Source - Associazionie amicizia italo-palestinese

Più di 100.000 morti a Gaza
https://share.google/L4FBwftPKLRAeIa0v Die Zeit 24.11.25 Il numero di palestinesi morti nella guerra di Gaza è oggetto di acceso dibattito. La ZEIT ha dati secondo cui potrebbero essere morte significativamente più persone di quante ne si sapesse. Il numero di palestinesi uccisi nella guerra di Gaza potrebbe essere significativamente superiore a quanto si fosse precedentemente assunto. Secondo calcoli di un team di ricercatori del Max Planck Institute for Demographic Research di Rostock, almeno 100.000 persone sono apparentemente morte o uccise nella guerra, che dura più di due anni. I risultati della ricerca sono disponibili a ZEIT. "Non sapremo mai il numero esatto di morti", afferma Irena Chen, co-leader del progetto. "Stiamo solo cercando di stimare il più possibile quale potrebbe essere un ordine di grandezza realistico." Più morti a Gaza di quanto finora noto Morti nella guerra di Gaza, dal 7 ottobre 2023 al 6 ottobre 2025 Vittime confermate  -Stima Gli scienziati di Rostock hanno raccolto dati da varie fonti e effettuato un'estrapolazione statistica. Oltre ai dati del Ministero della Salute, sono stati inclusi anche un'indagine indipendente sulle famiglie e rapporti sui decessi dai social media. In ottobre, gli scienziati hanno pubblicato un articolo sul loro approccio sulla rivista Population Health Metrics. Questo articolo è stato sottoposto a revisione indipendente tra pari da esperti riconosciuti. Finora, l'unica fonte ufficiale per il numero di morti è stata il Ministero della Salute della Striscia di Gaza, che ha raggiunto 67.173 morti nei primi due anni di guerra. Tuttavia, l'agenzia è gestita da Hamas, motivo per cui i suoi dati sono messi in discussione dal governo israeliano e da osservatori internazionali. DIE ZEIT ha inoltre diffuso le informazioni del ministero solo con riserve. Tuttavia, non ci sono prove di manipolazione delle statistiche. Piuttosto, vari team di ricerca hanno già scoperto in passato che il Ministero della Salute è persino piuttosto conservatore. Ora è ben documentato che più persone morirono nella guerra tra Israele e Hamas di quanto indichi la cifra ufficiale. Studi diversi rilevano un alto numero di casi non segnalati. Il Ministero della Salute conta solo i decessi confermati per i quali, ad esempio, è disponibile un certificato di morte da un ospedale. Poiché molti ospedali hanno dovuto cessare le operazioni ordinate durante la guerra, il ministero ora utilizza anche i rapporti di decesso dei parenti, e un comitato controlla le informazioni. Le vittime sepolte sotto le macerie delle case esplose, ad esempio, spesso non vengono registrate. Un gruppo di ricercatori della London School of Hygiene and Tropical Medicine ha pubblicato un articolo sulla rivista The Lancet all'inizio di quest'anno. Zeina Jamaluddine e i suoi colleghi confrontarono diverse liste compilate indipendentemente di persone decedute. Due di questi provengono dal Ministero della Salute della Striscia di Gaza, il terzo si basa su necrologi sui social media. I ricercatori hanno scoperto che molti dei morti sono presenti solo in una o due liste. Dal grado di sovrapposizione, è possibile stimare quanti morti non compaiono in nessuna delle liste. Secondo questo, la segnalazione da parte del Ministero della Salute potrebbe essere di circa il 41 percento in meno. Un team guidato da Michael Spagat, professore al Royal Holloway College dell'Università di Londra, ha a sua volta condotto un sondaggio intorno al primo giorno dell'anno 2025, in cui dipendenti locali del Palestinian Center for Policy and Survey Research hanno visitato 2.000 famiglie e chiesto dove si trovassero i membri della famiglia. Il numero di possibili decessi determinati in questo modo comporta una potenziale segnalazione da parte del Ministero della Salute del 35 percento in meno. I ricercatori non possono escludere la possibilità che alcuni intervistati abbiano inventato i decessi. D'altra parte, la metodologia non copre le famiglie in cui tutti i membri sono deceduti. I ricercatori di Rostock ora si basarono sulle scoperte precedenti e calcolarono stime dettagliate della mortalità. Ana C. Gómez-Ugarte, Irena Chen e i loro colleghi hanno analizzato separatamente uomini e donne, così come diverse fasce d'età. Questo non solo porta a totali più precisi. È anche possibile distinguere in dettaglio chi sono i defunti. La qualità della registrazione dei decessi varia a seconda del genere e dell'età: le donne vengono conteggiate meno spesso rispetto agli uomini. Particolarmente spesso mancano dalle statistiche ufficiali i decessi con più di 60 anni. Nei primi due anni di guerra, cioè dall'attacco di Hamas a Israele il 7 ottobre 2023 al 6 ottobre di quest'anno, tra 99.997 e 125.915 persone sono morte o sono state uccise nei combattimenti nella Striscia di Gaza. La stima mediana dei ricercatori è di 112.069 persone. Inoltre, 1.983 israeliani sono stati uccisi, secondo il Ministero della Difesa israeliano. Solo le persone morte direttamente a causa dei combattimenti sono state contate – nella maggior parte dei casi a causa dei bombardamenti dell'Aeronautica Israeliana. Crollo dell'aspettativa di vita- donne-uomini Aspettativa di vita dalla nascita nella Striscia di Gaza Gli scienziati dell'Istituto Max Planck di Rostock hanno anche calcolato come la guerra abbia influenzato l'aspettativa di vita nella Striscia di Gaza. Prima della guerra, erano 77 anni per le donne e 74 anni per gli uomini. Per l'anno 2024, i demografi calcolano un valore di 46 anni per le donne e 36 per gli uomini. Inizialmente questo è solo un valore statistico. Dice: Se i combattimenti continuassero come negli ultimi anni, i palestinesi raggiungerebbero solo in media questa età. I dati mostrano quanto la vita civile nella Striscia di Gaza sia stata pericolosa recentemente. Giovani uomini sono i più colpiti I calcoli degli scienziati mostrano che circa il 27 percento dei caduti in guerra sono probabilmente bambini sotto i 15 anni, e circa il 24 percento sono donne. Secondo i ricercatori di Max Planck, la distribuzione stimata del bilancio delle vittime per età e genere è simile a quanto trovato in passato dalle Nazioni Unite per i genocidi. Nelle battaglie tra gruppi armati, invece, le morti sarebbero molto più concentrate sui giovani uomini.
I posti di blocco israeliani soffocano i palestinesi
Amira Hass, Haaretz, Israele Internazionale 1640 | 14 novembre 2025 Il tempo per spostarsi da un luogo a un altro in Cisgiordania è determinato dalle decisioni arbitrarie dei soldati di Tel Aviv, scrive la giornalista israeliana,                                                                                                                                      che vive nel territorio Gli ospiti sono stati invitati per festeggiare la buona notizia: i risultati degli esami della loro amica Lina sono negativi. Il cancro non è tornato. Tra un bicchiere di vino e l’altro, la padrona di casa racconta che l’esame è stato anticipato perché la persona che aveva l’appuntamento quel giorno non è riuscita ad arrivare: era rimasta imbottigliata tra posti di blocco e checkpoint (la differenza è che i secondi sono più strutturati e permanenti). Inizialmente l’esame di Lina (uno pseudonimo, come quello di altri intervistati) era stato fissato per la fine dell’anno, ma l’ospedale di Ramallah l’aveva messa in lista d’attesa per due date diverse. L’esperienza insegna che a causa dei blocchi – o di soldati insolitamente lenti, o di un’incursione militare in un quartiere o villaggio vicino – capita che qualcuno non si presenti. Alla prima data non c’erano state cancellazioni. Circa due settimane dopo, l’ospedale l’ha chiamata intorno alle 10 del mattino dicendole di andare lì immediatamente. “Eravamo felici, ma                                                                                                                                                     abbiamo anche pensato alla frustrazione e alla preoccupazione di una persona che non conosciamo e che non è riuscita ad andare all’appuntamento”, dicono Lina e il suo compagno. E loro sanno bene quanto sia rischioso saltare una pet-tc come quella a cui si è sottoposta Lina. Il macchinario di Ramallah (disponibile solo in un altro ospedale in Cisgiordania) può esaminare al massimo dieci pazienti al giorno. Richiede un materiale radioattivo, che è acquistato in Israele e portato in ospedale in quantità contate per gli esami del giorno. Dato che la maggior parte dei pazienti non viene da Ramallah, la lista è composta anche considerando le restrizioni al movimento imposte da Israele. Più lunghi e più lenti Secondo i documenti ufficiali e i dati dell’ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari (Ocha), ci sono 877 checkpoint e posti di blocco sparsi intorno alle enclave palestinesi della Cisgiordania (note come aree A e B). Circa un quarto (220) sono stati creati dopo l’ottobre 2023; tra febbraio e settembre di quest’anno ne sono stati alle- stiti 