Source - Associazionie amicizia italo-palestinese

L’Europa sta spingendo per uno Stato palestinese, o per la resa palestinese?
30/07/2025 di G - Invicta Palestina Il tardivo riconoscimento dello Stato Palestinese da parte dell’Europa è una palese manovra geopolitica, parte di una più ampia spinta alla normalizzazione che mette da parte la liberazione palestinese, mentre confeziona la sconfitta come un progresso diplomatico. Stiamo assistendo alla nascita di uno Stato? O alla dichiarazione della sua sconfitta? Fonte: English version Di Malek al-Khoury – 28 luglio 2025 Fin dalla sua nascita nel 1948, Israele non ha mai operato entro confini fissi. L’espansione è sempre stata la sua dottrina, non vincolata dalla legge, ma spinta dalla forza e sostenuta da un incrollabile sostegno occidentale. Israele si è rifiutato di definire i propri confini per quasi ottant’anni perché la sua stessa identità è radicata in un’ambizione coloniale che non è mai veramente tramontata. Dalla Nakba (Catastrofe) alla Naksa (Retrocessione), dalle invasioni territoriali all’annessione di Gerusalemme, delle Alture del Golan e della Cisgiordania, lo Stato di Occupazione ha continuato a ridisegnare i propri confini in base al potere, non alla legittimità. Questo progetto espansionistico si è ulteriormente rafforzato con l’ascesa della corrente nazionalista messianica all’interno di Israele, che considera il pieno controllo del “Grande Israele” un diritto storico irrinunciabile. Oggi, a 77 anni dalla Nakba, Israele ha avviato una modalità di espansione a pieno regime, espropriando i palestinesi, distruggendo intere città e villaggi, consolidando insediamenti ebraici illegali e imponendo l’Apartheid. Eppure, paradossalmente, Stati europei come Francia e Regno Unito si stanno preparando a riconoscere uno “Stato Palestinese” proprio quando la geografia politica palestinese è al suo massimo di frammentazione e il Progetto Sionista è al suo massimo di aggressività. Cosa significa dunque questo riconoscimento? Si tratta di un risultato strategico per i palestinesi o di uno stratagemma diplomatico che scredita la resa come un successo? Uno Stato senza confini, un progetto senza freni La Dichiarazione Balfour del 1917 segnò l’avvio formale di un Progetto di Colonialismo di Insediamento in Palestina. Ciò che seguì non fu l’immigrazione, ma un’espropriazione calcolata: dalle confische di terre e dai Massacri agevolati dagli inglesi, alle espulsioni di massa della Nakba del 1948, che determinò una Pulizia Etnica di oltre 750.000 palestinesi. Non si trattò di mero Colonialismo. Fu una sostituzione etnica: terre confiscate sotto la protezione imperiale, poi conquistate militarmente. Questa Campagna non si concluse mai. Proseguì con l’Occupazione di Gaza, Gerusalemme e Cisgiordania, e si intensificò dopo il 1967. L’obiettivo di Israele non è mai stata la coesistenza. È sempre stata la Supremazia Ebraica. Il Piano di Partizione delle Nazioni Unite del 1947 (Risoluzione 181) concesse oltre il 55% della Palestina Storica al Movimento Sionista, nonostante gli ebrei ne possedessero solo il 6%. Il Movimento Sionista accettò questo sulla carta per ottenere legittimità internazionale, per poi violarne immediatamente i termini, occupando con la forza il 78% del territorio. Ad oggi, lo Stato di Occupazione non ha adottato una costituzione formale, e il motivo è che basarsi sul Piano di Partizione avrebbe limitato le sue ambizioni espansionistiche. La Dottrina Sionista non ha mai riconosciuto confini definitivi, istituendo invece uno Stato senza frontiere ufficiali, poiché le sue ambizioni si estendono oltre la geografia palestinese per includere parti di Giordania, Siria, Libano ed Egitto. Il dibattito interno in Israele sulla dichiarazione di uno “Stato Ebraico” non è semplicemente una questione legale, ma un tentativo di consolidare un’identità esclusiva e basata sulla sostituzione, che sancisce legalmente la Discriminazione Razziale e nega ai palestinesi il loro status di popolo nativo. Riallineamento della Resistenza: il 7 ottobre e la svolta a due Stati Il terremoto innescato dall’Operazione Onda di Al-Aqsa ha scosso non solo Israele, ma anche il contesto politico del Movimento Palestinese. Sorprendentemente, le fazioni palestinesi, tra cui Hamas, hanno iniziato a esprimere esplicitamente il loro sostegno alla “Soluzione a Due Stati”, dopo anni di insistenza sulla Liberazione completa della Palestina storica. In una dichiarazione senza precedenti, l’alto funzionario di Hamas Khalil al-Hayya ha dichiarato nel maggio 2024: “Siamo pronti a impegnarci positivamente in qualsiasi seria iniziativa per una Soluzione a Due Stati, a condizione che comporti un vero Stato Palestinese sui confini del 1967, con Gerusalemme come capitale e senza insediamenti”. Questo adattamento tattico segnala un cambiamento significativo. Dopo decenni di insistenza sulla piena liberazione, attori palestinesi chiave stanno ora prendendo apertamente in considerazione uno Stato troncato. Si tratta di un riflesso di dinamiche di potere in evoluzione? O di un riallineamento imposto sotto pressione regionale e internazionale? Riconoscimento come leva: Francia, Arabia Saudita e normalizzazione La scorsa settimana, in un post su X, il Presidente francese Emmanuel Macron ha dichiarato: “In linea con il suo impegno storico per una pace giusta e duratura in Medio Oriente, ho deciso che la Francia riconoscerà lo Stato di Palestina. Farò questo solenne annuncio davanti all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il prossimo settembre. Abbiamo bisogno di un cessate il fuoco immediato, del rilascio di tutti gli ostaggi e di massicci aiuti umanitari per la popolazione di Gaza. Dobbiamo anche garantire la smilitarizzazione di Hamas, proteggere e ricostruire Gaza. E infine, dobbiamo costruire lo Stato di Palestina, garantirne la vitalità e garantire che, accettandone la smilitarizzazione e riconoscendo pienamente Israele, contribuisca alla sicurezza di tutti nella Regione. Non c’è alternativa”. Il riconoscimento previsto dalla Francia di uno Stato Palestinese a settembre non è motivato da principi, ma da una dura e fredda manovra geopolitica. Sembrerebbe che Parigi stia cercando di stringere legami più stretti con Riad, che ha legato la normalizzazione con Tel Aviv ai progressi sulla questione palestinese. Il riconoscimento francese è quindi un segnale calcolato all’Arabia Saudita, non un gesto di solidarietà con i palestinesi. In questa equazione, la Palestina diventa moneta di scambio. La sua indipendenza non viene affermata come un diritto, ma sbandierata come precondizione negli accordi di normalizzazione tra le monarchie arabe e lo Stato Occupante. Allineamenti strategici: l’asse Ankara -Londra Con un terzo dei parlamentari che chiede al Primo Ministro britannico Keir Starmer di riconoscere la Palestina, la pressione si sta accumulando anche su Londra. In una dichiarazione, Starmer ha affermato: “Insieme ai nostri più stretti alleati, sto lavorando a un percorso verso la pace nella Regione, incentrato su soluzioni pratiche che faranno davvero la differenza nella vita di coloro che soffrono in questa guerra. Questo percorso definirà i passi concreti necessari per trasformare il cessate il fuoco, così disperatamente necessario, in una pace duratura. Il riconoscimento di uno Stato Palestinese deve essere uno di questi passi. Sono inequivocabile al riguardo”. Anche la Gran Bretagna non si sta muovendo verso il riconoscimento per chiarezza morale, ma per rafforzare il suo asse strategico post-Brexit con la Turchia. Ankara, alleato commerciale chiave di Israele e sostenitore politico di Hamas, considera il riconoscimento della Palestina uno strumento per elevare la sua statura regionale e la sua influenza energetica. Per Londra, approfondire i legami con la Turchia promette vantaggi economici e geopolitici. Il risultato è un percorso di riconoscimento convergente tra Parigi e Riad e tra Ankara e Londra. Si stanno formando così due assi informali: Parigi-Riyadh e Ankara-Londra, entrambi convergenti sul riconoscimento di uno Stato Palestinese. Eppure, nessuno dei due approccia la questione partendo da una convinzione di principio nei diritti dei palestinesi, ma piuttosto attraverso la lente del potere, dell’influenza e della realpolitik. Lo Stato palestinese: riconoscimento senza sovranità Anche se tutti i Paesi europei riconoscessero la Palestina, ciò non sarebbe altro che un simbolismo senza applicazione. Non ci sarebbero confini definiti per lo Stato, nessun controllo sul proprio territorio e nessuna interruzione delle politiche di espansione degli insediamenti o di annessione perseguite dallo Stato di Occupazione. Tel Aviv respinge completamente questa premessa. Il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha insistito sul fatto che qualsiasi futuro Stato Palestinese sarebbe “una piattaforma per distruggere Israele” e che il controllo sovrano della sicurezza deve rimanere a Israele. Ha ripetutamente escluso un ritorno alle condizioni precedenti al 7 Ottobre. La realtà è che il 68% della Cisgiordania, classificata come Area C, rimane sotto il pieno controllo israeliano. Oltre 750.000 coloni sono insediati in quel territorio, sotto la piena protezione dell’Esercito di Occupazione. Come può uno Stato esistere su un territorio Occupato e frammentato, sotto costante assedio e senza sovranità? “Sono appena tornato da un giro di conferenze in giro per il mondo e posso affermare con sicurezza che l’immagine e la posizione globale di Israele sono al punto più basso della storia”, scrive il giornalista israeliano Ben-Dror Yemini. Eppure, nonostante ciò, il governo di estrema destra di Netanyahu sta raddoppiando gli sforzi: spinge per la completa annessione della Cisgiordania Occupata, mira a nuovi punti d’appoggio territoriali nel Sinai, nella Siria meridionale e persino in Giordania, pur mantenendo posizioni militari nel Libano meridionale. L’immagine globale di Israele potrebbe erodersi, ma il suo Progetto strategico sta avanzando. Se Israele si sta espandendo e consolidando, mentre il Movimento Palestinese ridimensiona le richieste e gli Stati regionali normalizzano i rapporti, cosa è stato ottenuto esattamente? Le fazioni della Resistenza che un tempo rifiutavano l’esistenza di Tel Aviv ora propongono la creazione di uno Stato alle sue condizioni. Il riconoscimento europeo è privo di incisività. Gli insediamenti crescono. Gli sfollamenti continuano. Questa non è liberazione. È la sepoltura del sogno sotto le mentite spoglie della diplomazia. La soluzione provvisoria diventerà l’accordo definitivo. Lo “Stato” Palestinese diventa un eufemismo diplomatico: una struttura vuota elogiata nei discorsi, ma negata sul campo. Malek Al-Khoury è uno scrittore e giornalista geopolitico che in precedenza ha lavorato presso il principale quotidiano libanese As-Safir. Traduzione a cura di: Beniamino Rocchetto L'Europa sta spingendo per uno Stato palestinese, o per la resa palestinese? - Invictapalestina
Morti per fame: il massacro silenzioso di Gaza sotto gli occhi del mondo
Scritto il24/07/2025infopal Gaza – PIC. In un mondo che continua a restare inerte, con gli occhi chiusi e il cuore intorpidito, indifferente al rintocco della campana che echeggia da Gaza – una terra martoriata da una brutale guerra di fame sionista e da un genocidio in stile nazista – la fame miete vittime. Bambini e anziani, giovani e deboli muoiono uno dopo l’altro, vittime della carestia. Centinaia, se non migliaia, attendono un imminente “tsunami” di morte, i loro corpi crollano sotto il peso della fame, incapaci di sostenerli oltre. Soffrono di malnutrizione di quinto grado, una carestia catastrofica, mentre il mondo resta in attesa che una scintilla di umanità si risvegli e salvi ciò che resta dalle fauci della fame, deliberatamente imposta dall’occupazione criminale in uno sforzo calcolato per annientare la volontà di un intero popolo, sotto gli occhi della comunità internazionale. Centinaia di storie documentate, catturate in suoni e immagini, raccontano del più orribile massacro umanitario della storia moderna. Mentre le Nazioni Unite continuano a lanciare allarmi sulla catastrofe umanitaria a Gaza, i numeri descrivono una realtà crudele: la fame è diventata una politica mortale che colpisce bambini e adulti sotto un assedio serrato e un blocco sistematico di cibo e medicine. Dati recenti delle Nazioni Unite rivelano che oltre un milione di bambini a Gaza sono minacciati dalla fame, con tassi di malnutrizione acuta in rapido aumento. Secondo l’Agenzia delle Nazioni Unite per il Soccorso e l’Occupazione (UNRWA), i bambini sono i più vulnerabili e gravemente colpiti dalla crisi, poiché gli aiuti non riescono a raggiungere la maggior parte delle zone di Gaza a causa delle rigide restrizioni militari imposte da Israele. L’UNICEF ha dichiarato che la fame è diventata una “terrificante realtà” che minaccia la vita di centinaia di migliaia di bambini. Oltre 70.000 bambini a Gaza soffrono di malnutrizione acuta, e più di 5.000 bambini sotto i cinque anni sono stati ufficialmente diagnosticati solo nel mese di maggio. L’agenzia ha avvertito che Gaza è vittima di una politica sistematica di carestia imposta da Israele, che finora ha causato 86 morti per fame, di cui 76 bambini, e si prevede che tali numeri continueranno a salire a causa della mancanza di nutrizione terapeutica e del perdurare dell’assedio. Rapporti sul campo hanno documentato casi strazianti di neonati deceduti dopo aver sopravvissuto per giorni solo con tisane, a causa dell’assenza di latte artificiale e alimenti essenziali per le madri che allattano. Il Programma Alimentare Mondiale stima che un terzo della popolazione di Gaza sia rimasta senza cibo per giorni consecutivi, mentre un quarto vive in condizioni simili a una carestia, compromettendo gravemente la salute dei bambini e spingendoli sull’orlo del baratro. L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha avvertito che la crisi potrebbe aggravarsi rapidamente se non verrà consentito immediatamente l’ingresso di aiuti alimentari e medici. Ha confermato che oltre 100.000 bambini e donne incinte a Gaza soffrono di livelli critici di malnutrizione, mettendo le loro vite in costante pericolo. Israele è accusato di usare la fame come arma. Organizzazioni internazionali, tra cui Amnesty International, hanno documentato prove di una campagna sistematica volta ad affamare la popolazione civile: una palese violazione del diritto internazionale e un crimine di genocidio. In assenza di una soluzione politica o di un intervento internazionale concreto, la sofferenza dei bambini di Gaza si aggrava, mentre il mondo continua a lanciare appelli vuoti. Mentre emergono immagini di bambini emaciati o di piccoli che esalano l’ultimo respiro tra le braccia delle loro madri, il grido della fame a Gaza diventa più assordante del silenzio del mondo, e più devastante di qualsiasi discorso. Morti per fame: il massacro silenzioso di Gaza sotto gli occhi del mondo | InfoPal
