, e altri cinque sono dispersi, senza che si conosca la loro sorte. Secondo il Ministero della Salute palestinese, almeno 1.722 operatori sanitari sono stati uccisi negli attacchi israeliani negli ultimi due anni. Secondo HWW, la maggior parte degli operatori sanitari è stata rapita dall'esercito israeliano dai loro ospedali o dalle loro ambulanze mentre erano in servizio. Le testimonianze raccolte da HWW e da altre organizzazioni documentano le torture e gli abusi subiti dai palestinesi durante la detenzione israeliana. La dottoressa Rebecca Inglis, di HWW, afferma: “La detenzione continuata da parte di Israele di quasi un centinaio di operatori sanitari è in chiara violazione del diritto internazionale umanitario. Siamo gravemente preoccupati per il loro benessere, date le numerose prove che dimostrano che i detenuti palestinesi vengono torturati durante la detenzione israeliana”. Chi è il dottor Hussam Abu Safia? Abu Safia, direttore dell'ospedale Kamal Adwan nel nord di Gaza, è stato rapito dalle forze israeliane il 27 dicembre 2024, dopo che le truppe hanno fatto irruzione nell'ospedale, che all'epoca era una delle ultime strutture mediche funzionanti nella regione. Amnesty International afferma che il direttore dell'ospedale è detenuto senza accuse né processo in base a una legge israeliana sulla sicurezza. Nonostante i bombardamenti incessanti e la tragica morte di suo figlio in un attacco aereo israeliano, Abu Safia è rimasto in servizio, curando i pazienti e guidando la sua équipe in condizioni inimmaginabili. Dal momento del suo arresto, sono emerse testimonianze attendibili di torture, abusi fisici e trattamenti degradanti, tra cui una significativa perdita di peso e il rifiuto di cure mediche adeguate, igiene e accesso tempestivo a un avvocato, in chiara violazione del diritto internazionale. L'attacco sistematico di Israele alle infrastrutture sanitarie di Gaza Almeno il 94% degli ospedali di Gaza è stato danneggiato o distrutto e molti non sono più operativi. Inoltre, medici e operatori sanitari qualificati sono stati uccisi e questo, insieme alla detenzione di operatori sanitari (la maggior parte dei quali è stata rapita mentre lavorava negli ospedali e nelle strutture sanitarie) ha aumentato l'enorme pressione sul già vulnerabile sistema sanitario di Gaza. Tra il 7 ottobre 2023 e il 20 ottobre 2025, HWW ha documentato un totale di 431 casi di operatori sanitari palestinesi detenuti. Al 20 ottobre 2025: * 309 dei 431 operatori sanitari detenuti sono stati rilasciati; di questi, 67 sono stati rilasciati nell'ambito dell'ultimo accordo di scambio del 13 ottobre * Cinque operatori sanitari sono ancora dispersi (tre medici senior, un farmacista dell'UNRWA e un fisioterapista senior) * Cinque operatori sanitari sarebbero stati uccisi o sarebbero morti durante la detenzione israeliana, ma i loro corpi non sono stati restituiti alle famiglie. HWW ha dichiarato di non aver ancora ricevuto aggiornamenti dalle famiglie di 22 operatori sanitari detenuti, che non sono inclusi nelle cifre relative ai “detenuti confermati” o ai “rilasciati confermati”. Chi sono gli altri operatori sanitari in ostaggio? Gli operatori sanitari ancora in ostaggio di Israele hanno trascorso in media 511 giorni in carcere, alcuni di loro sono prigionieri sin dalle prime settimane di guerra. Dei 95 detenuti, 80 provengono da Gaza, mentre i restanti 15 dalla Cisgiordania occupata. Solo a Gaza sono stati arrestati 31 infermieri, seguiti da 17 medici, 15 membri del personale di supporto e di gestione ospedaliera, 14 paramedici, due farmacisti e un tecnico medico. Venticinque ricoprivano posizioni di alto livello, 50 occupavano posizioni di medio livello, mentre cinque erano operatori sanitari junior. Tutti sono uomini, con una eccezione. La maggior parte degli operatori sanitari viveva nel nord di Gaza, da dove provengono 36 dei prigionieri, seguiti da 24 di Khan Younis, 18 della città di Gaza e 3 di Rafah. La tabella sottostante riporta i nomi e ulteriori informazioni sui 95 operatori sanitari ancora tenuti in ostaggio da Israele.     Stato Nome Età Titolo Ospedale Città/Governatorato Durata 1 Detenuto Dr Akram Hassan Mohammed Abu-Odeh 61 Chirurgo Ortopedico e Primario di Ortopedia Ospedale Indonesiano Gaza nord In detenzione da 698 giorni 2 Detenuto Dr Sulieman Zuhdi Sulieman Abu-Shareea 37 Medico Generico Volontario Centro ambulanze di Jabalia della Mezzaluna Rossa Palestinese Gaza nord In detenzione da 670 giorni 3 Detenuto Dr Ahmed Ibrahim Hassan Mousa 43 Specialista di Chirurgia Generale Centro Medico Nasser Khan Younis In detenzione da 612 giorni 4 Detenuto Dr Ghassan Ihmaidan Musallam Abu-Zuhri 52 Responsabile Chirurgia Ortopedica Centro Medico Nasser Khan Younis In detenzione da 612 giorni 5 Detenuto Dr Nahed Zaki Ismail Abu-Taima 49 Responsabile Chirurgia Centro Medico Nasser Khan Younis In detenzione da 612 giorni 6 Detenuto Dr Mosab Fakhry Atia Samaan 28 Medico specializzando Centro Medico Nasser Khan Younis In detenzione da 612 giorni 7 Detenuto Dr Hamza Mohammed Hussien Abu-Sabha 31 Medico specializzando Centro Medico Nasser Khan Younis In detenzione da 612 giorni 8 Detenuto Dr Raed Yaqoub Salam Mahdi 52 Pediatra Ospedale Pediatrico al-Durra Gaza City In detenzione da 682 giorni 9 Detenuto Dr Khalid Abdul-Aziz Abdallah Seiyam 30 Specializzando in Chirurgia Generale Ospedale al-Shifa Gaza City In detenzione da 580 giorni 10 Detenuto Dr Murad Waleed Murad al-Qouqa 47 Chirurgo Ortopedico e primario di Ortopedia Ospedale al-Shifa Gaza City In detenzione da 580 giorni 11 Detenuto Dr Mahmoud Ahmed Khalil al-Hallaq 37 Specializzando di Medicina intensiva Centro Medico Nasser Khan Younis In detenzione da 612 giorni 12 Detenuto Dr Ahmed Mahmoud Mohammed Shehada 52 Specialista in cardiologia Centro Medico Nasser Khan Younis In detenzione da 627 giorni 13 Detenuto Dr Mohammed Hassan Ali Obaid 42 Chirurgo Ortopedico e primario di Ortopedia al-Awda Ospedale Gaza nord In detenzione da 359 giorni 14 Detenuto Dr Hassan Khalil Hassan al-Moqayyed 53 Chirurgo Vascolare Ospedale Kamal Adwan Gaza nord In detenzione da 359 giorni 15 Detenuto Dr Medhat Asaad Mahmoud Abu-Tabanja 45 Primario del Dipartimento di Terapia intensiva Ospedale Indonesiano Gaza nord In detenzione da 697 giorni 16 Detenuto Dr Hussam Idrees Amer Abu Safiya 52 Pediatra e primario facente funzione Ospedale Kamal Adwan Gaza nord In detenzione da 297 giorni 17 Detenuto Dr Marwan Shafeeq Ali al-Hams 53 Anestesista e direttore di ospedali da campo Palestinian Ministero della Salute Gaza Strip In detenzione da 91 giorni 18 Detenuto Dr Ahmed Mohammed Hassan Al-Kahlout (PhD) 53 Direttore Generale Ospedale Kamal Adwan Gaza nord In detenzione da 678 giorni 19 Detenuto Anas Abdulkareem Mohammed al-Shaikh 40 Responsabile dell'Unità di Controllo Infezioni Ospedale Indonesiano Gaza nord In detenzione da 580 giorni 20 Detenuto Rawhi Fayez Mohammed Al-Labban 38 Capo Infermiere al Dipartimento di Ortopedia Ospedale al-Shifa Gaza City In detenzione da 580 giorni 21 Detenuto Mahmoud Mohammed Awad Al-Shaweesh Lubbad 43 Capo Infermiere Ospedale Kamal Adwan Gaza nord In detenzione da 359 giorni 22 Detenuto Moayad Ismail Darwish Al-Ron 43 Capo dell'Unità di Controllo Infezioni e Cure Palliative e delle Infermiere della Riabilatazione Ospedale Indonesiano Gaza nord In detenzione da 297 giorni 23 Detenuto Mohammed Adham Abdullah Matar 24 Infermiere volontario Ministero della Salute Palestinese Gaza City In detenzione da 634 giorni 24 Detenuto Hamza Mansour Abdulkareem Nayfa 28 Infermiere Ospedale Kamal Adwan Gaza nord In detenzione da 359 giorni 25 Detenuto Hossam Waleed Abdulhameed Daher 28 Infermiere volontario Ospedale Kamal Adwan Gaza nord In detenzione da 359 giorni 26 Detenuto Ahmed Ramadan Hassan Abu-Riala 29 