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Perché una forza di protezione per Gaza potrebbe essere un'idea pericolosa
Foto: Gli appaltatori della sicurezza della Gaza Humanitarian Foundation (GHF), sostenuta dagli Stati Uniti, fanno la guardia a un sito di distribuzione di aiuti nella Striscia di Gaza centrale il 1° agosto 2025 [File: Stringer/Reuters] Israele e gli Stati Uniti non permetteranno a una forza neutrale di avvicinarsi a Gaza. Ciò significa che un dispiegamento di forze straniere potrebbe essere solo uno, quello che aiuta i piani di pulizia etnica israeliani. Di Haidar Eid e Jamal Juma Pubblicato il 9 Set 2025 L'idea di dispiegare una forza di protezione o di mantenimento della pace in Palestina non è una novità. Dopo l’instaurazione di Israele avvenuta nel 1948 attraverso orrendi massacri e una pulizia etnica di massa, le Nazioni Unite istituirono l’Organizzazione per la supervisione della tregua (UNTSO) per osservare l'attuazione degli accordi di armistizio arabo-israeliani del 1949. Nel 1974 fu inviata la Forza di Osservazione per il Disimpegno delle Nazioni Unite (UNDOF) a sostenere il cessate il fuoco tra Israele e Siria, e, nel 1978, fu dispiegata sul territorio libanese la Forza Interinale delle Nazioni Unite in Libano (UNIFIL). Nessuna di queste forze è stata in grado di fermare l'aggressione israeliana. Dopo la re-invasione israeliana della Cisgiordania occupata e il massacro di Jenin nel 2002, l'ex presidente degli Stati Uniti Bill Clinton riaccese l'idea di una forza internazionale nei territori palestinesi occupati. Con lo scoppio del genocidio a Gaza nell'ottobre 2023, questa proposta ha ripreso a guadagnare terreno sul piano diplomatico. Nel maggio 2024, la Lega Araba ha chiesto una forza di pace per i territori palestinesi occupati. Organizzazioni come l'Atlantic Council hanno sostenuto l'idea, così come vari funzionari occidentali, inclusa la ministra degli Esteri tedesca Annalena Baerbock, accusata di posizioni genocidarie. Nel luglio di quest'anno, una conferenza di alto livello guidata da Francia e Arabia Saudita ha anche suggerito una "missione internazionale di stabilizzazione" a Gaza, sulla base di un invito dell'Autorità palestinese. L'idea è stata rilanciata in seguito alla proclamazione della carestia a Gaza da parte dell'Integrated Food Security Phase Classification (IPC). Indubbiamente, un tale intervento, armato o disarmato, non solo sarebbe legale secondo il diritto internazionale, ma sarebbe anche un modo per rispettare il principio giuridico internazionale sulla  responsabilità del proteggere. La domanda chiave, tuttavia, è: come funzionerebbe una tale forza di protezione nella vita reale? Guardando alla realtà geopolitica, è difficile immaginare che possa funzionare senza un accordo con Israele. Israele gode del pieno e incondizionato supporto degli Stati Uniti e agisce impunemente. Ha già dimostrato che agirà in modo aggressivo contro qualsiasi tentativo di rompere l'assedio di Gaza; è arrivata al punto di violare lo spazio aereo dell'Unione Europea per attaccare una nave umanitaria diretta a Gaza. Qualsiasi forza di protezione che tentasse di entrare in Palestina senza il consenso  di Israele verrebbe attaccata prima ancora di potersi anche solo avvicinare. Pertanto, l'unica possibilità è che Israele e gli Stati Uniti siano d'accordo. Ciò è possibile, ma avverrebbe alle loro condizioni, il che molto probabilmente porterebbe all'internazionalizzazione e alla normalizzazione del genocidio. Il primo passo in questa direzione è già stato fatto, alla fine di maggio, con il dispiegamento della Gaza Humanitarian Foundation (GHF) sostenuta dagli Stati Uniti. Da allora, Israele e i mercenari della GHF hanno ucciso almeno 2.416 palestinesi in cerca di aiuto e ne hanno feriti più di 17.700. Philippe Lazzarini, commissario generale dell'UNRWA, l'ha definita "un abominio" e "una trappola mortale che costa più vite di quante ne salvi". Gli esperti delle Nazioni Unite hanno denunciato "l'intreccio tra l'intelligence israeliana, gli appaltatori statunitensi e ambigue entità non governative". L'organismo di coordinamento degli aiuti di emergenza delle Nazioni Unite, OCHA, ha denunciato le operazioni del GHF come un pericoloso e "deliberato tentativo  di trasformare gli aiuti in un'arma". Le recenti rivelazioni del Washington Post secondo cui il piano del presidente degli Stati Uniti Donald Trump di trasformare Gaza in una "Riviera del Medio Oriente" è ancora una possibilità, danno un'indicazione di come la forza di protezione potrebbe diventare realtà. Il piano, denominato Gaza Reconstitution, Economic Acceleration and Transformation (GREAT), prevede il dispiegamento di una forza straniera nell’ambito di una amministrazione fiduciaria decennale della Striscia di Gaza sponsorizzata dagli Stati Uniti. Il contingente sarebbe formato da appaltatori privati assunti dalla GHF, mentre l'esercito israeliano sarebbe responsabile della "sicurezza generale". Ciò significherebbe effettivamente la continuazione del genocidio e della pulizia etnica dei palestinesi sotto la supervisione di mercenari stranieri. Questo non è certamente il tipo di forza protettiva che i sostenitori filo-palestinesi dell'idea vorrebbero vedere, ma è l'unica realisticamente possibile al momento. Desideriamo tutti che il genocidio finisca e che i palestinesi siano protetti dall'aggressione israeliana fino alla fine del suo regime di apartheid, pulizia etnica e occupazione illegale. Una forza di protezione avrebbe dovuto essere dispiegata molto tempo fa, nel 1947, quando il movimento sionista iniziò il suo progetto genocidario in Palestina. Oggi, promuovere l'idea di una forza di protezione non solo apre la strada alla realizzazione del piano Trump, ma distrae anche dalla forma di intervento più strategica e di impatto: porre fine alla complicità internazionale e imporre sanzioni a Israele. Questo è ciò che è possibile e reale. Questo è ciò che gli Stati disposti a proteggere i palestinesi e a difendere i nostri diritti e il diritto internazionale devono e possono fare, senza dipendere da nessun altro attore. Vent'anni fa, abbiamo iniziato l'appello per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS) e il percorso verso le sanzioni. Ora siamo sul punto di vedere le sanzioni diventare reali e di impatto. L'anno scorso, l'Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha approvato una risoluzione che impegna gli Stati membri a sanzioni parziali contro Israele. Se riusciremo ad attuarlo, ciò minerà di fatto la capacità di Israele di continuare ad alimentare la sua macchina del genocidio. Nel frattempo, l'azione BDS sta avendo effetto. Stiamo iniziando a essere in grado di interferire con la catena di approvvigionamento del genocidio. Abbiamo impedito ad alcune spedizioni di acciaio e forniture militari di raggiungere gli acquirenti israeliani. Ad agosto, il presidente colombiano Gustavo Petro ha emesso un secondo decreto che vieta le esportazioni di carbone verso Israele. Poco dopo, la Turchia ha annunciato la fine completa di tutti i legami commerciali e la chiusura dei suoi porti marittimi e dello spazio aereo alle navi e agli aerei israeliani; il paese era il quinto partner di importazione di Israele. Gli imprenditori  israeliani ammettono con i media locali che "si sta delineando una realtà di boicottaggio silenzioso nei confronti di Israele nel campo delle importazioni da parte dei fornitori europei, e in particolare dai paesi confinanti come la Giordania e l'Egitto". Se il Sudafrica, il Brasile e la Nigeria dovessero smettere di fornire energia per alimentare Israele, ciò avrebbe un enorme impatto a breve termine. La Cina potrebbe impedire alle sue aziende di gestire il porto di Haifa. Il Sud del mondo ha il potere da solo di fermare la catena di approvvigionamento globale del genocidio, bloccando il flusso continuo di materie prime e componenti. Anche in Europa, alcuni legami di complicità cominciano ad allentarsi. Nei Paesi Bassi, cinque ministri, tra cui il ministro degli Esteri e il vice primo ministro, si sono dimessi dopo che il gabinetto non è stato in grado di concordare le sanzioni contro Israele, facendo precipitare il governo in una  crisi. La Slovenia e la Spagna hanno annunciato l'embargo sulle armi. Le mobilitazioni dei lavoratori nei porti di tutto il Mediterraneo e oltre hanno reso sempre più difficili i trasferimenti marittimi di materiale militare verso Israele. La pressione popolare sui governi affinché rispettino i propri obblighi legali e morali e impongano sanzioni a Israele sta aumentando. Non è questo il momento di promuovere progetti impossibili o insidiosi che potrebbero fornire  loro una scusa per non agire. Abbiamo visto tutti come il genocidio israeliano abbia fatto a pezzi i piani di Oslo per una soluzione a due stati. Quegli accordi non sono mai stati altro che uno sforzo per far sentire meglio l'Europa, in particolare, riguardo al suo ruolo nella nostra espropriazione. Non cadiamo di nuovo nella stessa trappola sostenendo iniziative che farebbero solo sentire meglio il mondo riguardo al genocidio di Israele. La pressione concreta e le sanzioni rimangono le misure più efficaci a portata di mano che l'asse USA-Israele non può manipolare più di tanto. Rafforziamo le iniziative multilaterali globali concrete a sostegno della Palestina e del diritto internazionale, come il Gruppo dell'Aia. Facciamo pressione sugli Stati affinché attuino le sanzioni e interrompano la catena di approvvigionamento per il genocidio. La pressione deve essere sostenuta fino a quando l'apartheid e il colonialismo di insediamento non saranno smantellati tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo. Haidar Eid un attivista indipendente per i diritti umani e il BDS. Haidar Eid è un attivista indipendente per i diritti umani e del BDS. Jamal Juma Coordinatore della campagna contro il muro dell'apartheid. Jamal Juma, nato a Gerusalemme, è il coordinatore della Campagna palestinese contro il muro di apartheid. Dal 2012 è coordinatore della Land Defense Coalition, una rete di movimenti di base palestinesi. Why a protective force for Gaza could be a dangerous idea | Israel-Palestine conflict | Al Jazeera Traduzione a cura dell'Associazione di Amicizia Italo-Palestinese Onlus, Firenze
“Il 7 ottobre ha segnato una nuova fase”. Intervista a Leila Khaled
di Julio L. Zamarrón * All’inizio del 2025, un collettivo composto da volontarie e volontari di diversi territori dello stato spagnolo ha potuto intervistare la leader del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina che dà il nome a questa Brigata: Leila Khaled. La storica guerrigliera palestinese di 80 anni riflette in esclusiva sul genocidio, la resistenza, il presente e il futuro della Palestina in un’intervista estesa pubblicata in tre parti in esclusiva per Canal Red. D: Sarebbe fantastico iniziare parlando con te degli eventi dell’ultimo anno. Stiamo assistendo a un genocidio flagrante, di cui tutta l’umanità è testimone e possiamo affermare che è evidente, poiché sia i popoli occidentali che quelli arabi vedono quotidianamente, in modo chiaro, le stragi perpetrate dal sionismo israeliano. In una precedente intervista, hai menzionato che il 7 ottobre ha segnato l’inizio della liberazione palestinese. Cosa significa per te la liberazione palestinese? Come la definisci? R: Il 7 ottobre ha segnato una nuova fase nella storia del movimento nazionale palestinese. Non è stata un’operazione militare comune, ma un vero punto di svolta. Da una prospettiva militare, lo spiegamento di 3.000 combattenti in un’azione simultanea non ha precedenti. Ciò che è accaduto quel giorno è stata una dichiarazione chiara al mondo intero che il popolo palestinese vive sotto occupazione e che è giunto il momento di iniziare il suo processo di liberazione. Così è come io intendo il 7 ottobre. Questo evento ha avuto un impatto e una risonanza globale. Il massacro non era ancora iniziato, ma la risposta è arrivata dopo sotto forma di genocidio. Questo è un conflitto storico. Il popolo palestinese da cento anni combatte per la sua libertà e indipendenza, passando attraverso diverse fasi nella sua storia. Non siamo stati i primi a impugnare le armi e a combattere. Partiamo dalla premessa che la liberazione non può essere raggiunta attraverso negoziati né per nessuna altra via che non sia la lotta armata. E questa non è un’invenzione palestinese. Lungo la storia, numerosi popoli hanno utilizzato questo mezzo per raggiungere la propria indipendenza, riuscendo a sconfiggere i loro colonizzatori in diversi momenti. In questo contesto, il 7 ottobre ha rappresentato l’inizio di una nuova fase, l’inizio della liberazione. Dal punto di vista strategico, l’azione militare di quel giorno ha segnato una pietra miliare. Un gruppo di 3.000 combattenti è riuscito a entrare in una base militare