28. Un’indagine della Commissione palestinese per la resistenza al muro e agli insediamenti realizzata a settembre ne ha contati 911 totali, di cui ottanta costruiti dall’inizio del 2025. Questa leggera discrepanza indica la grande quantità dei blocchi, la loro diffusione e la facilità con cui sono allestiti, quindi il loro numero a volte dipende dal giorno. Inoltre, ci sono posti di blocco temporanei a sorpresa: i soldati sostano per una o due ore tra i villaggi o all’ingresso di un villaggio, fermando tutte le macchine e controllando il documento d’identità di autisti e passeggeri, a volte anche fotografandoli. La loro posizione varia, ma la pratica è sempre la stessa. Secondo il dipartimento per i negoziati dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina, a settembre sono comparsi 495 checkpoint temporanei e dati simili si erano registrati nei mesi precedenti. Questi vari blocchi stradali delineano i contorni artificiali delle “sacche” territoriali palestinesi A e B, che costituiscono il 40 per cento della Cisgiordania. Allontanano – o escludono del tutto – i palestinesi dalle strade più veloci all’interno della Cisgiordania, usate prevalentemente dagli israeliani. Così per i palestinesi i tragitti in auto diventano più lunghi e a volte il traffico si blocca. L’incertezza è un fattore costante di ogni itinerario. Tirare a indovinare Mentre era in attesa, Lina ha incontrato una giovane paziente oncologica che vive in un villaggio a sud di Nablus. Avrebbe potuto sottoporsi alla chemioterapia all’ospedale dell’università Al Najah, a un quarto d’ora da casa sua, in tempi normali. Tuttavia, dall’ottobre 2023 l’accesso sud alla Route 60 (la superstrada principale) per Nablus è bloccato da quello che è conosciuto come il checkpoint di Hawara. Per lei la strada per Ramallah non è più breve né la più veloce, ma almeno è sicura di arrivare. Il checkpoint di Hawara è noto per essere chiuso, ma ci sono anche cancelli metallici dove i soldati giocano a fare “apri e chiudi”, senza una regola precisa, sicuramente non per i palestinesi. In altre parole, molti possono solo provare a indovinare quale situazione troveranno: i soldati non ci sono e il varco è aperto; i soldati non ci sono ma il varco è chiuso; i soldati ci sono e il varco è chiuso; i soldati ci sono e il varco è aperto, ma fermano e controllano i conducenti con una lentezza che sembra voluta. Tuttavia, a un varco aperto può seguirne uno chiuso, o può esserci un ingorgo stradale creato dal balletto di chiusure e deviazioni forzate attraverso i villaggi su stradine che non sono pensate per il traffico interurbano. “Dille quanti dossi stradali incontri ogni giorno” suggerisce Abu Nihad, un tassista di Ramallah, al suo amico che guida sulla strada per Tulkarem. Invece di prendere la strada Nablus-Anabta, che è bloccata dal checkpoint di Einav, deve destreggiarsi tra le vie sterrate e non asfaltate dei villaggi circostanti. “A volte passo per un checkpoint e il traffico scorre normalmente”, spiega Abu Nihad. “Quando torno indietro, dieci minuti dopo, il cancello è chiuso e devo fare un altro percorso, oppure aspettare mezz’ora prima che riapra”. Abu Nihad considera questi ritardi un’umiliazione. Come molti altri palestinesi ha il sospetto che il vero motivo per creare blocchi a determinati orari sia che i soldati hanno ricevuto l’ordine di tenere le strade libere per i veicoli israeliani, così da ridurre gli ingorghi delle ore di punta al mattino e nel pomeriggio. “Non è solo umiliante”, aggiunge Lina. “Ogni volta che ci mettiamo in macchina – o decidiamo di non farlo – ho la sensazione che ci venga rubato il tempo”. In uno studio recente il Palestine economic policy research institute (Mas) ha calcolato quanto tempo è rubato. Sulla base di un campione di cento veicoli pubblici che passavano quasi tutta la giornata in strada per cinque giorni a settimana nell’ottobre 2023, lo studio ha rilevato che ogni tragitto breve nel distretto di Nablus comportava in media un ritardo di 23 minuti a causa di posti di blocco e sbarramenti. Il dato è stato ottenuto confrontando questi viaggi con quelli dei “giorni normali” (cioè prima della guerra). Il tragitto verso e da Gerico comportava 43 minuti persi, mentre per la tratta da Nablus alla Cisgiordania centrale o meridionale i ritardi si allungavano di circa un’ora. Tuttavia, la portata di questo tempo perso diventa evidente quando si guarda al quadro generale: secondo la stessa ricerca ogni giorno erano perse 191.146 ore lavorative a causa dei checkpoint e dei posti di blocco. Le ore perdute costavano all’economia palestinese circa 764.600 dollari (660mila euro) al giorno, più o meno 16,8 milioni di dollari al mese. Questi costi derivavano non solo dalle attese ma anche dai tentativi di aggirare i blocchi: i conducenti che preferivano cercare tratte alternative spendevano di più in carburante e questa quotidiana spesa supplementare ammontava a circa 19.200 dollari, che sommati diventavano 6 milioni all’anno. Ogni automobilista lo sperimenta in prima persona. Abu Nihad non si prende più la briga di calcolare le sue perdite; conta solo i motivi che le hanno causate. Le persone viaggiano meno; le attese ai posti di blocco fanno sprecare gasolio; sulle strade sterrate gli pneumatici si consumano più velocemente e si usa più carburante; i guasti ai veicoli sono più frequenti. Lina ha saputo dal medico che una delle sue pazienti, che vive a nord di Ramallah, ha smesso di andare in ospedale per le terapie. Quando il medico l’ha chiamata per chiederle spiegazioni, lei ha detto che non poteva permettersi il trasporto pubblico e preferiva risparmiare il poco che aveva per sfamare i figli. Allora lui le ha mandato i soldi per coprire le spese di viaggio per i tre mesi, ma lei li ha dati ai suoi figli. La rinuncia a viaggiare in auto è un fenomeno generale ed è uno dei sintomi della crisi economica in Cisgiordania. Decine di migliaia di famiglie hanno perso la loro fonte primaria di sussistenza quando Israele ha vietato l’ingresso dei lavoratori palestinesi dopo il 7 ottobre 2023. L’Autorità nazionale palestinese (Anp) non è in grado di pagare interamente i salari ai dipendenti pubblici, perché Israele confisca una quota significativa delle entrate del ministero delle finanze dell’Anp ottenute con i dazi sulle importazioni. Gli impiegati lavorano in ufficio solo pochi giorni a settimana, gli insegnanti tengono le lezioni su Zoom due o tre giorni a settimana, quando è possibile. Regole più severe Daliya, un’abitante di Gerusalemme Est che lavora in Cisgiordania, conosce bene i posti di blocco. “È evidente come contribuiscono a frammentare il nostro territorio, ma è difficile spiegare come hanno preso il controllo delle nostre vite”. Agli occhi di un osservatore esterno, ogni blocco è un “non-evento”. “Quando il traffico è congestionato al checkpoint di Qalandiya puoi lamentarti dell’aumento delle auto private e della cultura consumistica, dimenticando che tre corsie convergono in un unico posto di blocco e che questi posti di blocco di fatto separano i palestinesi tra loro”. E offre altri esempi: “Quando il tragitto alternativo comporta una salita ripida, chi sente il cuore degli autisti martellare nei loro veicoli grossi e ansimanti? Quando un varco è chiuso, l’immobilità non si vede: l’insegnante che non arriva in classe, la riunione che si svolge senza alcuni partecipanti. Quando in una strada asfaltata vuota e fatiscente spuntano un’estate dopo l’altra rovi e cardi, non vedi il trattore o il carretto trainato da un asino che un tempo passavano qui per raggiungere gli uliveti o le sorgenti d’acqua. Non vedi la vita che c’era una volta”. Questi non-eventi determinano e invadono la vita quotidiana, non solo nel luogo in cui accadono – cioè sulle strade – ma anche nelle conversazioni di ogni giorno, a scuola, al supermercato, in famiglia; condizionano le decisioni su dove vivere (a nord o a sud di un checkpoint), le spese, i conti in banca e la pressione sanguigna. Questa era la realtà anche sette anni fa, quando i checkpoint e i posti di blocco erano 706, o nel 2023 quando il numero era sceso a 645. Da due anni però la situazione sta peggiorando. Questa realtà porta i palestinesi a trovare nuove definizioni di disperazione. “Quando muore uno di noi, per loro è un sollievo, è un peso in meno”, dice Abu Nihad. “Ma noi siamo reclusi senza essere ufficialmente incarcerati. Io muoio ogni giorno”. Le forme di questa reclusione sono molte, l’unico limite è l’immaginazione di chi stabilisce i blocchi: cubi di cemento o cumuli di terra e pietre in mezzo a una strada, fossati costeggiati da terrapieni; varchi metallici sempre chiusi, o aperti a intermittenza; quelli chiusi e aperti a distanza; quelli che i soldati vengono ad aprire e chiudere con una chiave; i posti di controllo presidiati dai soldati 24 ore su 24 sette giorni su sette e quelli chiusi quando i soldati tornano alla base a mezzogiorno; quelli chiusi a orari fissi, e quelli chiusi al traffico in base a qualche oscura decisione o, come sostengono