Infermiere Terapia Intensiva Ospedale al-Shifa Gaza City In detenzione da 701 giorni 27 Detenuto Ahmed Amin Mohammed Abdelhadi 27 Infermiere Centro Medico Nasser Khan Younis In detenzione da 612 giorni 28 Detenuto Rami Hasan Abdulqader Al-Kurdi 34 Infermiere volontario Ospedale al-Shifa Gaza City In detenzione da 580 giorni 29 Detenuto Azzam Khalid Motleq Eissa 34 Infermiere volontario Ospedale al-Shifa Gaza City In detenzione da 580 giorni 30 Detenuto Ezz-Elddin Moustafa Hussein Al-Zaanin 27 Infermiere volontario Ospedale al-Shifa Gaza City In detenzione da 580 giorni 31 Detenuto Majed Jamal Roubin Al-Jaish 26 Infermiere volontario Ospedale al-Shifa Gaza City In detenzione da 580 giorni 32 Detenuto Louai Majed Darwish Harara 36 Infermiere volontario Ospedale al-Shifa Gaza City In detenzione da 580 giorni 33 Detenuto Fayez Zaghloul Abdulrahman Abu-Anza 42 Infermiere di Pronto Soccorso Centro Medico Nasser Khan Younis In detenzione da 612 giorni 34 Detenuto Ahmed Abdulrahman Salem Sadeq 26 Infermiere Centro Medico Nasser Khan Younis In detenzione da 612 giorni 35 Detenuto Mohammed Abdulrahim Shaaban Al-Arbeed 34 Infermiere Ospedale al-Shifa Gaza City In detenzione da 626 giorni 36 Detenuto Ahmed Mousa Ismail Mousa 34 Infermiere Centro Medico Nasser Khan Younis In detenzione da 633 giorni 37 Detenuto Hatem Hussien Ibrahim Al-Jamal 48 Infermiere Ospedale Kamal Adwan Gaza nord In detenzione da 359 giorni 38 Detenuto Moataz Nabeel Nathmi Nassar 37 Infermiere Ospedale Kamal Adwan Gaza nord In detenzione da 359 giorni 39 Detenuto Al-Hassan Nabeel Nathmi Nassar 34 Infermiere Ospedale Kamal Adwan Gaza nord In detenzione da 359 giorni 40 Detenuto Anwar Muneer Anwar Al-Shorbaji 24 Infermiere Ospedale Kamal Adwan Gaza nord 41 Detenuto Zakariya Moneer Kamel Al-Draimli 38 Infermiere Servizi Medici Militari Gaza nord In detenzione da 297 giorni 42 Detenuto Hussien Mostafa Hussien Al-Zaaneen 43 Infermiere Ckinica Beit Hanoon Gaza nord In detenzione da 316 giorni 43 Detenuto Ameer Khalil Mohammed Shehada 36 Infermiere Ministero della Salute Gaza City In detenzione da 357 giorni 44 Detenuto Ahmed Atef Hassan Shaheen 30 Infermiere Ospedale Indonesiano Gaza nord In detenzione da 699 giorni 45 Detenuto Ibrahim Wajeeh Ismail Al-Ayoubi 35 Infermiere Ospedale Kamal Adwan Gaza nord In detenzione da 359 giorni 46 Detenuto Saleh Hashem Hassan Abu-Al-Aish 33 Infermiere Ospedale Kamal Adwan Gaza nord In detenzione da 359 giorni 47 Detenuto Moayyad Mounir Fahmi Al-Masri 36 Infermiere all'Unità di Controllo Infettivo Ministero della Salute Gaza City In detenzione da 359 giorni 48 Detenuta Tasneem Marwan Shafeeq Al-Hams 23 Infermiere al Punto Medico MoH campo per sfollati Al-Ard al-Tayba Khan Younis In detenzione da 18 giorni 49 Detenuto Anees Al-Dunia Abdulhamid Al-Astal 46 Responsabile del Dipartimento Paramedici area sud Ministero della Salute Khan Younis In detenzione da 688 giorni 50 Detenuto Mohammed Bassam Ahmed Al-Nahhal 32 Paramedico Ospedale Abu Youssef al-Najjar Rafah 51 Detenuto Tamer Mahmoud Hussien Abu-Shahin 48 Paramedico Ospedale Al-Amal Mezzaluna Rossa Palestinese Khan Younis In detenzione da 623 giorni 52 Detenuto Abdulaziz Moustafa Salman Kali 39 Paramedico Servizi Medici Militari Gaza nord In detenzione da 297 giorni 53 Detenuto Mohammed Bassam Ismail Al-Qedra 34 Paramedico Centro Medico Nasser Khan Younis In detenzione da 612 giorni 54 Detenuto Waleed Hammad Saleh Abu-Haddaf 34 Paramedico Centro Medico Nasser Khan Younis In detenzione da 612 giorni 55 Detenuto Ahmed Mohammed Adel Abu-Draz 40 Paramedico Centro Medico Nasser Khan Younis In detenzione da 612 giorni 56 Detenuto Wesam Essam Abu-Nada 37 Paramedico Ospedale Kamal Adwan Gaza nord In detenzione da 359 giorni 57 Detenuto Abdullah Abdulhafez Abdullah Awkal 45 Paramedico Ospedale Kamal Adwan Gaza nord In detenzione da 359 giorni 58 Detenuto Maher Mohammed Mohsin Al-Ajrami 52 Paramedico Ospedale Kamal Adwan Gaza nord In detenzione da 297 giorni 59 Detenuto Abdallah Khamis Abdallah Abu-Taha 45 Autista Ambulanze Ministero della Salute Khan Younis In detenzione da 697 giorni 60 Detenuto Mohammed Mahmoud Mohammed Abu-Saqer 40 Paramedico Ospedale Kamal Adwan Gaza nord 61 Detenuto Ali Hassan Khader Al-Rantisi 31 Paramedico Ospedale Kamal Adwan Gaza nord In detenzione da 359 giorni 62 Detenuto Hatem Ismail Abdullatif Rayyan 58 Paramedico Ospedale Kamal Adwan Gaza nord In detenzione da 359 giorni 63 Detenuto Dr Iyad Ibrahim Hussien Shaqoura (PhD) 43 Farmacista e PhD in Gestione Sanitaria Centro Medico Nasser Khan Younis In detenzione da 612 giorni 64 Detenuto Ahmed Kamal Hamdan Al-Najjar 26 Farmacista volontario Centro Medico Nasser Khan Younis In detenzione da 612 giorni 65 Detenuto Mahmoud Ali Younis Al-Nairab 34 Tecnico di Radiologia Ospedale Indonesiano Gaza nord In detenzione da 699 giorni 66 Detenuto Samer Mohammed Moeen Shaat 45 Personale Amministrativo col Dipartimento di Cooperazione Internazionale Ministero della Salute Gaza City In detenzione da 708 giorni 67 Detenuto Yousef Khalil Mohammed Abu-Afesh 29 Segretario del Direttore Generale Ospedale al-Shifa Gaza City In detenzione da 580 giorni 68 Detenuto Ahmed Mosaad Mahmoud Abu-Tabanja 24 Operatore di Sicurezza dell'Ospedale Centro Medico Nasser Khan Younis In detenzione da 612 giorni 69 Detenuto Ahmed Ibrahim Hussien Tabasi 38 Segretario Centro Medico Nasser Khan Younis In detenzione da 627 giorni 70 Detenuto Ali Yousef Mohammed Rostom 59 Personale amministrativo Centro Medico Nasser Khan Younis 71 Detenuto Nidal Fayez Jibreel Al-Moqayyad 32 Personale amministrativo Ospedale Kamal Adwan Gaza nord In detenzione da 359 giorni 72 Detenuto Mohammed Eid Abdulqader Sabbah 32 Specialista di Pubbliche Relazioni Ospedale Kamal Adwan Gaza nord In detenzione da 297 giorni 73 Detenuto Hammouda Riyad Asaad Shamallakh 33 Ingegnere Web e Software - Sistemi Informatici e Informazione Ministero della Salute Gaza City In detenzione da 581 giorni 74 Detenuto Saleh Maher Mahmoud Abu-Ammona 32 Ingegnere Web e Software - Sistemi Informatici e Informazione Ministero della Salute Gaza City In detenzione da 581 giorni 75 Detenuto Jaber Moustafa Ahmed Al-Fairi 62 Addetto all’obitorio Ospedale Kamal Adwan Gaza nord In detenzione da 359 giorni 76 Detenuto Bahaa-Al-Din Hosni Mahmoud Ashour 30 Personale amministrativo Ospedale Kamal Adwan Gaza nord In detenzione da 359 giorni 77 Detenuto Haroun Abdulfattah Mahmoud Al-Moqayyad 42 Personale amministrativo Ospedale Kamal Adwan Gaza nord In detenzione da 359 giorni 78 Detenuto Omar Mohammed Eid Al-Hawajri 54 Addetto all’obitorio Ospedale Kamal Adwan Gaza nord In detenzione da 359 giorni 79 Detenuto Abdullah Omar Ali Abu-Rayya 42 Personale amministrativo Ospedale Kamal Adwan Gaza nord In detenzione da 359 giorni 80 Detenuto Rezeq Essam Rezeq Abu-Azab 31 Tecnico Manutentore Centro Medico Nasser Khan Younis 81 Detenuto Dr Alaa-Al-Din Mohammed Ali Shalaldeh 47 Specializzando in Medicina di Emergenza Ospedale Alia Hebron In detenzione da 688 giorni 82 Detenuto Dr Aysar Al-Barghouthi Anestesista Complesso Medico Palestine Ramallah In detenzione da 652 giorni 83 Detenuto Dr Khaled Kharouf Medico Ministero della Salute El-Bireh In detenzione da 652 giorni 84 Detenuto Dr Momin Raed Abdulhameed Mesk 25 Medico Internista Ospedale Alia Hebron In detenzione da 582 giorni 85 Detenuto Dr Ahmed Ramzi Nemer Seder 33 Medico Generico e Manager sanitario Centro Medico Medicare Jericho In detenzione da 410 giorni 86 Detenuto Dr Bassam Ouda Al-Shabaan Al-Awaysa 49 Medico Generico Ospedale Abu al-Hassan al-Qasem Hebron In detenzione da 102 giorni 87 Detenuto Dr Rashad Murshid Rashad Al-Zarou 49 Specialista di chirurgia plastica and ricostruttiva Patient Friends Society all'Ospedale al-Ahli Hebron In detenzione da 579 giorni 88 Detenuto Dr Salah