israeliana, situata all’interno di un insediamento, senza affrontare una resistenza significativa. Questo fatto ha amplificato la visibilità internazionale della causa palestinese. Il 7 ottobre è stato il risultato di decenni di lotta del popolo palestinese e del movimento nazionale palestinese, con tutte le sue ideologie e correnti di pensiero. Qual era l’obiettivo di questa azione? Dall’inizio, ha scosso le fondamenta del nostro nemico, che occupa la nostra terra sotto un regime coloniale e di sostituzione demografica. Quando parliamo di questa occupazione, ci riferiamo a un fenomeno distinto da qualsiasi altro nella storia. Per questo consideriamo il 7 ottobre come il culmine della lotta accumulata del popolo palestinese lungo tutte le sue fasi. Non è avvenuto per caso, ma era una necessità per la liberazione. Il popolo palestinese ha resistito dal 1917, quando fu emessa la Dichiarazione Balfour, che prometteva una patria nazionale per gli ebrei in Palestina. Ma questa non è stata una colonizzazione convenzionale, in cui eserciti occupano territori, come si è visto nella storia. Per questo ha un’importanza speciale nella vita del popolo palestinese. Ora, parliamo dei risultati fino a questo momento. Innanzitutto, questa battaglia dura già da un anno e due mesi. [l’intervista è stata realizzata alla fine del 2024]. In questo processo, il nemico, i suoi alleati e i suoi sponsor, specialmente gli Stati Uniti, hanno giocato un ruolo fondamentale. Per la prima volta nella nostra storia con il nemico sionista in Palestina, l’occupazione non si limita solo a un’amministrazione militare e a un popolo sottomesso. È un fenomeno molto più ampio e complesso. Le stragi sono iniziate nel 1948. Tuttavia, il popolo palestinese ha resistito dal 1917, affrontando la Dichiarazione Balfour e la migrazione sionista. Senza entrare in troppi dettagli, il 7 ottobre rimarrà registrato come un momento chiave in questa lotta storica, riaffermando che la resistenza palestinese è ancora vigente e non ha cessato il suo obiettivo di raggiungere la libertà. D: Consideri che il prezzo che sta pagando il popolo palestinese sia troppo alto? Con tante vittime, diresti che questa conseguenza era prevedibile e che si era preparati ad assumerla? O credi che ora il popolo palestino sia semplicemente una vittima? È questo prezzo necessario? R: Il conflitto con il nemico ha sempre avuto vittime. Sempre. Siamo vittime dello sfollamento, poiché non tutti i palestinesi sono nella loro terra. Siamo il risultato di una Nakba continua, che è ancora vigente dal 1948. Il popolo palestinese continua a combattere e ad affrontare tutte le sfide perché non abbiamo altra opzione. Non c’è alternativa per chi ancora vive nei campi profughi. L’occupazione militare è ancora presente in Palestina, e tutto il popolo palestinese soffre le conseguenze di una Nakba che non è ancora finita. Stiamo pagando un prezzo? Sì, siamo consapevoli che il costo è alto. Le carceri sono piene. Questo non è un fenomeno recente. Non è iniziato nel 1967, ma molto prima, durante il mandato britannico in Palestina. E questo prezzo lo assumiamo volontariamente, perché non abbiamo altra opzione se non vincere. Finché il nemico rimane sulla nostra terra dobbiamo affrontarlo. Tuttavia, questa volta il costo è stato ancora maggiore. L’occupazione ha attaccato il nostro popolo con una brutalità senza precedenti. Non è la prima guerra sulla nostra terra; dal 2008, abbiamo affrontato sei offensive. In tutti questi anni, il popolo palestinese ha resistito. Per questo, il 7 ottobre è stato un avvenimento che ha sorpreso positivamente. Sapevamo che avremmo pagato un prezzo, ma, per essere onesti, non ci aspettavamo che fosse con il sangue dei nostri bambini, donne e popolo. Nonostante tutto, il popolo palestinese continua a sostenere la resistenza, anche dentro Gaza. La gente è stanca, sì, ma non ha espresso il suo rifiuto alla lotta. Pertanto, comprendiamo che questo cammino esige grandi sacrifici. La storia ha dimostrato che la liberazione delle nazioni avviene solo in questo modo. D: I mezzi di comunicazione hanno concentrato la loro attenzione esclusivamente sugli ostaggi a Gaza e, in molti casi, su Hamas, senza considerare che quanto accaduto il 7 ottobre è stato un atto di resistenza, come tu hai descritto precedentemente. Qual è la tua posizione politica su questo approccio? R: L’approccio principale si è concentrato su Hamas. La menzogna dello Stato occupante è che afferma di essere contro un’organizzazione, quando in realtà è contro il popolo palestinese. Coloro che combattono, indipendentemente dalla fazione a cui appartengono, fanno parte del popolo palestinese. Loro tentano di riscrivere la storia secondo i loro propri interessi e desideri, con l’obiettivo di cambiare la narrativa. Tuttavia, sappiamo che la resistenza fa parte essenziale del popolo palestinese. Fazioni come Hamas, la Jihad Islamica o il Fronte Popolare hanno fatto ricorso alle armi in passato e continuano a farlo oggi. Per questo, è comprensibile che i media occidentali insistano sul fatto che Israele, che chiamiamo lo “Stato illegittimo”, è stato creato da una risoluzione dell’ONU. Tuttavia, dobbiamo rimandarci alla storia per ricordare che Israele non è uno Stato comune. Israele fa parte del movimento sionista, un progetto appoggiato dall’Occidente, con tutto il suo sistema e protetto da risoluzioni dell’ONU. Questa è una tragedia reale per noi come popolo, poiché ci viene presentata solo una parte della storia: l’esistenza di Israele come Stato. Nel frattempo, i palestinesi siamo classificati unicamente come profughi che hanno bisogno di aiuto umanitario, come se la nostra situazione fosse semplicemente una crisi umanitaria, e non la lotta di un popolo che rivendica i suoi diritti e il suo ritorno alla sua terra. Ci negano il diritto al ritorno, ma noi affermiamo che questa è una lotta per la libertà, l’indipendenza e per la nostra terra. D: Si afferma che il Mossad avesse conoscenza preventiva dell’attacco del 7 ottobre e abbia optato per permettere che accadesse. R: Il Mossad mente, come tutti i suoi leader. Mentono per dare l’impressione di essere informati e preparati. Dal primo giorno, Netanyahu ha dichiarato la guerra e poi ha accusato i servizi di sicurezza di negligenza. Ma, il Mossad non fa forse parte di quegli stessi servizi di sicurezza? Vogliono attribuirsi meriti. Credono che la Palestina appartenga loro e vogliono far credere che stanno difendendo la loro terra. Ma, è così? Se affermano che stanno difendendo la loro terra, significa che riconoscono di aver oppresso un popolo e di essere stati occupanti. Allora, perché si sorprendono che ci sia una risposta? Come possono fare un’affermazione del genere? Oggigiorno, con la tecnologia e i social media, i segreti sono pochi. Tutti possono vedere ciò che accade attraverso i loro telefoni. Pertanto, stanno mentendo. Ora hanno formato un comitato per investigare chi è il responsabile. Netanyahu, nonostante la sua posizione di primo ministro, non ha assunto alcuna responsabilità. Accusa altri e si scusa. Ma se fosse realmente innocente, perché ha mobilitato il suo esercito? Perché ha dichiarato la guerra? Con quale scopo? D: Non vogliamo continuare a parlare del 7 ottobre, poiché crediamo che tu l’abbia chiarito. Tuttavia, prima di cambiare argomento, un’ultima domanda: Nell’ultimo anno, siamo stati testimoni di manifestazioni in Israele in protesta contro la guerra. Sappiamo che un’alta percentuale della società israeliana appoggia il progetto sionista e sostiene l’occupazione. Questa parte della società è contro l’esistenza del popolo palestinese e anche contro il concetto di due Stati. In Occidente, alcuni credono che ci siano giovani progressisti, anche comunisti e anarchici che protestano a Tel Aviv contro la guerra, e il loro messaggio ha un grande impatto sulla gioventù occidentale. Quale messaggio hai per loro sulla realtà della gioventù israeliana e la sua opposizione al genocidio? R: Le manifestazioni in Israele sono iniziate prima del 7 ottobre, in protesta contro una riforma giudiziaria promossa dal governo, che cercava di dare a Netanyahu un maggiore controllo sul sistema giudiziario del paese. Inizialmente, le proteste erano dirette contro Netanyahu, ma dopo il 7 ottobre hanno cambiato focus. Il loro slogan principale si è concentrato sulla questione degli ostaggi, invece di esigere la fine della guerra. Questo non è un popolo, ma una società eterogenea che si trova sulla nostra terra sotto il nome di “Stato di Israele”. Per questo, il 7 ottobre ha rivelato verità che il mondo ignorava fino a quel momento. Ora, il mondo sa qual è l’origine di questo conflitto e perché persiste. Non si tratta solo di un conflitto con i palestinesi, ma contro tutta la nazione araba. Dal 1948, siamo stati testimoni di numerose guerre con Egitto, Siria, Giordania e altri paesi. Perché? Perché il progetto sionista ha come obiettivo principale l’instaurazione dello Stato di Israele, un obiettivo che è già stato raggiunto. L’altro progetto è che Netanyahu osi dire che cambierà il Medio Oriente mentre è immerso a Gaza, e il suo esercito è intrappolato lì. Per la prima volta nella storia di Israele, questa entità ha chiesto protezione, richiedendola agli Stati Uniti, che hanno risposto inviando navi e equipaggiamento in Medio Oriente. Ma la questione non risiede solo in questo. Ora, le verità sono più chiare e logiche, anche per questo mondo che ci ha negato e ci ha trattato solo come profughi, mentre siamo ancora sotto occupazione. Oggi, tutto è chiaro. Sappiamo che questo è un genocidio, e il genocidio, per definizione, è lo sterminio di un intero popolo, qualcosa che gli israeliani stanno portando a termine. Questo costituisce un crimine di guerra. Tuttavia, fino ad ora, Israele non è stato punito per tutte le stragi commesse lungo la nostra storia. Per questo, ora si alza con più forza la voce mondiale che denuncia questo genocidio, esigendo che Israele sia punito. La pressione sui tribunali internazionali perché prendano una decisione è crescente. È lamentabile che, nel 2004, la Corte Internazionale di Giustizia abbia già determinato che l’occupazione, gli insediamenti e il muro sono illegali. In questo contesto, la Corte Penale Internazionale dovrebbe basarsi su questa decisione, poiché l’occupazione è illegittima e illegale dall’inizio, e viola il diritto internazionale. Non voglio entrare in altri argomenti, ma mi chiedo: chi ha definito il diritto internazionale? I paesi che hanno vinto la Seconda Guerra Mondiale lo hanno stabilito, ma chi lo applica? Nessuno lo fa. Per questo, Israele si considera al di sopra del diritto internazionale. D: Parliamo della Palestina, della Palestina storica, come hai menzionato parlando delle origini della causa. Attualmente, alcuni paesi come la Spagna e la Norvegia tentano di riconoscere lo Stato di Palestina, e credono che questa sia la soluzione. Comunicano, per esempio, con l’Autorità Palestinese, che sembra essere a favore della soluzione dei due Stati, secondo le notizie. Cosa pensi di questa iniziativa, del fatto che riconoscano lo Stato di Palestina? Sei a favore della soluzione dei due Stati? Esistono molte soluzioni e approcci differenti. Cosa vuole realmente il popolo palestinese? Questa è la grande domanda. A partire da qui, possiamo parlare dei progetti esistenti. R: Il popolo palestinese vuole ritornare alla sua terra, è suo diritto, per poter decidere il suo destino sulla sua terra. Nessun popolo può decidere il suo destino stando fuori dal suo territorio. Una grande parte del popolo palestinese è in esilio. Stiamo stabilendo uno stato, e alla fine si stabilirà uno Stato. Dall’inizio, noi non siamo a favore della soluzione dei due stati. Io rappresento l’Organizzazione del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, e il nostro nome riflette la nostra identità. Il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina vuole la liberazione della Palestina. Per questo questo è il nome: liberazione della Palestina. Qualsiasi progetto che ci venga presentato che non sia questo, lo rifiutiamo. Purtroppo, dopo l’intifada del 1987, un settore del popolo palestinese ha approfittato del momento e ha presentato una grande concessione negli accordi di Oslo. Prima di ciò, delegazioni di Madrid e Washington andavano e venivano. Ma l’idea principale e l’obiettivo è la liberazione della Palestina. Sorge sempre la domanda: cosa fare con gli ebrei? Non vogliamo far loro nulla. Dico sempre che fanno la domanda sbagliata. Non è forse nostro diritto ritornare e stare nella nostra patria? C’è una risoluzione emessa dalle Nazioni Unite chiamata 194, che stabilisce il ritorno dei profughi alle loro case e il recupero delle loro proprietà come condizione per approvare che Israele sia membro delle Nazioni Unite. Le Nazioni Unite hanno accettato questo, hanno accettato di