Libertà per alcuni, silenzio per altri: cosa c'è da sapere sugli ostaggi palestinesi detenuti da Israele e ignorati dal mondo
12 luglio 2025 Palestina Occupata (Quds News Network) - Mentre il mondo chiede il rilascio dei prigionieri israeliani detenuti a Gaza negli ultimi 20 mesi, più di 10.800 palestinesi, tra cui bambini, donne e giornalisti, sono detenuti nelle carceri israeliane, tra denunce di torture e negligenza medica. Secondo l'ultimo aggiornamento pubblicato l'8 luglio dai gruppi di difesa dei prigionieri palestinesi, dall'ottobre 2023, quando Israele ha lanciato il suo assalto a Gaza, ad oggi, il numero di ostaggi palestinesi è raddoppiato, passando da 5.000 a circa 10.800. Di quelli in detenzione: Secondo la Commissione Palestinese per gli Affari dei Detenuti and Ex-Detenuti e la Società Palestinese di Prigionieri (PPS), dal 1967 le forze israeliane hanno detenuto circa un milione di palestinesi, ovvero circa il 20% della popolazione palestinese. Statisticamente, questo significa che un palestinese su cinque, ad un certo punto della sua vita, è stato imprigionato. Detenzione amministrativa I gruppi hanno affermato di aver documentato un "pericoloso aumento" del numero di palestinesi detenuti in detenzione amministrativa nelle carceri israeliane. L'ultimo dato sui detenuti amministrativi all'inizio di luglio è di 3.629 persone, che secondo l'osservatorio è il numero più alto registrato da quando questo tipo di detenzione ha iniziato ad essere utilizzato su larga scala. Israele ricorre abitualmente alla detenzione amministrativa e, nel corso degli anni, ha messo dietro le sbarre migliaia di palestinesi per periodi che vanno da diversi mesi a diversi anni, senza accusarli, senza dire loro di cosa sono accusati e senza rivelare le presunte prove a loro o ai loro avvocati. Secondo il quotidiano israeliano Haaretz, gli stati occidentali impiegano raramente la detenzione amministrativa e in alcuni paesi la pratica non esiste affatto. Le autorità di occupazione israeliane lo usano principalmente in Cisgiordania contro i palestinesi "mentre il suo uso contro i cittadini israeliani, in particolare quelli ebrei, è raramente impiegato". Morte silenziosa Secondo i gruppi di difesa dei prigionieri palestinesi, 73 detenuti noti sono morti nelle carceri israeliane dall'inizio del genocidio israeliano a Gaza. Tra loro ci sono almeno 45 detenuti di Gaza e un bambino, il numero più alto della storia. Dal 1967, un totale di 310 prigionieri palestinesi sono morti nelle carceri dell'occupazione israeliana. Il gruppo ha detto che le identità di molti martiri tra i detenuti di Gaza rimangono segrete, poiché l'occupazione israeliana continua a nasconderle, rendendo questa la "fase più sanguinosa nella storia del movimento dei prigionieri". Di questi, Israele continua a trattenere i corpi di 81 detenuti, compresi quelli che sono morti dall'inizio dell'assalto israeliano. Inoltre, decine di detenuti di Gaza sono scomparsi con la forza, senza alcuna informazione confermata sul loro destino. Le autorità di occupazione israeliane sono state accusate di torturare i detenuti palestinesi. Ciò include l'essere ammanettati e incatenati 24 ore al giorno, sette giorni alla settimana, anche mentre si dorme, si mangia e si usa il bagno. Le testimonianze descrivono anche pestaggi regolari da parte delle guardie, sovraffollamento estremo, umiliazione e igiene inadeguata. Un soldato della riserva israeliana ha denunciato gli abusi scioccanti avvenuti di recente nella famigerata base militare israeliana di Sde Teiman, descrivendola come un "sadico luogo di tortura" dove decine di detenuti palestinesi di Gaza sono morti in condizioni brutali. Il soldato ha descritto Sde Teiman come un luogo dove "le persone entrano vive ed escono in sacchi per cadaveri". Ha detto che la morte dei detenuti non è più sorprendente. "La vera sorpresa", ha aggiunto, "è se qualcuno sopravvive". Ha affermato che le autorità di occupazione israeliane sovrintendono agli abusi sistematici. Secondo il suo racconto, i detenuti palestinesi hanno sofferto la fame, ferite di guerra non curate e la negazione dei bisogni igienici di base. "Alcuni urinavano e defecavano su se stessi perché non gli era permesso usare il bagno", ha detto. Nell'agosto 2024, il gruppo israeliano per i diritti B'Tselem ha accusato le autorità di occupazione israeliane di aver sistematicamente abusato dei palestinesi nei "campi di tortura", sottoponendoli a gravi violenze e aggressioni sessuali. Il suo rapporto, intitolato "Benvenuti all'inferno", si basa su 55 testimonianze di ex detenuti della Striscia di Gaza, della Cisgiordania occupata, di Gerusalemme Est e di cittadini di Israele. La stragrande maggioranza di questi detenuti è stata trattenuta senza processo. Secondo il Palestine Center for Prisoners Studies, più della metà dei prigionieri palestinesi morti dall'ottobre 2023 sono stati uccisi principalmente a causa di torture e abusi. A causa del forte aumento degli arresti, in particolare tra gli abitanti di Gaza, Israele ha aperto nuovi centri di detenzione e interrogatori gestiti direttamente dai suoi militari. Secondo il Centro, queste strutture sono diventate luoghi di "torture e maltrattamenti sistematici, in chiara violazione del diritto internazionale e dei diritti umani". Il centro ha anche rivelato che Israele ha ufficialmente riconosciuto la morte di 37 detenuti nel centro di detenzione di Sde Teiman dall'ottobre 2023, anche se questo numero è probabilmente solo una frazione del bilancio reale. Molti prigionieri di Gaza sono stati sottoposti a sparizioni forzate e tenuti in isolamento in condizioni disumane, creando un ambiente in cui le uccisioni extragiudiziali possono avvenire senza supervisione o responsabilità. Oltre alla tortura, il centro ha documentato 29 decessi dovuti a negligenza medica. Si dice che Israele neghi sistematicamente ai prigionieri l'accesso alle cure mediche di base, trattenendoli in condizioni antigieniche e afflitte da malattie e ritardando o rifiutando completamente le cure necessarie per lunghi periodi. In molti casi, i prigionieri vengono trasferiti negli ospedali solo quando sono in punto di morte. "Combattenti illegali" Le forze di occupazione israeliane hanno rapito più di 2000 abitanti di Gaza durante il genocidio in corso, probabilmente un numero ancora più alto, e li stanno tenendo in detenzione in isolamento a tempo indeterminato, senza accusa né processo, ai sensi della legge sui combattenti illegali, in chiara violazione del diritto internazionale. Attualmente ci sono 2.454 detenuti classificati come "combattenti illegali", il numero più alto registrato dall'inizio del genocidio, hanno detto i gruppi di difesa. Questa cifra non include tutti gli ostaggi di Gaza rapiti durante il genocidio e attualmente detenuti nei campi di detenzione gestiti dall'esercito israeliano. I gruppi hanno osservato che questa classificazione si applica anche ai detenuti arabi provenienti dal Libano e dalla Siria. Secondo Amnesty International, citando ex detenuti, durante la loro detenzione in isolamento, che in alcuni casi è equivalsa a sparizione forzata, le forze militari, di intelligence e di polizia israeliane li hanno sottoposti a torture e altri trattamenti crudeli, inumani o degradanti. La legge sui combattenti illegali concede all'esercito israeliano ampi poteri per detenere chiunque da Gaza sia sospettato di essere coinvolto in attacchi contro Israele o di rappresentare una minaccia per la sicurezza dello Stato per periodi indefinitamente rinnovabili, senza dover produrre prove a sostegno delle affermazioni. Amnesty International ha dichiarato: "La nostra documentazione illustra come le autorità israeliane stiano usando la legge sui combattenti illegali per radunare arbitrariamente civili palestinesi da Gaza e gettarli in un buco nero virtuale per periodi prolungati senza produrre alcuna prova che rappresentino una minaccia per la sicurezza e senza un minimo di giusto processo. Le autorità israeliane devono immediatamente abrogare questa legge e rilasciare coloro che sono detenuti arbitrariamente in base ad essa”. Le forze israeliane hanno rapito i detenuti in tutta Gaza, tra cui Gaza City, Jabalia, Beit Lahiya e Khan Younis. I detenuti sono stati radunati nelle scuole che ospitano famiglie sfollate, durante incursioni in case, ospedali e posti di blocco appena installati. Sono stati poi trasferiti in Israele. Tra gli arrestati c'erano medici presi in custodia negli ospedali per essersi rifiutati di abbandonare i loro pazienti; madri separate dai loro piccoli mentre cercavano di attraversare il cosiddetto "corridoio sicuro" dal nord di Gaza al sud; difensori dei diritti umani, operatori delle Nazioni Unite, giornalisti e altri civili. Uno dei casi più noti è quello del dottor Hussam Abu Safiya, direttore dell'ospedale Kamal Adwan nel nord di Gaza, che è stato imprigionato dalle forze israeliane per oltre 180 giorni, suscitando crescenti timori perché potrebbe non "uscirne vivo". Anche la sua famiglia è preoccupata per la sua salute fisica e mentale. Le forze israeliane hanno rapito il dottor Abu Safiya nel dicembre 2024 dopo aver preso d'assalto l'ospedale Kamal Adwan. I soldati lo hanno costretto a uscire sotto la minaccia delle armi, distruggendo l'ospedale e mettendolo fuori servizio. Circondato da edifici bombardati, Abu Safiya camminava in mezzo a una strada cosparsa di detriti, il suo camice bianco da medico che si stagliava contro le macerie mentre si dirigeva verso i carri armati israeliani. Il dottor Hussam Abu Safiya camminava in mezzo a una strada cosparsa di detriti, il suo camice bianco da medico che si stagliava contro le macerie mentre si dirigeva verso i carri armati israeliani. L'esercito israeliano ha affermato a gennaio che Abu Safiya era stato coinvolto "in attività terroristiche" e aveva "un rango" in Hamas che, a suo dire, aveva reso l'ospedale Kamal Adwan una roccaforte durante la guerra. A marzo, un tribunale israeliano ha esteso la detenzione di Abu Safiya per sei mesi. La sentenza lo ha classificato come "combattente illegale". Ma secondo il Centro Al Mezan per i diritti umani, non sono state formulate accuse formali contro il direttore dell'ospedale. Un portavoce del Centro Al Mezan ha detto di recente che Abu Safiya è ancora detenuto nella prigione di Ofer, nella Cisgiordania occupata, dove ha dovuto affrontare condizioni terribili, cibo inadeguato e celle sovraffollate. Celle sotterranee? I video diffusi dai media israeliani a gennaio mostravano detenuti palestinesi incatenati all'interno di celle sotterranee senza materassi o coperte, racchiusi da cancelli di ferro e non esposti alla luce del sole. L'Autorità israeliana di radiodiffusione ha riferito che i detenuti sono ammanettati e tenuti in una minuscola cella per ventitré ore al giorno, con una sola possibilità di lasciare la cella durante il giorno per entrare in un piccolo cortile buio. La prigione sotterranea si chiama Rakevet e si trova sotto la prigione israeliana di Nitzan a Ramleh. Israele sostiene che la prigione è riservata ai detenuti più pericolosi, che secondo Israele sono membri dell'élite di Hamas e delle Forze Radwan affiliate a Hezbollah. Euro-Med Monitor ha affermato che questa affermazione "non giustifica la violazione delle norme del diritto internazionale in materia di trattamento dei detenuti e dei prigionieri". "Questa affermazione è falsa e spesso usata come pretesto per torture e ritorsioni, come dimostra il fatto che migliaia di detenuti della Striscia di Gaza sono stati rilasciati dopo essere stati sottoposti a crudeli torture e condizioni di detenzione illegali con il pretesto dell'appartenenza all'élite". A marzo, la Commissione per gli Affari dei Detenuti e degli Ex-Detenuti e la Società dei Prigionieri Palestinesi hanno rivelato testimonianze inquietanti di detenuti di Gaza. Le testimonianze sono state raccolte durante le prime visite legali condotte da avvocati palestinesi ai detenuti imprigionati nella prigione segreta sotterranea di Rakevet. Le visite si sono svolte sotto stretta sorveglianza, con guardie che accompagnavano gli avvocati in ogni momento e vietavano qualsiasi menzione di familiari o eventi al di fuori del carcere. Secondo gli avvocati, i detenuti mostravano segni visibili di paura e trauma. All'inizio, molti non sono stati in grado di parlare liberamente a causa della pesante sorveglianza, tuttavia, dopo le rassicurazioni dei team legali, alcuni hanno accettato di condividere le loro esperienze. Un detenuto, identificato come S.J., ha dichiarato di essere stato arrestato nel dicembre 2023 e immediatamente sottoposto a sei giorni di interrogatorio continuo con quelli che ha definito i metodi "disco" e "pampers", riferimenti utilizzati dai detenuti per tecniche particolarmente umilianti. Ha descritto di essere stato costretto a indossare pannolini per adulti dopo che gli è stato negato l'accesso a un bagno, mentre sopportava musica ad alto volume, gravi privazioni di cibo e acqua ed è stato tenuto bendato e ammanettato per tutto il tempo. S.J. è stato poi trasferito più volte, dalla prigione di Sde Teiman alla prigione di Ashkelon, poi al centro di detenzione di Moscobiya per 85 giorni, seguito dalla prigione di Ofer e infine alla sezione di Rakevet. Ha detto che le condizioni a Rakevet erano le peggiori che avesse mai vissuto, con tre detenuti per cella, senza luce solare e con un tempo di esercizio umiliante in cui ai prigionieri non era permesso alzare la testa. Un altro detenuto, W.N., ha detto di essere stato arrestato nel dicembre 2024 e di aver subito violenti interrogatori da parte delle forze israeliane e degli agenti dell'intelligence. Ha riferito di essere stato aggredito sessualmente con un dispositivo di ricerca, gli sono state negate le cure mediche e di essere stato costretto a sedersi in ginocchio per lunghi periodi. I prigionieri sono stati costretti a maledire le loro stesse madri, ha aggiunto, e ha subito una frattura al dito durante il trasporto, una tattica che le guardie usano deliberatamente contro i detenuti. Un terzo detenuto, K.D., ha detto di essere stato sottoposto a ripetuti interrogatori con il metodo della "discoteca" e in posizioni di stress, spesso legato a una sedia per lunghe ore o gettato a terra, mentre la musica ad alto volume suonava continuamente, rendendo impossibile riposare o dormire. Ha contratto la scabbia nella prigione di Ofer e non ha ricevuto alcun trattamento dopo essere stato trasferito al Rakevet. Soffre di dolori al petto aggravati dall'uso di rigide restrizioni e ha detto che l'amministrazione carceraria punisce i detenuti rompendo deliberatamente i pollici. Un altro detenuto, A.G., detenuto per 35 giorni a Sde Teiman, ha detto di essere entrato in prigione con una ferita e di non aver ricevuto cure mediche. Ha sviluppato una febbre alta e ha perso conoscenza più volte. Per 15 giorni è stato ammanettato e bendato tutto il giorno. Successivamente trasferito a Rakevet, ha descritto la sorveglianza permanente nelle celle, i divieti di preghiera, le minacce di morte e le aggressioni violente durante il tempo in cortile. Ai prigionieri era permesso di fare la doccia solo quando le guardie lo decidevano, e veniva dato loro un rotolo di carta igienica ogni tre giorni. Il cibo è minimo e i detenuti si ricordano bene  quando le guardie confiscano le coperte all'alba. I due gruppi di difesa hanno affermato che Rakevet è stata una delle numerose strutture riproposte o riaperte da Israele per detenere i detenuti di Gaza dall'inizio della guerra di Gaza. Altre strutture includono Sde Teiman, Anatot, il campo di Ofer e il campo di Menashe per i detenuti della Cisgiordania. Questi siti, hanno detto, sono diventati sinonimo di "tortura fisica e psicologica istantanea e sistematica". Libertà per alcuni, silenzio per altri Mentre il mondo ha chiesto il rilascio dei prigionieri israeliani detenuti a Gaza negli ultimi 20 mesi, è rimasto in gran parte in silenzio sugli oltre 10.800 palestinesi imprigionati nelle carceri israeliane. Dopo che Hamas e Israele hanno raggiunto un accordo a gennaio, 1.777 prigionieri palestinesi, che hanno trascorso un tempo totale pari a circa 10.000 anni nelle carceri israeliane, sono stati rilasciati. Tuttavia, le forze israeliane hanno arrestato nuovamente molti di loro. Secondo i termini dell'accordo di cessate il fuoco di Gaza, che Israele ha poi rinnegato quando ha ripreso l'assalto a Gaza, i palestinesi rilasciati non dovevano essere nuovamente arrestati con le stesse accuse per le quali erano stati precedentemente imprigionati. I sostenitori dei diritti dicono che le azioni di Israele violano i termini dell'accordo. Freedom for Some, Silence for Others: What You Need to Know About Palestinian Hostages Held by Israel and Ignored by the World - Quds News Network Traduzione a cura dell'Associazione di Amicizia Italo-Palestinese Onlus, Firenze
Ilan Pappé: la lotta accademica per il diritto al ritorno
Scritto il05/07/2025 Thisweekinpalestine.com. Di Ilan Pappè. Coloro di noi che hanno lavorato come storici professionisti su quella che Nur Masalha chiamava la “Politica della Negazione”, per decenni hanno denunciato che la negazione ha accompagnato l’attuale politica israeliana di espropriazione. I due, negazione ed espropriazione, ovviamente, sono interconnessi. Chi espropria è abbastanza potente da cancellare i propri crimini dalle proprie narrazioni ufficiali e da quelle altrui. Allo stesso modo, lo sviluppo e i cambiamenti nella storiografia dei rifugiati e nelle politiche contro di loro, in particolare la negazione del loro Diritto al Ritorno, vanno di pari passo. La storiografia è diventata una parte importante della lotta contro la negazione del Diritto al Ritorno dei rifugiati. All’inizio degli anni ’60, esistevano già alcuni resoconti storici palestinesi su ciò che accadde realmente nel 1948, che avrebbero dovuto avere un impatto enorme sulla discussione sul destino dei rifugiati palestinesi. Questa prima storiografia indicava già la responsabilità esclusiva di Israele nella creazione del problema dei rifugiati palestinesi. Tuttavia, la narrazione israeliana dominava il mondo accademico e i media occidentali, e la prospettiva palestinese era considerata “parziale” e inaffidabile. La prima rappresentazione da parte dei palestinesi della massiccia espulsione avrebbe dovuto portare a un’insistenza internazionale sul Diritto al Ritorno dei rifugiati, non solo a causa della famosa Risoluzione ONU 194, dell’11 dicembre 1948, che ne richiedeva il ritorno, ma anche perché il nuovo insieme di valori, che plasmò quello che sarebbe diventato il Diritto Internazionale dopo la Seconda Guerra Mondiale, considerava tale diritto sacro. La chiara Natura Criminale della massiccia espulsione, ancor prima che fosse definita Pulizia Etnica, e il chiaro desiderio dei rifugiati di tornare non lasciavano dubbi sulla validità giuridica del Diritto al Ritorno. Ma questo non si concretizzò. Ciononostante, i falliti tentativi di difendere questo diritto rivelarono l’importanza della ricerca storica per la continua lotta per il Diritto al Ritorno. In altre parole, non era sufficiente basarsi sulla Risoluzione ONU, era importante spiegare come i palestinesi fossero diventati profughi. La prima volta che Israele prestò attenzione al legame tra la storia del 1948 e la possibile posizione internazionale sul Diritto al Ritorno dei rifugiati fu all’inizio degli anni ’60. Il motivo fu l’interesse piuttosto sorprendente e inaspettato del presidente J. F. Kennedy per la questione del Diritto al Ritorno. Kennedy stava per dare avvio a un nuovo interesse americano per l’attuazione del Diritto al Ritorno attraverso la delegazione statunitense alle Nazioni Unite, il che causò allarme in Israele, in particolare presso l’ufficio del primo ministro David Ben-Gurion. Ben-Gurion credeva che il governo statunitense sarebbe stato dissuaso dal prendere qualsiasi iniziativa se fosse stato a conoscenza della versione storica “corretta” delle modalità con cui i palestinesi erano diventati profughi. A tal fine, Ben-Gurion si rivolse alle istituzioni orientaliste in Israele e offrì loro la documentazione, frutto di ricerche commissionate, volta a dimostrare che nel 1948 i rifugiati avevano lasciato volontariamente la Palestina. Un centro di ricerca dell’Università di Tel Aviv assegnò alla missione un giovane studioso, Ronni Gabay, ma le sue conclusioni delusero il primo ministro. Sulla base dei documenti a cui aveva accesso, concluse che la maggior parte dei rifugiati era stata espropriata principalmente con la forza. Deluso, Ben-Gurion chiese che un altro studioso esaminasse il materiale. Trovarono qualcuno che capiva cosa ci si aspettava da lui: ovvero che affermasse che, sulla base dei documenti, i rifugiati erano partiti volontariamente per ordine dei loro leader e dei Paesi arabi confinanti. Prima che l’iniziativa di Kennedy potesse concretizzarsi, tuttavia, fu sventata dal suo assassinio. Fino ad oggi, nessuno dei suoi successori ha perseguito questa politica. Negli anni ’60 e ’70, il Centro di Ricerca dell’OLP di Beirut, nelle sue varie sedi e pubblicazioni, e in seguito l’Istituto per gli studi sulla Palestina, continuarono a produrre ricerche e lavori che fornirono conoscenze e documentazione cruciali che dimostravano i tentativi fatti dalle Nazioni Unite di ribadire la responsabilità dell’organizzazione nella difesa del Diritto al Ritorno dei palestinesi, data la sua posizione sulla Palestina nel 1947. Questo progresso nella comprensione storiografica delle origini del problema dei rifugiati palestinesi, e la consapevolezza che la politica di eliminazione è stata perpetuata sul campo da Israele da allora, portarono a quello che all’epoca sembrò un cambiamento molto significativo nella posizione e nell’impegno delle Nazioni Unite per il Diritto al Ritorno. Il risultato fu l’istituzione del Comitato per l’Esercizio dei Diritti Inalienabili del Popolo Palestinese (CEIRPP). Ricevette il mandato dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite con la Risoluzione 3376 il 10 novembre 1975. (Questo comitato diede avvio alla “Giornata Internazionale di Solidarietà con il Popolo Palestinese”, che si tiene ogni anno il 29 novembre). Un altro organismo importante fu un’unità speciale per i diritti dei palestinesi, creata dall’Assemblea Generale nel 1977. Questa unità in particolare agì anche in veste accademica. Si concentrò sulla preparazione di studi e pubblicazioni relative al Diritto al Ritorno e divenne la “Divisione per i Diritti dei Palestinesi” nel 1979. Il suo lavoro, almeno nell’ambito delle Nazioni Unite, mantenne viva la questione dei rifugiati durante il secolo scorso. Ma l’ONU perse la sua indipendenza già all’inizio degli anni Novanta (quando, ad esempio, gli Stati Uniti riuscirono ad annullare, nel 1991, la famosa risoluzione del 1975 che equiparava il Sionismo al razzismo). All’inizio degli anni Ottanta, personalità come Edward Said, Ibrahim Abu Lughod e Walid Khalidi, tra gli altri, continuarono a produrre lavori accademici e solidi che fornirono le prove necessarie sulle circostanze che portarono alla nascita del problema dei rifugiati palestinesi nel 1948. Il loro lavoro fu accentuato da un nuovo fenomeno storiografico noto come “la nuova storia di Israele”. Un piccolo gruppo di storici israeliani professionisti, sfruttando la declassificazione del materiale d’archivio del 1948, suffragò, sulla base di questo patrimonio, le principali affermazioni dei palestinesi sulla nascita del problema dei rifugiati, ovvero che esso fosse il risultato di espulsioni di massa e del rifiuto di qualsiasi rimpatrio. Molti studiosi palestinesi sono rimasti sgomenti, e a ragione, dal fatto che solo con la pubblicazione della revisione storiografica israeliana si sia manifestata la volontà di ascoltare una narrazione che contrastasse quella inventata da Israele. Tuttavia, quando le vittime di un crimine dichiarano di aver subito un torto, i tribunali non sono sempre inclini a crederci; solo quando i criminali ammettono il crimine il verdetto è chiaro. O, per dirla in altri termini, i palestinesi non avevano bisogno di prove di essere vittime di espulsione intenzionale, ma il mondo sì. La storiografia della Nakba è diventata ancora più completa quando queste opere sono state integrate da un rinnovato e vigoroso interesse per la storia orale, soprattutto da parte di giovani studiosi palestinesi. La ricomparsa negli anni ’90 del Modello Coloniale d’Insediamento, che gli studiosi palestinesi avevano già proposto a metà degli anni ’60, ha aggiunto un nuovo livello alla storiografia della Nakba e all’analisi delle motivazioni alla base dell’espropriazione dei palestinesi. Hanno lasciato intendere che ciò avrebbe dovuto avere un impatto sulla decisione politica riguardante il loro futuro. La caratteristica più importante associata al Progetto Coloniale di Insediamento è la logica dell’eliminazione dei nativi. Ciò ha permesso alla ricerca di includere tutti i rifugiati, compresa l’élite che partì nel gennaio del 1948, desiderosa di rimanere fuori fino alla fine dei combattimenti, ma a cui non fu permesso di tornare, diventando così vittima della politica eliminatrice. In altre parole, il lavoro accademico sui rifugiati, la loro storia e la realtà contemporanea è cresciuto sia in quantità che in qualità. Eppure, anche in senso inverso, politicamente la questione dei rifugiati è costantemente scivolata in secondo piano, persino nel discorso dell’Autorità Nazionale Palestinese, e sicuramente in ciò che restava dello sforzo diplomatico globale per “risolvere” il “conflitto”. L’impegno che unisce il lavoro accademico all’attivismo per il Diritto al Ritorno deve proseguire, nonostante la sua incapacità finora di influenzare l’agenda politica dall’alto in Occidente. Ci sono due aree in cui questo sforzo congiunto può essere ampliato. Un primo obiettivo è quello di basarci sul ricco lavoro accademico che già possediamo e di trasmetterlo al grande pubblico attraverso film, teatro, mostre e altri media simili. Questi luoghi e piattaforme, fisici o virtuali, sono luoghi importanti per ricordare alle persone il Diritto al Ritorno e per immaginare come verrà attuato. Abbiamo già alcuni esempi eccellenti, ma ce ne vogliono di più nei mass media. Il secondo obiettivo è quello di proseguire il lavoro accademico con una chiara motivazione morale, in modo che sia rilevante sia per analizzare criticamente l’assenza del Diritto al Ritorno dagli sforzi diplomatici finora compiuti, sia, soprattutto, per capire come possa essere attuato in futuro. Ciò richiede un mix di acume accademico e immaginazione. Abbiamo già ottimi esempi in questo senso: l’incredibile lavoro di Salman Abu Sitta sull’attuazione del Diritto al Ritorno; quello di ONG palestinesi locali come Udna, che ha realizzato modelli 3D di villaggi ricostruiti; e il lavoro di ONG israeliane come Zochrot, che ha avviato un progetto chiamato “Immaginare il Ritorno”. Ma abbiamo bisogno di più, anche se, comprensibilmente, gran parte delle nostre energie oggi è concentrata sul Genocidio a Gaza e sulla Pulizia Etnica in Cisgiordania. Infine, se il Piano trumpiano sulla Pulizia Etnica dei palestinesi a Gaza dovesse continuare, o se dovesse continuare a essere ampiamente utilizzato dai politici israeliani, non dovrebbe essere semplicemente negato; sarebbe utile sottolineare che l’unica alternativa possibile che la popolazione di Gaza stessa dovrebbe considerare è se il 70% di loro, proveniente dalla Palestina del ’48, sarebbe disposto a tornare alle proprie case d’origine in quello che oggi è Israele. Questo ci ricorda quanto sia rilevante il Diritto al Ritorno per il futuro della Palestina e quanto lavoro ci sia ancora da fare per preparare un piano concreto su come attuarlo. Ilan Pappé è professore all’Università di Exeter. In precedenza è stato docente di scienze politiche presso l’Università di Haifa. È autore del recente Lobbying for Zionism on Both Sides of the Atlantic (Lobbisti per il Sionismo su entrambi i Lati dell’Atlantico) di The Physical Cleansing of Palestine, The Modern Middle East (La Pulizia Etnica della Palestina, il Medio Oriente Moderno); Una storia della Palestina moderna: una terra, due popoli (Una Storia Della Palestina Moderna: Una Terra, Due Popoli) e Dieci miti su Israele (Dieci Miti su Israele). Pappé è descritto come uno dei “Nuovi storici” israeliani che, dal rilascio dei pertinenti documenti del governo britannico e israeliano all’inizio degli anni ’80, hanno riscritto la storia della creazione di Israele nel 1948. Traduzione: La Zona Grigia Ilan Pappe: la lotta accademica per il diritto al ritorno | InfoPal
Israele sta cercando di espellerci da Masafer Yatta. Ci rifiutiamo di lasciare le nostre case.