Ziad Al-Kharraz 23 Studente al quarto anno di Medicina An-Najah National University Nablus In detenzione da 547 giorni 89 Detenuto Ahmed Ali Abdulqader Ateeq 22 Studente di Medicina Veterinaria An-Najah National University Nablus In detenzione da 592 giorni 90 Detenuto Mohammed Jamal Mousa Al-Rayyan 22 Studente Infermiere Ospedale Ibn Sina Nablus 91 Detenuto Osaid Waleed Mahmoud Amro 25 Studente all'ultimo anno di medicina Al-Quds Open University Abu Dis In detenzione da 489 giorni 92 Detenuto Murid Al-Attari Dahadha Infermiere Complesso Medico Palestine Ramallah In detenzione da 652 giorni 93 Detenuto Jamal Hikmat Mahmoud Qandil 28 Paramedico Centro Ambulanze Jenin Jenin In detenzione da 630 giorni 94 Detenuto Ahmed Saeed Jamal Abu-Roumi 41 Paramedico Mezzaluna Rossa Palestinese Jerusalem In detenzione da 445 giorni 95 Detenuto Mahmoud Taiseer Al-Mashayekh 30 Operatore sanitario di comunità 1for3 Palestine Cisgiordania In detenzione da 529 giorni 96 Deceduto in prigionia Dr Iyad Ahmed Mohammed Al-Rantisi 53 Primario di Ostetricia e Ginecologia Ospedale Kamal Adwan Gaza nord 97 Deceduto in prigionia Hamdan Hassan Hamdan Ennaba 45 Paramedico Senior Centro Medico Nasser Khan Younis 98 Deceduto in prigionia Dr Adnan Ahmed Attia Al-Bursh 50 Chirurgo Ortopedico Ospedale Al-Shifa Gaza City 99 Deceduto in prigionia Dr Ziad Mohammed Saleh Al-Dalou (PhD) 65 Capo Infermiere Ospedale Al-Shifa Gaza City 100 Deceduto in prigionia Mosaab Hani Ghazi Haniyeh 35 Personale amministrativo Ospedale Al-Shifa Gaza City 101 Disperso Dr Mohammed Khaled Mohammed Al-Derdisawi 57 Specialista Gastroenterologia e Endoscopia Pediatrica Centro Medico Nasser Khan Younis Disperso for 636 giorni 102 Disperso Hammouda Salem Moustafa Shaat 78 Pediatra Centro Medico Nasser Khan Younis Disperso for 133 giorni 103 Disperso Dr Talal Akram Ismail Al-Shawwa 72 Pediatra Ospedale al-Shifa Gaza City Disperso for 639 giorni 104 Disperso Salwa Talal Akram Al-Shawwa 44 Farmacista Centro sanitario UNRWA di Jabalia Gaza nord Disperso for 639 giorni 105 Disperso Ehab Khalil Wajeeh Badra 48 Fisioterapista Servizi Medici Militari Gaza City Disperso for 639 giorni
Si chiamava Hind: la sua Fondazione porta 24 soldati e comandanti israeliani di fronte alla Corte Penale Internazionale per il suo omicidio
Fondazione Hind Rajab, 21 ottobre 2025 Bruxelles/L'Aia Il giorno dopo la messa in onda del documentario in lingua araba di Al Jazeera “Tip of the Iceberg” (La punta dell'iceberg), in cui la Fondazione Hind Rajab (HRF) ha rivelato l'identità del battaglione, della compagnia e dei comandanti israeliani responsabili dell'uccisione della bambina di 6 anni Hind Rajab, la Fondazione ha presentato un ricorso di 120 pagine ai sensi dell'articolo 15 alla Corte penale internazionale (CPI) dell'Aia. Questo ricorso fa i nomi di 24 soldati e comandanti israeliani responsabili dell'uccisione di Hind Rajab, di sei membri della sua famiglia e di due paramedici della Mezzaluna Rossa palestinese, Yusuf al-Zeino e Ahmed al-Madhoun, che sono stati deliberatamente presi di mira mentre tentavano di salvarla il 29 gennaio 2024 nella città di Gaza. Il documentario "Tip of the Iceberg" su Al Jazeera (in arabo con sottotitoli in inglese) I nomi dei 24 responsabili La denuncia si basa sulla prima comunicazione dell'HRF del 3 maggio 2025 e fornisce prove dettagliate che identificano la Vampire Empire Company del 52° Battaglione Corazzato (“Ha-Bok'im / The Breachers”), che opera sotto la 401ª Brigata Corazzata israeliana. La denuncia nomina: * Il colonnello Beni Aharon, comandante della 401ª Brigata Corazzata * Il Tenente colonnello Daniel Ella, comandante del 52° battaglione corazzato * Il Maggiore Sean Glass, comandante della Vampire Empire Company, insieme a 22 membri identificati dell'equipaggio dei carri armati della stessa compagnia che hanno partecipato direttamente o facilitato l'attacco. Nel documentario in lingua araba di Al Jazeera, HRF ha rivelato pubblicamente le identità dei comandanti e del membro dell'equipaggio del carro armato Itay Cukierkopf. I restanti 22 nomi sono stati ora trasmessi in forma riservata alla Corte penale internazionale e saranno resi pubblici progressivamente, man mano che saranno presentate denunce a livello nazionale in diverse giurisdizioni. Prove e fondamenti giuridici La comunicazione include prove digitali, satellitari e forensi complete che confermano che i carri armati Merkava IV della Vampire Empire Company hanno ripetutamente sparato sulla Kia Picanto nera in cui erano intrappolati Hind e la sua famiglia, e successivamente hanno preso di mira l'ambulanza inviata per soccorrerla. Gli attacchi sono stati effettuati con la piena consapevolezza dello status civile e protetto delle vittime, essendo successivi al coordinamento tra la Mezzaluna Rossa palestinese e le autorità israeliane. Il team legale della Fondazione conclude che questi atti costituiscono crimini di guerra, crimini contro l'umanità e genocidio, ai sensi degli articoli 6, 7 e 8 dello Statuto di Roma. Sean Glass, Comandante della Vampire Empire Company   Espandere la lotta per la giustizia in tutto il mondo Parallelamente alla denuncia alla Corte penale internazionale, l'HRF sta perseguendo procedimenti penali nazionali sia in base alla giurisdizione universale che alla giurisdizione della doppia nazionalità, prendendo di mira i responsabili che possiedono la cittadinanza straniera oltre a quella israeliana. Un primo caso è già stato presentato in Argentina contro Itay Cukierkopf, uno dei membri dell'equipaggio del carro armato citati nella denuncia alla Corte penale internazionale. Altri casi sono in fase di preparazione in Europa, America Latina e Nord America, per garantire che nessun criminale di guerra possa trovare rifugio dietro confini o passaporti. > “Non si tratta solo di un atto legale, ma di una rivolta contro l'ordine > globale dell'impunità”, ha affermato Dyab Abou Jahjah, direttore generale > della Fondazione Hind Rajab. > “Credevano che l'omicidio di Hind sarebbe rimasto impunito; stiamo dimostrando > che si sbagliavano, passo dopo passo. Ventiquattro nomi sono ora davanti alla > Corte penale internazionale e altri seguiranno nei tribunali nazionali. La > giustizia non è un favore che chiediamo, è l'inevitabile resa dei conti con la > verità”. Appello alla Corte penale internazionale La Fondazione Hind Rajab chiede all'Ufficio del Procuratore della Corte penale internazionale di: 1. Incorporare l'omicidio di Hind Rajab e dei suoi soccorritori ne dossier  "Situazione nello Stato di Palestina"; 2. Ampliare le indagini per includere la Vampire Empire Company, il 52° Battaglione corazzato e la 401ª Brigata corazzata; 3. Emettere mandati di arresto per i 24 autori identificati. Natacha Bracq, responsabile del contenzioso presso l'HRF, ha dichiarato: > “Questa denuncia stabilisce una catena di comando diretta, un controllo > operativo e un intento deliberato. Le prove dimostrano la natura organizzata e > sistematica dell'attacco, che soddisfa i requisiti legali per il perseguimento > penale ai sensi del diritto penale internazionale. Il caso di Hind Rajab non è > isolato, ma rappresenta un modello più ampio di violazioni che la Corte penale > internazionale deve affrontare con urgenza. Lo Stato di diritto non può > rimanere selettivo quando il crimine è il genocidio”. L'uccisione di Hind Rajab aveva lo scopo di spezzare lo spirito di un popolo; invece, ha risvegliato un movimento globale per la giustizia. Ogni fascicolo che presentiamo, ogni nome che riveliamo e ogni aula di tribunale in cui entriamo porta con sé il suo ricordo come una sfida all'arroganza del potere. L'era dell'impunità sta volgendo al termine e il nome di Hind segnerà il punto in cui ha iniziato a crollare.   Traduzione a cura dell'Associazione di Amicizia Italo-Palestinese Onlus, Firenze