i palestinesi, “all’umore del soldato di turno”. Il medico di Lina, che arriva dalla zona di Betlemme, passa ogni giorno da quello che viene chiamato il checkpoint Container a Wadi Nar: tutto il traffico palestinese tra il sud e il nord della Cisgiordania passa da lì. Una breve pausa degli agenti della polizia di frontiera per andare in bagno o mangiare un panino è sufficiente a paralizzare il traffico per mezz’ora o più. Di fatto, è sufficiente che la polizia di frontiera chieda a ogni auto di fermarsi per cinque secondi, senza dare neppure un’occhiata al documento di identità del                                                                                                                                    conducente o senza aprire il portabagagli per formare un serpentone di auto dalla cima della collina fino alla vallata, che si muove di cento metri all’ora. In passato capitava che l’esercito israeliano alleggerisse la pressione dopo alcune settimane o mesi di restrizioni più rigide. Oggi la tendenza è imporre politiche più severe. L’Ocha ha constatato che vent’anni fa circa tre quarti dei vari blocchi stradali erano costituiti da cumuli di terra e barriere di cemento, quindi erano temporanei e facilmente rimovibili. Oggi si tende a usare più spesso infrastrutture stabili, il che indica un’istituzionalizzazione dei limiti al movimento. A maggio di quest’anno c’erano 94 checkpoint presidiati dai militari sempre, sette giorni su sette, mentre altri 153 erano sorvegliati per poche ore al giorno. Sui 223 varchi metallici contati dall’Ocha a settembre, 127 erano abitualmente chiusi. Il loro scopo evidentemente non è solo bloccare: sopra ogni struttura ci sono videocamere per il riconoscimento facciale, che registrano anche tutte le targhe. In questo modo, dice Daliya, “ci muoviamo tra una sensazione di claustrofobia in ogni enclave circondata da checkpoint, blocchi, postazioni militari, avamposti e insediamenti e la consapevolezza di essere costantemente sotto sorveglianza”. L’esercito israeliano non ha risposto alla richiesta di Haaretz sul numero di varchi metallici e su chi decide quando chiuderli e aprirli, o ordina ai soldati di fotografare i conducenti palestinesi. Si è anche rifiutato di commentare se i ritardi hanno lo scopo di facilitare il movimento dei cittadini ebrei dagli insediamenti al territorio israeliano vero e proprio.                                                                                                                                                  “Le decisioni sulla creazione dei posti di blocco”, ha detto un portavoce, “così come le loro aperture e chiusure sono prese sulla base di valutazioni operative e per motivi di sicurezza. La loro disposizione serve a consentire il controllo operativo e una difesa efficace dell’intera area. La politica sui posti di blocco cambia a seconda della situazione sul campo, unendo le necessità in materia di sicurezza con la possibilità di viaggiare nell’area”. Nell’ambito delle attività militari, ha concluso, “dispositivi tecnologici sono usati nel rispetto del diritto internazionale per tutelare la sicurezza. L’uso di questi dispositivi ha consentito di sventare decine di attentati                                                                                                                               terroristici, in parte grazie ai posti di blocco.” fdl
29 novembre, Giornata Internazionale di Solidarietà con il Popolo Palestinese: corteo a Firenze e serata al Galluzzo
GIORNATA INTERNAZIONALE DI SOLIDARIETÀ CON IL POPOLO PALESTINESE ore 15: corteo a Firenze con partenza da piazza san Marco e arrivo a piazza Poggi serata presso Casa del Popolo Galluzzo - Firenze (Via Senese angolo Via San Francesco d'Assisi) Ore 19.30: Apericena Ore 21.00: Musica e Poesia per la Palestina Suonano: I Fiati sprecati Recitano: Filippo Frittelli e Tatiana Carcerari, Underwear Theatre Prenotazione Apericena (12 €) entro il 25.11.: tel 3315881417
Pena di morte ed espulsioni, il futuro di Silwan e Cisgiordania
Pena di morte ed espulsioni, il futuro di Silwan e Cisgiordania | il manifesto Michele Giorgio Il Manifesto Terra rimossa Avanza alla Knesset la legge voluta da Itamar Ben Gvir per colpire i «terroristi palestinesi». A Silwan altre famiglie espulse dalle loro case Una manifestazione contro le demolizioni di case a Gerusalemme -Mostafa Gli avvocati erano riusciti a strappare ai giudici israeliani lo slittamento di qualche settimana degli ordini di espulsione di decine di famiglie palestinesi a Silwan, ai piedi della città vecchia di Gerusalemme. Ma due, la Odeh e la Sweiki, domenica hanno già visto occupata e confiscata la loro casa. Un’altra, la Rajabi, ha ricevuto la «visita» della polizia e presto perderà la sua abitazione. L’ombra dei coloni israeliani e della legge israeliana a senso unico grava sempre di più su Silwan e sui rioni di Batn al Hawa e Bustan. Dopo anni di battaglie legali, gli sfratti politici nella zona araba della città occupata da Israele nel 1967 diventano esecutivi con l’impiego di decine di poliziotti. Il clima è cupo e a renderlo più opprimente è il dibattito sulla «pena di morte per i terroristi» (palestinesi), in corso ad appena tre chilometri di distanza da Silwan, alla Knesset, per iniziativa del ministro israeliano della Sicurezza, Itamar Ben Gvir. La legge verrà approvata «rapidamente e senza compromessi» dal parlamento, ha promesso Ben Gvir. Quando sarà approvata in via definitiva, i giudici manderanno davanti al boia coloro che avranno commesso l’omicidio di un israeliano per motivi nazionalistici, quindi solo i palestinesi. «La situazione è pessima, peggiora giorno dopo giorno. Siamo disperati, non sappiamo dove andare e a chi chiedere aiuto» ci dice al telefono Zohair Rajabi, attivista di Batn al Hawa e cugino di Nasser Rajabi, al quale potrebbero portare via la casa nel giro di qualche giorno. «Nasser – racconta Zohair – ha cinque figli, uno dei quali disabile. Gli israeliani gli porteranno via la casa e per lui e la sua famiglia trovare un alloggio sarà impossibile. In città gli affitti sono altissimi per i nostri stipendi molto bassi». La famiglia Rajabi è solo una delle tante a vivere con la paura costante di perdere la propria casa. L’ordine di sfratto stabilisce che dovrà uscire dall’abitazione entro il primo dicembre. Altrimenti sarà cacciata via con la forza. Sullo sfondo di queste sentenze ci sono le organizzazioni dei coloni israeliani. Durante i due anni di offensiva contro Gaza, al riparo dagli obiettivi delle telecamere, i coloni e le autorità israeliane sono riusciti a cambiare ulteriormente il volto di Silwan. Oltre alle evacuazioni di Batn al Hawa, è vicino al completamento lo scavo della via Erodiana e avanza il piano di demolizione del rione Bustan. Questi progetti cambieranno il volto dell’intera Silwan, aumentando il numero dei coloni e rendendo la vita più complicata agli abitanti palestinesi. L’organizzazione israeliana Ateret Cohanim rivendica la proprietà di oltre 5.200 metri quadrati di terreno, sostenendo che appartenevano a ebrei yemeniti fin dal 1881. L’argomento legale si fonda su di un trust istituito nel 1890 per ospitare immigrati ebrei dallo Yemen, abbandonato negli anni Trenta e poi riattivato nel 2001 con il trasferimento del diritto di gestione ad Ateret Cohanim da parte del cosiddetto Custode israeliano delle proprietà degli assenti. Da allora, 87 famiglie palestinesi hanno ricevuto ordini di sgombero, citazioni legali e minacce. Domenica, durante l’irruzione della polizia, Asmahan al-Shweiki, una settantenne, ha avuto un collasso ed è stata portata all’ospedale. La situazione non è diversa nella Cisgiordania occupata. Nel villaggio di Umm al-Khair, a sud di Hebron, gli abitanti attendono l’arrivo dei bulldozer militari israeliani. Quattordici strutture, tra cui il centro comunitario e la serra, saranno demolite. Molti residenti hanno ricostruito le case distrutte decine di volte. Israele parla di «costruzioni illegali». Ma ottenere un permesso di costruzione per i palestinesi è quasi impossibile: secondo l’organizzazione Bimkom, tra il 2016 e il 2021 il 99% delle richieste è stato respinto. I coloni dell’insediamento di Carmel, accanto al villaggio, hanno spesso preso parte ad atti di violenza. All’inizio del 2025, un settler ha ucciso l’attivista Awdah Hathaleen mentre si trovava nel centro destinato ora alla demolizione. Nei villaggi cisgiordani, nel frattempo, non si arrestano gli attacchi dei coloni contro gli uliveti. A Khirbet al-Taban, nella zona di Masafer Yatta, sono stati sradicati circa settanta alberi nelle ultime ore. Tra i 14 palestinesi feriti nel fine settimana a Beita ci sono anche cinque giornalisti picchiati dai coloni. La fotoreporter della Reuters, Ranin Sawafteh, ha subito fratture e contusioni. Dall’ottobre 2023, con l’inizio della guerra a Gaza, la violenza dei coloni e gli spari delle forze israeliane in Cisgiordania e a Gerusalemme Est sono aumentati drasticamente: oltre mille palestinesi sono stati uccisi e migliaia arrestati.