riconoscere Israele come un’entità per gli ebrei, come una patria nazionale per loro, hanno spartito la terra come hanno voluto e hanno detto che sarebbero stati due stati. Questo è ciò che stabilisce la risoluzione 181 adottata dalle Nazioni Unite, la divisione della Palestina in due stati: uno stato ebraico e uno stato arabo, ma non hanno detto palestinese. Per questo si basano su questo argomento, dicendo: perché si stabilisce uno stato e non l’altro? Non si è stabilito lo stato palestinese ed è stato occupato da Israele nel 1967, annettendo più terre. Sappiamo di questo progetto, perché come ho espresso prima riguardo all’occupazione, non è un’occupazione militare normale, come quelle di prima, dove semplicemente occupavano. L’Europa è sempre stata quella che ha colonizzato il mondo. Per questo diciamo che questa terra si chiama Palestina nella storia, nella geografia e nell’esistenza, come un’esistenza umana. Ora queste questioni iniziano a chiarirsi un po’. Alcuni dicono che siamo contro l’occupazione delle terre occupate nel 1967. Bene, e che ne è delle terre occupate prima di ciò? Cosa ne pensano? Per questo non siamo a favore di nessuna soluzione che venga presentata né di nessun accordo. Qualsiasi accordo che si voglia fare riguardo al popolo palestinese e alla sua causa, se non mantiene il nostro diritto di esistere sulla nostra terra, di ritornare ad essa, e questo riguarda i profughi, e allo stesso tempo stabilisce un sistema politico per noi e per coloro che vogliono restare, mentre coloro che non vogliono restare possono ritornare al loro paese, al paese da dove sono venuti. Per questo ora stiamo vedendo che molti israeliani vanno alle ambasciate per ottenere la cittadinanza dei loro nonni, padri o qualche parente. Perché sono venuti in diversi periodi, non sono venuti insieme, ma da molti paesi. Vogliono ottenere una risposta da noi: perché non lo chiedono a loro? Perché lo chiedono a noi? La nostra risposta alla loro domanda su cosa faremo con gli ebrei è chiara: non vogliamo far loro nulla. Vogliamo liberare la nostra terra e ritornare ad essa. E questo a loro non piace, ci dicono che non accettiamo accordi e, per questo, vogliono combattere con noi. Queste sono equazioni naturali. Dove c’è occupazione, ci sarà resistenza. Questo è stato presente in tutta la storia. Non abbiamo inventato la lotta armata. Cosa diciamo del Vietnam? Dell’Algeria? Del Sudafrica? Dei paesi dell’America Latina? Queste rivoluzioni sono avvenute in quei paesi, per cosa? Per la libertà del loro popolo. Anche noi; non siamo diversi in questa questione. Pertanto, c’è una distorsione deliberata nei termini, fatta intenzionalmente per beneficiare l’entità sionista, non il popolo palestinese. La domanda sull’Olocausto in Europa non deve essere diretta a noi. Non siamo stati noi, sono stati gli europei a farlo, non noi. Gli ebrei sono venuti da noi e noi li abbiamo ricevuti. Quando emigrarono in quella fase, li abbiamo ricevuti. Esistono video ancora disponibili che possono vedere, che mostrano come arrivarono in barche e come i palestinesi li aiutarono. Perché sono venuti? Perché eravamo in Palestina sotto il colonialismo britannico, e ha facilitato loro questa missione. Poi, sono diventate bande, ci hanno tradito e ci hanno cacciato dal nostro paese. Non ai due stati, come si dice “un diritto che viene usato per uno scopo sbagliato. no, è un diritto”, nessuno ci concede il nostro diritto, siamo noi a strapparlo. E il nostro diritto è ritornare, e questa è la chiave della soluzione. Non c’è nessuna soluzione che possa avanzare, come gli accordi di Oslo, l'”offerta del secolo” e altri. Tutti sono progetti inutili, al contrario, sono progetti dalla parte nemica del popolo, i suoi diritti e i suoi sogni di libertà. D: Non chiederò la tua opinione in relazione all’accordo di Oslo, perché è già fin troppo conosciuta. Tuttavia, la questione della soluzione dei due stati è rilevante ora, poiché quest’anno alcuni paesi hanno iniziato a riconoscere lo Stato di Palestina. Allo stesso tempo, continuano a inviare armi allo Stato occupante. Sostengono che se viene riconosciuto, si potranno ottenere più diritti. Questo punto mi piacerebbe che fosse conosciuto e discusso. La seconda questione è la seguente: in interviste precedenti, hai menzionato l’ipocrisia araba nella lotta palestinese. A cosa ti riferisci esattamente con l’ipocrisia araba? R: I paesi arabi hanno normalizzato le loro relazioni con Israele. Usano la causa palestinese come una scusa. Dicono: ‘Siamo con il popolo palestinese, aiutiamo il popolo palestinese, e deve avere il suo proprio stato…’ Parlano di questo, e ora promuovono la soluzione dei due stati. Tuttavia, esiste una differenza tra creare uno stato in una parte liberata della nostra terra, come è accaduto a Gaza, dove gli israeliani hanno dovuto uscire perché sentivano che quel luogo era diventato un ‘nido di vespe’, come ha detto Isaac Rabin. Non vogliono che quella situazione si ripeta nel resto della Palestina. Quello che cercano è distruggerci. Stiamo vivendo quello che si chiama genocidio. È una pulizia etnica, non solo un genocidio, ma un assassinio sistematico per sterminare un popolo. Ci vedono come una razza non semitica che deve morire, noi e gli altri. E quelli che combattono l’antisemitismo sono stati testimoni di ciò che è accaduto, come ad Amsterdam. [si riferisce agli scontri contro i tifosi del club israeliano Maccabi] Ma questo è stato presente dall’inizio, per cui non dobbiamo temere i termini del nemico. Ora non solo parlano di occupazione, ma anche di genocidio, e lo vediamo riflesso nei cartelli delle manifestazioni. La parola ‘apartheid’ sembra anche infastidire Israele. Attualmente, esiste una settimana dedicata alla lotta contro l’apartheid israeliano sionista. Nel terzo mese dell’anno, durante la prima settimana di marzo, si celebrano questi giorni di protesta contro l’apartheid. Questo stato è stato caratterizzato da due termini: apartheid e genocidio, combinati. D. La causa palestinese si è fatta conoscere nelle strade occidentali e arabe. Non c’è nessuno che non legga, non c’è nessuno che non appoggi la Palestina, nessuno dice che non è genocidio. Ma in Europa, in Francia o Germania, questi slogan sono stati perseguitati. C’era o la paura che la gente scenda in strada e parli di ciò che sta succedendo. Oggi tentano di far sì che la frase ‘dal fiume al mare’ sia una frase terroristica o una frase antisemita. Cosa significa per te la frase ‘dal fiume al mare’? E quanto è importante? R: Stiamo parlando della Palestina storica. È così, dal fiume fino al mare. È nei documenti religiosi. Non esiste qualcosa chiamato ‘Israele’. Anche nei documenti, non esisteva ‘Israele’. Esisteva la Palestina. Nella Bibbia è Palestina, nel Corano è Palestina, nella Torah è Palestina. Come è accaduto? Non parliamo dal punto di vista storico. Cosa è successo? Ma vogliamo dire, cosa hanno fatto gli arabi in tutte le nostre guerre con loro? Nulla. Al contrario, hanno consegnato la Palestina. Cosa erano prima? Non erano paesi, erano divisi. Dopo il governo ottomano, quindi, erano vincolati al colonialismo. Sia l’inglese che il francese, occuparono tutta la regione. La disegnarono a loro misura. Solo per dividere gli arabi. E hanno alzato slogan con la causa palestinese. Ma non abbiamo visto azione. La cosa più pericolosa ora è che stanno normalizzando le relazioni. Sei paesi hanno normalizzato relazioni con Israele. L’Arabia Saudita sta aspettando che finisca la guerra per firmare il suo accordo. Forse questa guerra impedisce loro di firmare. Forse sentono un pericolo maggiore per loro. Ma fino ad ora non sentivano pericolo. Lo abbiamo visto nella Lega Araba. Quali decisioni hanno preso? Qualcosa di vergognoso. Questa è la nostra storia con loro. Notiamo che nei luoghi dove i palestinesi sono attaccati, nessun paese li ha difesi. I paesi arabi, alcuni hanno già normalizzato relazioni e altri no. Tutti sono dalla stessa parte. * da Diario Red "Il 7 ottobre ha segnato una nuova fase". Intervista a Leila Khaled - Contropiano
Ecco la nuova mappa israeliana che propone di annettere l’80% della Cisgiordania
Foto: Bezalel Smotrich accanto a Benjamin Netanyahu Qassam Muaddi – 04/09/2025 https://mondoweiss.net/2025/09/the-new-israeli-map-proposing-to-annex-80-of-the-west-bank-explained Il ministro delle Finanze israeliano Bezalel Smotrich ha pubblicato una mappa che propone di annettere oltre l’80% della Cisgiordania. Non è lontano dal resto dell’establishment politico israeliano, anche dall’opposizione “pragmatica”.   Più dell’80 per cento della Cisgiordania occupata diventerebbe parte di Israele, secondo una nuova proposta di annessione redatta lunedì dal ministro delle Finanze israeliano Bezalel Smotrich. Il ministro della linea dura ha presentato una mappa che mostra tutta la Cisgiordania come parte di Israele, compresa Betlemme, la Valle del Giordano e l’intera campagna palestinese, mentre solo sei città palestinesi – Jenin, Tulkarem, Nablus, Gerico, Ramallah e Hebron – sono state contrassegnate come ghetti isolati. Smotrich ha detto che se l’Autorità Palestinese (ANP) si opporrà al suo piano, Israele “la sradicherà come ha fatto con Hamas”. Smotrich ha anche invitato Netanyahu ad attuare la sua proposta se vuole “entrare nella storia come un grande leader”. Mappa presentata dal ministro delle finanze israeliano Smotrich che illustra le parti rimanenti della Cisgiordania (evidenziate in giallo) e riflette il suo piano di annettere la Cisgiordania occupata a Israele. Lo stesso giorno della presentazione di Smotrich, le forze israeliane hanno arrestato il sindaco di Hebron, Tayseer Abu Sneineh. Hebron è la più grande città palestinese della Cisgiordania e ospita 800.000 palestinesi. Circa 500 coloni israeliani messianici hanno imposto la loro presenza nel centro storico della città dagli anni ’80, e Abu Sneineh è noto per il suo ruolo in una cellula di Fatah che ha pianificato e realizzato l’uccisione di sei coloni israeliani ed ebrei nel centro storico della città nel 1980, conosciuta localmente come “Operazione Dabuya”. Dopo il suo arresto iniziale, Abu Sneineh fu poi rilasciato in uno scambio di prigionieri nel 1983 insieme ad altri membri della cellula. L’arresto di Abu Sneineh è arrivato pochi giorni dopo che i media israeliani hanno riferito che il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, stava prendendo in considerazione la creazione di un “emirato” tribale a Hebron, separato dall’Autorità palestinese, che è emerso per la prima volta sulle pagine del Wall Street Journal lo scorso luglio. I media palestinesi locali hanno ipotizzato se l’arresto di Abu Sneineh fosse un preludio alla rimozione di potenziali fonti di opposizione locale all’annessione, soprattutto dato il background di Abu Sneineh e il suo status di figura nazionalista locale a Hebron. Questi eventi, in aggiunta a una serie di altri sviluppi che hanno portato alla proposta Smotrich, hanno catapultato la questione della potenziale annessione della Cisgiordania da parte di Israele in cima all’agenda del governo israeliano, e hanno lasciato milioni di palestinesi in Cisgiordania incerti sul loro futuro. Il contesto Il gabinetto israeliano si è riunito domenica scorsa per la seconda volta in due settimane per discutere le opzioni per l’annessione di parti della Cisgiordania. È stato seguito da un incontro tra il ministro degli Esteri israeliano Gideon Saar e il segretario di Stato americano Marco Rubio la scorsa settimana, in cui Saar ha informato Rubio dell’intenzione di Israele di “imporre la sovranità israeliana” sul territorio palestinese, secondo il sito di notizie israeliano Walla. Nel frattempo, Israele si è impegnato in una dimostrazione di forza contro l’Autorità Palestinese lanciando diversi raid sulle principali città della Cisgiordania che costituiscono l’Area A in base agli Accordi di Oslo, che comprendono circa il 18% della Cisgiordania e si suppone siano sotto la giurisdizione dell’Autorità Palestinese. La scorsa settimana l’esercito israeliano ha lanciato il più grande raid militare degli ultimi anni su Ramallah, occupando il centro della capitale de facto dell’Autorità Palestinese con centinaia di truppe accompagnate da troupe dei media israeliani per oltre tre ore. Il giorno dopo, l’esercito israeliano ha lanciato un raid simile a Nablus, il secondo più importante centro di potere dell’Autorità Palestinese. Sebbene Israele affermi che le sue ultime mosse per annettere la Cisgiordania sono una risposta all’annuncio di diversi stati europei che intendono riconoscere la Palestina come stato, l’annessione della Cisgiordania da parte di Israele è in corso da anni. Nel 2019, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu si è impegnato, durante la sua campagna elettorale, ad annettere la Valle del Giordano. La prima amministrazione Trump avrebbe impedito