Ilan Pappe: Il calice avvelenato del riconoscimento: un'arma a doppio taglio per la Palestina
 26 Settembre 2025 12:30 Anche se non dovremmo considerarlo un “momento storico” o un “punto di svolta”, questo riconoscimento ha il potenziale per aiutare i palestinesi a condurci verso un futuro diverso. Ilan Pappeé* – The Palestine Chronicle  In passato, ero piuttosto scettico riguardo al riconoscimento della Palestina, poiché sembrava che coloro che erano coinvolti nella conversazione si riferissero solo a parti della Cisgiordania e della Striscia di Gaza come Stato di Palestina, e a un governo autonomo da parte di un ente come l'Autorità Nazionale Palestinese, privo di una vera e propria sovranità: una Palestina Bantustan. Un simile riconoscimento avrebbe potuto creare l'errata impressione che il cosiddetto conflitto in Palestina fosse stato risolto con successo. Molti dei capi di governo e dei loro ministeri degli esteri che oggi parlano di riconoscimento fanno ancora riferimento a questo tipo di Palestina. Quindi, dovremmo sostenere maggiormente questa iniziativa in questo momento? Suggerirei di affrontarla in modo più sfumato in questo particolare momento storico, mentre il genocidio continua. Non sorprende che nessuno a Gaza abbia tratto speranza, ispirazione o soddisfazione da questa dichiarazione. Solo a Ramallah e in alcuni settori del movimento di solidarietà è stata celebrata come un grande risultato. I governi che hanno riconosciuto la Palestina la associano direttamente alla soluzione obsoleta e ormai morta da tempo dei due stati, una formula impraticabile, immorale e basata sull'ingiustizia fin dal momento in cui è stata concepita come "soluzione". Eppure, ci sono dinamiche potenziali e più positive che potrebbero essere innescate da questo attuale riconoscimento globale della Palestina. Sebbene non dovremmo considerarlo un "momento storico" o un "punto di svolta", ha il potenziale per aiutare i palestinesi a condurci verso un futuro diverso. Ha un significato simbolico come contromovimento all'attuale strategia israeliana di eliminare la Palestina come popolo, come nazione, come paese e come storia. Qualsiasi tipo di riferimento, anche simbolico, alla Palestina come entità esistente in questo momento è una benedizione. A un livello molto insoddisfacente ma minimamente necessario, impedisce alla Palestina di scomparire dal dibattito globale e regionale. In secondo luogo, fa parte di una reazione globale dall'alto, insufficiente ma in qualche modo più incoraggiante, contro il genocidio in corso. Non si tratta di sanzioni – che sono ben più importanti dello spettacolo a cui abbiamo assistito all'ONU – né di una mossa che pone fine al commercio militare occidentale con Israele, che sarebbe stato molto più efficace contro il genocidio rispetto al riconoscimento della Palestina. Tuttavia, esprime una certa disponibilità da parte dei governi occidentali a confrontarsi non solo con Israele, ma anche con gli Stati Uniti sul futuro della Palestina. Il riconoscimento stesso ha creato – forse inavvertitamente – due importanti conseguenze. In primo luogo, i territori occupati costituiscono ora lo Stato di Palestina occupato: l'intero Stato di Palestina. Questo non è nemmeno paragonabile all'occupazione parziale russa di due province dell'Ucraina; si tratta dell'occupazione totale di uno Stato. Almeno a prima vista, sarebbe molto più difficile ignorarlo da una prospettiva giuridica internazionale. In secondo luogo, è molto chiaro quale sarà la reazione israeliana: imporre ufficialmente la legge israeliana prima su alcune parti della Cisgiordania, poi sull'intera regione e forse più tardi sulla Striscia di Gaza. Sebbene ci si aspetti così poco dai nostri attuali politici, in particolare nel Nord del mondo, non potranno affermare di aver fatto tutto il possibile per riconoscere la Palestina se questa sarà occupata nella sua interezza da Israele e annessa completamente. Persino per questi politici, tale inazione esporrà un nuovo nadir di codardia morale e conficcherà l'ultimo chiodo nella bara del diritto internazionale. Noi attivisti siamo pienamente consapevoli del pericolo di distogliere l'attenzione anche solo per un secondo dalla missione di fermare il genocidio. Il riconoscimento non fermerà il genocidio, quindi ciò che stiamo facendo e ciò che intendiamo fare per salvare Gaza non è influenzato dai discorsi e dalle dichiarazioni alle Nazioni Unite del 22 settembre 2025. La nostra manifestazione a Londra questo ottobre – si spera con la partecipazione prevista di un milione di persone – è altrettanto importante, se non di più. Lo sciopero generale italiano a sostegno della flottiglia Sumud è altrettanto importante, se non di più. Ma è anche un promemoria del fatto che dovremmo essere vigili e molto sospettosi quando la Francia e i suoi alleati parlano del "giorno dopo". C'è un senso di déjà vu nell'istrionismo che ha accompagnato la firma degli Accordi di Oslo esattamente 32 anni fa. Questo potrebbe pericolosamente trasformarsi in un'altra farsa di pace che sostituisce una forma di colonialismo con un'altra, più gradita all'Occidente. Tutto ciò è stato evidente nel discorso del presidente francese Emmanuel Macron. La prima parte del suo discorso ha ribadito l'impegno della Francia nei confronti di Israele e il suo odio per Hamas. La seconda parte ha imposto ai palestinesi che solo l'Autorità Nazionale Palestinese li avrebbe rappresentati e che lo Stato palestinese sarebbe stato smilitarizzato. Non ha menzionato il genocidio o le sanzioni contro Israele, il che non sorprende. Macron è un politico egocentrico e privo di spina dorsale morale, eppure è consapevole che il 70% del suo popolo è insoddisfatto della sua politica nei confronti della Palestina. Affermare che un bantustan dell'Autorità Nazionale Palestinese sia ciò che la gente desidera – che sia in Francia, in Palestina o altrove – dimostra ancora una volta il distacco di così tanti politici europei dalla realtà sul campo. Quindi non è qui che risiede l'importanza del riconoscimento. È un'arma a doppio taglio. Per quanto ne so, la strategia migliore per noi del movimento di solidarietà è sostenere e insistere – attraverso l'attivismo e la ricerca – che la Palestina è il Paese che si estende dal fiume al mare, e che i palestinesi sono tutti coloro che vivono nella Palestina storica e coloro che ne sono stati espulsi. Sono loro che decideranno il futuro della loro patria. E, cosa più importante di ogni altra, dobbiamo insistere sul fatto che finché il sionismo dominerà ideologicamente la realtà della Palestina storica, non ci sarà alcuna autodeterminazione, libertà o liberazione palestinese. (Traduzione de l'AntiDiplomatico) *Ilan Pappé è professore presso l'Università di Exeter. In precedenza è stato docente di scienze politiche presso l'Università di Haifa. È autore di "The Ethnic Cleansing of Palestine", "The Modern Middle East", "A History of Modern Palestine: One Land, Two Peoples" e "Ten Myths about Israel". È co-curatore, con Ramzy Baroud, di " Our Vision for Liberation". Pappé è descritto come uno dei "nuovi storici" di Israele che, dalla pubblicazione di documenti pertinenti dei governi britannico e israeliano all'inizio degli anni '80, hanno riscritto la storia della creazione di Israele nel 1948. Ha contribuito con questo articolo su "The Palestine Chronicle". https://www.lantidiplomatico.it/dettnews-ilan_pappe_il_calice_avvelenato_del_riconoscimento_unarma_a_doppio_taglio_per_la_palestina/39602_62791/ Altro sull’argomento: Il cavallo di Troia del "riconoscimento" e la Palestina come bussola morale - OP-ED - L'Antidiplomatico
Israele sta conducendo un olocausto a Gaza. La denazificazione è la nostra unica soluzione.