Le forze israeliane demoliscono le strutture palestinesi nel villaggio di Khallet al-Dabe' a Masafer Yatta, nelle colline a sud di Hebron, 5 maggio 2025. (Foto: Mamoun Wazwaz/APA Images) Un recente ordine militare israeliano minaccia di sfollare 1.200 palestinesi dalle nostre case a Masafer Yatta, ma ci rifiutiamo di essere cancellati. Di Mohammad Hesham Huraini  Luglio 2, 2025   Circa un mese fa – dopo anni di vessazioni e demolizioni intermittenti – le forze di occupazione israeliane sono arrivate nel villaggio palestinese di Khallet al-Dabe', una delle 12 comunità che compongono Masafer Yatta, nelle colline a sud di Hebron, nella Cisgiordania occupata. Hanno demolito, quasi interamente, il villaggio. In sole due ore e mezza, le forze di occupazione israeliane hanno ridotto quasi l'intero villaggio in macerie. Come Khallet al-Dabe', tutti i villaggi palestinesi di Masafer Yatta sono ora sotto minaccia di espulsione permanente dopo che l'Amministrazione Civile – l'ente militare israeliano incaricato di governare la Cisgiordania – ha emesso un ordine che consente quello che viene chiamato "addestramento con munizioni vere" a Masafer Yatta, un'azione intrapresa per rafforzare la designazione, da parte loro, dell'area come "Zona di tiro 918". Khallet al-Dabe' di Masafer Yatta nel febbraio 2022. (Foto: Ihab Alami/APA Images) Per più di cinquant'anni, gli abitanti di quest'area sono stati colpiti da questa designazione, poiché le loro case e la loro terra sono state distrutte per far posto agli insediamenti e agli avamposti israeliani per soli ebrei, in continua crescita. I palestinesi resistono alle espulsioni e, fino a poco tempo fa, abbiamo avuto qualche possibilità di ricorso attraverso i tribunali militari israeliani. Non è più così. Il nuovo ordine dell'Amministrazione Civile dà il via libera all'esercito israeliano per rimuovere con la forza praticamente tutti i residenti di Masafer Yatta con il pretesto che stanno usando la "Zona di Tiro 918" per esercitazioni militari. Prima di questo ordine, uno o due villaggi potrebbero aver ricevuto ordini che permettevano ai suoi residenti, almeno sulla carta, di tornare alle loro case. Ma ora sta accadendo il contrario: gli ordini di demolizione sono accelerati e le richieste di permesso di costruzione palestinesi vengono respinte in blocco, anche retroattivamente. Ciò significa che tutti i documenti di proprietà e i diritti fondiari sono ora, agli occhi del tribunale, nulli. Queste misure, sostenute dall'approvazione del tribunale, minacciano di sfollare oltre 1.200 residenti, tra cui più di 500 bambini. Decine di case, scuole, sistemi idrici e altre infrastrutture esistenti sono a rischio imminente di demolizione, segnando il prossimo passo nella completa pulizia etnica delle colline a sud di Hebron. Questa agghiacciante accelerazione costringe i palestinesi di Masafer Yatta ad affrontare lo sfollamento senza nemmeno la possibilità di porvi rimedio. Mentre le ondate di demolizioni sono in corso, questo nuovo sviluppo codifica l'intento di diffondere nuovi avamposti di coloni per soli ebrei sulle nostre terre. Non sono il solo a lanciare questo appello; I gruppi internazionali per i diritti umani hanno avvertito che questo approccio orchestrato – smantellare le strutture palestinesi, riesumare le scuse di sparare con munizioni vere per espellere le comunità – è una spinta calcolata sotto la menzogna della necessità militare. Khallet al-Dabe' il 5 maggio 2025, a seguito della sua demolizione da parte delle forze israeliane. (Foto: Mamoun Wazwaz/APA Images) I palestinesi che rifiutano di essere cancellati Il 5 maggio, tra le 9:00 e le 11:30, l'esercito israeliano ha distrutto nove case, sei grotte, dieci serbatoi d'acqua, quattro stalle per animali, undici servizi igienici, sette pozzi d'acqua, 400 metri di recinzione agricola, un centro comunitario, una sala elettrica, tutti i pannelli solari, i sistemi internet e le telecamere di sicurezza a Khallet al-Dabe'. I bulldozer Hyundai e altri macchinari hanno distrutto gli edifici mentre l'acciaio si contorceva e il cemento si sbriciolava. Ma il popolo di Khallet al-Dabe' ha rifiutato di essere cancellato. Nonostante la distruzione e il caldo soffocante dell'estate, i residenti hanno iniziato a ricostruire quello che potevano utilizzando tende e materiali di recupero. Questi rifugi di fortuna erano più che strutture fisiche: erano atti di resilienza, resistenza e radicamento. Hanno dichiarato: Rimaniamo. E anche se molte delle case demolite avevano già dichiarazioni simili murate sui lati, la gente del villaggio li dipingerà di nuovo, per quanto sisifeo ciò possa sembrare. Le forze israeliane demoliscono le strutture palestinesi nel villaggio di Khallet al-Dabe' a Masafer Yatta, nelle colline a sud di Hebron, 5 maggio 2025. (Foto: Mamoun Wazwaz/APA Images) In risposta, coloni e soldati continuano a intensificare la loro campagna di molestie e violenze. Appena due settimane dopo la demolizione, le milizie dei coloni hanno attaccato Suleiman al-Dababseh, un residente del villaggio. Lo hanno picchiato così duramente che gli hanno provocato una frattura al cranio e rotto un braccio. È stato lasciato sanguinante nella polvere. Senza accesso immediato alle cure mediche, ha sopportato più di un'ora di agonia prima di raggiungere un ospedale lontano, dove è rimasto per tre giorni. I coloni che lo hanno attaccato non sono mai stati arrestati. Questo è lo schema, anche se mai normale: violenza senza conseguenze. Poco dopo, i coloni hanno preso di mira una grotta dove Abdullah al-Dababseh si era rifugiato con la sua famiglia dopo la demolizione della loro casa. Temendo per la sicurezza dei suoi figli, Abdullah si è rifugiato nel villaggio. I coloni hanno occupato rapidamente la grotta in sua assenza, hanno installato una tenda per il bestiame rubato e l’hanno dichiarata un nuovo avamposto, un'estensione illegale e de facto della loro presenza. Da quando due famiglie palestinesi sono state espulse dalle loro grotte, i coloni hanno portato greggi di pecore, bovini e cammelli nei frutteti e nei giardini delle case distrutte di Khallet al-Dabe. Gli animali vengono deliberatamente utilizzati per distruggere gli alberi rimanenti. Questa tattica fa parte di un modello più ampio: le forze statali demoliscono le case e i coloni – impunemente – invadono, attaccano, rubano e stabiliscono avamposti, il tutto con il sostegno dell'esercito israeliano. Questa strategia di costruire "avamposti di pastorizia" da parte dei coloni, è in corso di attuazione in altre parti della Cisgiordania. Gli abitanti del villaggio, alcuni di quasi 90 anni, sono costretti a stare a guardare mentre gruppi di coloni invadono i giardini e ciò che resta delle loro case con i fucili. Il fatto che questi anziani siano nati a Khallet al-Dabe', molto prima della fondazione dello Stato sionista – come lo erano stati i loro genitori e antenati prima di loro – non impedisce al regime israeliano di emettere ordini di demolizione e di dichiarare che devono essere espulsi dalla loro terra. Dalle grotte rubate e dalle case occupate, i coloni lanciano assalti quotidiani. Marciano in pieno giorno, bloccano le famiglie all'interno, distruggono i raccolti e gli alberi da frutto e calpestano ogni ultima fonte di sostentamento. Anche i bambini vengono molestati mentre vanno a scuola, inseguiti per le colline, viene negata la sicurezza nelle aule e, in alcuni casi, viene negato del tutto l'accesso all'istruzione. Tutto questo avviene sotto gli occhi delle forze di occupazione israeliane. Non fanno nulla. In molti casi, assistono, fornendo incoraggiamento e immunità legale. Un noto colono, soprannominato "Benny", vestito di verde militare, ha preso il comando in questi attacchi ed è noto per impartire ordini ai soldati e alla polizia. Usa ordini di espulsione 24 ore su 24 per espellere me e i miei amici, colleghi, attivisti israeliani e internazionali. Sotto la sua direzione, due donne internazionali sono state arrestate, portate dalle autorità israeliane e deportate, con il divieto permanente di tornare. Mi ha preso di mira due volte nel villaggio di Khallet al-Dabe' perché mi conosce come attivista e giornalista del villaggio di Tuwani, e perché mi ha arrestato due volte sulla mia terra negli ultimi mesi. Il 1° giugno 2025, noi, come attivisti della regione, insieme agli internazionali e agli attivisti israeliani, abbiamo ottenuto una piccola ma significativa vittoria: abbiamo smantellato l'avamposto dei coloni illegali nella grotta di Abdullah e costretto i coloni ad andarsene. Ma nel giro di poche ore, l'esercito israeliano ha dichiarato l'area una "zona militare chiusa", ha impedito ad Abdullah di tornare e ha posizionato soldati sul posto. Il giorno seguente, 2 giugno, i media internazionali sono arrivati a Masafer Yatta per riferire sulla distruzione. Le forze israeliane hanno bloccato ogni ingresso, chiuso strade e sigillato interi villaggi. Ai giornalisti è stato negato l'accesso. L'intento era chiaro: mettere a tacere la verità e nascondere ciò che sta accadendo a Khallet al-Dabe' e negli altri villaggi della mia comunità. Mohammad Hesham Huraini Mohammad Hesham Huraini è un giornalista indipendente e attivista di Masafer Yatta, a sud di Hebron, in Cisgiordania. Israel is trying to expel us from Masafer Yatta. We refuse to leave our homes. – Mondoweiss Traduzione a cura dell'Associazione di Amicizia Italo-Palestinese Onlus, Firenze
I sudari, le pensionate e i digiuni: mille iniziative a fianco di Gaza
di Francesca Fornario Il Fatto Quotidiano, 28 giugno 2025 Dice che tanto non cambia niente. Se manifesti, se metti la bandiera alla finestra, se posti i video dei civili uccisi in fila per il pane. Ma il modo più sicuro per non cambiare niente è: non cambiare niente. Vivere come se niente fosse. Tanti sentono di dover fare qualcosa. E la fanno. Come Otto e Elise Hampel: operaio lui, sarta lei, marito e moglie nella Germania del 1940. Qualcosa andava fatta per fermare Hitler. Presero a scrivere centinaia di cartoline ogni notte e le disseminavano in giro per Berlino. Ogni giorno la Gestapo passava a rimuoverle e loro a rimetterle. Quelli della polizia nazista pensavano di avere a che fare con un partito clandestino. Invece erano solo loro due. Ogni giorno nel mondo si attivano milioni di persone comuni. Ci sono le iniziative organizzate - qui i sudari per Gaza, le manifestazioni, la campagna Stop Rearm - e c'è Giuliano Logos, che si pianta davanti al Quirinale a leggere uno dopo l'altro i nomi dei morti ammazzati a Gaza e va avanti per 24 ore. I portuali e i lavoratori della logistica che bloccano la partenza dei carichi di armi per Israele: a Livorno, a La Spezia a Montichiari, a Pisa. Le pensionate di Levanto, che quando hanno saputo che ai bambini feriti a Gaza e curati a Firenze mancava il mare li hanno invitati in vacanza. Alla stazione c'erano tutti, il sindaco, la bandiera palestinese sul pennone, i pasticceri, il pizzaiolo, gli abitanti in coda al negozio di giocattoli. C'è il sit in degli operatori dell'informazione per Gaza, collettivo di oltre 200 giornalisti che in piazza San Giovanni ha letto i nomi degli altrettanti colleghi uccisi a Gaza, più che nelle due guerre mondiali insieme e i cittadini che si segnano a turno per sorreggere la bandiera palestinese davanti a Montecitorio. A Venezia a turno si digiuna, un giorno a testa. Una protesta silenziosa che si è allargata. Ci si segna via email, digiunoperlapacevenezia@gmail.com e ogni giorno il sito Anbamed pubblica l'elenco. Oggi, tra gli altri, Felicia Arrigoni, cassiera. Alla cassa, mentre digiuna e batte il prezzo delle merendine e del salame, indosserà una spilla: "Oggi digiuno per i bambini di Gaza". Ci sono gli scaffali della Coop senza i prodotti israeliani e con la Gaza Cola, le farmacie comunali di Sesto Fiorentino senza più farmaci israeliani: iniziative frutto della campagna Bds, che punta a ridurre le entrate fiscali con le quali Israele finanzia la pulizia etnica. Chi aderisce scarica le app come NoThanks! e Boycat e scannerizza il codice a barre dei prodotti. Gli iscritti Anpi, sezione Trullo, borgata romana mangiata dalla periferia, il giovedì non usano il bancomat perché pure le banche investono in armi. Marcella Brancaforte, insegnante, ogni sera da un anno, Internet permettendo, si collega con Halazzan Selmi, giornalista a Gaza. Lui racconta, lei disegna. Ne è nato un libro a sei mani con Raffaele Oriani, il giornalista che ha lasciato Repubblica per il modo in cui il giornale minimizzava il genocidio. Gli artisti palermitani che sabato 6 venderanno le loro opere e Colapesce e Di Martino andranno a cantare. I gruppi di preghiera nelle parrocchie e lo psichiatra che fa sedute gratuite di terapia di gruppo per affrontare il trauma di chi si mobilita diffondendo i video da Gaza. La Gestapo ci mise due armi a trovare Otto e Elise. Lui dichiarò che era felice di aver protestato contro il Terzo Reich. Vennero ghigliottinati, l'operaio e la sarta, come i Re di Francia. Non avevano cambiato niente? Il mondo si cambia una persona alla volta. Lo scrittore egiziano ElAkkad, quando hanno cominciato a piovere le bombe su Gaza, ha scritto un tweet: "Un giorno tutti diranno di essere sempre stati contro". Quel giorno alcuni lo saranno stati davvero, ai figli diranno di aver fatto quello che potevano. Questo cambia.