I palestinesi senza futuro in Cisgiordania
Gideon Levy -Haaretz (Internazionale 1638 | 31 ottobre 2025)   A Gaza vengono uccise r costrette alla fuga meno persone rispetto ai mesi scorsi, ma in Cisgiordania le cose vanno avanti come se non ci fosse stato alcun cessate il fuoco   (Il mese di ottobre ha registrato il numero mensile più alto di attacchi da parte dei coloni israeliani contro i palestinesi da quando l'ONU ha iniziato a tenerne traccia nel 2006.ndr) Il muro vicino a Ramallah In Cisgiordania nessuno ha sentito parlare del cessate il fuoco a Gaza: né l’esercito, né i coloni, né l’amministrazione civile, né ovviamente i tre milioni di palestinesi che vivono sotto la loro tirannia. Non percepiscono minimamente la fine della guerra. Da Jenin a Hebron non si vede nessun cessate il fuoco. Per due anni in Cisgiordania c’è stato un regno del terrore oscurato dalla guerra nella Striscia, che ha fatto da pretesto discutibile e da cortina fumogena, e non ci sono segnali che questo regno stia per finire. Tutti i decreti draconiani imposti ai palestinesi il 7 ottobre 2023 restano in vigore, e alcuni sono stati resi ancora più duri. La violenza dei coloni non si ferma, e lo stesso vale per il coinvolgimento dell’esercito e della polizia israeliana negli scontri. A Gaza vengono uccise e costrette alla fuga meno persone rispetto ai mesi scorsi, ma in Cisgiordania le cose vanno avanti come se non ci fosse stato alcun cessate il fuoco. L’amministrazione Trump, così attiva e risoluta a Gaza, chiude gli occhi sulla Cisgiordania e mente a se stessa sulla situazione nella regione. Per loro è sufficiente bloccare l’annessione. “Non succederà perché ho dato la mia parola ai paesi arabi”, ha detto il 23 ottobre il presidente Donald Trump, mentre alle sue spalle Israele fa di tutto per distruggere, derubare e impedire la possibilità di vivere in Cisgiordania. A volte sembra che il capo del comando centrale dell’esercito israeliano Avi Bluth – leale e obbediente al suo superiore, il ministro della finanze Bezalel Smotrich, che è anche nel ministero della difesa – stia conducendo un esperimento in collusione con coloni e forze di polizia: vediamo quanto possiamo tormentarli prima che esplodano. La speranza che la loro sete di violenza si placasse una volta interrotti i bombardamenti a Gaza è stata spazzata via. La guerra nella Striscia era solo una scusa. Nel momento in cui i mezzi d’informazione non parlano della Cisgiordania e alla maggior parte degli israeliani e degli statunitensi non importa niente di quello che succede lì, il tormento può andare avanti. Anzi, il 7 ottobre è stata un’occasione storica per i coloni e i loro collaboratori, che hanno avuto la possibilità di fare quello che per anni non avevano osato fare. Non è più possibile essere palestinesi in Cisgiordania. Non è stata distrutta come Gaza, non sono morte decine di migliaia di persone, ma lì la vita è diventata impossibile. Non sappiamo per quanto tempo Israele potrà stringere ancora la sua morsa senza che avvenga un’esplosione di violenza, stavolta giustificata. Circa duecentomila palestinesi della Cisgiordania che prima lavoravano in Israele da due anni sono disoccupati. I salari di decine di migliaia di dipendenti dell’Autorità nazionale palestinese sono stati ridotti in modo significativo, perché Israele ha trattenuto le tasse che riscuote per conto della stessa Autorità nazionale palestinese. Ovunque ci sono povertà e disagio. E lo stesso vale per i posti di blocco. Non ce ne sono mai stati così tanti, di sicuro non per tutto questo tempo. Adesso se ne contano a centinaia. Ogni insediamento ha recinzioni di ferro che si aprono e chiudono a turno. Non c’è modo di sapere cosa è aperto e cosa è chiuso né, cosa ancora più importante, quando. È tutto arbitrario. Tutto avviene su pressione dei coloni, che hanno assoggettato l’esercito israeliano. Ecco come stanno le cose da quando Bezalel Smotrich è ministro della Cisgiordania. Dal maledetto 7 ottobre sono stati istituiti circa 120 nuovi avamposti di insediamenti, quasi sempre in modo violento, per un totale di decine di migliaia di acri, il tutto con il sostegno dello stato. Non passa settimana senza che sia creato un avamposto. Anche la portata della pulizia etnica, il vero obiettivo dei coloni, è senza precedenti: il 24 ottobre su Haaretz la giornalista Hagar Shefaz ha ricordato che nel corso della guerra a Gaza gli abitanti di ottanta villaggi palestinesi in Cisgiordania sono fuggiti per paura dei coloni che si erano impadroniti dei loro territori. Il volto della Cisgiordania sta cambiando. Trump può vantarsi di aver fermato l’annessione, ma ormai l’annessione è più radicata che mai. Dal centro di comando che l’esercito statunitense ha istituito a Kiryat Gat si può vedere Gaza, ma non si vede Kiryat Arba, l’insediamento alle porte di Hebron. La Cisgiordania sta chiedendo a gran voce un intervento internazionale esattamente come fa la Striscia di Gaza. I soldati, siano essi statunitensi, europei, emiratini o perfino turchi, devono proteggere i suoi abitanti. Qualcuno deve salvarli dalle grinfie dell’esercito israeliano e dei coloni. Immaginate un soldato straniero che a un posto di blocco impedisce il passaggio a coloni teppisti che stanno per commettere un pogrom. Un sogno. GIDEON LEVY è un giornalista del quotidiano israeliano Haaretz, su cui è uscito questo articolo.
Zohran Mamdani e la causa palestinese
Se Mamdani cerca di rassicurare New York City sulla sua disponibilità al dialogo, le sue posizioni su Israele e Palestina non lasciano spazio al compromesso. di Nicholas Fandos Nicholas Fandos ha intervistato molti colleghi politici, professori universitari, compagni di studi e alleati antisionisti di Zohran Mamdani, e ha esaminato i suoi lavori pubblicati all'università e le ricerche accademiche di suo padre. The New York Times, 9 ottobre 2025 Quel magro studente universitario di New York City non rifletteva certo l'immagine tipica di un radicale del campus. Indossava una giacca L.L. Bean e sfoggiava un ampio sorriso, a volte si metteva a rappare per divertire gli amici e scriveva articoli autoironici per il giornale dell'università, in cui esponeva, tra le altre cose, l'etica del ballare in modo provocante sulla pista da ballo. Ma per gli amici e i compagni di classe che hanno conosciuto Zohran Mamdani al Bowdoin College nei primi anni 2010, era evidente l'intensità con cui si dedicava alla causa che aveva scelto: la lotta dei palestinesi contro Israele. In un campus del New England noto più per l'atletica che per l'attivismo, fondò una sezione di Students for Justice in Palestine molto prima che il gruppo diventasse una forza nazionale polarizzante, e guidò una campagna per convincere il Bowdoin ad aderire al boicottaggio accademico dell'“occupazione oppressiva e delle politiche razziste” di Israele. (Il presidente del college disse di no). Era disposto a confrontarsi con prospettive diverse, ma solo fino a un certo punto. Quando nel 2012 una serie di violenze sconvolse il Medio Oriente, i suoi compagni lo convinsero a collaborare a un evento congiunto con J Street U, un gruppo liberale filoisraeliano che sostiene la soluzione dei due Stati. Per loro, quella sessione sembrava un modello promettente per una futura collaborazione. L'evento fu molto partecipato. Tutti sorrisero per una foto. Tuttavia, in seguito Mamdani interruppe in modo educato la collaborazione, secondo quanto riferito dal suo interlocutore di J Street U, Judah Isseroff. Niente di personale, spiegò Mamdani, ma Students for Justice in Palestine seguiva una politica di anti-normalizzazione, il che significava che non avrebbe più collaborato con gruppi che sostengono Israele. “Non è mai diventato un argomento controverso. Essere contrari alla normalizzazione non significava che non pranzassimo più insieme”, afferma Isseroff, che ora insegna pensiero e politica ebraici alla Washington University di St. Louis. “Ma trovavo quella posizione piuttosto controproducente”. Poco più di un decennio dopo, Mamdani, 33 anni, è salito alla ribalta nella politica newyorkese come una cometa, emergendo come candidato democratico e come grande favorito alla carica di sindaco grazie al suo carisma disinvolto e alla sua attenzione alla crisi del caro vita nella città. Ma in una corsa elettorale piena di scontri sul congelamento degli affitti e sulla polizia, le sue convinzioni di lunga data su Israele e Palestina sono state un punto di forza singolare, una forza galvanizzante dietro il suo sostegno iniziale, ma anche una delle sue maggiori vulnerabilità. La piattaforma apertamente filopalestinese di Mamdani sarebbe stata un tempo quasi inimmaginabile per un candidato sindaco di primo piano. Da quando l'attacco di Hamas del 7 ottobre ha fatto precipitare la regione in una guerra totale, Mamdani ha accusato Israele di genocidio, ha promesso di arrestarne il leader e ha dichiarato di non poter sostenere il Paese fintanto che sarà uno Stato ufficialmente ebraico che nega diritti ai palestinesi. Nel secondo anniversario del massacro, questa settimana, il ministero degli Esteri israeliano ha rilasciato