Pubblicato il19/09/2025 di G - Invicta Palestina La mortale Supremazia Etnica insita nella società israeliana affonda le sue radici più in profondità di Netanyahu, Ben Gvir e Smotrich. Deve essere affrontata alla radice. Fonte. English version Di Orly Noy – 18 settembre 2025 La città di Gaza è avvolta dalle fiamme, mentre l’esercito israeliano intraprende la sua offensiva terrestre a lungo minacciata dopo settimane di incessanti bombardamenti. Il Primo Ministro Benjamin Netanyahu, già sottoposto a un mandato di arresto internazionale per sospetto di Crimini Contro l’Umanità, ha descritto quest’ultimo assalto come un'”operazione intensificata”. Vi esorto a guardare le immagini in diretta da Gaza e a capire cosa significa veramente questo eufemismo. Guardate negli occhi le persone in preda a un terrore senza pari, persino nei momenti più bui di questo Genocidio durato due anni. Osservate le file di bambini coperti di cenere che giacciono sul pavimento intriso di sangue di quello che un tempo era un centro medico, alcuni a malapena vivi, altri che piangono di dolore e paura, mentre mani disperate cercano di confortarli o di curarli con le poche scorte mediche rimaste. Ascoltate le urla delle famiglie in fuga senza un posto dove rifugiarsi. Osservate i genitori che setacciano l’inferno alla ricerca dei loro figli; arti che sporgono da sotto le macerie; un paramedico che culla una bambina immobile, implorandola invano di aprire gli occhi. Ciò che Israele sta facendo a Gaza non è il tragico sottoprodotto di eventi caotici sul campo, ma un atto di annientamento ben calcolato, eseguito a sangue freddo dall'”esercito del popolo”, ovvero i padri, i figli, i fratelli e i vicini di noi israeliani. Com’è possibile che, nonostante le crescenti testimonianze dai Campi di Concentramento e Sterminio di Gaza, nessun movimento di massa per il rifiuto abbia preso piede in Israele? Che dopo due anni di questa Carneficina solo una manciata di obiettori di coscienza si trovi in prigione è davvero inconcepibile. Persino i cosiddetti “rifiutatori grigi”, soldati riservisti che non si oppongono alla guerra per motivi ideologici, ma sono semplicemente esausti e ne mettono in discussione lo scopo, rimangono troppo pochi per rallentare la Macchina della Morte, figuriamoci per fermarla. Chi sono queste anime obbedienti che mantengono in funzione questo sistema? Come può una società così profondamente divisa, tra religiosi e laici, coloni e progressisti, kibbutznik e cittadini, immigrati veterani e nuovi arrivati, unirsi solo nella volontà di Massacrare i palestinesi senza un attimo di esitazione? Negli ultimi 23 mesi, la società israeliana ha tessuto una rete infinita di menzogne per giustificare e consentire la distruzione di Gaza, non solo al mondo, ma soprattutto a se stessa. La principale tra queste è l’affermazione che gli ostaggi possano essere liberati solo attraverso la pressione militare. Eppure, coloro che eseguono gli ordini dell’esercito, scatenando la Morte di Massa su Gaza, lo fanno ben sapendo che potrebbero uccidere gli ostaggi nel farlo. Il bombardamento indiscriminato di ospedali, scuole e quartieri residenziali, unito a questo disprezzo per la vita degli israeliani tenuti prigionieri, dimostra il vero obiettivo della guerra: l’annientamento totale della popolazione civile di Gaza. Israele sta scatenando un Olocausto a Gaza, e non può essere liquidato come la volontà dei soli attuali dirigenti fascisti del Paese. Questo orrore è più profondo di Netanyahu, Ben Gvir e Smotrich. Ciò a cui stiamo assistendo è la fase finale della Nazificazione della società israeliana. Il compito urgente ora è porre fine a questo Olocausto. Ma fermarlo è solo il primo passo. Se la società israeliana vuole tornare a far parte dell’Umanità, deve intraprendere un profondo processo di denazificazione. Una volta che la polvere della morte si sarà depositata, dovremo tornare sui nostri passi fino alla Nakba, alle espulsioni di massa, ai Massacri, alle confische di terre, alle leggi razziali e all’ideologia di una Supremazia intrinseca che ha normalizzato il disprezzo per i nativi di questa terra e il furto delle loro vite, proprietà, dignità e del futuro dei loro figli. Solo affrontando questo Meccanismo Mortale insito nella nostra società potremo iniziare a sradicarlo. Questo processo di denazificazione deve iniziare ora, e inizia con il rifiuto. Rifiuto non solo di prendere parte attiva alla distruzione di Gaza, ma di indossare l’uniforme, indipendentemente dal grado o dal ruolo. Rifiuto di rimanere ignoranti. Rifiuto di essere ciechi. Rifiuto di tacere. Per i genitori, è un dovere necessario proteggere la prossima generazione dal diventare autori di Crimini di Guerra e Crimini Contro l’Umanità. La denazificazione deve anche includere il riconoscimento che ciò che è stato non può rimanere. Non basterà semplicemente sostituire l’attuale governo. Dobbiamo abbandonare il mito del carattere “ebraico e democratico” di Israele, un paradosso la cui morsa ferrea ha contribuito ad aprire la strada alla catastrofe in cui siamo ora immersi. Questo inganno deve finire con la chiara consapevolezza che restano solo due strade: o uno Stato Ebraico, Messianico e Genocida, o uno Stato veramente democratico per tutti i suoi cittadini. L’Olocausto di Gaza è stato reso possibile dall’adesione alla logica Etno-Suprematista insita nel Sionismo. Pertanto, è necessario affermarlo chiaramente: il Sionismo, in tutte le sue forme, non può essere ripulito dalla macchia di questo Crimine. Bisogna porvi fine. La denazificazione sarà lunga e totalizzante, e toccherà ogni aspetto della nostra vita collettiva. Probabilmente sacrificheremo altre generazioni, sia vittime che carnefici, prima che questo flagello sia completamente sradicato. Ma il processo deve iniziare ora, con il rifiuto di commettere gli orrori che si verificano quotidianamente a Gaza e il rifiuto di lasciarli passare per normali. Orly Noy è redattrice di Local Call, attivista politica e traduttrice di poesia e prosa in Farsi. È presidente del comitato esecutivo di B’Tselem e attivista del partito politico nazional democratico palestinese Balad. I suoi scritti affrontano la sua identità di Mizrahi, di donna di sinistra, di donna, di migrante temporaneo che vive come un’immigrata perpetua, e il costante dialogo tra queste identità. Traduzione a cura di: Beniamino Rocchetto Tutti gli articoli del BLOG: Invictapalestina.org Israele sta conducendo un olocausto a Gaza. La denazificazione è la nostra unica soluzione. - Invictapalestina
Perché una forza di protezione per Gaza potrebbe essere un'idea pericolosa
Foto: Gli appaltatori della sicurezza della Gaza Humanitarian Foundation (GHF), sostenuta dagli Stati Uniti, fanno la guardia a un sito di distribuzione di aiuti nella Striscia di Gaza centrale il 1° agosto 2025 [File: Stringer/Reuters] Israele e gli Stati Uniti non permetteranno a una forza neutrale di avvicinarsi a Gaza. Ciò significa che un dispiegamento di forze straniere potrebbe essere solo uno, quello che aiuta i piani di pulizia etnica israeliani. Di Haidar Eid e Jamal Juma Pubblicato il 9 Set 2025 L'idea di dispiegare una forza di protezione o di mantenimento della pace in Palestina non è una novità. Dopo l’instaurazione di Israele avvenuta nel 1948 attraverso orrendi massacri e una pulizia etnica di massa, le Nazioni Unite istituirono l’Organizzazione per la supervisione della tregua (UNTSO) per osservare l'attuazione degli accordi di armistizio arabo-israeliani del 1949. Nel 1974 fu inviata la Forza di Osservazione per il Disimpegno delle Nazioni Unite (UNDOF) a sostenere il cessate il fuoco tra Israele e Siria, e, nel 1978, fu dispiegata sul territorio libanese la Forza Interinale delle Nazioni Unite in Libano (UNIFIL). Nessuna di queste forze è stata in grado di fermare l'aggressione israeliana. Dopo la re-invasione israeliana della Cisgiordania occupata e il massacro di Jenin nel 2002, l'ex presidente degli Stati Uniti Bill Clinton riaccese l'idea di una forza internazionale nei territori palestinesi occupati. Con lo scoppio del genocidio a Gaza nell'ottobre 2023, questa proposta ha ripreso a guadagnare terreno sul piano diplomatico. Nel maggio 2024, la Lega Araba ha chiesto una forza di pace per i territori palestinesi occupati. Organizzazioni come l'Atlantic Council hanno sostenuto l'idea, così come vari funzionari occidentali, inclusa la ministra degli Esteri tedesca Annalena Baerbock, accusata di posizioni genocidarie. Nel luglio di quest'anno, una conferenza di alto livello guidata da Francia e Arabia Saudita ha anche suggerito una "missione internazionale di stabilizzazione" a Gaza, sulla base di un invito dell'Autorità palestinese. L'idea è stata rilanciata in seguito alla proclamazione della carestia a Gaza da parte dell'Integrated Food Security Phase Classification (IPC). Indubbiamente, un tale intervento, armato o disarmato, non solo sarebbe legale secondo il diritto internazionale, ma sarebbe anche un modo per rispettare il principio giuridico internazionale sulla  responsabilità del proteggere. La domanda chiave, tuttavia, è: come funzionerebbe una tale forza di protezione nella vita reale? Guardando alla realtà geopolitica, è difficile immaginare che possa funzionare senza un accordo con Israele. Israele gode del pieno e incondizionato supporto degli Stati Uniti e agisce impunemente. Ha già dimostrato che agirà in modo aggressivo contro qualsiasi tentativo di rompere l'assedio di Gaza; è arrivata al punto di violare lo spazio aereo dell'Unione Europea per attaccare una nave umanitaria diretta a Gaza. Qualsiasi forza di protezione che tentasse di entrare in Palestina senza il consenso  di Israele verrebbe attaccata prima ancora di potersi anche solo avvicinare. Pertanto, l'unica possibilità è che Israele e gli Stati Uniti siano d'accordo. Ciò è possibile, ma avverrebbe alle loro condizioni, il che molto probabilmente porterebbe all'internazionalizzazione e alla normalizzazione del genocidio. Il primo passo in questa direzione è già stato fatto, alla fine di maggio, con il