«Hunger Games»: dentro le trappole mortali di Israele per i gazawi affamati
Massacri quasi quotidiani da parte delle forze israeliane ai punti di distribuzione di cibo hanno ucciso oltre 400 palestinesi nell’ultimo mese. I sopravvissuti raccontano di dover calpestare i cadaveri per afferrare un sacco di farina: «Quale altra scelta abbiamo?» di Ahmed Ahmed  e Ibtisam Mahdi +972, 20 giugno 2025 Nelle prime ore del 11 giugno, prima dell’alba, Hatem Shaldan (19 anni) e suo fratello Hamza (23) si sono recati vicino al Corridoio di Netzarim, nella Striscia di Gaza centrale, per attendere i camion che avrebbero distribuito farina. Speravano di portare a casa un sacco di 25 kg per la loro famiglia di cinque persone. Invece, Hamza è tornato con il corpo del fratello, avvolto in un panno funebre bianco. La famiglia Shaldan aveva vissuto praticamente senza cibo per quasi due mesi a causa del blocco israeliano, rinchiusa ina un ex aula scolastica trasformata in rifugio. La loro casa era stata completamente distrutta da un bombardamento israeliano nel gennaio del 2024. Verso l’una e mezza del mattino, i due fratelli si sono uniti a decine di palestinesi affamati su via Al-Rashid, la strada costiera, dopo aver sentito che i camion erano in arrivo. Due ore dopo, si sono udite urla: «I camion stanno arrivando!», seguite subito da colpi di artiglieria israeliana. «Non ci importava dei colpi», ha raccontato Hamza a +972. «Correvo solo verso le luci dei camion.» Ma nel caos della folla i fratelli si sono separati. Hamza è riuscito a prendere un sacco di farina da 25Kg, ma Hatem non si è fatto trovare al punto concordato. “Continuavo a chiamare il suo telefono, più e più volte, senza ottenere risposta”, racconta Hamza. "Avevo il mal di cuore. Ho iniziato a vedere corpi senza vita che venivano trasportati dove mi trovavo. Mi rifiutavo di credere che mio fratello potesse essere tra loro". Un uomo palestinese ferito mentre altre centinaia di persone camminano lungo Al-Rashid Street portando sacchi di farina dopo che i camion degli aiuti sono entrati dall'area di Zikim, nel nord di Gaza City, il 17 giugno 2025. Molti di coloro che cercavano aiuto sono stati colpiti dalle forze israeliane. (Yousef Zaanoun/Activestills)   Alcune ore dopo aver perso il contatto con Hatem, Hamza ha ricevuto una telefonata da un amico: nei gruppi Whatsapp locali era apparsa la foto di un corpo non identificato, scattata all'ospedale Al-Aqsa Martyrs di Deir Al-Balah, nel centro di Gaza. Hamza ha mandato un cugino - un autista di tuk-tuk - a controllare. "Mezz'ora dopo ha richiamato, con la voce tremante. Mi ha detto che era Hatem". Quando l'ha saputo, Hamza è svenuto. Quando si è ripreso, la gente gli stava versando acqua sul viso. Si è precipitato all'ospedale, dove un uomo ferito nella stessa raffica di artiglieria gli ha spiegato cosa era successo: Hatem e circa 15 altre persone avevano cercato di nascondersi nell'erba alta quando i carri armati israeliani avevano aperto il fuoco. “Hatem è stato colpito da schegge nelle gambe”, ha detto l'uomo. "Ha sanguinato per ore. I cani li hanno accerchiati. Alla fine, quando sono arrivati altri camion di aiuti, la gente ha aiutato a trasportare i corpi su uno dei camion". In totale, quella mattina 25 palestinesi sono stati uccisi mentre aspettavano i camion dei soccorsi in via Al-Rashid. Hamza ha riportato il corpo di Hatem a Gaza City e lo ha seppellito accanto alla madre, uccisa da un cecchino israeliano nell'agosto del 2024. Il loro fratello maggiore, Khalid, 21 anni, era morto mesi prima, in un attacco aereo in gennaio, mentre stava evacuando dei civili feriti sul suo carretto trainato da cavalli. “Hatem era la luce della nostra famiglia”, ci dice Hamza. "Dopo la perdita di nostra madre e di Khalid, è diventato il preferito di tutti, comprese mia nonna e le zie. Andava a trovarle e le aiutava. Mia nonna è crollata quando ha visto il suo corpo. Piange ancora". Hatem era un abile tecnico di accessori per auto e sognava di aprire un proprio negozio. “Era gentile e generoso e amava i bambini, ai quali regalava sempre dei dolci”, ha raccontato Hamza. "Tutti quelli che lo conoscevano sono venuti al suo funerale. Che Dio ritenga l'occupazione responsabile per averci rubato la vita, solo perché siamo di Gaza". Migliaia di palestinesi camminano lungo Al-Rashid Street portando sacchi di farina dopo che i camion degli aiuti sono entrati dall'area di Zikim, nel nord di Gaza City, il 17 giugno 2025. Molti di coloro che cercavano aiuto sono stati colpiti dalle forze israeliane. (Yousef Zaanoun /Activestills) Massacri quasi quotidiani Mentre l'attenzione del mondo si concentra sulla guerra tra Israele e Iran — e mentre Israele interrompe contemporaneamente i servizi internet e di telecomunicazione, imponendo di fatto blackout mediatici e informativi a milioni di palestinesi — gli attacchi di Israele contro i gazawi affamati in attesa di aiuti si sono solo intensificati. Dopo due mesi senza che fosse entrata a Gaza nemmeno una goccia di cibo, medicine o carburante, dalla fine di maggio è stato permesso l’ingresso di una minima quantità di farina bianca e generi alimentari in scatola. La maggior parte è stata destinata a due siti a Rafah e nel Corridoio di Netzarim gestiti dalla Gaza Humanitarian Foundation (GHF), sorvegliati da contractor americani privati e soldati israeliani. Dal 10 giugno, piccole spedizioni hanno cominciato ad arrivare anche tramite camion umanitari del Programma Alimentare Mondiale (PAM). Ma con l’aumento della fame, la popolazione non aspetta più che i camion passino oltre le truppe israeliane in sicurezza. Al contrario, si precipita loro incontro non appena compaiono, disperata nel tentativo di afferrare qualsiasi cosa prima che le scorte finiscano. Decine di migliaia di persone si radunano nei punti di distribuzione, a volte con giorni di anticipo, e molti tornano a casa a mani vuote. Civili affamati si accalcano in enormi folle, aspettando il permesso di avvicinarsi. In molti casi, i soldati israeliani hanno aperto il fuoco contro la folla — anche durante la distribuzione stessa — uccidendo decine di persone mentre cercavano di raccogliere qualche chilo di farina o cibo in scatola da portare a casa, in quello che i palestinesi hanno soprannominato "Hunger Games - I giochi della fame”. Dal 27 maggio, oltre 400 palestinesi sono stati uccisi e più di 3.000 feriti mentre aspettavano aiuti, secondo quanto riferito dal portavoce della Protezione Civile di Gaza, Mahmoud Basel. L’attacco più letale contro persone in cerca di aiuti è avvenuto il 17 giugno, quando le forze israeliane hanno sparato proiettili da carri armati, mitragliatrici e droni contro una folla di palestinesi a Khan Younis, uccidendone 70 e ferendone centinaia. I limitati aiuti che riescono a entrare a Gaza non soddisfano nemmeno i bisogni più elementari. Di conseguenza, molti residenti sono costretti a comprare scorte da altri che sono riusciti a procurarsi del cibo nei punti di distribuzione e ora lo rivendono nel disperato tentativo di ottenere altri beni di prima necessità. Un uomo palestinese porta un sacco di farina sulla Al-Rashid Street, vicino al Corridoio Netzarim, 16 giugno 2025. (Yousef Zaanoun/ActiveStills)   La gente veniva uccisa, ma tutti continuavano a correre per cercare la farina". Il giorno successivo al massacro di Al-Rashid Street, che ha causato la morte di Hatem Shaldan, una folla ancora più numerosa si è radunata nello stesso punto, compreso il diciassettenne Muhammad Abu Sharia, arrivato con quattro parenti. I pochi camion di aiuti arrivati quella settimana hanno dato un briciolo di speranza alle famiglie affamate. Abu Sharia vive con la sua famiglia di nove persone nella loro casa parzialmente distrutta nel sud di Gaza City, unico figlio tra sei sorelle. “All'inizio la mia famiglia non voleva che partissi”, ha detto. “Ma stiamo morendo di fame da due mesi”. Alle 22.00 si è diretto verso Al-Rashid Street, dove la folla si era radunata sulla sabbia vicino alla riva, in attesa dei camion degli aiuti. La gente si scambiava avvertimenti a bassa voce: "State dietro ai camion. Non correte davanti, potreste essere schiacciati". Abu Sharia è rimasto scioccato da ciò che ha visto. “Anziani, donne, bambini, tutti in attesa di un'opportunità di sopravvivenza”. Poi, senza preavviso, i proiettili di artiglieria cominciano a cadere tutto intorno. Si è scatenato il panico. Alcuni sono fuggiti. Altri, come Abu Sharia, si sono precipitati verso i camion. "La gente veniva uccisa e ferita, ma nessuno si fermava. Tutti continuavano a correre verso la farina". È riuscito ad afferrare un sacco accanto a un cadavere, ma ha fatto solo pochi metri prima che una banda di quattro uomini armati di coltello lo circondasse e minacciasse di ucciderlo se non lo avesse consegnato. Si è arreso. Sperando ancora di raggiungere un altro camion, ha aspettato altre ore. Poi ha visto la gente gridare: “Sono arrivati altri aiuti!”. I camion sono arrivati, rallentando a malapena mentre la folla li assaliva. “Ho visto un uomo cadere sotto un [camion] e farsi schiacciare la testa”. Con le ambulanze troppo lontane per avvicinarsi per paura degli attacchi aerei israeliani, i feriti e i morti sono stati trascinati via da carretti trainati da asini e tuk-tuk. Palestinesi portano via un ferito colpito dal fuoco israeliano mentre cerca di ottenere aiuti alimentari in Al-Rashid Street, nel nord di Gaza City, 16 giugno 2025. (Yousef Zaanoun/ActiveStills)   Abu Sharia era l'unico della sua famiglia allargata in grado di trasportare un sacco di farina. La sua famiglia, preoccupata, ha provato sollevio nel vederlo. Hanno subito preparato il pane e lo hanno condiviso con i parenti. “Nessuno rischia la vita in questo modo se non ha altra scelta”, ci dice. "Andiamo perché stiamo morendo di fame. Andiamo perché non c'è altro".   "Un giovane è saltato in aria spezzato in due parti. Ad altri sono stati strappati gli arti" Yousef Abu Jalila, 38 anni, faceva affidamento sugli aiuti umanitari distribuiti dal World Food Program  per sfamare la sua famiglia di 10 persone. Ma da oltre due mesi non è arrivato nessun pacco e il prezzo di quel poco che rimane nei mercati è salito alle stelle. Ora si rifugia in una tenda nello stadio di Al-Yarmouk, nel centro di Gaza City, dopo che la loro casa nel quartiere di Sheikh Zayed è stata distrutta durante l'incursione dell'esercito israeliano nel nord della Striscia di Gaza, nell'ottobre del 2024: “I miei figli mi gridano che hanno fame e io non ho nulla da dar loro da mangiare”. Senza farina bianca o resti di cibo in scatola, Abu Jalila non ha altra scelta che presentarsi ai punti di distribuzione degli aiuti o aspettare i camion degli aiuti. “So che potrei essere uno di quelli uccisi mentre cerco di procurare cibo per la mia famiglia”, dice Abu Jalila a +972. “Ma vado, perché la mia famiglia sta morendo di fame”. Il 14 giugno, Abu Jalila ha lasciato la tendopoli con un gruppo di vicini dopo aver sentito voci sull'arrivo di camion di aiuti nell'area dell'Equestrian club, nella parte nord-occidentale della Striscia di Gaza. Quando è arrivato, è stato sorpreso di trovare migliaia di altre persone che speravano di portare cibo per le loro famiglie. Con il passare delle ore, la folla si è avvicinata a una postazione militare israeliana. Poi, senza preavviso, diversi proiettili di artiglieria israeliana sono esplosi nel mezzo dell'assembramento. Palestinesi portano via un ferito colpito dal fuoco israeliano mentre cercava di ottenere aiuti alimentari in Al-Rashid Street, vicino al Corridoio Netzarim, 16 giugno 2025. (Yousef Zaanoun/ActiveStills)   “Non so ancora come ho fatto a sopravvivere”, dice Abu Jalila. "Decine di persone sono state uccise, i loro corpi fatti a pezzi. Molte altre sono state ferite". Nel caos, alcuni sono fuggiti in preda al panico, mentre altri si sono affannati a caricare i morti e i feriti su carretti trainati da asini, poiché non c'erano ambulanze o auto nelle vicinanze. “Un giovane è saltato in aria spezzato in due parti; ad altri sono stati strappati gli arti”, ricorda Abu Jalila. "Erano persone innocenti, disarmate, che cercavano solo di procurarsi del cibo. Perché ucciderli in questo modo?". Sconvolto e a mani vuote, Abu Jalila ha camminato per quattro ore fino a Gaza City, con le gambe che gli tremavano. Quando ha raggiunto la tenda, i suoi figli erano già fuori, in attesa. “Speravano che portassi del cibo”, ha detto. “Avrei voluto morire piuttosto che vedere la delusione nei loro occhi”. Ha giurato di non tornare mai più, ma non avendo più nulla per sfamare la sua famiglia e non avendo ricevuto alcun aiuto, sa che dovrà riprovarci.   "Sapevamo di poter morire. Ma che scelta abbiamo?" Massacri simili si sono verificati nel sud di Gaza. Zahiya Al-Samour, 44 anni, si reggeva a malapena in piedi dopo aver corso per oltre due chilometri per fuggire da un attacco israeliano contro la folla radunata per gli aiuti nella zona di Tahlia, nel centro di Khan Younis. Lottando per riprendere fiato, ha detto a +972: "Mio marito è morto di cancro l'anno scorso. Non posso provvedere ai miei figli. Non c'è cibo in casa, non da quando c'è stato il blocco e l'interruzione delle consegne di aiuti che ci sostenevano durante la guerra". Spinta dalla disperazione, Al-Samour si è recata a Tahlia la notte del 16 giugno, sperando di essere tra i primi della fila per l'arrivo dei camion degli aiuti. Insieme a migliaia di altre persone, si è accampata lungo la strada. Migliaia di palestinesi camminano lungo la via Al-Rashid portando sacchi di farina dopo che i camion degli aiuti sono entrati dall'area di Zikim, nel nord della città di Gaza, il 17 giugno 2025. Molti di coloro che cercavano aiuto sono stati colpiti dalle forze israeliane. (Yousef Zaanoun /Activestills)   Ma la mattina dopo, mentre la gente aspettava nei pressi di Al-Rashid Street, i colpi dei carri armati sono piovuti improvvisamente sulla folla, uccidendo oltre 50 persone. “Ho visto persone perdere arti, corpi dilaniati”, ha raccontato. "Tre dei miei vicini di Al-Zaneh [a nord di Khan Younis] sono stati uccisi. I loro corpi erano irriconoscibili". Sebbene sia riuscita a salvarsi senza danni fisici, il trauma persiste. “Il mio cuore trema ancora”, ha detto. “Ho visto persone morire mentre altre sanguinavano su carri trainati da asini; non c'erano ambulanze” È tornata a mani vuote alla tenda che ha eretto ad Al-Mawasi dopo che l'esercito israeliano ha ordinato l'evacuazione del suo quartiere. “I miei figli hanno fame”, ha detto, con la voce incrinata. "Aspettano che io porti del cibo. Non so cosa dire loro". All'ospedale Nasser, Mohammad Al-Basyouni, 22 anni, si sta riprendendo da una ferita d'arma da fuoco alla schiena. Gli hanno sparato il 25 maggio mentre cercava di raccogliere cibo nella zona di Al-Shakoush a Rafah. “Mi sono svegliato all'alba e sono uscito di casa [nella zona di Fash Farsh, tra Rafah e Khan Younis] con un solo obiettivo: raccogliere farina per mio padre malato”, ha raccontato a +972. "Mia madre mi ha pregato di non andare, ma io ho insistito. Non avevamo cibo. Mio padre è malato e avevamo bisogno di aiuto". “Sono partito verso le 6 del mattino e poco dopo il mio arrivo si sono sentiti degli spari”, ha raccontato Al-Basyouni. “Sono stato colpito mentre fuggivo: un cecchino mi ha sparato alla schiena”. È stato portato in chirurgia in un tuk-tuk. "Io sono sopravvissuto, ma altri no. Alcuni sono tornati in sacchi per cadaveri". Fa una pausa, poi aggiunge a bassa voce: "Sapevamo di poter morire. Ma che scelta abbiamo? La fame uccide. Vogliamo che la guerra e l'assedio finiscano. Vogliamo che questo incubo finisca. Sono tornato ferito e non ho portato nulla a casa. Ora mio padre, malato, ha perso il suo unico sostentamento". Palestinesi portano via un ferito colpito dal fuoco israeliano mentre cercava di ottenere aiuti alimentari nella via Al-Rashid, vicino al Corridoio Netzarim, 16 giugno 2025. (Yousef Zaanoun/ActiveStills)   "Sembravamo animali che aspettano l'apertura della mangiatoia in una stalla". Pur vivendo nel centro di Gaza City dopo essere stato sfollato con la sua famiglia da Beit Hanoun, Mahmoud Al-Kafarna, 48 anni, si è messo in viaggio il 15 giugno verso il centro di assistenza gestito dal GHF nell'estremo sud-ovest di Khan Younis. Il suo viaggio è durato ore a piedi fino a Nuseirat, poi in tuk-tuk fino a Fash Farsh, un noto punto di raccolta per chi cerca cibo. Lui e altri hanno camminato dalle 19.30 alle 2.30 del mattino, riparandosi alla fine nella moschea di Mu'awiyah fino all'apertura del checkpoint israeliano. All'alba, si sono avvicinati a una barriera di sabbia sorvegliata dalle forze israeliane. Una voce da dietro la barriera ha abbaiato attraverso un altoparlante: "Il centro di assistenza è chiuso. Non c'è distribuzione. Dovete tornare a casa". Al-Kafarna, come molti altri, è rimasto - conoscendo queste tattiche per sfoltire la folla. Poi sono arrivate le minacce: “Andate via o apriamo il fuoco”, seguite da insulti come “Cani”. Prima ancora di terminare l'avvertimento, le forze israeliane hanno iniziato a sparare dalla loro posizione a circa un chilometro di distanza da dove si era radunata la folla. “I proiettili volavano sopra di noi”, ha raccontato Al-Kafarna. "Decine di persone sono state colpite. Nessuno poteva alzare la testa". Alcuni giovani sono riusciti ad evacuare i feriti in una vicina struttura della Croce Rossa, ma molti non ce l'hanno fatta. Quando, mezz'ora dopo, un secondo annuncio ha permesso l'ingresso, la folla si è riversata in avanti, correndo per due chilometri con le mani alzate e i sacchi bianchi sollevati - un gesto di resa. Poi lui e altri hanno percorso altri due chilometri oltre il posto di blocco, sorvegliato da contractor privati pesantemente armati. “Sono esattamente come li ritrae Hollywood: armati fino ai denti, con occhiali da sole scuri e giubbotti antiproiettile con la bandiera americana, con gli auricolari dietro le orecchie e le armi puntate direttamente sul nostro petto nudo”, ha ricordato Al-Kafarna. “Sparano a terra sotto i piedi di chiunque cerchi di avvicinarsi agli aiuti, che sono posizionati dietro una collina su cui sono appostati”. Quando finalmente hanno raggiunto il deposito di aiuti dietro una collina, “c'era il caos”, ha ricordato Al-Kafarna. “Nessun ordine, nessuna correttezza, solo sopravvivenza”. Per evitare di essere calpestati o attaccati, le persone portavano coltelli o si muovevano in gruppi coordinati. "Una volta presa una scatola, la si svuota nella borsa e si corre. Se ti fermi, vieni derubato o schiacciato". Cosa è riuscito a portare a casa? “Due chili di lenticchie, un po' di pasta, sale, farina, olio, qualche scatola di fagioli”. Al-Kafarna fa una pausa, con gli occhi pesanti. "Ne è valsa la pena? Le pallottole, i cadaveri, lo strisciare in mezzo ai morti? Ecco quanto siamo caduti in basso, mendichiamo la sopravvivenza con la pistola puntata contro". “Sembravamo animali che aspettano l'apertura della mangiatoia in una stalla priva di moralità e compassione. La fame ci ha spinto a cercare cibo dalle mani del nostro nemico - cibo avvolto nell'umiliazione e nella vergogna - quando prima vivevamo con dignità”.   Ahmed Ahmed è lo pseudonimo di un giornalista di Gaza City che ha chiesto di rimanere anonimo per paura di rappresaglie. Ibtisam Mahdi è una giornalista freelance di Gaza specializzata in reportage su questioni sociali, in particolare su donne e bambini. Collabora anche con organizzazioni femministe di Gaza per la stesura di rapporti e comunicazioni. Traduzione a cura dell'Associazione di Amicizia Italo-Palestinese Onlus, Firenze
Teniamo gli occhi aperti su Gaza
Il governo estremista e incontrastato di Israele ha aperto un nuovo fronte con l’Iran mentre continuano i suoi crimini a Gaza e in Cisgiordania. Comunicato Stampa di B'Tselem, 14 giugno 2025 Il governo estremista e incontrastato  di Israele ha aperto un nuovo fronte con l’Iran mentre continuano i suoi crimini a Gaza e in Cisgiordania. La guerra che Israele ha iniziato con l’Iran rischia di causare innumerevoli vittime civili e potrebbe sfociare in un bagno di sangue di proporzioni enormi. Avvertiamo che Israele probabilmente sfrutterà la distrazione dell’attenzione globale per intensificare i suoi attacchi contro i palestinesi. Da quando è iniziata l’offensiva israeliana contro l’Iran, decine di civili iraniani e tre israeliani sono stati uccisi. Invece di esaurire le vie diplomatiche, il governo estremista israeliano ha scelto di scatenare una guerra che mette in pericolo israeliani, palestinesi e l’intero popolo della regione. Mentre milioni di persone in Israele e in Iran affrontano attacchi missilistici, la maggior parte dei palestinesi all’interno di Israele, in Cisgiordania e a Gerusalemme è indifesa, con comunità prive di rifugi. Con lo spostarsi dell’attenzione pubblica e mediatica sull’Iran, l’esercito israeliano sembra pronto a continuare e persino intensificare i suoi gravi crimini di guerra contro i palestinesi, inclusa la deliberata privazione di cibo a milioni di persone nella Striscia di Gaza. Israele sta già sfruttando la situazione per isolare i palestinesi dal resto del mondo. Prima dell’attacco all’Iran, il nord di Gaza era stato isolato da internet e, dopo l’inizio delle ostilità, le comunità palestinesi in Cisgiordania sono state poste in completo blocco e i quartieri palestinesi di Gerusalemme Est sono stati sigillati. Secondo il Ministero della Salute palestinese, nelle ultime 48 ore l’esercito israeliano ha ucciso 90 persone e ferito 605 nella Striscia di Gaza. Mettiamo in guardia: Israele sfrutterà la situazione attuale per intensificare i danni ai palestinesi a Gaza, in Cisgiordania e ovunque sotto il suo controllo.
Dalla Malesia una "Flottiglia delle Mille Navi" per rompere l’assedio israeliano su Gaza
Gruppi malesi hanno svelato un piano per una "Flottiglia delle Mille Navi" che salperà da tutto il mondo per rompere il brutale assedio israeliano su Gaza. The New Arab, 15 giugno 2025 Sabato 14 giugno diverse organizzazioni della società civile malese hanno annunciato un piano per lanciare quella che definiscono la più grande mobilitazione marittima al mondo, con l’obiettivo di rompere il blocco israeliano imposto alla Striscia di Gaza. La campagna, nota come "Flottiglia delle Mille Navi", mira a far partire imbarcazioni da più continenti in uno sforzo coordinato per consegnare aiuti umanitari e fare pressione su Israele affinché ponga fine al suo assedio. L’iniziativa è stata presentata durante una conferenza stampa a Kuala Lumpur da Azmi Abdul Hamid, presidente del Consiglio Consultivo delle Organizzazioni Islamiche della Malesia (MAPIM). Abdul Hamid ha affermato che questo sforzo è una risposta diretta alla sempre più brutale campagna militare israeliana e ai "crimini genocidi" commessi a Gaza. Secondo Abdul Hamid, è già in corso un coordinamento con gruppi della società civile in Europa, Asia e America Latina, e l’idea della flottiglia ha ricevuto un "sostegno senza precedenti". Ha citato il recente sequestro da parte dell’esercito israeliano della nave umanitaria Madleen come un punto di svolta cruciale. Anche se quella nave non è riuscita a raggiungere Gaza, secondo lui ha avuto successo nel riportare l’attenzione mondiale sulla crisi nella Striscia. Ha aggiunto che la flottiglia in programma sarà "più grande e meglio organizzata" rispetto alla Mavi Marmara del 2010, che si concluse con l’uccisione di dieci attivisti da parte delle forze israeliane. Una dichiarazione congiunta firmata da decine di organizzazioni malesi ha delineato gli obiettivi della flottiglia: revocare il blocco di Gaza, facilitare la consegna di aiuti umanitari, ottenere protezione internazionale per i palestinesi e chiedere giustizia per i crimini di guerra israeliani. Gli organizzatori hanno inoltre lanciato un appello ai governi di tutto il mondo affinché proteggano i propri cittadini che parteciperanno alla flottiglia — un’iniziativa volta ad aumentare la pressione diplomatica su Israele tramite mezzi indiretti. Parallelamente, attivisti malesi hanno organizzato una manifestazione davanti alla sede dell’Autorità per lo Sviluppo degli Investimenti della Malesia, chiedendo la cessazione dei rapporti con le aziende che continuano a operare nei territori occupati. I manifestanti hanno denunciato in particolare l’azienda statunitense Caterpillar, che fornisce all’esercito israeliano bulldozer utilizzati nella demolizione di case palestinesi. I dimostranti hanno accusato queste aziende di complicità nell’aggressione in corso a Gaza. MAPIM ha inoltre annunciato la creazione di un segreteriato internazionale e di un fondo finanziario per coordinare la logistica, l’acquisto delle navi e le attività di sensibilizzazione. Il consiglio ha invitato individui, gruppi umanitari e aziende a contribuire con supporto tecnico e materiale. La proposta della flottiglia arriva in un momento di crescente frustrazione per l’incapacità delle istituzioni internazionali di fermare la guerra a Gaza o di far rispettare il diritto umanitario internazionale. Con l’aumento del sostegno pubblico alla Palestina in molte parti del mondo, gli organizzatori sperano che la campagna generi slancio politico. Hanno infine dichiarato che i preparativi sono in corso e che seguiranno ulteriori annunci nelle prossime settimane.   Traduzione a cura dell'Associazione di Amicizia Italo-Palestinese Onlus, Firenze  
E voi che facevate durante il genocidio a Gaza?