a Israele due volte, nel gennaio e nel giugno del 2020, di annunciare formalmente l’annessione. Tuttavia, la stessa amministrazione Trump ha annunciato il suo piano “Deal of the Century” nel 2020, che includeva l’annessione della maggior parte della Cisgiordania, compresa tutta la Valle del Giordano. Trump ha anche riconosciuto la sovranità di Israele sugli insediamenti illegali in Cisgiordania, sulle alture del Golan siriano occupato e su tutta Gerusalemme come capitale di Israele. I palestinesi l’hanno respinta in modo schiacciante. L’attuale piano di annessione di Israele si basa sul “piano decisivo” di Smotrich del 2015, che mira a impedire la creazione di uno Stato palestinese e ad espellere i palestinesi incoraggiando la cosiddetta “migrazione volontaria”. Smotrich ha anche detto che i palestinesi in Cisgiordania si sottometteranno alla sovranità israeliana, lasceranno il paese o “saranno trattati” dalle forze israeliane. Dopo il 7 ottobre, Smotrich ha detto che l’annessione della Cisgiordania dovrebbe essere la risposta di Israele all’attacco di Hamas. In seguito ha detto che l’espulsione da parte di Israele di metà della popolazione di Gaza “costituirebbe un precedente” per fare lo stesso in Cisgiordania. Attaccare l’Autorità Palestinese Negli ultimi due anni, Smotrich ha condotto una campagna di strangolamento finanziario contro l’Autorità Palestinese, piratando il denaro delle dogane palestinesi che Israele raccoglie per conto dell’Autorità Palestinese in base agli Accordi di Oslo. Smotrich ha anche periodicamente minacciato di vietare alle banche israeliane di trattare con le banche palestinesi, e nel frattempo ha costretto le banche israeliane a limitare la quantità di denaro che le banche palestinesi possono trasferire alle banche israeliane. Entrambe le misure hanno costretto l’Autorità Palestinese a una crisi finanziaria continua, incapace di pagare ai funzionari pubblici, ai medici, agli insegnanti e al personale di sicurezza i loro stipendi mensili completi per mesi e mesi. E se Smotrich riuscisse a vietare tutti i rapporti finanziari tra le banche israeliane e palestinesi, significherebbe il collasso finanziario totale in Cisgiordania, minacciando l’esistenza stessa dell’Autorità Palestinese. Indebolire l’Autorità Palestinese a questo livello ha lo scopo di ovviare al suo bisogno di palestinesi e di spianare la strada all’annessione. E Smotrich è solo il volto di questa recente spinta a isolare e assediare l’Autorità Palestinese – è uno dei tanti ministri israeliani chiave per la continuità del governo Netanyahu, tra cui Itamar Ben-Gvir, Amichai Elyahu e Orit Strock, che rappresentano tutti la destra religiosa e controllano la maggioranza nella Knesset israeliana. La Knesset ha anche gettato le basi legali per l’annessione della Cisgiordania per anni. Nel 2018, la Knesset ha approvato la legge israeliana sullo Stato nazionale, che afferma che l’unico diritto all’autodeterminazione tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo appartiene al popolo ebraico. Nel luglio dello scorso anno, la Knesset ha approvato un disegno di legge che rifiutava la creazione di uno Stato palestinese ovunque tra il fiume e il mare, e un anno dopo – lo scorso luglio – la Knesset ha approvato un disegno di legge che consente l’annessione della Cisgiordania. Il ruolo degli Stati Uniti Il preludio all’annessione ufficiale del territorio palestinese non si limita alle misure israeliane, ma include anche quelle che finora sono mosse simboliche degli Stati Uniti che sottoscrivono le intenzioni di Israele. Mentre gli stati europei, tra cui Francia, Regno Unito e Belgio, annunciano l’intenzione di riconoscere uno stato palestinese durante l’Assemblea generale delle Nazioni Unite alla fine di questo mese, gli Stati Uniti, da parte loro, hanno revocato i visti ai funzionari palestinesi, tra cui il presidente palestinese Mahmoud Abbas, che parteciperà all’Assemblea generale. La mossa è stata seguita dalla decisione di Washington di smettere di rilasciare visti a tutti i titolari di passaporto palestinese. In sostanza, ciò significa che gli Stati Uniti stanno implicitamente sostenendo i piani di Israele per cancellare la possibilità di uno stato palestinese ed estendere il controllo di Israele su tutti i territori palestinesi. Sebbene il piano più recente di Smotrich sia stato descritto come “massimalista”, l’orientamento generale dei legislatori israeliani, anche l’opposizione “pragmatica” rappresentata da Yair Lapid e Benny Gantz, non si oppone all’annessione in alcun senso significativo. Le principali differenze che esistono tra gli israeliani non riguardano l’annessione in sé, ma la sua estensione. I legislatori israeliani meno “massimalisti” chiedono l’annessione di tutti gli insediamenti israeliani, l’annessione dell’Area C (che costituisce oltre il 60% della Cisgiordania) o l’annessione della Valle del Giordano. Ma tutte queste versioni priverebbero i palestinesi di qualsiasi continuità geografica significativa, di controllo sulle risorse naturali e sui confini, o di prospettive per una futura crescita della popolazione. In sostanza, l’intera classe politica israeliana è decisa a rendere impossibile uno stato palestinese. Questa è la gamma di correnti politiche tra cui gli Stati Uniti stanno scegliendo per sostenere. Alla fine, saranno gli Stati Uniti a decidere se l’annessione ufficiale nel suo complesso andrà avanti. Axios ha citato due funzionari statunitensi anonimi secondo cui era “improbabile” che Trump avrebbe sostenuto una tale mossa. Ma anche se Washington fermasse l’annessione de jure della Cisgiordania, molto probabilmente offrirà una “alternativa” che solidificherebbe l’annessione de facto. https://www.ambienteweb.org/2025/09/05/ecco-la-nuova-mappa-israeliana-che-propone-di-annettere-l80-della-cisgiordania/
Morti per fame: il massacro silenzioso di Gaza sotto gli occhi del mondo
Scritto il24/07/2025infopal Gaza – PIC. In un mondo che continua a restare inerte, con gli occhi chiusi e il cuore intorpidito, indifferente al rintocco della campana che echeggia da Gaza – una terra martoriata da una brutale guerra di fame sionista e da un genocidio in stile nazista – la fame miete vittime. Bambini e anziani, giovani e deboli muoiono uno dopo l’altro, vittime della carestia. Centinaia, se non migliaia, attendono un imminente “tsunami” di morte, i loro corpi crollano sotto il peso della fame, incapaci di sostenerli oltre. Soffrono di malnutrizione di quinto grado, una carestia catastrofica, mentre il mondo resta in attesa che una scintilla di umanità si risvegli e salvi ciò che resta dalle fauci della fame, deliberatamente imposta dall’occupazione criminale in uno sforzo calcolato per annientare la volontà di un intero popolo, sotto gli occhi della comunità internazionale. Centinaia di storie documentate, catturate in suoni e immagini, raccontano del più orribile massacro umanitario della storia moderna. Mentre le Nazioni Unite continuano a lanciare allarmi sulla catastrofe umanitaria a Gaza, i numeri descrivono una realtà crudele: la fame è diventata una politica mortale che colpisce bambini e adulti sotto un assedio serrato e un blocco sistematico di cibo e medicine. Dati recenti delle Nazioni Unite rivelano che oltre un milione di bambini a Gaza sono minacciati dalla fame, con tassi di malnutrizione acuta in rapido aumento. Secondo l’Agenzia delle Nazioni Unite per il Soccorso e l’Occupazione (UNRWA), i bambini sono i più vulnerabili e gravemente colpiti dalla crisi, poiché gli aiuti non riescono a raggiungere la maggior parte delle zone di Gaza a causa delle rigide restrizioni militari imposte da Israele. L’UNICEF ha dichiarato che la fame è diventata una “terrificante realtà” che minaccia la vita di centinaia di migliaia di bambini. Oltre 70.000 bambini a Gaza soffrono di malnutrizione acuta, e più di 5.000 bambini sotto i cinque anni sono stati ufficialmente diagnosticati solo nel mese di maggio. L’agenzia ha avvertito che Gaza è vittima di una politica sistematica di carestia imposta da Israele, che finora ha causato 86 morti per fame, di cui 76 bambini, e si prevede che tali numeri continueranno a salire a causa della mancanza di nutrizione terapeutica e del perdurare dell’assedio. Rapporti sul campo hanno documentato casi strazianti di neonati deceduti dopo aver sopravvissuto per giorni solo con tisane, a causa dell’assenza di latte artificiale e alimenti essenziali per le madri che allattano. Il Programma Alimentare Mondiale stima che un terzo della popolazione di Gaza sia rimasta senza cibo per giorni consecutivi, mentre un quarto vive in condizioni simili a una carestia, compromettendo gravemente la salute dei bambini e spingendoli sull’orlo del baratro. L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha avvertito che la crisi potrebbe aggravarsi rapidamente se non verrà consentito immediatamente l’ingresso di aiuti alimentari e medici. Ha confermato che oltre 100.000 bambini e donne incinte a Gaza soffrono di livelli critici di malnutrizione, mettendo le loro vite in costante pericolo. Israele è accusato di usare la fame come arma. Organizzazioni internazionali, tra cui Amnesty International, hanno documentato prove di una campagna sistematica volta ad affamare la popolazione civile: una palese violazione del diritto internazionale e un crimine di genocidio. In assenza di una soluzione politica o di un intervento internazionale concreto, la sofferenza dei bambini di Gaza si aggrava, mentre il mondo continua a lanciare appelli vuoti. Mentre emergono immagini di bambini emaciati o di piccoli che esalano l’ultimo respiro tra le braccia delle loro madri, il grido della fame a Gaza diventa più assordante del silenzio del mondo, e più devastante di qualsiasi discorso. Morti per fame: il massacro silenzioso di Gaza sotto gli occhi del mondo | InfoPal
Libertà per alcuni, silenzio per altri: cosa c'è da sapere sugli ostaggi palestinesi detenuti da Israele e ignorati dal mondo
12 luglio 2025 Palestina Occupata (Quds News Network) - Mentre il mondo chiede il rilascio dei prigionieri israeliani detenuti a Gaza negli ultimi 20 mesi, più di 10.800 palestinesi, tra cui bambini, donne e giornalisti, sono detenuti nelle carceri israeliane, tra denunce di torture e negligenza medica. Secondo l'ultimo aggiornamento pubblicato l'8 luglio dai gruppi di difesa dei prigionieri palestinesi, dall'ottobre 2023, quando Israele ha lanciato il suo assalto a Gaza, ad oggi, il numero di ostaggi palestinesi è raddoppiato, passando da 5.000 a circa 10.800. Di quelli in detenzione: Secondo la Commissione Palestinese per gli Affari dei Detenuti and Ex-Detenuti e la Società Palestinese di Prigionieri (PPS), dal 1967 le forze israeliane hanno detenuto circa un milione di palestinesi, ovvero circa il 20% della popolazione palestinese. Statisticamente, questo significa che un palestinese su cinque, ad un certo punto della sua vita, è stato imprigionato. Detenzione amministrativa I gruppi hanno affermato di aver documentato un "pericoloso aumento" del numero di palestinesi detenuti in detenzione amministrativa nelle carceri israeliane. L'ultimo dato sui detenuti amministrativi all'inizio di luglio è di 3.629 persone, che secondo l'osservatorio è il numero più alto registrato da quando questo tipo di detenzione ha iniziato ad essere utilizzato su larga scala. Israele ricorre abitualmente alla detenzione amministrativa e, nel corso degli anni, ha messo dietro le sbarre migliaia di palestinesi per periodi che vanno da diversi mesi a diversi anni, senza accusarli, senza dire loro di cosa sono accusati e senza rivelare le presunte prove a loro o ai loro avvocati. Secondo il quotidiano israeliano Haaretz, gli stati occidentali impiegano raramente la detenzione amministrativa e in alcuni paesi la pratica non esiste affatto. Le autorità di occupazione israeliane lo usano principalmente in Cisgiordania contro i palestinesi "mentre il suo uso contro i cittadini israeliani, in particolare quelli ebrei, è raramente impiegato". Morte silenziosa Secondo i gruppi di difesa dei prigionieri palestinesi, 73 detenuti noti sono morti nelle carceri israeliane dall'inizio del genocidio israeliano a Gaza. Tra loro ci sono almeno 45 detenuti di Gaza e un bambino, il numero più alto della storia. Dal 1967, un totale di 310 prigionieri palestinesi sono morti nelle carceri dell'occupazione israeliana. Il gruppo ha detto che le identità di molti martiri tra i detenuti di Gaza rimangono segrete, poiché l'occupazione israeliana continua a nasconderle, rendendo questa la "fase più sanguinosa nella storia del movimento dei prigionieri". Di questi, Israele continua a trattenere i corpi di 81 detenuti, compresi quelli che sono morti dall'inizio dell'assalto israeliano. Inoltre, decine di detenuti di Gaza sono scomparsi con la forza, senza alcuna informazione confermata sul loro destino. Le autorità