dispiegamento della Gaza Humanitarian Foundation (GHF) sostenuta dagli Stati Uniti. Da allora, Israele e i mercenari della GHF hanno ucciso almeno 2.416 palestinesi in cerca di aiuto e ne hanno feriti più di 17.700. Philippe Lazzarini, commissario generale dell'UNRWA, l'ha definita "un abominio" e "una trappola mortale che costa più vite di quante ne salvi". Gli esperti delle Nazioni Unite hanno denunciato "l'intreccio tra l'intelligence israeliana, gli appaltatori statunitensi e ambigue entità non governative". L'organismo di coordinamento degli aiuti di emergenza delle Nazioni Unite, OCHA, ha denunciato le operazioni del GHF come un pericoloso e "deliberato tentativo  di trasformare gli aiuti in un'arma". Le recenti rivelazioni del Washington Post secondo cui il piano del presidente degli Stati Uniti Donald Trump di trasformare Gaza in una "Riviera del Medio Oriente" è ancora una possibilità, danno un'indicazione di come la forza di protezione potrebbe diventare realtà. Il piano, denominato Gaza Reconstitution, Economic Acceleration and Transformation (GREAT), prevede il dispiegamento di una forza straniera nell’ambito di una amministrazione fiduciaria decennale della Striscia di Gaza sponsorizzata dagli Stati Uniti. Il contingente sarebbe formato da appaltatori privati assunti dalla GHF, mentre l'esercito israeliano sarebbe responsabile della "sicurezza generale". Ciò significherebbe effettivamente la continuazione del genocidio e della pulizia etnica dei palestinesi sotto la supervisione di mercenari stranieri. Questo non è certamente il tipo di forza protettiva che i sostenitori filo-palestinesi dell'idea vorrebbero vedere, ma è l'unica realisticamente possibile al momento. Desideriamo tutti che il genocidio finisca e che i palestinesi siano protetti dall'aggressione israeliana fino alla fine del suo regime di apartheid, pulizia etnica e occupazione illegale. Una forza di protezione avrebbe dovuto essere dispiegata molto tempo fa, nel 1947, quando il movimento sionista iniziò il suo progetto genocidario in Palestina. Oggi, promuovere l'idea di una forza di protezione non solo apre la strada alla realizzazione del piano Trump, ma distrae anche dalla forma di intervento più strategica e di impatto: porre fine alla complicità internazionale e imporre sanzioni a Israele. Questo è ciò che è possibile e reale. Questo è ciò che gli Stati disposti a proteggere i palestinesi e a difendere i nostri diritti e il diritto internazionale devono e possono fare, senza dipendere da nessun altro attore. Vent'anni fa, abbiamo iniziato l'appello per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS) e il percorso verso le sanzioni. Ora siamo sul punto di vedere le sanzioni diventare reali e di impatto. L'anno scorso, l'Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha approvato una risoluzione che impegna gli Stati membri a sanzioni parziali contro Israele. Se riusciremo ad attuarlo, ciò minerà di fatto la capacità di Israele di continuare ad alimentare la sua macchina del genocidio. Nel frattempo, l'azione BDS sta avendo effetto. Stiamo iniziando a essere in grado di interferire con la catena di approvvigionamento del genocidio. Abbiamo impedito ad alcune spedizioni di acciaio e forniture militari di raggiungere gli acquirenti israeliani. Ad agosto, il presidente colombiano Gustavo Petro ha emesso un secondo decreto che vieta le esportazioni di carbone verso Israele. Poco dopo, la Turchia ha annunciato la fine completa di tutti i legami commerciali e la chiusura dei suoi porti marittimi e dello spazio aereo alle navi e agli aerei israeliani; il paese era il quinto partner di importazione di Israele. Gli imprenditori  israeliani ammettono con i media locali che "si sta delineando una realtà di boicottaggio silenzioso nei confronti di Israele nel campo delle importazioni da parte dei fornitori europei, e in particolare dai paesi confinanti come la Giordania e l'Egitto". Se il Sudafrica, il Brasile e la Nigeria dovessero smettere di fornire energia per alimentare Israele, ciò avrebbe un enorme impatto a breve termine. La Cina potrebbe impedire alle sue aziende di gestire il porto di Haifa. Il Sud del mondo ha il potere da solo di fermare la catena di approvvigionamento globale del genocidio, bloccando il flusso continuo di materie prime e componenti. Anche in Europa, alcuni legami di complicità cominciano ad allentarsi. Nei Paesi Bassi, cinque ministri, tra cui il ministro degli Esteri e il vice primo ministro, si sono dimessi dopo che il gabinetto non è stato in grado di concordare le sanzioni contro Israele, facendo precipitare il governo in una  crisi. La Slovenia e la Spagna hanno annunciato l'embargo sulle armi. Le mobilitazioni dei lavoratori nei porti di tutto il Mediterraneo e oltre hanno reso sempre più difficili i trasferimenti marittimi di materiale militare verso Israele. La pressione popolare sui governi affinché rispettino i propri obblighi legali e morali e impongano sanzioni a Israele sta aumentando. Non è questo il momento di promuovere progetti impossibili o insidiosi che potrebbero fornire  loro una scusa per non agire. Abbiamo visto tutti come il genocidio israeliano abbia fatto a pezzi i piani di Oslo per una soluzione a due stati. Quegli accordi non sono mai stati altro che uno sforzo per far sentire meglio l'Europa, in particolare, riguardo al suo ruolo nella nostra espropriazione. Non cadiamo di nuovo nella stessa trappola sostenendo iniziative che farebbero solo sentire meglio il mondo riguardo al genocidio di Israele. La pressione concreta e le sanzioni rimangono le misure più efficaci a portata di mano che l'asse USA-Israele non può manipolare più di tanto. Rafforziamo le iniziative multilaterali globali concrete a sostegno della Palestina e del diritto internazionale, come il Gruppo dell'Aia. Facciamo pressione sugli Stati affinché attuino le sanzioni e interrompano la catena di approvvigionamento per il genocidio. La pressione deve essere sostenuta fino a quando l'apartheid e il colonialismo di insediamento non saranno smantellati tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Haidar Eid un attivista indipendente per i diritti umani e il BDS. Haidar Eid è un attivista indipendente per i diritti umani e del BDS. Jamal Juma Coordinatore della campagna contro il muro dell'apartheid. Jamal Juma, nato a Gerusalemme, è il coordinatore della Campagna palestinese contro il muro di apartheid. Dal 2012 è coordinatore della Land Defense Coalition, una rete di movimenti di base palestinesi. Why a protective force for Gaza could be a dangerous idea | Israel-Palestine conflict | Al Jazeera Traduzione a cura dell'Associazione di Amicizia Italo-Palestinese Onlus, Firenze
“Il 7 ottobre ha segnato una nuova fase”. Intervista a Leila Khaled
di Julio L. Zamarrón * All’inizio del 2025, un collettivo composto da volontarie e volontari di diversi territori dello stato spagnolo ha potuto intervistare la leader del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina che dà il nome a questa Brigata: Leila Khaled. La storica guerrigliera palestinese di 80 anni riflette in esclusiva sul genocidio, la resistenza, il presente e il futuro della Palestina in un’intervista estesa pubblicata in tre parti in esclusiva per Canal Red. D: Sarebbe fantastico iniziare parlando con te degli eventi dell’ultimo anno. Stiamo assistendo a un genocidio flagrante, di cui tutta l’umanità è testimone e possiamo affermare che è evidente, poiché sia i popoli occidentali che quelli arabi vedono quotidianamente, in modo chiaro, le stragi perpetrate dal sionismo israeliano. In una precedente intervista, hai menzionato che il 7 ottobre ha segnato l’inizio della liberazione palestinese. Cosa significa per te la liberazione palestinese? Come la definisci? R: Il 7 ottobre ha segnato una nuova fase nella storia del movimento nazionale palestinese. Non è stata un’operazione militare comune, ma un vero punto di svolta. Da una prospettiva militare, lo spiegamento di 3.000 combattenti in un’azione simultanea non ha precedenti. Ciò che è accaduto quel giorno è stata una dichiarazione chiara al mondo intero che il popolo palestinese vive sotto occupazione e che è giunto il momento di iniziare il suo processo di liberazione. Così è come io intendo il 7 ottobre. Questo evento ha avuto un impatto e una risonanza globale. Il massacro non era ancora iniziato, ma la risposta è arrivata dopo sotto forma di genocidio. Questo è un conflitto storico. Il popolo palestinese da cento anni combatte per la sua libertà e indipendenza, passando attraverso diverse fasi nella sua storia. Non siamo stati i primi a impugnare le armi e a combattere. Partiamo dalla premessa che la liberazione non può essere raggiunta attraverso negoziati né per nessuna altra via che non sia la lotta armata. E questa non è un’invenzione palestinese. Lungo la storia, numerosi popoli hanno utilizzato questo mezzo per raggiungere la propria indipendenza, riuscendo a sconfiggere i loro colonizzatori in diversi momenti. In questo contesto, il 7 ottobre ha rappresentato l’inizio di una nuova fase, l’inizio della liberazione. Dal punto di vista strategico, l’azione militare di quel giorno ha segnato una pietra miliare. Un gruppo di 3.000 combattenti è riuscito a entrare in una base militare israeliana, situata all’interno di un insediamento, senza affrontare una resistenza significativa. Questo fatto ha amplificato la visibilità internazionale della causa palestinese. Il 7 ottobre è stato il risultato di decenni di lotta del popolo palestinese e del movimento nazionale palestinese, con tutte le sue ideologie e correnti di pensiero. Qual era l’obiettivo di questa azione? Dall’inizio, ha scosso le fondamenta del nostro nemico, che occupa la nostra terra sotto un regime coloniale e di sostituzione demografica. Quando parliamo di questa occupazione, ci riferiamo a un fenomeno distinto da qualsiasi altro nella storia. Per questo consideriamo il 7 ottobre come il culmine della lotta accumulata del popolo palestinese lungo tutte le sue fasi. Non è avvenuto per caso, ma era una