un'insolita denuncia, definendolo “un portavoce della propaganda di Hamas” nonostante la sua condanna del massacro compiuto dal gruppo terroristico. Tuttavia, i sondaggi suggeriscono che, con il protrarsi della guerra, i newyorkesi si stanno avvicinando alla posizione di Mamdani, che un tempo era molto lontana dal pensiero dominante. E proprio nel momento in cui Mamdani, socialista democratico, sta cercando di rassicurare i newyorkesi sulla sua disponibilità al compromesso, questo è il tema più importante su cui non ha ceduto. Per capire perché, e come uno dei temi più scottanti della politica globale sia diventato così centrale nella sua ascesa, è necessario guardare oltre l'attuale corsa elettorale e partire dall'ambiente esclusivo in cui l'unico figlio di noti intellettuali ha formato la sua visione del mondo e dal campus dove ha iniziato a metterla in pratica. I genitori di Mamdani, Mira Nair e Mahmood Mamdani, seduti dietro di lui alla sua destra, ospitavano spesso nella loro casa eminenti studiosi palestinesi americani. Crediti: Shuran Huang per il New York Times È una storia che inizia in Uganda e in Sudafrica, dove Mamdani ha imparato per la prima volta a vedere la difficile situazione dei palestinesi nella stessa tradizione di lotta anticoloniale che ha plasmato la famiglia musulmana di suo padre. La storia racconta gli incontri ravvicinati con Edward W. Said e altri importanti pensatori palestinesi americani che erano ospiti frequenti nella casa di famiglia. Questo aiuta a spiegare come Mamdani sia diventato un leader, abbia perso fiducia nella politica democratica tradizionale e si sia unito ai Socialisti Democratici d'America. A un mese dal giorno delle elezioni, nel caso fosse eletto sindaco si potrebbe prefigurare un conflitto essenziale tra le convinzioni e l'istinto di un attivista da una parte, e dall'altra le inesorabili esigenze pratiche di governare una città diversificata di otto milioni di persone. Mamdani ha riconosciuto che molti newyorkesi vedono il conflitto in modo diverso e ha promesso di essere anche il loro sindaco. Ma in un'intervista ha affermato di essere stato colpito fin da giovane dalla “palese incoerenza”, per cui i diritti e gli interessi dei palestinesi vengono messi da parte per giustificare l'alleanza tra Stati Uniti e Israele. “Il valore della politica deriva dalla sua applicazione a tutti, e penso che parte del motivo per cui così tante persone hanno perso fiducia nella politica sia proprio l'assenza di questa coerenza”, ha affermato. “Le persone a cui devo tutto” Pur essendo uno studente elementare precoce che già divorava i libri di Harry Potter, Zohran Mamdani colse di sorpresa suo padre con una richiesta: avrebbe iniziato a leggergli ad alta voce le sue opere accademiche? “Quando fallirono i miei tentativi di spiegargli che il mio tipo di scrittura non era l'ideale per la lettura della buonanotte, cercai delle parti che potessero essere lette a un bambino di 8 anni senza causargli danni”, ricorda il padre del candidato, Mahmood Mamdani, in un libro del 2001. All'epoca, il professor Mamdani stava completando uno studio sul genocidio ruandese. Era tipico dei suoi interessi - l'eredità del potere coloniale e dei coloni, i conflitti lasciati sulla sua scia e il modo in cui le vittime di violente repressioni potevano diventare carnefici - che lo portarono da Kampala, in Uganda, al Sudafrica all'indomani dell'apartheid e, all'inizio del secolo, alla Columbia University di New York. Mamdani ha trascorso i suoi primi anni di vita a Kampala, in Uganda, prima di trasferirsi in Sudafrica e poi a New York. Crediti: Stuart Tibaweswa per il New York Times. L'attenzione sulla giovinezza del signor Mamdani si concentrava soprattutto sulla sua famosa madre, Mira Nair, pluripremiata regista che ha lavorato con Denzel Washington e la Disney. Ma anche il rapporto con suo padre ha contribuito a formare la sua visione del mondo. Sebbene troppo accademico per conquistare un seguito davvero popolare, il professor Mamdani faceva parte di un gruppo di storici e teorici, molti dei quali concentrati alla Columbia, il cui lavoro ha ridefinito il modo in cui alcuni occidentali, specialmente quelli di sinistra, percepiscono la razza, il colonialismo e la violenza di Stato. I suoi colleghi erano figure fisse nella vita familiare che ruotava attorno all'appartamento della facoltà in Riverside Drive a Morningside Heights. Il signor Said era il più importante sostenitore dell'indipendenza palestinese negli Stati Uniti prima della sua morte nel 2003. Anche Rashid e Mona Khalidi, eminenti accademici palestinesi americani, erano amici intimi della famiglia. “Era sicuramente un contesto in cui i ragazzi di terza, quarta e quinta superiore partecipavano alle conversazioni tanto quanto gli adulti”, ha detto un altro collega della Columbia, Timothy Mitchell. Mamdani ha sempre espresso chiaramente la sua forte identificazione con i genitori. “Sono persone a cui devo tutto, non solo la persona che sono, ma anche i pensieri che ho”, ha detto nel 2020. Nell'intervista della scorsa settimana, ha affermato che gli ci è voluto del tempo per comprendere appieno che anche le figure familiari della sua infanzia erano figure politiche. “Parte della mia crescita è stata capire chi c'era a quel tavolo anni fa”, ha affermato. Alcuni messaggi, tuttavia, sono riusciti a passare. Il professor Mamdani ha raccontato che il primo lavoro che ha condiviso con suo figlio includeva alcuni brani tratti dal suo libro più personale, “From Citizen to Refugee” (Da cittadino a rifugiato). Si trattava di un resoconto di come gli indiani, come la sua famiglia, fossero arrivati in Africa orientale sotto il colonialismo britannico e, anni dopo, negli anni '70, fossero stati espulsi dall'Uganda sotto la minaccia del dittatore militare Idi Amin. (Il signor Mamdani descriveva anche il suo stretto legame con il nonno, che secondo lui era diventato “l'ombra” di se stesso dopo lo sfollamento). All'inizio degli anni 2000, la Seconda Intifada, una rivolta dei palestinesi durata anni che includeva attentati suicidi da parte di militanti e attacchi di rappresaglia da parte dell'esercito israeliano, servì a rinnovare l'interesse internazionale per la causa palestinese, e i Mamdani non rimasero in disparte. Nel 2002, il professor Mamdani firmò una petizione del corpo docente che chiedeva alla Columbia di disinvestire il proprio fondo dalle aziende che vendevano armi a Israele. (Decenni dopo, nel mezzo di un'ondata nazionale di proteste contro la guerra a Gaza nella primavera del 2024, ha guidato un seminario per gli studenti della Columbia che avevano allestito un accampamento per chiedere il disinvestimento). Nel 2013, la signora Nair ha pubblicamente rifiutato un invito all'Haifa International Film Festival in segno di protesta, paragonando direttamente la situazione locale al Sudafrica sotto l'apartheid. “Andrò in Israele quando cadranno i muri”, scrisse. “Andrò in Israele quando l'occupazione sarà finita”. Quando Mamdani era adolescente, suo padre aveva iniziato ad approfondire il conflitto nel suo lavoro accademico.   Mahmood Mamdani, professore alla Columbia University, ha partecipato a iniziative volte a esercitare pressioni sull'università affinché disinvestisse dai fornitori militari israeliani. Crediti: Bing Guan per il New York Times Il libro che ne è scaturito, “Neither Settler Nor Native” (Né coloni né nativi), è uno studio comparativo che ripercorre la creazione dei moderni Stati nazionali, il potere coloniale e il mondo moderno. Propone una visione di Israele che si discosta decisamente da quella data dai governi israeliano e americano. Il professor Mamdani scrive che il conflitto in Israele, che risale all'inizio del XX secolo, non è principalmente uno scontro “tra ebrei e coloro che li odiano”, ma piuttosto “tra coloni e la comunità che hanno espropriato”. Secondo la sua ricostruzione, i sionisti – sostenitori della creazione di uno Stato esplicitamente ebraico – sono passati dall'essere vittime dell'Olocausto a diventare essi stessi oppressori, appropriandosi della terra palestinese e creando un sistema giuridico che ha reso i palestinesi cittadini di seconda classe. I critici del suo lavoro hanno sostenuto che qualsiasi quadro coloniale applicato al Medio Oriente dipinge ingiustamente un gruppo di rifugiati ebrei come attori malevoli, ignorando la lunga storia della vita ebraica nella regione e minimizzando l'ostilità degli arabi nei loro confronti. Nel suo libro e nei suoi discorsi, il professor Mamdani ha invocato la creazione di un unico Stato democratico laico nella regione, sul modello del Sudafrica, dove ha insegnato all'indomani dell'apartheid. Alcuni difensori di Israele sostengono che ciò renderebbe gli ebrei della regione vulnerabili alla violenza; il professor Mamdani sostiene che una soluzione politica sia l'unica via d'uscita. “La sfida palestinese è quella di persuadere la popolazione ebraica di Israele e del mondo che, proprio come in Sudafrica, la sicurezza a lungo termine di una patria ebraica nella Palestina storica richiede lo smantellamento dello Stato