di occupazione israeliane sono state accusate di torturare i detenuti palestinesi. Ciò include l'essere ammanettati e incatenati 24 ore al giorno, sette giorni alla settimana, anche mentre si dorme, si mangia e si usa il bagno. Le testimonianze descrivono anche pestaggi regolari da parte delle guardie, sovraffollamento estremo, umiliazione e igiene inadeguata. Un soldato della riserva israeliana ha denunciato gli abusi scioccanti avvenuti di recente nella famigerata base militare israeliana di Sde Teiman, descrivendola come un "sadico luogo di tortura" dove decine di detenuti palestinesi di Gaza sono morti in condizioni brutali. Il soldato ha descritto Sde Teiman come un luogo dove "le persone entrano vive ed escono in sacchi per cadaveri". Ha detto che la morte dei detenuti non è più sorprendente. "La vera sorpresa", ha aggiunto, "è se qualcuno sopravvive". Ha affermato che le autorità di occupazione israeliane sovrintendono agli abusi sistematici. Secondo il suo racconto, i detenuti palestinesi hanno sofferto la fame, ferite di guerra non curate e la negazione dei bisogni igienici di base. "Alcuni urinavano e defecavano su se stessi perché non gli era permesso usare il bagno", ha detto. Nell'agosto 2024, il gruppo israeliano per i diritti B'Tselem ha accusato le autorità di occupazione israeliane di aver sistematicamente abusato dei palestinesi nei "campi di tortura", sottoponendoli a gravi violenze e aggressioni sessuali. Il suo rapporto, intitolato "Benvenuti all'inferno", si basa su 55 testimonianze di ex detenuti della Striscia di Gaza, della Cisgiordania occupata, di Gerusalemme Est e di cittadini di Israele. La stragrande maggioranza di questi detenuti è stata trattenuta senza processo. Secondo il Palestine Center for Prisoners Studies, più della metà dei prigionieri palestinesi morti dall'ottobre 2023 sono stati uccisi principalmente a causa di torture e abusi. A causa del forte aumento degli arresti, in particolare tra gli abitanti di Gaza, Israele ha aperto nuovi centri di detenzione e interrogatori gestiti direttamente dai suoi militari. Secondo il Centro, queste strutture sono diventate luoghi di "torture e maltrattamenti sistematici, in chiara violazione del diritto internazionale e dei diritti umani". Il centro ha anche rivelato che Israele ha ufficialmente riconosciuto la morte di 37 detenuti nel centro di detenzione di Sde Teiman dall'ottobre 2023, anche se questo numero è probabilmente solo una frazione del bilancio reale. Molti prigionieri di Gaza sono stati sottoposti a sparizioni forzate e tenuti in isolamento in condizioni disumane, creando un ambiente in cui le uccisioni extragiudiziali possono avvenire senza supervisione o responsabilità. Oltre alla tortura, il centro ha documentato 29 decessi dovuti a negligenza medica. Si dice che Israele neghi sistematicamente ai prigionieri l'accesso alle cure mediche di base, trattenendoli in condizioni antigieniche e afflitte da malattie e ritardando o rifiutando completamente le cure necessarie per lunghi periodi. In molti casi, i prigionieri vengono trasferiti negli ospedali solo quando sono in punto di morte. "Combattenti illegali" Le forze di occupazione israeliane hanno rapito più di 2000 abitanti di Gaza durante il genocidio in corso, probabilmente un numero ancora più alto, e li stanno tenendo in detenzione in isolamento a tempo indeterminato, senza accusa né processo, ai sensi della legge sui combattenti illegali, in chiara violazione del diritto internazionale. Attualmente ci sono 2.454 detenuti classificati come "combattenti illegali", il numero più alto registrato dall'inizio del genocidio, hanno detto i gruppi di difesa. Questa cifra non include tutti gli ostaggi di Gaza rapiti durante il genocidio e attualmente detenuti nei campi di detenzione gestiti dall'esercito israeliano. I gruppi hanno osservato che questa classificazione si applica anche ai detenuti arabi provenienti dal Libano e dalla Siria. Secondo Amnesty International, citando ex detenuti, durante la loro detenzione in isolamento, che in alcuni casi è equivalsa a sparizione forzata, le forze militari, di intelligence e di polizia israeliane li hanno sottoposti a torture e altri trattamenti crudeli, inumani o degradanti. La legge sui combattenti illegali concede all'esercito israeliano ampi poteri per detenere chiunque da Gaza sia sospettato di essere coinvolto in attacchi contro Israele o di rappresentare una minaccia per la sicurezza dello Stato per periodi indefinitamente rinnovabili, senza dover produrre prove a sostegno delle affermazioni. Amnesty International ha dichiarato: "La nostra documentazione illustra come le autorità israeliane stiano usando la legge sui combattenti illegali per radunare arbitrariamente civili palestinesi da Gaza e gettarli in un buco nero virtuale per periodi prolungati senza produrre alcuna prova che rappresentino una minaccia per la sicurezza e senza un minimo di giusto processo. Le autorità israeliane devono immediatamente abrogare questa legge e rilasciare coloro che sono detenuti arbitrariamente in base ad essa”. Le forze israeliane hanno rapito i detenuti in tutta Gaza, tra cui Gaza City, Jabalia, Beit Lahiya e Khan Younis. I detenuti sono stati radunati nelle scuole che ospitano famiglie sfollate, durante incursioni in case, ospedali e posti di blocco appena installati. Sono stati poi trasferiti in Israele. Tra gli arrestati c'erano medici presi in custodia negli ospedali per essersi rifiutati di abbandonare i loro pazienti; madri separate dai loro piccoli mentre cercavano di attraversare il cosiddetto "corridoio sicuro" dal nord di Gaza al sud; difensori dei diritti umani, operatori delle Nazioni Unite, giornalisti e altri civili. Uno dei casi più noti è quello del dottor Hussam Abu Safiya, direttore dell'ospedale Kamal Adwan nel nord di Gaza, che è stato imprigionato dalle forze israeliane per oltre 180 giorni, suscitando crescenti timori perché potrebbe non "uscirne vivo". Anche la sua famiglia è preoccupata per la sua salute fisica e mentale. Le forze israeliane hanno rapito il dottor Abu Safiya nel dicembre 2024 dopo aver preso d'assalto l'ospedale Kamal Adwan. I soldati lo hanno costretto a uscire sotto la minaccia delle armi, distruggendo l'ospedale e mettendolo fuori servizio. Circondato da edifici bombardati, Abu Safiya camminava in mezzo a una strada cosparsa di detriti, il suo camice bianco da medico che si stagliava contro le macerie mentre si dirigeva verso i carri armati israeliani. Il dottor Hussam Abu Safiya camminava in mezzo a una strada cosparsa di detriti, il suo camice bianco da medico che si stagliava contro le macerie mentre si dirigeva verso i carri armati israeliani. L'esercito israeliano ha affermato a gennaio che Abu Safiya era stato coinvolto "in attività terroristiche" e aveva "un rango" in Hamas che, a suo dire, aveva reso l'ospedale Kamal Adwan una roccaforte durante la guerra. A marzo, un tribunale israeliano ha esteso la detenzione di Abu Safiya per sei mesi. La sentenza lo ha classificato come "combattente illegale". Ma secondo il Centro Al Mezan per i diritti umani, non sono state formulate accuse formali contro il direttore dell'ospedale. Un portavoce del Centro Al Mezan ha detto di recente che Abu Safiya è ancora detenuto nella prigione di Ofer, nella Cisgiordania occupata, dove ha dovuto affrontare condizioni terribili, cibo inadeguato e celle sovraffollate. Celle sotterranee? I video diffusi dai media israeliani a gennaio mostravano detenuti palestinesi incatenati all'interno di celle sotterranee senza materassi o coperte, racchiusi da cancelli di ferro e non esposti alla luce del sole. L'Autorità israeliana di radiodiffusione ha riferito che i detenuti sono ammanettati e tenuti in una minuscola cella per ventitré ore al giorno, con una sola possibilità di lasciare la cella durante il giorno per entrare in un piccolo cortile buio. La prigione sotterranea si chiama Rakevet e si trova sotto la prigione israeliana di Nitzan a Ramleh. Israele sostiene che la prigione è riservata ai detenuti più pericolosi, che secondo Israele sono membri dell'élite di Hamas e delle Forze Radwan affiliate a Hezbollah. Euro-Med Monitor ha affermato che questa affermazione "non giustifica la violazione delle norme del diritto internazionale in materia di trattamento dei detenuti e dei prigionieri". "Questa affermazione è falsa e spesso usata come pretesto per torture e ritorsioni, come dimostra il fatto che migliaia di detenuti della Striscia di Gaza sono stati rilasciati dopo essere stati sottoposti a crudeli torture e condizioni di detenzione illegali con il pretesto dell'appartenenza all'élite". A marzo, la Commissione per gli Affari dei Detenuti e degli Ex-Detenuti e la Società dei Prigionieri Palestinesi hanno rivelato testimonianze inquietanti di detenuti di Gaza. Le testimonianze sono state raccolte durante le prime visite legali condotte da avvocati palestinesi ai detenuti imprigionati nella prigione segreta sotterranea di Rakevet. Le visite si sono svolte sotto stretta sorveglianza, con guardie che accompagnavano gli avvocati in ogni momento e vietavano qualsiasi menzione di familiari o eventi al di fuori del carcere. Secondo gli avvocati, i detenuti mostravano segni visibili di paura e trauma. All'inizio, molti non sono stati in grado di parlare liberamente a causa della pesante sorveglianza, tuttavia, dopo le rassicurazioni dei team legali, alcuni hanno accettato di condividere le loro esperienze. Un detenuto, identificato come S.J., ha dichiarato di essere stato arrestato nel dicembre 2023 e immediatamente sottoposto a sei giorni di interrogatorio continuo con quelli che ha definito i metodi "disco" e "pampers", riferimenti utilizzati dai detenuti per tecniche particolarmente umilianti. Ha descritto di essere stato costretto a indossare pannolini per adulti dopo che gli è stato negato l'accesso a un bagno, mentre sopportava musica ad alto volume, gravi privazioni di cibo e acqua ed è stato tenuto bendato e ammanettato per tutto il tempo. S.J. è stato poi trasferito più volte, dalla prigione di Sde Teiman alla prigione di Ashkelon, poi al centro di detenzione di Moscobiya per 85 giorni, seguito dalla prigione di Ofer e infine alla sezione di Rakevet. Ha detto che le condizioni a Rakevet erano le peggiori che avesse mai vissuto, con tre detenuti per cella, senza luce solare e con un tempo di esercizio umiliante in cui ai prigionieri non era permesso alzare la testa. Un altro detenuto, W.N., ha detto di essere stato arrestato nel dicembre 2024 e di aver subito violenti interrogatori da parte delle forze israeliane e degli agenti dell'intelligence. Ha riferito di essere stato aggredito sessualmente con un dispositivo di ricerca, gli sono state negate le cure mediche e di essere stato costretto a sedersi in ginocchio per lunghi periodi. I prigionieri sono stati costretti a maledire le loro stesse madri, ha aggiunto, e ha subito una frattura al dito durante il trasporto, una tattica che le guardie usano deliberatamente contro i detenuti. Un terzo detenuto, K.D., ha detto di essere stato sottoposto a ripetuti interrogatori con il metodo della "discoteca" e in posizioni di stress, spesso legato a una sedia per lunghe ore o gettato a terra, mentre la musica ad alto volume suonava continuamente, rendendo impossibile riposare o dormire. Ha contratto la scabbia nella prigione di Ofer e non ha ricevuto alcun trattamento dopo essere stato trasferito al Rakevet. Soffre di dolori al petto aggravati dall'uso di rigide restrizioni e ha detto che l'amministrazione carceraria punisce i detenuti rompendo deliberatamente i pollici. Un altro detenuto, A.G., detenuto per 35 giorni a Sde Teiman, ha detto di essere entrato in prigione con una ferita e di non aver ricevuto cure mediche. Ha sviluppato una febbre alta e ha perso conoscenza più volte. Per 15 giorni è stato ammanettato e bendato tutto il giorno. Successivamente trasferito a Rakevet, ha descritto la sorveglianza permanente nelle celle, i divieti di preghiera, le minacce di morte e le aggressioni violente durante il tempo in cortile. Ai prigionieri era permesso di fare la doccia solo quando le guardie lo decidevano, e veniva dato loro un rotolo di carta igienica ogni tre giorni. Il cibo è minimo e i detenuti si ricordano bene  quando le guardie confiscano le coperte all'alba. I due gruppi di difesa hanno affermato che Rakevet è stata una delle numerose strutture riproposte o riaperte da Israele per detenere i detenuti di Gaza dall'inizio della guerra di Gaza. Altre strutture includono Sde Teiman, Anatot, il campo di Ofer e il campo di Menashe per i detenuti della Cisgiordania. Questi siti, hanno detto, sono diventati sinonimo di "tortura fisica e psicologica istantanea e sistematica". Libertà per alcuni, silenzio per altri Mentre il mondo ha chiesto il rilascio dei prigionieri israeliani detenuti a Gaza negli ultimi 20 mesi, è rimasto in gran parte in silenzio sugli oltre 10.800 palestinesi imprigionati nelle carceri israeliane. Dopo che Hamas e Israele hanno raggiunto un accordo a gennaio, 1.777 prigionieri palestinesi, che hanno trascorso un tempo totale pari a circa 10.000 anni nelle carceri israeliane, sono stati rilasciati. Tuttavia, le forze israeliane hanno arrestato nuovamente molti di loro. Secondo i termini dell'accordo di cessate il fuoco di Gaza, che Israele ha poi rinnegato quando ha ripreso l'assalto a Gaza, i palestinesi rilasciati non dovevano essere nuovamente arrestati con le stesse accuse per le quali erano stati precedentemente imprigionati. I sostenitori dei diritti dicono che le azioni di Israele violano i termini dell'accordo. Freedom for Some, Silence for Others: What You Need to Know About Palestinian Hostages Held by Israel and Ignored by the World - Quds News Network Traduzione a cura dell'Associazione di Amicizia Italo-Palestinese Onlus, Firenze