necessità per la liberazione. Il popolo palestinese ha resistito dal 1917, quando fu emessa la Dichiarazione Balfour, che prometteva una patria nazionale per gli ebrei in Palestina. Ma questa non è stata una colonizzazione convenzionale, in cui eserciti occupano territori, come si è visto nella storia. Per questo ha un’importanza speciale nella vita del popolo palestinese. Ora, parliamo dei risultati fino a questo momento. Innanzitutto, questa battaglia dura già da un anno e due mesi. [l’intervista è stata realizzata alla fine del 2024]. In questo processo, il nemico, i suoi alleati e i suoi sponsor, specialmente gli Stati Uniti, hanno giocato un ruolo fondamentale. Per la prima volta nella nostra storia con il nemico sionista in Palestina, l’occupazione non si limita solo a un’amministrazione militare e a un popolo sottomesso. È un fenomeno molto più ampio e complesso. Le stragi sono iniziate nel 1948. Tuttavia, il popolo palestinese ha resistito dal 1917, affrontando la Dichiarazione Balfour e la migrazione sionista. Senza entrare in troppi dettagli, il 7 ottobre rimarrà registrato come un momento chiave in questa lotta storica, riaffermando che la resistenza palestinese è ancora vigente e non ha cessato il suo obiettivo di raggiungere la libertà. D: Consideri che il prezzo che sta pagando il popolo palestinese sia troppo alto? Con tante vittime, diresti che questa conseguenza era prevedibile e che si era preparati ad assumerla? O credi che ora il popolo palestino sia semplicemente una vittima? È questo prezzo necessario? R: Il conflitto con il nemico ha sempre avuto vittime. Sempre. Siamo vittime dello sfollamento, poiché non tutti i palestinesi sono nella loro terra. Siamo il risultato di una Nakba continua, che è ancora vigente dal 1948. Il popolo palestinese continua a combattere e ad affrontare tutte le sfide perché non abbiamo altra opzione. Non c’è alternativa per chi ancora vive nei campi profughi. L’occupazione militare è ancora presente in Palestina, e tutto il popolo palestinese soffre le conseguenze di una Nakba che non è ancora finita. Stiamo pagando un prezzo? Sì, siamo consapevoli che il costo è alto. Le carceri sono piene. Questo non è un fenomeno recente. Non è iniziato nel 1967, ma molto prima, durante il mandato britannico in Palestina. E questo prezzo lo assumiamo volontariamente, perché non abbiamo altra opzione se non vincere. Finché il nemico rimane sulla nostra terra dobbiamo affrontarlo. Tuttavia, questa volta il costo è stato ancora maggiore. L’occupazione ha attaccato il nostro popolo con una brutalità senza precedenti. Non è la prima guerra sulla nostra terra; dal 2008, abbiamo affrontato sei offensive. In tutti questi anni, il popolo palestinese ha resistito. Per questo, il 7 ottobre è stato un avvenimento che ha sorpreso positivamente. Sapevamo che avremmo pagato un prezzo, ma, per essere onesti, non ci aspettavamo che fosse con il sangue dei nostri bambini, donne e popolo. Nonostante tutto, il popolo palestinese continua a sostenere la resistenza, anche dentro Gaza. La gente è stanca, sì, ma non ha espresso il suo rifiuto alla lotta. Pertanto, comprendiamo che questo cammino esige grandi sacrifici. La storia ha dimostrato che la liberazione delle nazioni avviene solo in questo modo. D: I mezzi di comunicazione hanno concentrato la loro attenzione esclusivamente sugli ostaggi a Gaza e, in molti casi, su Hamas, senza considerare che quanto accaduto il 7 ottobre è stato un atto di resistenza, come tu hai descritto precedentemente. Qual è la tua posizione politica su questo approccio? R: L’approccio principale si è concentrato su Hamas. La menzogna dello Stato occupante è che afferma di essere contro un’organizzazione, quando in realtà è contro il popolo palestinese. Coloro che combattono, indipendentemente dalla fazione a cui appartengono, fanno parte del popolo palestinese. Loro tentano di riscrivere la storia secondo i loro propri interessi e desideri, con l’obiettivo di cambiare la narrativa. Tuttavia, sappiamo che la resistenza fa parte essenziale del popolo palestinese. Fazioni come Hamas, la Jihad Islamica o il Fronte Popolare hanno fatto ricorso alle armi in passato e continuano a farlo oggi. Per questo, è comprensibile che i media occidentali insistano sul fatto che Israele, che chiamiamo lo “Stato illegittimo”, è stato creato da una risoluzione dell’ONU. Tuttavia, dobbiamo rimandarci alla storia per ricordare che Israele non è uno Stato comune. Israele fa parte del movimento sionista, un progetto appoggiato dall’Occidente, con tutto il suo sistema e protetto da risoluzioni dell’ONU. Questa è una tragedia reale per noi come popolo, poiché ci viene presentata solo una parte della storia: l’esistenza di Israele come Stato. Nel frattempo, i palestinesi siamo classificati unicamente come profughi che hanno bisogno di aiuto umanitario, come se la nostra situazione fosse semplicemente una crisi umanitaria, e non la lotta di un popolo che rivendica i suoi diritti e il suo ritorno alla sua terra. Ci negano il diritto al ritorno, ma noi affermiamo che questa è una lotta per la libertà, l’indipendenza e per la nostra terra. D: Si afferma che il Mossad avesse conoscenza preventiva dell’attacco del 7 ottobre e abbia optato per permettere che accadesse. R: Il Mossad mente, come tutti i suoi leader. Mentono per dare l’impressione di essere informati e preparati. Dal primo giorno, Netanyahu ha dichiarato la guerra e poi ha accusato i servizi di sicurezza di negligenza. Ma, il Mossad non fa forse parte di quegli stessi servizi di sicurezza? Vogliono attribuirsi meriti. Credono che la Palestina appartenga loro e vogliono far credere che stanno difendendo la loro terra. Ma, è così? Se affermano che stanno difendendo la loro terra, significa che riconoscono di aver oppresso un popolo e di essere stati occupanti. Allora, perché si sorprendono che ci sia una risposta? Come possono fare un’affermazione del genere? Oggigiorno, con la tecnologia e i social media, i segreti sono pochi. Tutti possono vedere ciò che accade attraverso i loro telefoni. Pertanto, stanno mentendo. Ora hanno formato un comitato per investigare chi è il responsabile. Netanyahu, nonostante la sua posizione di primo ministro, non ha assunto alcuna responsabilità. Accusa altri e si scusa. Ma se fosse realmente innocente, perché ha mobilitato il suo esercito? Perché ha dichiarato la guerra? Con quale scopo? D: Non vogliamo continuare a parlare del 7 ottobre, poiché crediamo che tu l’abbia chiarito. Tuttavia, prima di cambiare argomento, un’ultima domanda: Nell’ultimo anno, siamo stati testimoni di manifestazioni in Israele in protesta contro la guerra. Sappiamo che un’alta percentuale della società israeliana appoggia il progetto sionista e sostiene l’occupazione. Questa parte della società è contro l’esistenza del popolo palestinese e anche contro il concetto di due Stati. In Occidente, alcuni credono che ci siano giovani progressisti, anche comunisti e anarchici che protestano a Tel Aviv contro la guerra, e il loro messaggio ha un grande impatto sulla gioventù occidentale. Quale messaggio hai per loro sulla realtà della gioventù israeliana e la sua opposizione al genocidio? R: Le manifestazioni in Israele sono iniziate prima del 7 ottobre, in protesta contro una riforma giudiziaria promossa dal governo, che cercava di dare a Netanyahu un maggiore controllo sul sistema giudiziario del paese. Inizialmente, le proteste erano dirette contro Netanyahu, ma dopo il 7 ottobre hanno cambiato focus. Il loro slogan principale si è concentrato sulla questione degli ostaggi, invece di esigere la fine della guerra. Questo non è un popolo, ma una società eterogenea che si trova sulla nostra terra sotto il nome di “Stato di Israele”. Per questo, il 7 ottobre ha rivelato verità che il mondo ignorava fino a quel momento. Ora, il mondo sa qual è l’origine di questo conflitto e perché persiste. Non si tratta solo di un conflitto con i palestinesi, ma contro tutta la nazione araba. Dal 1948, siamo stati testimoni di numerose guerre con Egitto, Siria, Giordania e altri paesi. Perché? Perché il progetto sionista ha come obiettivo principale l’instaurazione dello Stato di Israele, un obiettivo che è già stato raggiunto. L’altro progetto è che Netanyahu osi dire che cambierà il Medio Oriente mentre è immerso a Gaza, e il suo esercito è intrappolato lì. Per la prima volta nella storia di Israele, questa entità ha chiesto protezione, richiedendola agli Stati Uniti, che hanno risposto inviando navi e equipaggiamento in Medio Oriente. Ma la questione non risiede solo in questo. Ora, le verità sono più chiare e logiche, anche per questo mondo che ci ha negato e ci ha trattato solo come profughi, mentre siamo ancora sotto occupazione. Oggi, tutto è chiaro. Sappiamo che questo è un genocidio, e il genocidio, per definizione, è lo sterminio di un intero popolo, qualcosa che gli israeliani stanno portando a termine. Questo costituisce un crimine di guerra. Tuttavia, fino ad ora, Israele non è stato punito per tutte le stragi commesse lungo la nostra storia. Per questo, ora si alza con più forza la voce mondiale che denuncia questo genocidio, esigendo che Israele sia punito. La pressione sui tribunali internazionali perché prendano una decisione è crescente. È lamentabile che, nel 2004, la Corte Internazionale di Giustizia abbia già determinato che l’occupazione, gli insediamenti e il muro sono illegali. In questo contesto, la Corte Penale Internazionale dovrebbe basarsi su questa decisione, poiché l’occupazione è illegittima e illegale dall’inizio, e viola il diritto internazionale. Non voglio entrare in altri argomenti, ma mi chiedo: chi ha definito il diritto internazionale? I paesi che hanno vinto la Seconda Guerra Mondiale lo hanno stabilito, ma chi lo applica? Nessuno lo fa. Per questo, Israele si considera al di sopra del diritto internazionale. D: Parliamo della Palestina, della Palestina storica, come hai menzionato parlando delle origini della causa. Attualmente, alcuni paesi come la Spagna e la Norvegia tentano di riconoscere lo Stato