ebraico”, ha affermato in un discorso del 2014. Mamdani ha dichiarato di aver letto solo “alcune parti” del libro di suo padre sull'argomento e di aver attinto ad altre fonti. Ma ci sono evidenti parallelismi tra il pensiero di suo padre e la sua visione sul conflitto. “Non mi sento a mio agio nel sostenere uno Stato che ha una gerarchia di cittadinanza basata sulla religione o su qualsiasi altra cosa”, ha affermato Mamdani in un'intervista televisiva a giugno. Ha anche tratto ispirazione da Nelson Mandela, che è diventato uno dei principali sostenitori della causa palestinese. Nell'intervista della scorsa settimana ha affermato di ricordare “il modo in cui parlava della Palestina in senso universale come una bussola per me”. “Un polemista dilettante” Per Mamdani, che aveva trascorso la sua infanzia a New York, in Africa e sui set cinematografici più remoti, il primo anno al Bowdoin, nel gelido campus prevalentemente bianco del Maine, fu un brusco cambiamento. Con una retta annuale di quasi 60.000 dollari, il college era considerato una delle migliori scuole di arti liberali della nazione, ma era anche noto per la sua cucina gourmet e per una cultura sportiva così dominante che i non atleti si definivano NARP, ovvero Non-Athletic Regular Persons (persone normali non atletiche). Mamdani si dedicò anima e corpo alla vita del campus. Recitò in uno spettacolo teatrale e entrò a far parte della redazione del giornale studentesco, The Bowdoin Orient. In un articolo raccontò di quando fu sorpreso mentre rubava un tavolo per giocare a "beer pong" nella sua stanza.  “Ma non la versione alcolica del gioco, perché sarebbe contro le regole, quindi giochiamo con l'acqua”, scrisse. “È altrettanto divertente e ci idrata il doppio”. Amici e professori hanno raccontato che Zohran Mamdani non parlava quasi mai del lavoro dei suoi genitori. Ma quando tornò per il suo terzo anno, dopo un intenso programma estivo di lingua araba e un viaggio con suo padre e suo zio in Africa orientale, mostrò un nuovo rigore e una nuova direzione che lo avrebbero avvicinato al loro lavoro. Cambiò la sua specializzazione da scienze politiche a studi africani, un programma interdisciplinare che combina le scienze sociali e le discipline umanistiche. Era attratto dal lavoro di Frantz Fanon, uno psichiatra e teorico i cui scritti provocatori sul colonialismo e sul ciclo di violenza che esso scatena hanno dato vita a generazioni di lotte intellettuali. Mamdani inizialmente si buttò capofitto nella vita universitaria al Bowdoin College nel Maine, per poi diventare più attivo politicamente dopo il secondo anno. Crediti: Sarah Rice per il New York Times “Poneva costantemente domande e voleva approfondire argomenti legati alla giustizia”, afferma Brian Purnell, il professore che ha supervisionato il progetto finale di Mamdani, che collegava la teoria del contratto sociale del filosofo illuminista Jean-Jacques Rousseau con Fanon. Purnell ha dichiarato al Free Press in una precedente intervista di aver discusso con Mamdani anche della “necessità della violenza nella lotta anticoloniale” nel contesto israelo-palestinese. Ha rifiutato di approfondire l'argomento con il Times, limitandosi a dire che si è trattato di “una discussione accademica approfondita tra uno studente e un insegnante”. Al di fuori dell'aula, Mamdani si impegnava sempre più nell'attivismo. Ma invece di unirsi a un gruppo più ampio di studenti che si organizzavano per disinvestire le risorse della scuola dalle compagnie di combustibili fossili, Mamdani si è posto un obiettivo più ambizioso: cercare di sensibilizzare l'opinione pubblica sulle condizioni dei palestinesi a Gaza e in Cisgiordania, mentre Israele consolidava il proprio potere nella regione. “In un certo senso, dato che Bowdoin era molto conservatrice, ricca e WASP (protestante bianco anglosassone), aveva senso fare quel tipo di attivismo perché la gente non ne sapeva nulla”, ha detto Sinead Lamel, una membra ebrea di Students for Justice in Palestine. Isseroff, leader della J Street U, ha affermato di aver trovato l'impegno di Mamdani sincero anche dopo che i loro gruppi avevano smesso di collaborare. I due studenti, insieme ad alcuni altri, si incontravano talvolta per discutere del conflitto durante la pausa pranzo. (Il signor Mamdani non ha contestato il resoconto della breve collaborazione con il gruppo del signor Isseroff, ma ha affermato di non ricordare l'episodio). “Eravamo un gruppo di studenti universitari un po' precoci e un po' seri, quindi recitavamo i ruoli che volevamo”, ha detto Isseroff. “Era normale essere polemisti dilettanti”. L'attivismo di Mamdani raggiunse il culmine durante il suo ultimo anno, quando Students for Justice in Palestine lanciò la sua campagna per convincere Bowdoin ad aderire al boicottaggio delle istituzioni accademiche israeliane. Mamdani, che nelle foto appare con un adesivo “End Israeli Apartheid” sul suo laptop e a volte indossa una kefiah, ha scritto che le istituzioni “sono complici sia attivamente che passivamente dei crimini commessi dall'esercito israeliano e dal governo israeliano in tutte le sue forme coloniali”. In qualità di leader dell'associazione Bowdoin Students for Justice in Palestine, Mamdani, ritratto in una foto pubblicata sulla pagina Facebook del gruppo, ha esercitato pressioni sul college affinché boicottasse le istituzioni accademiche israeliane. Crediti: Bowdoin Students for Justice in Palestine L'obiettivo era quello di cambiare le condizioni non solo nel campus, ma anche negli Stati Uniti, che Mamdani ha definito “il principale complice dell'occupazione israeliana della Palestina”. “Sta diventando una questione di grande rilevanza”, dichiarò in una intervista approfondita rilasciata a una stazione radio pubblica locale. “Non si può più essere progressisti su tutto tranne che sulla Palestina”. L'iniziativa faceva parte di un più ampio movimento di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni. Ispirato alle campagne di disinvestimento contro l'apartheid sudafricano, mirava a esercitare pressioni internazionali su Israele affinché ponesse fine all'occupazione dei territori conquistati nel 1967, garantisse ai palestinesi la “piena uguaglianza” e assicurasse il diritto al ritorno dei palestinesi sfollati durante le guerre che hanno portato alla fondazione di Israele. (I critici del BDS sostengono che isolare Israele nel tentativo di delegittimare l'unico Stato ebraico al mondo sia antisemita). La campagna fallì. Il presidente della Bowdoin, Barry Mills, respinse il boicottaggio accademico, affermando che avrebbe portato a “soffocare la discussione e il libero scambio di idee”. Per Mamdani, tuttavia, fu una lezione formativa sul potere dell'organizzazione, che avrebbe presto portato su un palcoscenico molto più grande. “Sono passato dal discutere su Facebook e dal lungo scambio di opinioni con gli amici sull'argomento, senza mai fare progressi”, ha poi raccontato a The Orient, “alla consapevolezza che un gruppo attivo di sole 10 persone può cambiare totalmente il discorso in un campus”. Un attivista e un legislatore attivista Nel 2015, un anno dopo la laurea, un articolo apparso sul Village Voice attirò l'attenzione di Mamdani. Riguardava un avvocato pakistano-americano, Ali Najmi, candidato a diventare il primo musulmano nel Consiglio comunale. Casualmente, Najmi aveva il sostegno di un rapper che Mamdani apprezzava, Heems. Mamdani viveva a casa e lavorava a uno dei film di sua madre, “Queen of Katwe”. Aveva tempo libero, così si ritrovò nella periferia del Queens dopo un viaggio di quasi due ore da Manhattan. Najmi ricorda che Mamdani si presentò con un grande sorriso, “una camicia eclettica” e nessuna esperienza reale. Bussarono insieme alle porte per due ore. “Era come una spugna”, dice Najmi. “Continuava a tornare e io non lo lasciavo andare”. La campagna si concluse con una sconfitta, ma qualcosa era scattato in entrambi.   