Ilan Pappé: la lotta accademica per il diritto al ritorno
Scritto il05/07/2025 Thisweekinpalestine.com. Di Ilan Pappè. Coloro di noi che hanno lavorato come storici professionisti su quella che Nur Masalha chiamava la “Politica della Negazione”, per decenni hanno denunciato che la negazione ha accompagnato l’attuale politica israeliana di espropriazione. I due, negazione ed espropriazione, ovviamente, sono interconnessi. Chi espropria è abbastanza potente da cancellare i propri crimini dalle proprie narrazioni ufficiali e da quelle altrui. Allo stesso modo, lo sviluppo e i cambiamenti nella storiografia dei rifugiati e nelle politiche contro di loro, in particolare la negazione del loro Diritto al Ritorno, vanno di pari passo. La storiografia è diventata una parte importante della lotta contro la negazione del Diritto al Ritorno dei rifugiati. All’inizio degli anni ’60, esistevano già alcuni resoconti storici palestinesi su ciò che accadde realmente nel 1948, che avrebbero dovuto avere un impatto enorme sulla discussione sul destino dei rifugiati palestinesi. Questa prima storiografia indicava già la responsabilità esclusiva di Israele nella creazione del problema dei rifugiati palestinesi. Tuttavia, la narrazione israeliana dominava il mondo accademico e i media occidentali, e la prospettiva palestinese era considerata “parziale” e inaffidabile. La prima rappresentazione da parte dei palestinesi della massiccia espulsione avrebbe dovuto portare a un’insistenza internazionale sul Diritto al Ritorno dei rifugiati, non solo a causa della famosa Risoluzione ONU 194, dell’11 dicembre 1948, che ne richiedeva il ritorno, ma anche perché il nuovo insieme di valori, che plasmò quello che sarebbe diventato il Diritto Internazionale dopo la Seconda Guerra Mondiale, considerava tale diritto sacro. La chiara Natura Criminale della massiccia espulsione, ancor prima che fosse definita Pulizia Etnica, e il chiaro desiderio dei rifugiati di tornare non lasciavano dubbi sulla validità giuridica del Diritto al Ritorno. Ma questo non si concretizzò. Ciononostante, i falliti tentativi di difendere questo diritto rivelarono l’importanza della ricerca storica per la continua lotta per il Diritto al Ritorno. In altre parole, non era sufficiente basarsi sulla Risoluzione ONU, era importante spiegare come i palestinesi fossero diventati profughi. La prima volta che Israele prestò attenzione al legame tra la storia del 1948 e la possibile posizione internazionale sul Diritto al Ritorno dei rifugiati fu all’inizio degli anni ’60. Il motivo fu l’interesse piuttosto sorprendente e inaspettato del presidente J. F. Kennedy per la questione del Diritto al Ritorno. Kennedy stava per dare avvio a un nuovo interesse americano per l’attuazione del Diritto al Ritorno attraverso la delegazione statunitense alle Nazioni Unite, il che causò allarme in Israele, in particolare presso l’ufficio del primo ministro David Ben-Gurion. Ben-Gurion credeva che il governo statunitense sarebbe stato dissuaso dal prendere qualsiasi iniziativa se fosse stato a conoscenza della versione storica “corretta” delle modalità con cui i palestinesi erano diventati profughi. A tal fine, Ben-Gurion si rivolse alle istituzioni orientaliste in Israele e offrì loro la documentazione, frutto di ricerche commissionate, volta a dimostrare che nel 1948 i rifugiati avevano lasciato volontariamente la Palestina. Un centro di ricerca dell’Università di Tel Aviv assegnò alla missione un giovane studioso, Ronni Gabay, ma le sue conclusioni delusero il primo ministro. Sulla base dei documenti a cui aveva accesso, concluse che la maggior parte dei rifugiati era stata espropriata principalmente con la forza. Deluso, Ben-Gurion chiese che un altro studioso esaminasse il materiale. Trovarono qualcuno che capiva cosa ci si aspettava da lui: ovvero che affermasse che, sulla base dei documenti, i rifugiati erano partiti volontariamente per ordine dei loro leader e dei Paesi arabi confinanti. Prima che l’iniziativa di Kennedy potesse concretizzarsi, tuttavia, fu sventata dal suo assassinio. Fino ad oggi, nessuno dei suoi successori ha perseguito questa politica. Negli anni ’60 e ’70, il Centro di Ricerca dell’OLP di Beirut, nelle sue varie sedi e pubblicazioni, e in seguito l’Istituto per gli studi sulla Palestina, continuarono a produrre ricerche e lavori che fornirono conoscenze e documentazione cruciali che dimostravano i tentativi fatti dalle Nazioni Unite di ribadire la responsabilità dell’organizzazione nella difesa del Diritto al Ritorno dei palestinesi, data la sua posizione sulla Palestina nel 1947. Questo progresso nella comprensione storiografica delle origini del problema dei rifugiati palestinesi, e la consapevolezza che la politica di eliminazione è stata perpetuata sul campo da Israele da allora, portarono a quello che all’epoca sembrò un cambiamento molto significativo nella posizione e nell’impegno delle Nazioni Unite per il Diritto al Ritorno. Il risultato fu l’istituzione del Comitato per l’Esercizio dei Diritti Inalienabili del Popolo Palestinese (CEIRPP). Ricevette il mandato dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite con la Risoluzione 3376 il 10 novembre 1975. (Questo comitato diede avvio alla “Giornata Internazionale di Solidarietà con il Popolo Palestinese”, che si tiene ogni anno il 29 novembre). Un altro organismo importante fu un’unità speciale per i diritti dei palestinesi, creata dall’Assemblea Generale nel 1977. Questa unità in particolare agì anche in veste accademica. Si concentrò sulla preparazione di studi e pubblicazioni relative al Diritto al Ritorno e divenne la “Divisione per i Diritti dei Palestinesi” nel 1979. Il suo lavoro, almeno nell’ambito delle Nazioni Unite, mantenne viva la questione dei rifugiati durante il secolo scorso. Ma l’ONU perse la sua indipendenza già all’inizio degli anni Novanta (quando, ad esempio, gli Stati Uniti riuscirono ad annullare, nel 1991, la famosa risoluzione del 1975 che equiparava il Sionismo al razzismo). All’inizio degli anni Ottanta, personalità come Edward Said, Ibrahim Abu Lughod e Walid Khalidi, tra gli altri, continuarono a produrre lavori accademici e solidi che fornirono le prove necessarie sulle circostanze che portarono alla nascita del problema dei rifugiati palestinesi nel 1948. Il loro lavoro fu accentuato da un nuovo fenomeno storiografico noto come “la nuova storia di Israele”. Un piccolo gruppo di storici israeliani professionisti, sfruttando la declassificazione del materiale d’archivio del 1948, suffragò, sulla base di questo patrimonio, le principali affermazioni dei palestinesi sulla nascita del problema dei rifugiati, ovvero che esso fosse il risultato di espulsioni di massa e del rifiuto di qualsiasi rimpatrio. Molti studiosi palestinesi sono rimasti sgomenti, e a ragione, dal fatto che solo con la pubblicazione della revisione storiografica israeliana si sia manifestata la volontà di ascoltare una narrazione che contrastasse quella inventata da Israele. Tuttavia, quando le vittime di un crimine dichiarano di aver subito un torto, i tribunali non sono sempre inclini a crederci; solo quando i criminali ammettono il crimine il verdetto è chiaro. O, per dirla in altri termini, i palestinesi non avevano bisogno di prove di essere vittime di espulsione intenzionale, ma il mondo sì. La storiografia della Nakba è diventata ancora più completa quando queste opere sono state integrate da un rinnovato e vigoroso interesse per la storia orale, soprattutto da parte di giovani studiosi palestinesi. La ricomparsa negli anni ’90 del Modello Coloniale d’Insediamento, che gli studiosi palestinesi avevano già proposto a metà degli anni ’60, ha aggiunto un nuovo livello alla storiografia della Nakba e all’analisi delle motivazioni alla base dell’espropriazione dei palestinesi. Hanno lasciato intendere che ciò avrebbe dovuto avere un impatto sulla decisione politica riguardante il loro futuro. La caratteristica più importante associata al Progetto Coloniale di Insediamento è la logica dell’eliminazione dei nativi. Ciò ha permesso alla ricerca di includere tutti i rifugiati, compresa l’élite che partì nel gennaio del 1948, desiderosa di rimanere fuori fino alla fine dei combattimenti, ma a cui non fu permesso di tornare, diventando così vittima della politica eliminatrice. In altre parole, il lavoro accademico sui rifugiati, la loro storia e la realtà contemporanea è cresciuto sia in quantità che in qualità. Eppure, anche in senso inverso, politicamente la questione dei rifugiati è costantemente scivolata in secondo piano, persino nel discorso dell’Autorità Nazionale Palestinese, e sicuramente in ciò che restava dello sforzo diplomatico globale per “risolvere” il “conflitto”. L’impegno che unisce il lavoro accademico all’attivismo per il Diritto al Ritorno deve proseguire, nonostante la sua incapacità finora di influenzare l’agenda politica dall’alto in Occidente. Ci sono due aree in cui questo sforzo congiunto può essere ampliato. Un primo obiettivo è quello di basarci sul ricco lavoro accademico che già possediamo e di trasmetterlo al grande pubblico attraverso film, teatro, mostre e altri media simili. Questi luoghi e piattaforme, fisici o virtuali, sono luoghi importanti per ricordare alle persone il Diritto al Ritorno e per immaginare come verrà attuato. Abbiamo già alcuni esempi eccellenti, ma ce ne vogliono di più nei mass media. Il secondo obiettivo è quello di proseguire il lavoro accademico con una chiara motivazione morale, in modo che sia rilevante sia per analizzare criticamente l’assenza del Diritto al Ritorno dagli sforzi diplomatici finora compiuti, sia, soprattutto, per capire come possa essere attuato in futuro. Ciò richiede un mix di acume accademico e immaginazione. Abbiamo già ottimi esempi in questo senso: l’incredibile lavoro di Salman Abu Sitta sull’attuazione del Diritto al Ritorno; quello di ONG palestinesi locali come Udna, che ha realizzato modelli 3D di villaggi ricostruiti; e il lavoro di ONG israeliane come Zochrot, che ha avviato un progetto chiamato “Immaginare il Ritorno”. Ma abbiamo bisogno di più, anche se, comprensibilmente, gran parte delle nostre energie oggi è concentrata sul Genocidio a Gaza e sulla Pulizia Etnica in Cisgiordania. Infine, se il Piano trumpiano sulla Pulizia Etnica dei palestinesi a Gaza dovesse continuare, o se dovesse continuare a essere ampiamente utilizzato dai politici israeliani, non dovrebbe essere semplicemente negato; sarebbe utile sottolineare che l’unica alternativa possibile che la popolazione di Gaza stessa dovrebbe considerare è se il 70% di loro, proveniente dalla Palestina del ’48, sarebbe disposto a tornare alle proprie case d’origine in quello che oggi è Israele. Questo ci ricorda quanto sia rilevante il Diritto al Ritorno per il futuro della Palestina e quanto lavoro ci sia ancora da fare per preparare un piano concreto su come attuarlo. Ilan Pappé è professore all’Università di Exeter. In precedenza è stato docente di scienze politiche presso l’Università di Haifa. È autore del recente Lobbying for Zionism on Both Sides of the Atlantic (Lobbisti per il Sionismo su entrambi i Lati dell’Atlantico) di The Physical Cleansing of Palestine, The Modern Middle East (La Pulizia Etnica della Palestina, il Medio Oriente Moderno); Una storia della Palestina moderna: una terra, due popoli (Una Storia Della Palestina Moderna: Una Terra, Due Popoli) e Dieci miti su Israele (Dieci Miti su Israele). Pappé è descritto come uno dei “Nuovi storici” israeliani che, dal rilascio dei pertinenti documenti del governo britannico e israeliano all’inizio degli anni ’80, hanno riscritto la storia della creazione di Israele nel 1948. Traduzione: La Zona Grigia Ilan Pappe: la lotta accademica per il diritto al ritorno | InfoPal
Israele sta cercando di espellerci da Masafer Yatta. Ci rifiutiamo di lasciare le nostre case.