di Palestina, e credono che questa sia la soluzione. Comunicano, per esempio, con l’Autorità Palestinese, che sembra essere a favore della soluzione dei due Stati, secondo le notizie. Cosa pensi di questa iniziativa, del fatto che riconoscano lo Stato di Palestina? Sei a favore della soluzione dei due Stati? Esistono molte soluzioni e approcci differenti. Cosa vuole realmente il popolo palestinese? Questa è la grande domanda. A partire da qui, possiamo parlare dei progetti esistenti. R: Il popolo palestinese vuole ritornare alla sua terra, è suo diritto, per poter decidere il suo destino sulla sua terra. Nessun popolo può decidere il suo destino stando fuori dal suo territorio. Una grande parte del popolo palestinese è in esilio. Stiamo stabilendo uno stato, e alla fine si stabilirà uno Stato. Dall’inizio, noi non siamo a favore della soluzione dei due stati. Io rappresento l’Organizzazione del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, e il nostro nome riflette la nostra identità. Il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina vuole la liberazione della Palestina. Per questo questo è il nome: liberazione della Palestina. Qualsiasi progetto che ci venga presentato che non sia questo, lo rifiutiamo. Purtroppo, dopo l’intifada del 1987, un settore del popolo palestinese ha approfittato del momento e ha presentato una grande concessione negli accordi di Oslo. Prima di ciò, delegazioni di Madrid e Washington andavano e venivano. Ma l’idea principale e l’obiettivo è la liberazione della Palestina. Sorge sempre la domanda: cosa fare con gli ebrei? Non vogliamo far loro nulla. Dico sempre che fanno la domanda sbagliata. Non è forse nostro diritto ritornare e stare nella nostra patria? C’è una risoluzione emessa dalle Nazioni Unite chiamata 194, che stabilisce il ritorno dei profughi alle loro case e il recupero delle loro proprietà come condizione per approvare che Israele sia membro delle Nazioni Unite. Le Nazioni Unite hanno accettato questo, hanno accettato di riconoscere Israele come un’entità per gli ebrei, come una patria nazionale per loro, hanno spartito la terra come hanno voluto e hanno detto che sarebbero stati due stati. Questo è ciò che stabilisce la risoluzione 181 adottata dalle Nazioni Unite, la divisione della Palestina in due stati: uno stato ebraico e uno stato arabo, ma non hanno detto palestinese. Per questo si basano su questo argomento, dicendo: perché si stabilisce uno stato e non l’altro? Non si è stabilito lo stato palestinese ed è stato occupato da Israele nel 1967, annettendo più terre. Sappiamo di questo progetto, perché come ho espresso prima riguardo all’occupazione, non è un’occupazione militare normale, come quelle di prima, dove semplicemente occupavano. L’Europa è sempre stata quella che ha colonizzato il mondo. Per questo diciamo che questa terra si chiama Palestina nella storia, nella geografia e nell’esistenza, come un’esistenza umana. Ora queste questioni iniziano a chiarirsi un po’. Alcuni dicono che siamo contro l’occupazione delle terre occupate nel 1967. Bene, e che ne è delle terre occupate prima di ciò? Cosa ne pensano? Per questo non siamo a favore di nessuna soluzione che venga presentata né di nessun accordo. Qualsiasi accordo che si voglia fare riguardo al popolo palestinese e alla sua causa, se non mantiene il nostro diritto di esistere sulla nostra terra, di ritornare ad essa, e questo riguarda i profughi, e allo stesso tempo stabilisce un sistema politico per noi e per coloro che vogliono restare, mentre coloro che non vogliono restare possono ritornare al loro paese, al paese da dove sono venuti. Per questo ora stiamo vedendo che molti israeliani vanno alle ambasciate per ottenere la cittadinanza dei loro nonni, padri o qualche parente. Perché sono venuti in diversi periodi, non sono venuti insieme, ma da molti paesi. Vogliono ottenere una risposta da noi: perché non lo chiedono a loro? Perché lo chiedono a noi? La nostra risposta alla loro domanda su cosa faremo con gli ebrei è chiara: non vogliamo far loro nulla. Vogliamo liberare la nostra terra e ritornare ad essa. E questo a loro non piace, ci dicono che non accettiamo accordi e, per questo, vogliono combattere con noi. Queste sono equazioni naturali. Dove c’è occupazione, ci sarà resistenza. Questo è stato presente in tutta la storia. Non abbiamo inventato la lotta armata. Cosa diciamo del Vietnam? Dell’Algeria? Del Sudafrica? Dei paesi dell’America Latina? Queste rivoluzioni sono avvenute in quei paesi, per cosa? Per la libertà del loro popolo. Anche noi; non siamo diversi in questa questione. Pertanto, c’è una distorsione deliberata nei termini, fatta intenzionalmente per beneficiare l’entità sionista, non il popolo palestinese. La domanda sull’Olocausto in Europa non deve essere diretta a noi. Non siamo stati noi, sono stati gli europei a farlo, non noi. Gli ebrei sono venuti da noi e noi li abbiamo ricevuti. Quando emigrarono in quella fase, li abbiamo ricevuti. Esistono video ancora disponibili che possono vedere, che mostrano come arrivarono in barche e come i palestinesi li aiutarono. Perché sono venuti? Perché eravamo in Palestina sotto il colonialismo britannico, e ha facilitato loro questa missione. Poi, sono diventate bande, ci hanno tradito e ci hanno cacciato dal nostro paese. Non ai due stati, come si dice “un diritto che viene usato per uno scopo sbagliato. no, è un diritto”, nessuno ci concede il nostro diritto, siamo noi a strapparlo. E il nostro diritto è ritornare, e questa è la chiave della soluzione. Non c’è nessuna soluzione che possa avanzare, come gli accordi di Oslo, l'”offerta del secolo” e altri. Tutti sono progetti inutili, al contrario, sono progetti dalla parte nemica del popolo, i suoi diritti e i suoi sogni di libertà. D: Non chiederò la tua opinione in relazione all’accordo di Oslo, perché è già fin troppo conosciuta. Tuttavia, la questione della soluzione dei due stati è rilevante ora, poiché quest’anno alcuni paesi hanno iniziato a riconoscere lo Stato di Palestina. Allo stesso tempo, continuano a inviare armi allo Stato occupante. Sostengono che se viene riconosciuto, si potranno ottenere più diritti. Questo punto mi piacerebbe che fosse conosciuto e discusso. La seconda questione è la seguente: in interviste precedenti, hai menzionato l’ipocrisia araba nella lotta palestinese. A cosa ti riferisci esattamente con l’ipocrisia araba? R: I paesi arabi hanno normalizzato le loro relazioni con Israele. Usano la causa palestinese come una scusa. Dicono: ‘Siamo con il popolo palestinese, aiutiamo il popolo palestinese, e deve avere il suo proprio stato…’ Parlano di questo, e ora promuovono la soluzione dei due stati. Tuttavia, esiste una differenza tra creare uno stato in una parte liberata della nostra terra, come è accaduto a Gaza, dove gli israeliani hanno dovuto uscire perché sentivano che quel luogo era diventato un ‘nido di vespe’, come ha detto Isaac Rabin. Non vogliono che quella situazione si ripeta nel resto della Palestina. Quello che cercano è distruggerci. Stiamo vivendo quello che si chiama genocidio. È una pulizia etnica, non solo un genocidio, ma un assassinio sistematico per sterminare un popolo. Ci vedono come una razza non semitica che deve morire, noi e gli altri. E quelli che combattono l’antisemitismo sono stati testimoni di ciò che è accaduto, come ad Amsterdam. [si riferisce agli scontri contro i tifosi del club israeliano Maccabi] Ma questo è stato presente dall’inizio, per cui non dobbiamo temere i termini del nemico. Ora non solo parlano di occupazione, ma anche di genocidio, e lo vediamo riflesso nei cartelli delle manifestazioni. La parola ‘apartheid’ sembra anche infastidire Israele. Attualmente, esiste una settimana dedicata alla lotta contro l’apartheid israeliano sionista. Nel terzo mese dell’anno, durante la prima settimana di marzo, si celebrano questi giorni di protesta contro l’apartheid. Questo stato è stato caratterizzato da due termini: apartheid e genocidio, combinati. D. La causa palestinese si è fatta conoscere nelle strade occidentali e arabe. Non c’è nessuno che non legga, non c’è nessuno che non appoggi la Palestina, nessuno dice che non è genocidio. Ma in Europa, in Francia o Germania, questi slogan sono stati perseguitati. C’era o la paura che la gente scenda in strada e parli di ciò che sta succedendo. Oggi tentano di far sì che la frase ‘dal fiume al mare’ sia una frase terroristica o una frase antisemita. Cosa significa per te la frase ‘dal fiume al mare’? E quanto è importante? R: Stiamo parlando della Palestina storica. È così, dal fiume fino al mare. È nei documenti religiosi. Non esiste qualcosa chiamato ‘Israele’. Anche nei documenti, non esisteva ‘Israele’. Esisteva la Palestina. Nella Bibbia è Palestina, nel Corano è Palestina, nella Torah è Palestina. Come è accaduto? Non parliamo dal punto di vista storico. Cosa è successo? Ma vogliamo dire, cosa hanno fatto gli arabi in tutte le nostre guerre con loro? Nulla. Al contrario, hanno consegnato la Palestina. Cosa erano prima? Non erano paesi, erano divisi. Dopo il governo ottomano, quindi, erano vincolati al colonialismo. Sia l’inglese che il francese, occuparono tutta la regione. La disegnarono a loro misura. Solo per dividere gli arabi. E hanno alzato slogan con la causa palestinese. Ma non abbiamo visto azione. La cosa più pericolosa ora è che stanno normalizzando le relazioni. Sei paesi hanno normalizzato relazioni con Israele. L’Arabia Saudita sta aspettando che finisca la guerra per firmare il suo accordo. Forse questa guerra impedisce loro di firmare. Forse sentono un pericolo maggiore per loro. Ma fino ad ora non sentivano pericolo. Lo abbiamo visto nella Lega Araba. Quali decisioni hanno preso? Qualcosa di vergognoso. Questa è la nostra storia con loro. Notiamo che nei luoghi dove i palestinesi sono attaccati, nessun paese li ha difesi. I paesi arabi, alcuni hanno già normalizzato relazioni e altri no. Tutti sono dalla stessa parte. * da Diario Red "Il 7 ottobre ha segnato una nuova fase". Intervista a Leila Khaled - Contropiano