Mamdani ha lavorato alla campagna elettorale fallita di Ali Najmi, al centro, per il Consiglio comunale. Najmi ha visto il potenziale di Mamdani, definendolo un “Ronald Reagan socialista musulmano”. Crediti: Kirsten Luce per il New York Times Mamdani vide il potenziale per costruire una politica su scala cittadina del tipo a cui pensava fin da giovane: spudoratamente progressista, favorevole ai musulmani e filopalestinese. Negli anni successivi, ha affermato, il suo interesse per il BDS lo ha portato a unirsi ai Socialisti Democratici d'America. Si è candidato come propagandista in una serie di campagne primarie progressiste, dove ha anche iniziato a sviluppare una serie più ampia di priorità in materia di politica abitativa e trasporti. Nello stesso periodo, Najmi lo reclutò per entrare a far parte di un nuovo club politico, il Muslim Democratic Club of New York, che cercava di costruire un potere politico per una delle popolazioni in più rapida crescita della città. “Conoscevamo il potenziale di Zohran”, ha detto Najmi, definendolo un potenziale “Ronald Reagan socialista musulmano”. “Lo abbiamo incoraggiato”. Tuttavia, anche alcuni dei suoi primi sostenitori rimasero sorpresi quando Mamdani insistette per incorporare la questione palestinese nella piattaforma politica locale. In una città che da tempo si vantava della sua amicizia speciale con Israele, dove i funzionari neoeletti partecipavano regolarmente a viaggi di "istruzione" spesati in quel paese, la maggior parte dei democratici – anche molti dei musulmani – considerava troppo rischioso criticare Israele in modo troppo severo. Beth Miller, direttrice politica di Jewish Voice for Peace Action, un gruppo ebraico antisionista, ricorda la sua reazione quando Mamdani incluse la causa palestinese insieme ad altre priorità locali in un evento organizzato in occasione della sua prima candidatura al Parlamento dello Stato di New York. “Ricordo di aver pensato: ‘Non è una cosa che si sente dire da molti candidati’ ”. Dopo la sua elezione nel Parlamento nel 2020, Mamdani si è rapidamente guadagnato la reputazione di legislatore attivista rispettoso ma spietato, caratteristiche che avevA affinato al Bowdoin. Ha lavorato principalmente all'interno del sistema, ma ha compreso il potere del simbolismo e della retorica per spostare il dibattito, e questo gli ha fatto guadagnare un seguito più ampio rispetto a quello tipico di un legislatore statale al primo mandato. “Riterremo ogni singola persona che detiene il potere in questa città, in questo Stato e in questo Paese responsabile della sua incomprensibile fedeltà allo Stato israeliano”, dichiarò. Durante una manifestazione di Jewish Voice for Peace tenutasi più o meno nello stesso periodo fuori dalla casa di Brooklyn del senatore Chuck Schumer, il leader ebreo più importante del Paese, ha definito il Parlamento “un bastione del pensiero sionista” e ha lamentato il fatto di avere colleghi che non riuscivano a capire “che leggi separate per persone separate non vanno bene in questo Paese né in nessun altro Paese”. (Schumer e Mamdani hanno poi collaborato a un piano per alleggerire il peso del debito per i tassisti e gli autisti di veicoli a noleggio). Quando Mamdani ha presentato una legge statale che minacciava di revocare l'esenzione fiscale alle organizzazioni no profit di New York se i loro fondi fossero stati utilizzati per sostenere l'attività militare e di insediamento di Israele, alcuni gruppi ebraici hanno definito il disegno di legge antisemita. Lui non si è lasciato persuadere. Shahana Hanif, che nel 2021 è diventata la prima donna musulmana eletta al Consiglio comunale, ha raccontato di essersi seduta a un tavolo con Mamdani quando stava pensando per la prima volta di candidarsi alle elezioni. “Ricordo molto chiaramente che disse: ‘La questione su cui non scendo a compromessi è la Palestina’”. Shahana Hanif, la prima donna musulmana eletta al Consiglio comunale di New York, ha ricordato come Mamdani affermò che la sua opposizione al trattamento riservato da Israele ai palestinesi non era negoziabile. Crediti... Shuran Huang per il New York Times La posta in gioco è cambiata notevolmente dopo il 7 ottobre 2023. Molti democratici inizialmente pensavano che gli eventi avrebbero smorzato il crescente sentimento anti-israeliano della sinistra e danneggiato politici come Mamdani. La sua dichiarazione il giorno dopo gli attacchi suscitò aspre condanne da parte di alcuni colleghi ebrei e di altri democratici per non aver fatto alcun riferimento a Hamas o alle persone prese in ostaggio. Mamdani ha scritto che avrebbe pianto le vittime “in Israele e Palestina”, ma ha continuato a lamentare la dichiarazione di guerra di Israele e a chiedere “la fine dell'occupazione e lo smantellamento dell'apartheid”. (Mamdani ha denunciato Hamas e ha definito il suo attacco un crimine di guerra). Mamdani si è poi recato a Washington nel mese di novembre per partecipare a uno sciopero della fame davanti alla Casa Bianca, al fine di ottenere sostegno per un cessate il fuoco. Anche questo gesto ha suscitato critiche. Ma la signora Hanif ha affermato che lei e i musulmani newyorkesi hanno visto qualcosa di diverso: un gesto potente che avrebbe presto aumentato la visibilità di Mamdani tra una cerchia molto più ampia di newyorkesi: “La nostra comunità ha visto per la prima volta un funzionario eletto parlare apertamente di genocidio e schierarsi a favore di un cessate il fuoco bilaterale permanente e si è chiesta: dove sono gli altri nostri leader?”. Emma Goldberg ha contribuito alla stesura dell'articolo. Susan C. Beachy ha contribuito alla ricerca. Audio prodotto da Adrienne Hurst. Nicholas Fandos è un giornalista del Times che si occupa di politica e governo di New York.    Traduzione a cura dell'Associazione di Amicizia Italo-Palestinese Onlus, Firenze
I nomi dei 95 medici ed operatori sanitari palestinesi tenuti in ostaggio da Israele
Israele continua a detenere 80 medici e operatori sanitari palestinesi provenienti da Gaza e 15 dalla Cisgiordania occupata. di Hanna Duggal e Mohammed Haddad Al Jazeera, 22 ottobre 2025 Sempre più medici e operatori sanitari si stanno mobilitando e chiedono un intervento per ottenere il rilascio del dottor Hussam Abu Safia e di almeno altri 94 medici palestinesi attualmente tenuti in ostaggio dalle autorità israeliane. Lunedì, in un evento organizzato da Healthcare Workers Watch (HWW) e Amnesty International UK, medici e operatori sanitari hanno protestato davanti al St Thomas' Hospital nel centro di Londra, chiedendo il rilascio immediato e incondizionato di tutti gli operatori sanitari attualmente detenuti, in condizioni spaventose, in Israele. La protesta arriva pochi giorni dopo che un tribunale israeliano ha prorogato la detenzione arbitraria di Abu Safia per altri sei mesi in base alla legge sui combattenti illegali, legge ampiamente condannata nel mondo. Healthcare Workers Watch (HWW), Amnesty International UK, medici e operatori sanitari protestano davanti al St Thomas' Hospital nel centro di Londra il 20 ottobre [Immagine per gentile concessione di Healthcare Workers Watch] Altri cinque operatori sanitari sono morti o sono stati uccisi mentre erano detenuti da Israele, e altri cinque sono dispersi, senza che si conosca la loro sorte. Secondo il Ministero della Salute palestinese, almeno 1.722 operatori sanitari sono stati uccisi negli attacchi israeliani negli ultimi due anni. Secondo HWW, la maggior parte degli operatori sanitari è stata rapita dall'esercito israeliano dai loro ospedali o dalle loro ambulanze mentre erano in servizio. Le testimonianze raccolte da HWW e da altre organizzazioni documentano le torture e gli abusi subiti dai palestinesi durante la detenzione israeliana. La dottoressa Rebecca Inglis, di HWW, afferma: “La detenzione continuata da parte di Israele di quasi un centinaio di operatori sanitari è in chiara violazione del diritto internazionale umanitario. Siamo gravemente preoccupati per il loro benessere, date le numerose prove che dimostrano che i detenuti palestinesi vengono torturati durante la detenzione israeliana”. Chi è il dottor Hussam Abu Safia? Abu Safia, direttore dell'ospedale Kamal Adwan nel nord di Gaza, è stato rapito dalle forze israeliane il 27 dicembre 2024, dopo che le truppe hanno fatto irruzione nell'ospedale, che all'epoca era una delle ultime strutture mediche funzionanti nella regione. Amnesty International afferma che il direttore dell'ospedale è detenuto senza accuse né processo in base a una legge israeliana sulla sicurezza. Nonostante i bombardamenti incessanti e la tragica morte di suo figlio in un attacco aereo israeliano, Abu Safia è rimasto in servizio, curando i pazienti e guidando la sua équipe in condizioni inimmaginabili. Dal momento del suo arresto, sono emerse testimonianze attendibili di torture, abusi fisici e trattamenti degradanti, tra cui una significativa perdita di peso e il rifiuto di cure mediche adeguate, igiene e accesso tempestivo a un avvocato, in chiara violazione del diritto internazionale. L'attacco sistematico di Israele alle infrastrutture sanitarie di Gaza Almeno il 94% degli ospedali di Gaza è stato danneggiato o distrutto e molti non sono più operativi. Inoltre, medici e operatori sanitari qualificati sono stati uccisi e questo, insieme alla detenzione di operatori sanitari (la maggior parte dei quali è stata rapita mentre lavorava negli ospedali e nelle strutture sanitarie) ha aumentato l'enorme pressione sul già vulnerabile sistema sanitario di Gaza. Tra il 7 ottobre 2023 e il 20 ottobre 2025, HWW ha documentato un totale di 431 casi di operatori sanitari palestinesi detenuti. Al 20 ottobre 2025: * 309 dei 431 operatori sanitari detenuti sono stati rilasciati; di questi, 67 sono stati rilasciati nell'ambito dell'ultimo accordo di scambio del 13 ottobre * Cinque operatori sanitari sono ancora dispersi (tre medici senior, un farmacista dell'UNRWA e un fisioterapista senior) * Cinque operatori sanitari sarebbero stati uccisi o sarebbero morti durante la detenzione israeliana, ma i loro corpi non sono stati restituiti alle famiglie. HWW ha dichiarato di non aver ancora ricevuto aggiornamenti dalle famiglie di 22 operatori sanitari detenuti, che non sono inclusi nelle cifre relative ai “detenuti confermati” o ai “rilasciati confermati”. Chi sono gli altri operatori sanitari in ostaggio? Gli operatori sanitari ancora in ostaggio di Israele hanno trascorso in media 511 giorni in carcere, alcuni di loro sono prigionieri sin dalle prime settimane di guerra. Dei 95 detenuti, 80 provengono da Gaza, mentre i restanti 15 dalla Cisgiordania occupata. Solo a Gaza sono stati arrestati 31 infermieri, seguiti da 17 medici, 15 membri del personale di supporto e di gestione ospedaliera, 14 paramedici, due farmacisti e un tecnico medico. Venticinque ricoprivano posizioni di alto livello, 50 occupavano posizioni di medio livello, mentre cinque erano operatori sanitari junior. Tutti sono uomini, con una eccezione. La maggior parte degli operatori sanitari viveva nel nord di Gaza, da dove provengono 36 dei prigionieri, seguiti da 24 di Khan Younis, 18 della città di Gaza e 3 di Rafah. La tabella sottostante riporta i nomi e ulteriori informazioni sui 95 operatori sanitari ancora tenuti in ostaggio da Israele.     