Le forze israeliane demoliscono le strutture palestinesi nel villaggio di Khallet al-Dabe' a Masafer Yatta, nelle colline a sud di Hebron, 5 maggio 2025. (Foto: Mamoun Wazwaz/APA Images) Un recente ordine militare israeliano minaccia di sfollare 1.200 palestinesi dalle nostre case a Masafer Yatta, ma ci rifiutiamo di essere cancellati. Di Mohammad Hesham Huraini  Luglio 2, 2025   Circa un mese fa – dopo anni di vessazioni e demolizioni intermittenti – le forze di occupazione israeliane sono arrivate nel villaggio palestinese di Khallet al-Dabe', una delle 12 comunità che compongono Masafer Yatta, nelle colline a sud di Hebron, nella Cisgiordania occupata. Hanno demolito, quasi interamente, il villaggio. In sole due ore e mezza, le forze di occupazione israeliane hanno ridotto quasi l'intero villaggio in macerie. Come Khallet al-Dabe', tutti i villaggi palestinesi di Masafer Yatta sono ora sotto minaccia di espulsione permanente dopo che l'Amministrazione Civile – l'ente militare israeliano incaricato di governare la Cisgiordania – ha emesso un ordine che consente quello che viene chiamato "addestramento con munizioni vere" a Masafer Yatta, un'azione intrapresa per rafforzare la designazione, da parte loro, dell'area come "Zona di tiro 918". Khallet al-Dabe' di Masafer Yatta nel febbraio 2022. (Foto: Ihab Alami/APA Images) Per più di cinquant'anni, gli abitanti di quest'area sono stati colpiti da questa designazione, poiché le loro case e la loro terra sono state distrutte per far posto agli insediamenti e agli avamposti israeliani per soli ebrei, in continua crescita. I palestinesi resistono alle espulsioni e, fino a poco tempo fa, abbiamo avuto qualche possibilità di ricorso attraverso i tribunali militari israeliani. Non è più così. Il nuovo ordine dell'Amministrazione Civile dà il via libera all'esercito israeliano per rimuovere con la forza praticamente tutti i residenti di Masafer Yatta con il pretesto che stanno usando la "Zona di Tiro 918" per esercitazioni militari. Prima di questo ordine, uno o due villaggi potrebbero aver ricevuto ordini che permettevano ai suoi residenti, almeno sulla carta, di tornare alle loro case. Ma ora sta accadendo il contrario: gli ordini di demolizione sono accelerati e le richieste di permesso di costruzione palestinesi vengono respinte in blocco, anche retroattivamente. Ciò significa che tutti i documenti di proprietà e i diritti fondiari sono ora, agli occhi del tribunale, nulli. Queste misure, sostenute dall'approvazione del tribunale, minacciano di sfollare oltre 1.200 residenti, tra cui più di 500 bambini. Decine di case, scuole, sistemi idrici e altre infrastrutture esistenti sono a rischio imminente di demolizione, segnando il prossimo passo nella completa pulizia etnica delle colline a sud di Hebron. Questa agghiacciante accelerazione costringe i palestinesi di Masafer Yatta ad affrontare lo sfollamento senza nemmeno la possibilità di porvi rimedio. Mentre le ondate di demolizioni sono in corso, questo nuovo sviluppo codifica l'intento di diffondere nuovi avamposti di coloni per soli ebrei sulle nostre terre. Non sono il solo a lanciare questo appello; I gruppi internazionali per i diritti umani hanno avvertito che questo approccio orchestrato – smantellare le strutture palestinesi, riesumare le scuse di sparare con munizioni vere per espellere le comunità – è una spinta calcolata sotto la menzogna della necessità militare. Khallet al-Dabe' il 5 maggio 2025, a seguito della sua demolizione da parte delle forze israeliane. (Foto: Mamoun Wazwaz/APA Images) I palestinesi che rifiutano di essere cancellati Il 5 maggio, tra le 9:00 e le 11:30, l'esercito israeliano ha distrutto nove case, sei grotte, dieci serbatoi d'acqua, quattro stalle per animali, undici servizi igienici, sette pozzi d'acqua, 400 metri di recinzione agricola, un centro comunitario, una sala elettrica, tutti i pannelli solari, i sistemi internet e le telecamere di sicurezza a Khallet al-Dabe'. I bulldozer Hyundai e altri macchinari hanno distrutto gli edifici mentre l'acciaio si contorceva e il cemento si sbriciolava. Ma il popolo di Khallet al-Dabe' ha rifiutato di essere cancellato. Nonostante la distruzione e il caldo soffocante dell'estate, i residenti hanno iniziato a ricostruire quello che potevano utilizzando tende e materiali di recupero. Questi rifugi di fortuna erano più che strutture fisiche: erano atti di resilienza, resistenza e radicamento. Hanno dichiarato: Rimaniamo. E anche se molte delle case demolite avevano già dichiarazioni simili murate sui lati, la gente del villaggio li dipingerà di nuovo, per quanto sisifeo ciò possa sembrare. Le forze israeliane demoliscono le strutture palestinesi nel villaggio di Khallet al-Dabe' a Masafer Yatta, nelle colline a sud di Hebron, 5 maggio 2025. (Foto: Mamoun Wazwaz/APA Images) In risposta, coloni e soldati continuano a intensificare la loro campagna di molestie e violenze. Appena due settimane dopo la demolizione, le milizie dei coloni hanno attaccato Suleiman al-Dababseh, un residente del villaggio. Lo hanno picchiato così duramente che gli hanno provocato una frattura al cranio e rotto un braccio. È stato lasciato sanguinante nella polvere. Senza accesso immediato alle cure mediche, ha sopportato più di un'ora di agonia prima di raggiungere un ospedale lontano, dove è rimasto per tre giorni. I coloni che lo hanno attaccato non sono mai stati arrestati. Questo è lo schema, anche se mai normale: violenza senza conseguenze. Poco dopo, i coloni hanno preso di mira una grotta dove Abdullah al-Dababseh si era rifugiato con la sua famiglia dopo la demolizione della loro casa. Temendo per la sicurezza dei suoi figli, Abdullah si è rifugiato nel villaggio. I coloni hanno occupato rapidamente la grotta in sua assenza, hanno installato una tenda per il bestiame rubato e l’hanno dichiarata un nuovo avamposto, un'estensione illegale e de facto della loro presenza. Da quando due famiglie palestinesi sono state espulse dalle loro grotte, i coloni hanno portato greggi di pecore, bovini e cammelli nei frutteti e nei giardini delle case distrutte di Khallet al-Dabe. Gli animali vengono deliberatamente utilizzati per distruggere gli alberi rimanenti. Questa tattica fa parte di un modello più ampio: le forze statali demoliscono le case e i coloni – impunemente – invadono, attaccano, rubano e stabiliscono avamposti, il tutto con il sostegno dell'esercito israeliano. Questa strategia di costruire "avamposti di pastorizia" da parte dei coloni, è in corso di attuazione in altre parti della Cisgiordania. Gli abitanti del villaggio, alcuni di quasi 90 anni, sono costretti a stare a guardare mentre gruppi di coloni invadono i giardini e ciò che resta delle loro case con i fucili. Il fatto che questi anziani siano nati a Khallet al-Dabe', molto prima della fondazione dello Stato sionista – come lo erano stati i loro genitori e antenati prima di loro – non impedisce al regime israeliano di emettere ordini di demolizione e di dichiarare che devono essere espulsi dalla loro terra. Dalle grotte rubate e dalle case occupate, i coloni lanciano assalti quotidiani. Marciano in pieno giorno, bloccano le famiglie all'interno, distruggono i raccolti e gli alberi da frutto e calpestano ogni ultima fonte di sostentamento. Anche i bambini vengono molestati mentre vanno a scuola, inseguiti per le colline, viene negata la sicurezza nelle aule e, in alcuni casi, viene negato del tutto l'accesso all'istruzione. Tutto questo avviene sotto gli occhi delle forze di occupazione israeliane. Non fanno nulla. In molti casi, assistono, fornendo incoraggiamento e immunità legale. Un noto colono, soprannominato "Benny", vestito di verde militare, ha preso il comando in questi attacchi ed è noto per impartire ordini ai soldati e alla polizia. Usa ordini di espulsione 24 ore su 24 per espellere me e i miei amici, colleghi, attivisti israeliani e internazionali. Sotto la sua direzione, due donne internazionali sono state arrestate, portate dalle autorità israeliane e deportate, con il divieto permanente di tornare. Mi ha preso di mira due volte nel villaggio di Khallet al-Dabe' perché mi conosce come attivista e giornalista del villaggio di Tuwani, e perché mi ha arrestato due volte sulla mia terra negli ultimi mesi. Il 1° giugno 2025, noi, come attivisti della regione, insieme agli internazionali e agli attivisti israeliani, abbiamo ottenuto una piccola ma significativa vittoria: abbiamo smantellato l'avamposto dei coloni illegali nella grotta di Abdullah e costretto i coloni ad andarsene. Ma nel giro di poche ore, l'esercito israeliano ha dichiarato l'area una "zona militare chiusa", ha impedito ad Abdullah di tornare e ha posizionato soldati sul posto. Il giorno seguente, 2 giugno, i media internazionali sono arrivati a Masafer Yatta per riferire sulla distruzione. Le forze israeliane hanno bloccato ogni ingresso, chiuso strade e sigillato interi villaggi. Ai giornalisti è stato negato l'accesso. L'intento era chiaro: mettere a tacere la verità e nascondere ciò che sta accadendo a Khallet al-Dabe' e negli altri villaggi della mia comunità. Mohammad Hesham Huraini Mohammad Hesham Huraini è un giornalista indipendente e attivista di Masafer Yatta, a sud di Hebron, in Cisgiordania. Israel is trying to expel us from Masafer Yatta. We refuse to leave our homes. – Mondoweiss Traduzione a cura dell'Associazione di Amicizia Italo-Palestinese Onlus, Firenze
Teniamo gli occhi aperti su Gaza
Il governo estremista e incontrastato di Israele ha aperto un nuovo fronte con l’Iran mentre continuano i suoi crimini a Gaza e in Cisgiordania. Comunicato Stampa di B'Tselem, 14 giugno 2025 Il governo estremista e incontrastato  di Israele ha aperto un nuovo fronte con l’Iran mentre continuano i suoi crimini a Gaza e in Cisgiordania. La guerra che Israele ha iniziato con l’Iran rischia di causare innumerevoli vittime civili e potrebbe sfociare in un bagno di sangue di proporzioni enormi. Avvertiamo che Israele probabilmente sfrutterà la distrazione dell’attenzione globale per intensificare i suoi attacchi contro i palestinesi. Da quando è iniziata l’offensiva israeliana contro l’Iran, decine di civili iraniani e tre israeliani sono stati uccisi. Invece di esaurire le vie diplomatiche, il governo estremista israeliano ha scelto di scatenare una guerra che mette in pericolo israeliani, palestinesi e l’intero popolo della regione. Mentre milioni di persone in Israele e in Iran affrontano attacchi missilistici, la maggior parte dei palestinesi all’interno di Israele, in Cisgiordania e a Gerusalemme è indifesa, con comunità prive di rifugi. Con lo spostarsi dell’attenzione pubblica e mediatica sull’Iran, l’esercito israeliano sembra pronto a continuare e persino intensificare i suoi gravi crimini di guerra contro i palestinesi, inclusa la deliberata privazione di cibo a milioni di persone nella Striscia di Gaza. Israele sta già sfruttando la situazione per isolare i palestinesi dal resto del mondo. Prima dell’attacco all’Iran, il nord di Gaza era stato isolato da internet e, dopo l’inizio delle ostilità, le comunità palestinesi in Cisgiordania sono state poste in completo blocco e i quartieri palestinesi di Gerusalemme Est sono stati sigillati. Secondo il Ministero della Salute palestinese, nelle ultime 48 ore l’esercito israeliano ha ucciso 90 persone e ferito 605 nella Striscia di Gaza. Mettiamo in guardia: Israele sfrutterà la situazione attuale per intensificare i danni ai palestinesi a Gaza, in Cisgiordania e ovunque sotto il suo controllo.