Quando le future generazioni leggeranno con orrore ciò che è accaduto a Gaza e si chiederanno come abbiamo potuto permettere che un genocidio trasmesso in diretta accadesse, cosa risponderete? di Arwa Mahdawi The Guardian, 22 maggio 2025 Ora che Israele sta eseguendo una “soluzione finale” nella Striscia di Gaza, quando è troppo tardi perché il dissenso possa fare la differenza, il vento sta lentamente cominciando a girare. Ora che Gaza è rasa al suolo, trasformata in fosse comuni e macerie, le persone che hanno taciuto negli ultimi diciannove mesi cominciano lentamente a parlare. Ora che Israele e gli Stati Uniti non provano nemmeno a nascondere di voler svuotare Gaza e la Cisgiordania dai palestinesi, e “prendere il controllo” di tutta la terra, qualche critica comincia ad arrivare. Dopo diciannove mesi di violenze genocide e quasi tre mesi di riduzione alla fame, il Regno Unito ha deciso di definire la situazione “vergognosa”. Il Regno Unito, insieme a Francia e Canada, ha minacciato – e sono sicura che i leader israeliani stanno tremando – una risposta “concreta” se le uccisioni di massa e la fame continueranno. C’è un leggero cambiamento anche nella copertura dei mezzi d’informazione. Invece di limitarsi a ripetere i discorsi del governo israeliano, importanti giornalisti hanno cominciato a chiedere ai portavoce israeliani perché il loro governo non permette alla stampa straniera di entrare liberamente a Gaza. Tutto questo è troppo poco e troppo tardi. Non riporterà in vita Hind Rajab, uccisa a cinque anni quando 335 proiettili sono stati sparati dai soldati israeliani contro l’auto in cui era intrappolata in preda al terrore. Né gli operatori umanitari assassinati da Israele e sepolti in fosse poco profonde. Non ricostruirà gli ospedali, gli asili, i centri di fecondazione assistita e le università che sono stati sistematicamente rasi al suolo da Israele. Non restituirà gambe e braccia ai bambini di Gaza, che sono il più grande gruppo di bambini amputati al mondo. Non rimedierà ai danni a lungo termine che la malnutrizione e i quasi due anni di privazione della scuola hanno causato a una generazione. A testa alta Le critiche a cui assistiamo ora sono semplicemente un modo per pararsi il culo. Un’opposizione puramente formale, così che in futuro, quando la portata del massacro a Gaza sarà chiara, i politici e i giornalisti che hanno permesso e giustificato questo orrore per diciannove mesi potranno dire: “Ho detto qualcosa! Non sono rimasto a guardare!”. E voi cosa direte? Quando le generazioni future leggeranno di Gaza con orrore e si chiederanno come il mondo occidentale, forte della sua superiorità morale, del suo ordine basato sulle regole e della sua attenzione per il diritto umanitario, abbia permesso un genocidio in diretta, cosa direte? Quando le generazioni future sapranno che ci siamo svegliati ogni mattina con i video di bambini bruciati vivi – bombardati con armi pagate anche dai cittadini statunitensi con le loro tasse e giustificate dal mondo occidentale – potrete dire di aver alzato la voce? Molte persone comuni potranno farlo a testa alta, non sono state in silenzio; hanno usato qualsiasi spazio o privilegio che avevano. Logan Rozos, uno studente dell’università di New York a cui è stata ritirata la laurea perché ha usato il suo intervento alla cerimonia di fine corso per denunciare “le atrocità in Palestina”, potrà dire di non essere stato in silenzio. Gli studenti espulsi dalla Columbia university per aver protestato potranno dire di aver messo in gioco il loro futuro in nome della giustizia. Attori come Melissa Barrera, licenziata dal film Scream 7 per i suoi post a favore della Palestina, potranno dire di aver anteposto l’integrità alla carriera. Le persone al potere, tuttavia, non potranno dire lo stesso; non potranno lavarsi il sangue dalle mani. Probabilmente tutto l’orrore alla fine sarà addossato al primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, mentre altri cercheranno di assolversi. Ma questo non è solo il genocidio di Netanyahu. È il genocidio di Biden e di Harris; è il genocidio di Trump e di Vance; è il genocidio di Keir Starmer e di David Lammy. È il genocidio dell’amministratore delegato di Microsoft Satya Nadella. È il genocidio dei mezzi d’informazione dominanti. E l’elenco continua. Non saremmo dove siamo oggi se non fosse per la sistematica disumanizzazione dei palestinesi sulla stampa occidentale e per la soppressione degli interventi a favore dei palestinesi. Non saremmo qui se i giornalisti occidentali e l’ex presidente degli Stati Uniti Joe Biden non avessero costruito il consenso per il genocidio ripetendo la menzogna che Hamas aveva decapitato dei bambini. Non saremmo qui se l’amministrazione Biden avesse davvero lavorato per un cessate il fuoco, invece di mentire sui suoi sforzi e dare carta bianca a Israele per fare ciò che voleva. Alla fine la storia giudicherà tutte queste persone. Ma forse è solo un’illusione. Forse sono ingenua a pensare che, anche se tutti i palestinesi fossero mandati in esilio e Gaza fosse trasformata in un resort con il marchio di Trump, ci sarà una resa dei conti. Dopo tutto, quanti statunitensi o europei conoscono la Nakba? Quanti sanno dell’operazione israeliana “Getta il tuo pane” del 1948, che ha avvelenato l’acqua potabile dei villaggi palestinesi? Quanti sanno di Rachel Corrie, la giovane attivista di Washington uccisa da un bulldozer israeliano mentre cercava di salvare dalla distruzione le case palestinesi di Gaza nel 2003? Fin dalla Nakba, le voci palestinesi sono state cancellate e le atrocità israeliane minimizzate. Però avrete sentito di ogni atrocità commessa da un palestinese. Vi sarà stato detto più e più volte che tutto questo è cominciato il 7 ottobre 2023. Ora è troppo tardi per una vera giustizia a Gaza. Non potremo mai riportare in vita i bambini morti. Non possiamo cancellare quello che è successo. Ma non è troppo tardi per accertare le responsabilità. Le atrocità devono essere documentate. I morti a Gaza devono essere contati con precisione, in modo da sapere quanti sono. I mezzi d’informazione devono smetterla di ripetere a pappagallo la cifra ufficiale di più di 55mila morti, senza contestualizzarla e senza considerare che, se si tiene conto dei decessi per fame, malattie o freddo, il numero reale di vittime è probabilmente molto più alto. Se finora siete rimasti in silenzio, ripetendovi che è un argomento troppo complicato da affrontare, non è troppo tardi per alzare la voce. Quello che sta succedendo a Gaza è diverso dagli orrori che si stanno compiendo in Sudan e nella Repubblica Democratica del Congo perché, se siete in occidente, sta succedendo a vostro nome. Sta succedendo con i vostri soldi e con l’aiuto dei vostri leader. Se siete statunitensi, i vostri rappresentanti eletti hanno fatto una standing ovation per questo genocidio. Siamo tutti complici. Anche se alcuni di noi lo sono molto più di altri. Quindi, pensate a cosa dire alle generazioni future quando vi chiederanno cosa avete fatto ora. Il silenzio non è neutrale. E il vostro silenzio non sarà dimenticato. Come disse Martin Luther King Jr: “Alla fine, non ricorderemo le parole dei nostri nemici, ma il silenzio dei nostri amici”. Arwa Mahdawi è una columnist del Guardian di origine palestinese che vive negli Stati Uniti.   Traduzione dal numero 1616 di Internazionale
Le condizioni disumane dei prigionieri palestinesi
Amélie Zaccour, L’Orient-Le Jour, Libano Internazionale1615 | 23 maggio 2025 Nelle carceri israeliane migliaia di persone sono rinchiuse senza accusa né processo. Molte subiscono violenze e torture Ayman (il nome è stato modifica to) è stato rilasciato il 1 dicembre dopo essere stato detenuto senza motivo dall’esercito israeliano. “Tutto è cominciato il 6 ottobre 2024, quando mia moglie, i miei tre figli e io ci siamo trovati sotto assedio nel nord della Striscia di Gaza”, racconta. “L’esercito aveva diffuso dei messaggi dagli alto parlanti indicandoci un passaggio sicuro per fuggire, ma quando siamo arrivati lì mi hanno arrestato”. L’uomo ha subìto un interrogatorio di dieci ore, prima di essere imprigionato in condizioni disumane: de nudato, ammanettato, bendato, picchia to, senza un avvocato e rinchiuso nell’atroce carcere militare di Sde Teiman, de scritto dall’ong israeliana B’tselem come un campo di tortura. “Per quaranta giorni ho vissuto la brutalità, le umiliazioni, le ripetute operazioni di repressione. Eppure sono un civile. Non ho mai fatto parte di nessuna organizzazione”, afferma Ay man. La sua detenzione si è conclusa co me era cominciata, senza spiegazioni, quando è stato riportato al valico di frontiera di Kerem Shalom. Il trasferimento di alcuni prigionieri palestinesi vicino a Muqeible, in Israele, il 22 gennaio 2025  Il suo racconto riecheggia le molte testimonianze di maltrattamenti di detenuti palestinesi arrestati nei mesi successivi all’attacco di Hamas in Israele del 7 ottobre 2023. Le immagini dei corpi smagriti o mutilati hanno inondato i social media a gennaio, quando molti sono stati liberati in cambio degli ostaggi israeliani, nel quadro del cessate il fuoco a Gaza entrato in vigore il 19 gennaio e interrotto da Israele quasi due mesi dopo. Uno dei prigionieri, Mohammad Abu Tawileh, un meccanico di 36 anni, è uscito alla fine di febbraio da Sde Teiman con la schiena ricoperta di tracce di ustioni, provocate con uno spray e un accendino. Pane e crema spalmabile Tanti altri prigionieri sono tornati scheletrici dalle carceri israeliane. Le loro razioni di cibo, estremamente ridotte dopo il 7 ottobre, consistevano per esempio in qualche pezzo di pane e un po’ di crema dolce spalmabile. “La fame è ormai lo strumento di una politica applicata in più contesti”, osserva Jenna Abu Hasna, responsabile delle campagne internazionali per Addameer, un’organizzazione palestinese per la difesa dei prigionieri. A marzo Walid Ahmad, 17 anni, è morto nell’istituto di massima sicurezza di Megiddo, dove era detenuto da sei mesi senza un’incriminazione. Il rapporto dell’autopsia realizza to da esperti israeliani ha rivelato che l’adolescente, di corporatura robusta nelle foto scattate prima della detenzione, soffriva di grave malnutrizione e scabbia. In un rapporto del febbraio 2025, la se zione israeliana dell’associazione Physicians for human rights (Medici per i diritti umani) parla di “una politica sistematica di riduzione alla fame, negligenza sanitaria, contenzione fisica prolungata, umilia zione e violenza”. Oltre alle percosse e alle violenze sessuali, ci sono gli attacchi con i cani o i casi di prigionieri cosparsi di acqua bollente, scrive l’ong. Anche l’assenza e il rifiuto di prestare cure mediche, la priva zione del cibo, del sonno e dell’igiene, oltre alle interruzioni della fornitura d’acqua, sono forme di tortura. Documentato da tempo, l’uso della tortura nei centri di detenzione israeliani non è una novità. Di nuovo c’è però la por tata di questi metodi dopo il 7 ottobre. Le testimonianze dei prigionieri, le analisi degli esperti e i rapporti delle ong concordano su un aspetto: nel contesto della campagna di distruzione della Striscia di Gaza e d’intensificazione delle operazioni militari israeliane in Cisgiordania, gli abu si commessi nelle prigioni stanno avvenendo con una frequenza senza prece denti. Una cifra riflette questa svolta: secondo Addameer, 66 palestinesi sono morti in detenzione dall’inizio della guerra, rispetto a poco più di duecento in totale tra il 1967 e il 2023. Una statistica sproporzionata, pur tenendo conto dell’enorme au mento di prigionieri palestinesi dal 7 ottobre in poi, la metà dei quali incarcerati senza un’accusa. Secondo i dati dell’ong israeliana HaMoked, che si basano su quelli del servizio penitenziario israeliano, oggi Israele tiene in carcere 10.068 palestinesi definiti “detenuti di sicurezza”, spesso al di fuori delle tradizionali procedure giudiziarie. Il doppio rispetto all’ottobre 2023.  Prima del 7 ottobre la tortura e le per cosse erano usate soprattutto durante gli interrogatori. “Oggi invece è diventata una cosa abituale”, continua Abu Hasna. “La maggior parte dei detenuti è sottoposta ad aggressioni brutali e a trattamenti inumani e degradanti dai soldati e dagli agenti penitenziari, spesso come parte di punizioni collettive”. Sono metodi diventati “così sistematici che senza dubbio rientrano in una politica organizzata e deliberata delle autorità penitenziarie israeliane”, afferma B’tselem in un rapporto uscito nell’agosto 2024 e intitolato “Ben venuti all’inferno”, il più completo sulle violenze in carcere dall’inizio della guerra. “Gli abusi collettivi commessi da decine di guardie, portati avanti apertamente per mesi negli istituti penitenziari, non potevano avvenire senza il sostegno e l’incoraggiamento dall’alto”, conclude l’inchiesta, citando più volte il ministro della sicurezza nazionale, Itamar Ben Gvir, che supervisiona il sistema carcera rio israeliano. Voglia di vendetta Da quando si è insediato nel gennaio 2023, Ben Gvir, un colono suprematista condannato nel 2007 per incitamento all’odio e sostegno a un’organizzazione terroristica, ha inasprito le condizioni di detenzione. Il giro di vite dopo il 7 ottobre si è concretizzato in particolare nella costruzione di carceri militari come quello di Sde Tei man, un edificio composto di aree senza tetto in pieno deserto del Negev, o come il campo di Ofer, o nella riapertura del cen tro di detenzione di Anatot. In questi isti tuti gestiti dai soldati la diffusa voglia di vendetta delle truppe spinge i superiori a chiudere un occhio, permettendo o perfino incoraggiando gli abusi. “Eppure ci sono migliaia di detenuti che non hanno avuto alcun ruolo nel 7 ottobre”, osserva Abu Hasna. Nel maggio 2024 un’inchiesta del canale statunitense Cnn ha rivelato alcune violazioni commesse dall’esercito israeliano a Sde Teiman. Tra queste ci sono detenuti sottoposti a contenzioni fisiche estreme, come i feriti legati ai letti, co stretti a indossare pannoloni e ad alimentarsi con una cannuccia. In alcuni casi le manette troppo strette hanno causato le sioni tali da dover amputare gli arti. All’epoca una petizione di vari gruppi per la difesa dei diritti umani, lanciata dall’ong Comitato pubblico contro la tortura in Israele, aveva chiesto la chiusura del campo, spingendo il governo israeliano a dichiararsi pronto a ridurre il numero di detenuti nelle strutture militari. In particolare Sde Teiman dovrebbe diventare un luogo per interrogatori e detenzioni brevi. Circa settecento prigionieri sono stati quindi trasferiti nei campi militari di Ofer e di Anatot, riducendo a poche decine il numero di quelli trattenuti a Sde Tei man. In seguito il generale Herzi Halevi, all’epoca capo di stato maggiore dell’esercito, ha nominato un “comitato consulti vo” per esaminare la compatibilità delle condizioni di detenzione con il diritto internazionale. Tuttavia, solo poche settimane dopo, alla fine di luglio, è scoppiato uno scanda lo quando si è saputo che cinque soldati israeliani avevano stuprato un detenuto palestinese a Sde Teiman. Nonostante lo scalpore suscitato dal caso, che ha contrapposto le forze dell’ordine ai militari, a settembre la corte suprema israeliana ha respinto la richiesta delle ong di chiudere la prigione, citando le migliorie introdotte nelle condizioni di detenzione, in partico lare con l’annuncio dell’apertura di una nuova ala. Dal gennaio 2025 varie organizzazioni israeliane per la difesa dei diritti umani, comprese HaMoked e Physicians for human rights, hanno denunciato le condizioni di detenzione a Ofer e Anatot, ritenute gravi come di quelle di Sde Tei man. Sembra quindi che gli abusi e le torture siano stati solo trasferiti altrove. Tutti i prigionieri provenienti da Gaza approdano nelle carceri militari, anche se non hanno legami con Hamas o con altri gruppi armati. Sono classificati come “combattenti illegali”, una definizione che permette di incarcerare chiunque possa essere considerato una minaccia alla sicurezza d’Israele, senza obbligo di formalizzare accuse concrete, negando la protezione riconosciuta ai prigionieri di guerra sulla base del diritto internazionale umanitario. Molti esempi dimostrano in che modo le autorità israeliane usano e abusano di questa definizione dal 7 ottobre. Una donna di Gaza di 82 anni affetta da Alzheimer è stata detenuta per due mesi come “combattente illegale”. Secondo un rapporto del Comitato pubblico contro la tortura in Israele del luglio 2024, il 47 per cento di questi detenuti alla fine è stato rilasciato senza incriminazione, a conferma dell’infondatezza di molti arresti. La categoria di “combattente illegale”, prevista da una legge del 2002, era rima sta marginale fino alla guerra a Gaza. Ma da allora è diventato uno dei principali strumenti di detenzione di Israele. Attualmente 1.747 palestinesi di Gaza sono in carcerati come “combattenti illegali”, mentre diciannove mesi fa non ce n’era neanche uno. La guerra ha inoltre inasprito il relativo quadro giuridico. Inizialmente la de tenzione in questo regime richiedeva una convalida entro 96 ore. Ma nel dicembre 2023 un emendamento ha esteso il termine a 45 giorni. La modifica riguarda an che le regole del controllo giudiziario, tra cui la comparizione davanti a un giudice, in precedenza prevista entro 14 giorni. Il termine è stato esteso a 75 giorni e l’udienza trasformata in una videoconferenza, in modo da impedire al giudice qualsiasi valutazione delle condizioni fi siche del detenuto. Anche il periodo con sentito senza vedere un avvocato è stato esteso da dieci a 75 giorni a discrezione dei funzionari, e da 21 a 180 giorni a discrezione dei tribunali. Questi termini sono stati però ridotti da un nuovo emendamento nel luglio 2024. Vuole dire che Israele si è accorto che le ripetute violazioni stanno danneggiando la sua immagine e rischiano a lungo termine di indebolire i suoi leader? Il 2024 è stato segnato dall’emissione dei mandati d’arresto della Corte penale internazionale contro il primo ministro Benjamin Netanyahu e l’ex ministro della difesa Yoav Gallant, per crimini di guerra e crimini contro l’umanità. Una decisione che Tel Aviv ha fatto di tutto per impedire, mentre il caso del Sudafrica contro Israele alla Corte internazionale di giustizia per violazione della convenzione sul genocidio è ancora in corso. ◆ fd
Le condizioni disumane dei prigionieri palestinesi
Amélie Zaccour, L’Orient-Le Jour, Libano Internazionale1615 | 23 maggio 2025 Nelle carceri israeliane migliaia di persone sono rinchiuse senza accusa né processo. Molte subiscono violenze e torture Ayman (il nome è stato modifica to) è stato rilasciato il 1 dicembre dopo essere stato detenuto senza motivo dall’esercito israeliano. “Tutto è cominciato il 6 ottobre 2024, quando mia moglie, i miei tre figli e io ci siamo trovati sotto assedio nel nord della Striscia di Gaza”, racconta. “L’esercito aveva diffuso dei messaggi dagli alto parlanti indicandoci un passaggio sicuro per fuggire, ma quando siamo arrivati lì mi hanno arrestato”. L’uomo ha subìto un interrogatorio di dieci ore, prima di essere imprigionato in condizioni disumane: de nudato, ammanettato, bendato, picchia to, senza un avvocato e rinchiuso nell’atroce carcere militare di Sde Teiman, de scritto dall’ong israeliana B’tselem come un campo di tortura. “Per quaranta giorni ho vissuto la brutalità, le umiliazioni, le ripetute operazioni di repressione. Eppure sono un civile. Non ho mai fatto parte di nessuna organizzazione”, afferma Ay man. La sua detenzione si è conclusa co me era cominciata, senza spiegazioni, quando è stato riportato al valico di frontiera di Kerem Shalom. Il trasferimento di alcuni prigionieri palestinesi vicino a Muqeible, in Israele, il 22 gennaio 2025  Il suo racconto riecheggia le molte testimonianze di maltrattamenti di detenuti palestinesi arrestati nei mesi successivi all’attacco di Hamas in Israele del 7 ottobre 2023. Le immagini dei corpi smagriti o mutilati hanno inondato i social media a gennaio, quando molti sono stati liberati in cambio degli ostaggi israeliani, nel quadro del cessate il fuoco a Gaza entrato in vigore il 19 gennaio e interrotto da Israele quasi due mesi dopo. Uno dei prigionieri, Mohammad Abu Tawileh, un meccanico di 36 anni, è uscito alla fine di febbraio da Sde Teiman con la schiena ricoperta di tracce di ustioni, provocate con uno spray e un accendino. Pane e crema spalmabile Tanti altri prigionieri sono tornati scheletrici dalle carceri israeliane. Le loro razioni di cibo, estremamente ridotte dopo il 7 ottobre, consistevano per esempio in qualche pezzo di pane e un po’ di crema dolce spalmabile. “La fame è ormai lo strumento di una politica applicata in più contesti”, osserva Jenna Abu Hasna, responsabile delle campagne internazionali per Addameer, un’organizzazione palestinese per la difesa dei prigionieri. A marzo Walid Ahmad, 17 anni, è morto nell’istituto di massima sicurezza di Megiddo, dove era detenuto da sei mesi senza un’incriminazione. Il rapporto dell’autopsia realizza to da esperti israeliani ha rivelato che l’adolescente, di corporatura robusta nelle foto scattate prima della detenzione, soffriva di grave malnutrizione e scabbia. In un rapporto del febbraio 2025, la se zione israeliana dell’associazione Physicians for human rights (Medici per i diritti umani) parla di “una politica sistematica di riduzione alla fame, negligenza sanitaria, contenzione fisica prolungata, umilia zione e violenza”. Oltre alle percosse e alle violenze sessuali, ci sono gli attacchi con i cani o i casi di prigionieri cosparsi di acqua bollente, scrive l’ong. Anche l’assenza e il rifiuto di prestare cure mediche, la priva zione del cibo, del sonno e dell’igiene, oltre alle interruzioni della fornitura d’acqua, sono forme di tortura. Documentato da tempo, l’uso della tortura nei centri di detenzione israeliani non è una novità. Di nuovo c’è però la por tata di questi metodi dopo il 7 ottobre. Le testimonianze dei prigionieri, le analisi degli esperti e i rapporti delle ong concordano su un aspetto: nel contesto della campagna di distruzione della Striscia di Gaza e d’intensificazione delle operazioni militari israeliane in Cisgiordania, gli abu si commessi nelle prigioni stanno avvenendo con una frequenza senza prece denti. Una cifra riflette questa svolta: secondo Addameer, 66 palestinesi sono morti in detenzione dall’inizio della guerra, rispetto a poco più di duecento in totale tra il 1967 e il 2023. Una statistica sproporzionata, pur tenendo conto dell’enorme au mento di prigionieri palestinesi dal 7 ottobre in poi, la metà dei quali incarcerati senza un’accusa. Secondo i dati dell’ong israeliana HaMoked, che si basano su quelli del servizio penitenziario israeliano, oggi Israele tiene in carcere 10.068 palestinesi definiti “detenuti di sicurezza”, spesso al di fuori delle tradizionali procedure giudiziarie. Il doppio rispetto all’ottobre 2023.  Prima del 7 ottobre la tortura e le per cosse erano usate soprattutto durante gli interrogatori. “Oggi invece è diventata una cosa abituale”, continua Abu Hasna. “La maggior parte dei detenuti è sottoposta ad aggressioni brutali e a trattamenti inumani e degradanti dai soldati e dagli agenti penitenziari, spesso come parte di punizioni collettive”. Sono metodi diventati “così sistematici che senza dubbio rientrano in una politica organizzata e deliberata delle autorità penitenziarie israeliane”, afferma B’tselem in un rapporto uscito nell’agosto 2024 e intitolato “Ben venuti all’inferno”, il più completo sulle violenze in carcere dall’inizio della guerra. “Gli abusi collettivi commessi da decine di guardie, portati avanti apertamente per mesi negli istituti penitenziari, non potevano avvenire senza il sostegno e l’incoraggiamento dall’alto”, conclude l’inchiesta, citando più volte il ministro della sicurezza nazionale, Itamar Ben Gvir, che supervisiona il sistema carcera rio israeliano. Voglia di vendetta Da quando si è insediato nel gennaio 2023, Ben Gvir, un colono suprematista condannato nel 2007 per incitamento all’odio e sostegno a un’organizzazione terroristica, ha inasprito le condizioni di detenzione. Il giro di vite dopo il 7 ottobre si è concretizzato in particolare nella costruzione di carceri militari come quello di Sde Tei man, un edificio composto di aree senza tetto in pieno deserto del Negev, o come il campo di Ofer, o nella riapertura del cen tro di detenzione di Anatot. In questi isti tuti gestiti dai soldati la diffusa voglia di vendetta delle truppe spinge i superiori a chiudere un occhio, permettendo o perfino incoraggiando gli abusi. “Eppure ci sono migliaia di detenuti che non hanno avuto alcun ruolo nel 7 ottobre”, osserva Abu Hasna. Nel maggio 2024 un’inchiesta del canale statunitense Cnn ha rivelato alcune violazioni commesse dall’esercito israeliano a Sde Teiman. Tra queste ci sono detenuti sottoposti a contenzioni fisiche estreme, come i feriti legati ai letti, co stretti a indossare pannoloni e ad alimentarsi con una cannuccia. In alcuni casi le manette troppo strette hanno causato le sioni tali da dover amputare gli arti. All’epoca una petizione di vari gruppi per la difesa dei diritti umani, lanciata dall’ong Comitato pubblico contro la tortura in Israele, aveva chiesto la chiusura del campo, spingendo il governo israeliano a dichiararsi pronto a ridurre il numero di detenuti nelle strutture militari. In particolare Sde Teiman dovrebbe diventare un luogo per interrogatori e detenzioni brevi. Circa settecento prigionieri sono stati quindi trasferiti nei campi militari di Ofer e di Anatot, riducendo a poche decine il numero di quelli trattenuti a Sde Tei man. In seguito il generale Herzi Halevi, all’epoca capo di stato maggiore dell’esercito, ha nominato un “comitato consulti vo” per esaminare la compatibilità delle condizioni di detenzione con il diritto internazionale. Tuttavia, solo poche settimane dopo, alla fine di luglio, è scoppiato uno scanda lo quando si è saputo che cinque soldati israeliani avevano stuprato un detenuto palestinese a Sde Teiman. Nonostante lo scalpore suscitato dal caso, che ha contrapposto le forze dell’ordine ai militari, a settembre la corte suprema israeliana ha respinto la richiesta delle ong di chiudere la prigione, citando le migliorie introdotte nelle condizioni di detenzione, in partico lare con l’annuncio dell’apertura di una nuova ala. Dal gennaio 2025 varie organizzazioni israeliane per la difesa dei diritti umani, comprese HaMoked e Physicians for human rights, hanno denunciato le condizioni di detenzione a Ofer e Anatot, ritenute gravi come di quelle di Sde Tei man. Sembra quindi che gli abusi e le torture siano stati solo trasferiti altrove. Tutti i prigionieri provenienti da Gaza approdano nelle carceri militari, anche se non hanno legami con Hamas o con altri gruppi armati. Sono classificati come “combattenti illegali”, una definizione che permette di incarcerare chiunque possa essere considerato una minaccia alla sicurezza d’Israele, senza obbligo di formalizzare accuse concrete, negando la protezione riconosciuta ai prigionieri di guerra sulla base del diritto internazionale umanitario. Molti esempi dimostrano in che modo le autorità israeliane usano e abusano di questa definizione dal 7 ottobre. Una donna di Gaza di 82 anni affetta da Alzheimer è stata detenuta per due mesi come “combattente illegale”. Secondo un rapporto del Comitato pubblico contro la tortura in Israele del luglio 2024, il 47 per cento di questi detenuti alla fine è stato rilasciato senza incriminazione, a conferma dell’infondatezza di molti arresti. La categoria di “combattente illegale”, prevista da una legge del 2002, era rima sta marginale fino alla guerra a Gaza. Ma da allora è diventato uno dei principali strumenti di detenzione di Israele. Attualmente 1.747 palestinesi di Gaza sono in carcerati come “combattenti illegali”, mentre diciannove mesi fa non ce n’era neanche uno. La guerra ha inoltre inasprito il relativo quadro giuridico. Inizialmente la de tenzione in questo regime richiedeva una convalida entro 96 ore. Ma nel dicembre 2023 un emendamento ha esteso il termine a 45 giorni. La modifica riguarda an che le regole del controllo giudiziario, tra cui la comparizione davanti a un giudice, in precedenza prevista entro 14 giorni. Il termine è stato esteso a 75 giorni e l’udienza trasformata in una videoconferenza, in modo da impedire al giudice qualsiasi valutazione delle condizioni fi siche del detenuto. Anche il periodo con sentito senza vedere un avvocato è stato esteso da dieci a 75 giorni a discrezione dei funzionari, e da 21 a 180 giorni a discrezione dei tribunali. Questi termini sono stati però ridotti da un nuovo emendamento nel luglio 2024. Vuole dire che Israele si è accorto che le ripetute violazioni stanno danneggiando la sua immagine e rischiano a lungo termine di indebolire i suoi leader? Il 2024 è stato segnato dall’emissione dei mandati d’arresto della Corte penale internazionale contro il primo ministro Benjamin Netanyahu e l’ex ministro della difesa Yoav Gallant, per crimini di guerra e crimini contro l’umanità. Una decisione che Tel Aviv ha fatto di tutto per impedire, mentre il caso del Sudafrica contro Israele alla Corte internazionale di giustizia per violazione della convenzione sul genocidio è ancora in corso. ◆ fd