Le condizioni disumane dei prigionieri palestinesi
Amélie Zaccour, L’Orient-Le Jour, Libano Internazionale1615 | 23 maggio 2025 Nelle carceri israeliane migliaia di persone sono rinchiuse senza accusa né processo. Molte subiscono violenze e torture Ayman (il nome è stato modifica to) è stato rilasciato il 1 dicembre dopo essere stato detenuto senza motivo dall’esercito israeliano. “Tutto è cominciato il 6 ottobre 2024, quando mia moglie, i miei tre figli e io ci siamo trovati sotto assedio nel nord della Striscia di Gaza”, racconta. “L’esercito aveva diffuso dei messaggi dagli alto parlanti indicandoci un passaggio sicuro per fuggire, ma quando siamo arrivati lì mi hanno arrestato”. L’uomo ha subìto un interrogatorio di dieci ore, prima di essere imprigionato in condizioni disumane: de nudato, ammanettato, bendato, picchia to, senza un avvocato e rinchiuso nell’atroce carcere militare di Sde Teiman, de scritto dall’ong israeliana B’tselem come un campo di tortura. “Per quaranta giorni ho vissuto la brutalità, le umiliazioni, le ripetute operazioni di repressione. Eppure sono un civile. Non ho mai fatto parte di nessuna organizzazione”, afferma Ay man. La sua detenzione si è conclusa co me era cominciata, senza spiegazioni, quando è stato riportato al valico di frontiera di Kerem Shalom. Il trasferimento di alcuni prigionieri palestinesi vicino a Muqeible, in Israele, il 22 gennaio 2025  Il suo racconto riecheggia le molte testimonianze di maltrattamenti di detenuti palestinesi arrestati nei mesi successivi all’attacco di Hamas in Israele del 7 ottobre 2023. Le immagini dei corpi smagriti o mutilati hanno inondato i social media a gennaio, quando molti sono stati liberati in cambio degli ostaggi israeliani, nel quadro del cessate il fuoco a Gaza entrato in vigore il 19 gennaio e interrotto da Israele quasi due mesi dopo. Uno dei prigionieri, Mohammad Abu Tawileh, un meccanico di 36 anni, è uscito alla fine di febbraio da Sde Teiman con la schiena ricoperta di tracce di ustioni, provocate con uno spray e un accendino. Pane e crema spalmabile Tanti altri prigionieri sono tornati scheletrici dalle carceri israeliane. Le loro razioni di cibo, estremamente ridotte dopo il 7 ottobre, consistevano per esempio in qualche pezzo di pane e un po’ di crema dolce spalmabile. “La fame è ormai lo strumento di una politica applicata in più contesti”, osserva Jenna Abu Hasna, responsabile delle campagne internazionali per Addameer, un’organizzazione palestinese per la difesa dei prigionieri. A marzo Walid Ahmad, 17 anni, è morto nell’istituto di massima sicurezza di Megiddo, dove era detenuto da sei mesi senza un’incriminazione. Il rapporto dell’autopsia realizza to da esperti israeliani ha rivelato che l’adolescente, di corporatura robusta nelle foto scattate prima della detenzione, soffriva di grave malnutrizione e scabbia. In un rapporto del febbraio 2025, la se zione israeliana dell’associazione Physicians for human rights (Medici per i diritti umani) parla di “una politica sistematica di riduzione alla fame, negligenza sanitaria, contenzione fisica prolungata, umilia zione e violenza”. Oltre alle percosse e alle violenze sessuali, ci sono gli attacchi con i cani o i casi di prigionieri cosparsi di acqua bollente, scrive l’ong. Anche l’assenza e il rifiuto di prestare cure mediche, la priva zione del cibo, del sonno e dell’igiene, oltre alle interruzioni della fornitura d’acqua, sono forme di tortura. Documentato da tempo, l’uso della tortura nei centri di detenzione israeliani non è una novità. Di nuovo c’è però la por tata di questi metodi dopo il 7 ottobre. Le testimonianze dei prigionieri, le analisi degli esperti e i rapporti delle ong concordano su un aspetto: nel contesto della campagna di distruzione della Striscia di Gaza e d’intensificazione delle operazioni militari israeliane in Cisgiordania, gli abu si commessi nelle prigioni stanno avvenendo con una frequenza senza prece denti. Una cifra riflette questa svolta: secondo Addameer, 66 palestinesi sono morti in detenzione dall’inizio della guerra, rispetto a poco più di duecento in totale tra il 1967 e il 2023. Una statistica sproporzionata, pur tenendo conto dell’enorme au mento di prigionieri palestinesi dal 7 ottobre in poi, la metà dei quali incarcerati senza un’accusa. Secondo i dati dell’ong israeliana HaMoked, che si basano su quelli del servizio penitenziario israeliano, oggi Israele tiene in carcere 10.068 palestinesi definiti “detenuti di sicurezza”, spesso al di fuori delle tradizionali procedure giudiziarie. Il doppio rispetto all’ottobre 2023.  Prima del 7 ottobre la tortura e le per cosse erano usate soprattutto durante gli interrogatori. “Oggi invece è diventata una cosa abituale”, continua Abu Hasna. “La maggior parte dei detenuti è sottoposta ad aggressioni brutali e a trattamenti inumani e degradanti dai soldati e dagli agenti penitenziari, spesso come parte di punizioni collettive”. Sono metodi diventati “così sistematici che senza dubbio rientrano in una politica organizzata e deliberata delle autorità penitenziarie israeliane”, afferma B’tselem in un rapporto uscito nell’agosto 2024 e intitolato “Ben venuti all’inferno”, il più completo sulle violenze in carcere dall’inizio della guerra. “Gli abusi collettivi commessi da decine di guardie, portati avanti apertamente per mesi negli istituti penitenziari, non potevano avvenire senza il sostegno e l’incoraggiamento dall’alto”, conclude l’inchiesta, citando più volte il ministro della sicurezza nazionale, Itamar Ben Gvir, che supervisiona il sistema carcera rio israeliano. Voglia di vendetta Da quando si è insediato nel gennaio 2023, Ben Gvir, un colono suprematista condannato nel 2007 per incitamento all’odio e sostegno a un’organizzazione terroristica, ha inasprito le condizioni di detenzione. Il giro di vite dopo il 7 ottobre si è concretizzato in particolare nella costruzione di carceri militari come quello di Sde Tei man, un edificio composto di aree senza tetto in pieno deserto del Negev, o come il campo di Ofer, o nella riapertura del cen tro di detenzione di Anatot. In questi isti tuti gestiti dai soldati la diffusa voglia di vendetta delle truppe spinge i superiori a chiudere un occhio, permettendo o perfino incoraggiando gli abusi. “Eppure ci sono migliaia di detenuti che non hanno avuto alcun ruolo nel 7 ottobre”, osserva Abu Hasna. Nel maggio 2024 un’inchiesta del canale statunitense Cnn ha rivelato alcune violazioni commesse dall’esercito israeliano a Sde Teiman. Tra queste ci sono detenuti sottoposti a contenzioni fisiche estreme, come i feriti legati ai letti, co stretti a indossare pannoloni e ad alimentarsi con una cannuccia. In alcuni casi le manette troppo strette hanno causato le sioni tali da dover amputare gli arti. All’epoca una petizione di vari gruppi per la difesa dei diritti umani, lanciata dall’ong Comitato pubblico contro la tortura in Israele, aveva chiesto la chiusura del campo, spingendo il governo israeliano a dichiararsi pronto a ridurre il numero di detenuti nelle strutture militari. In particolare Sde Teiman dovrebbe diventare un luogo per interrogatori e detenzioni brevi. Circa settecento prigionieri sono stati quindi trasferiti nei campi militari di Ofer e di Anatot, riducendo a poche decine il numero di quelli trattenuti a Sde Tei man. In seguito il generale Herzi Halevi, all’epoca capo di stato maggiore dell’esercito, ha nominato un “comitato consulti vo” per esaminare la compatibilità delle condizioni di detenzione con il diritto internazionale. Tuttavia, solo poche settimane dopo, alla fine di luglio, è scoppiato uno scanda lo quando si è saputo che cinque soldati israeliani avevano stuprato un detenuto palestinese a Sde Teiman. Nonostante lo scalpore suscitato dal caso, che ha contrapposto le forze dell’ordine ai militari, a settembre la corte suprema israeliana ha respinto la richiesta delle ong di chiudere la prigione, citando le migliorie introdotte nelle condizioni di detenzione, in partico lare con l’annuncio dell’apertura di una nuova ala. Dal gennaio 2025 varie organizzazioni israeliane per la difesa dei diritti umani, comprese HaMoked e Physicians for human rights, hanno denunciato le condizioni di detenzione a Ofer e Anatot, ritenute gravi come di quelle di Sde Tei man. Sembra quindi che gli abusi e le torture siano stati solo trasferiti altrove. Tutti i prigionieri provenienti da Gaza approdano nelle carceri militari, anche se non hanno legami con Hamas o con altri gruppi armati. Sono classificati come “combattenti illegali”, una definizione che permette di incarcerare chiunque possa essere considerato una minaccia alla sicurezza d’Israele, senza obbligo di formalizzare accuse concrete, negando la protezione riconosciuta ai prigionieri di guerra sulla base del diritto internazionale umanitario. Molti esempi dimostrano in che modo le autorità israeliane usano e abusano di questa definizione dal 7 ottobre. Una donna di Gaza di 82 anni affetta da Alzheimer è stata detenuta per due mesi come “combattente illegale”. Secondo un rapporto del Comitato pubblico contro la tortura in Israele del luglio 2024, il 47 per cento di questi detenuti alla fine è stato rilasciato senza incriminazione, a conferma dell’infondatezza di molti arresti. La categoria di “combattente illegale”, prevista da una legge del 2002, era rima sta marginale fino alla guerra a Gaza. Ma da allora è diventato uno dei principali strumenti di detenzione di Israele. Attualmente 1.747 palestinesi di Gaza sono in carcerati come “combattenti illegali”, mentre diciannove mesi fa non ce n’era neanche uno. La guerra ha inoltre inasprito il relativo quadro giuridico. Inizialmente la de tenzione in questo regime richiedeva una convalida entro 96 ore. Ma nel dicembre 2023 un emendamento ha esteso il termine a 45 giorni. La modifica riguarda an che le regole del controllo giudiziario, tra cui la comparizione davanti a un giudice, in precedenza prevista entro 14 giorni. Il termine è stato esteso a 75 giorni e l’udienza trasformata in una videoconferenza, in modo da impedire al giudice qualsiasi valutazione delle condizioni fi siche del detenuto. Anche il periodo con sentito senza vedere un avvocato è stato esteso da dieci a 75 giorni a discrezione dei funzionari, e da 21 a 180 giorni a discrezione dei tribunali. Questi termini sono stati però ridotti da un nuovo emendamento nel luglio 2024. Vuole dire che Israele si è accorto che le ripetute violazioni stanno danneggiando la sua immagine e rischiano a lungo termine di indebolire i suoi leader? Il 2024 è stato segnato dall’emissione dei mandati d’arresto della Corte penale internazionale contro il primo ministro Benjamin Netanyahu e l’ex ministro della difesa Yoav Gallant, per crimini di guerra e crimini contro l’umanità. Una decisione che Tel Aviv ha fatto di tutto per impedire, mentre il caso del Sudafrica contro Israele alla Corte internazionale di giustizia per violazione della convenzione sul genocidio è ancora in corso. ◆ fd
Dalla Nakba al genocidio
https://www.jungewelt.de/artikel/500210.brief-aus-jerusalem-von-nakba-zu-v%C3%B6lkermord.html Lettera da Gerusalemme: commemorare l'espulsione dei palestinesi 77 anni fa Di Helga Baumgarten I palestinesi di tutto il mondo stanno commemorando l'espulsione del 1948, anno di fondazione dello Stato di Israele. In quell'occasione, circa 750.000 palestinesi persero la loro patria. Ramallah, maggio 2025 Furono espulsi con la forza delle armi e con innumerevoli massacri. Dagli archivi israeliani emergono sempre più informazioni su questi massacri con uccisioni spietate e indiscriminate di donne, uomini e bambini. Si stanno diffondendo molti resoconti di stupri e successivi omicidi di donne e ragazze, così come il fatto che la leadership israeliana dell'epoca, guidata da David Ben-Gurion, ne era a conoscenza fin dall'inizio e invitava all'uccisione dei civili, come si evince dal diario del capo di Stato. Tutto questo può essere letto in dettaglio sul quotidiano israeliano Haaretz. I pochi palestinesi rimasti in Israele furono sottoposti a un brutale regime militare che durò fino al 1966. Quasi nessun ebreo israeliano se ne rese conto. La guerra di giugno del 1967 continuò questo sviluppo quasi senza interruzioni. La novità era che l'intera Palestina storica era ora controllata da Israele, “dal fiume al mare”. Inoltre, subito dopo la guerra, due voci si rivolsero all'opinione pubblica israeliana con una critica implacabile: l'organizzazione marxista Matzpen, a cui appartenevano attivisti ebrei e palestinesi, e il filosofo Yehoshua Leibowitz. Quest'ultimo avvertì nel 1967 che un'occupazione prolungata comportava il pericolo che gli ebrei israeliani diventassero giudeofascisti. Matzpen lo disse in modo ancora più diretto: l'occupazione deve terminare immediatamente e senza condizioni e l'esercito deve essere ritirato. Perché un regime di occupazione trasformerebbe gli occupanti in assassini, che a loro volta verrebbero attaccati e uccisi dagli occupati. Ma Israele ha mantenuto l'occupazione fino ad oggi. Dall'attacco di Hamas dell'ottobre 2023, a Gaza è in corso un genocidio in cui sono state uccise decine di migliaia di persone. In Cisgiordania è iniziato un brutale processo di pulizia etnica e distruzione. Rafi Walden scrive su Haaretz che la profezia di Leibowitz si sta avverando oggi: gran parte degli israeliani devono essere etichettati come giudeofascisti. Oggi esistono due posizioni israeliane opposte sulla Nakba. Una, rappresentata dal governo e anche dal parlamento, in cui il governo ha la maggioranza, chiede una nuova Nakba per i palestinesi in varianti sempre nuove. Per essere più precisi: non solo la invoca, ma sta attuando una nuova Nakba molto più mortale e brutale, un vero e proprio genocidio. Vengono costantemente lanciati nuovi appelli per l'uccisione di massa della popolazione di Gaza, compresi esplicitamente i bambini, da ultimo mercoledì alla Knesset: senza vergogna e apertamente. La seconda posizione è sostenuta solo da una minuscola minoranza. Sono poche centinaia, forse due o tremila che, insieme a qualche migliaio di palestinesi, commemorano la catastrofe storica e protestano contro il perdurare della Nakba. In cambio, vengono duramente attaccati dagli estremisti e dalla polizia, verbalmente e fisicamente. L'umore in Israele oggi riflette chiaramente questa situazione: La maggioranza sostiene il genocidio a Gaza e lo considera legittimo. Questo vale nella stessa misura per la pulizia etnica in Cisgiordania e per l'annunciata annessione. Helga Baumgarten, Professore emerita di Scienze  Politiche all'Università di Birzeit Traduzione: Leonhard Schaefer