Stato Nome Età Titolo Ospedale Città/Governatorato Durata 1 Detenuto Dr Akram Hassan Mohammed Abu-Odeh 61 Chirurgo Ortopedico e Primario di Ortopedia Ospedale Indonesiano Gaza nord In detenzione da 698 giorni 2 Detenuto Dr Sulieman Zuhdi Sulieman Abu-Shareea 37 Medico Generico Volontario Centro ambulanze di Jabalia della Mezzaluna Rossa Palestinese Gaza nord In detenzione da 670 giorni 3 Detenuto Dr Ahmed Ibrahim Hassan Mousa 43 Specialista di Chirurgia Generale Centro Medico Nasser Khan Younis In detenzione da 612 giorni 4 Detenuto Dr Ghassan Ihmaidan Musallam Abu-Zuhri 52 Responsabile Chirurgia Ortopedica Centro Medico Nasser Khan Younis In detenzione da 612 giorni 5 Detenuto Dr Nahed Zaki Ismail Abu-Taima 49 Responsabile Chirurgia Centro Medico Nasser Khan Younis In detenzione da 612 giorni 6 Detenuto Dr Mosab Fakhry Atia Samaan 28 Medico specializzando Centro Medico Nasser Khan Younis In detenzione da 612 giorni 7 Detenuto Dr Hamza Mohammed Hussien Abu-Sabha 31 Medico specializzando Centro Medico Nasser Khan Younis In detenzione da 612 giorni 8 Detenuto Dr Raed Yaqoub Salam Mahdi 52 Pediatra Ospedale Pediatrico al-Durra Gaza City In detenzione da 682 giorni 9 Detenuto Dr Khalid Abdul-Aziz Abdallah Seiyam 30 Specializzando in Chirurgia Generale Ospedale al-Shifa Gaza City In detenzione da 580 giorni 10 Detenuto Dr Murad Waleed Murad al-Qouqa 47 Chirurgo Ortopedico e primario di Ortopedia Ospedale al-Shifa Gaza City In detenzione da 580 giorni 11 Detenuto Dr Mahmoud Ahmed Khalil al-Hallaq 37 Specializzando di Medicina intensiva Centro Medico Nasser Khan Younis In detenzione da 612 giorni 12 Detenuto Dr Ahmed Mahmoud Mohammed Shehada 52 Specialista in cardiologia Centro Medico Nasser Khan Younis In detenzione da 627 giorni 13 Detenuto Dr Mohammed Hassan Ali Obaid 42 Chirurgo Ortopedico e primario di Ortopedia al-Awda Ospedale Gaza nord In detenzione da 359 giorni 14 Detenuto Dr Hassan Khalil Hassan al-Moqayyed 53 Chirurgo Vascolare Ospedale Kamal Adwan Gaza nord In detenzione da 359 giorni 15 Detenuto Dr Medhat Asaad Mahmoud Abu-Tabanja 45 Primario del Dipartimento di Terapia intensiva Ospedale Indonesiano Gaza nord In detenzione da 697 giorni 16 Detenuto Dr Hussam Idrees Amer Abu Safiya 52 Pediatra e primario facente funzione Ospedale Kamal Adwan Gaza nord In detenzione da 297 giorni 17 Detenuto Dr Marwan Shafeeq Ali al-Hams 53 Anestesista e direttore di ospedali da campo Palestinian Ministero della Salute Gaza Strip In detenzione da 91 giorni 18 Detenuto Dr Ahmed Mohammed Hassan Al-Kahlout (PhD) 53 Direttore Generale Ospedale Kamal Adwan Gaza nord In detenzione da 678 giorni 19 Detenuto Anas Abdulkareem Mohammed al-Shaikh 40 Responsabile dell'Unità di Controllo Infezioni Ospedale Indonesiano Gaza nord In detenzione da 580 giorni 20 Detenuto Rawhi Fayez Mohammed Al-Labban 38 Capo Infermiere al Dipartimento di Ortopedia Ospedale al-Shifa Gaza City In detenzione da 580 giorni 21 Detenuto Mahmoud Mohammed Awad Al-Shaweesh Lubbad 43 Capo Infermiere Ospedale Kamal Adwan Gaza nord In detenzione da 359 giorni 22 Detenuto Moayad Ismail Darwish Al-Ron 43 Capo dell'Unità di Controllo Infezioni e Cure Palliative e delle Infermiere della Riabilatazione Ospedale Indonesiano Gaza nord In detenzione da 297 giorni 23 Detenuto Mohammed Adham Abdullah Matar 24 Infermiere volontario Ministero della Salute Palestinese Gaza City In detenzione da 634 giorni 24 Detenuto Hamza Mansour Abdulkareem Nayfa 28 Infermiere Ospedale Kamal Adwan Gaza nord In detenzione da 359 giorni 25 Detenuto Hossam Waleed Abdulhameed Daher 28 Infermiere volontario Ospedale Kamal Adwan Gaza nord In detenzione da 359 giorni 26 Detenuto Ahmed Ramadan Hassan Abu-Riala 29 Infermiere Terapia Intensiva Ospedale al-Shifa Gaza City In detenzione da 701 giorni 27 Detenuto Ahmed Amin Mohammed Abdelhadi 27 Infermiere Centro Medico Nasser Khan Younis In detenzione da 612 giorni 28 Detenuto Rami Hasan Abdulqader Al-Kurdi 34 Infermiere volontario Ospedale al-Shifa Gaza City In detenzione da 580 giorni 29 Detenuto Azzam Khalid Motleq Eissa 34 Infermiere volontario Ospedale al-Shifa Gaza City In detenzione da 580 giorni 30 Detenuto Ezz-Elddin Moustafa Hussein Al-Zaanin 27 Infermiere volontario Ospedale al-Shifa Gaza City In detenzione da 580 giorni 31 Detenuto Majed Jamal Roubin Al-Jaish 26 Infermiere volontario Ospedale al-Shifa Gaza City In detenzione da 580 giorni 32 Detenuto Louai Majed Darwish Harara 36 Infermiere volontario Ospedale al-Shifa Gaza City In detenzione da 580 giorni 33 Detenuto Fayez Zaghloul Abdulrahman Abu-Anza 42 Infermiere di Pronto Soccorso Centro Medico Nasser Khan Younis In detenzione da 612 giorni 34 Detenuto Ahmed Abdulrahman Salem Sadeq 26 Infermiere Centro Medico Nasser Khan Younis In detenzione da 612 giorni 35 Detenuto Mohammed Abdulrahim Shaaban Al-Arbeed 34 Infermiere Ospedale al-Shifa Gaza City In detenzione da 626 giorni 36 Detenuto Ahmed Mousa Ismail Mousa 34 Infermiere Centro Medico Nasser Khan Younis In detenzione da 633 giorni 37 Detenuto Hatem Hussien Ibrahim Al-Jamal 48 Infermiere Ospedale Kamal Adwan Gaza nord In detenzione da 359 giorni 38 Detenuto Moataz Nabeel Nathmi Nassar 37 Infermiere Ospedale Kamal Adwan Gaza nord In detenzione da 359 giorni 39 Detenuto Al-Hassan Nabeel Nathmi Nassar 34 Infermiere Ospedale Kamal Adwan Gaza nord In detenzione da 359 giorni 40 Detenuto Anwar Muneer Anwar Al-Shorbaji 24 Infermiere Ospedale Kamal Adwan Gaza nord 41 Detenuto Zakariya Moneer Kamel Al-Draimli 38 Infermiere Servizi Medici Militari Gaza nord In detenzione da 297 giorni 42 Detenuto Hussien Mostafa Hussien Al-Zaaneen 43 Infermiere Ckinica Beit Hanoon Gaza nord In detenzione da 316 giorni 43 Detenuto Ameer Khalil Mohammed Shehada 36 Infermiere Ministero della Salute Gaza City In detenzione da 357 giorni 44 Detenuto Ahmed Atef Hassan Shaheen 30 Infermiere Ospedale Indonesiano Gaza nord In detenzione da 699 giorni 45 Detenuto Ibrahim Wajeeh Ismail Al-Ayoubi 35 Infermiere Ospedale Kamal Adwan Gaza nord In detenzione da 359 giorni 46 Detenuto Saleh Hashem Hassan Abu-Al-Aish 33 Infermiere Ospedale Kamal Adwan Gaza nord In detenzione da 359 giorni 47 Detenuto Moayyad Mounir Fahmi Al-Masri 36 Infermiere all'Unità di Controllo Infettivo Ministero della Salute Gaza City In detenzione da 359 giorni 48 Detenuta Tasneem Marwan Shafeeq Al-Hams 23 Infermiere al Punto Medico MoH campo per sfollati Al-Ard al-Tayba Khan Younis In detenzione da 18 giorni 49 Detenuto Anees Al-Dunia Abdulhamid Al-Astal 46 Responsabile del Dipartimento Paramedici area sud Ministero della Salute Khan Younis In detenzione da 688 giorni 50 Detenuto Mohammed Bassam Ahmed Al-Nahhal 32 Paramedico Ospedale Abu Youssef al-Najjar Rafah 51 Detenuto Tamer Mahmoud Hussien Abu-Shahin 48 Paramedico Ospedale Al-Amal Mezzaluna Rossa Palestinese Khan Younis In detenzione da 623 giorni 52 Detenuto Abdulaziz Moustafa Salman Kali 39 Paramedico Servizi Medici Militari Gaza nord In detenzione da 297 giorni 53 Detenuto Mohammed Bassam Ismail Al-Qedra 34 Paramedico Centro Medico Nasser Khan Younis In detenzione da 612 giorni 54 Detenuto Waleed Hammad Saleh Abu-Haddaf 34 Paramedico Centro Medico Nasser Khan Younis In detenzione da 612 giorni 55 Detenuto Ahmed Mohammed Adel Abu-Draz 40 Paramedico Centro Medico Nasser Khan Younis In detenzione da 612 giorni 56 Detenuto Wesam Essam Abu-Nada 37 Paramedico Ospedale Kamal Adwan Gaza nord In detenzione da 359 giorni 57 Detenuto Abdullah Abdulhafez Abdullah Awkal 45 Paramedico Ospedale Kamal Adwan Gaza nord In detenzione da 359 giorni 58 Detenuto Maher Mohammed Mohsin Al-Ajrami 52 Paramedico Ospedale Kamal Adwan Gaza nord In detenzione da 297 giorni 59 Detenuto Abdallah Khamis Abdallah Abu-Taha 45 Autista Ambulanze Ministero della Salute Khan Younis In detenzione da 697 giorni 60 Detenuto Mohammed Mahmoud Mohammed Abu-Saqer 40 Paramedico Ospedale Kamal Adwan Gaza nord 61 Detenuto Ali Hassan Khader Al-Rantisi 31 Paramedico Ospedale Kamal Adwan Gaza nord In detenzione da 359 giorni 62 Detenuto Hatem Ismail Abdullatif Rayyan 58 Paramedico Ospedale Kamal Adwan Gaza nord In detenzione da 359 giorni 63 Detenuto Dr Iyad Ibrahim Hussien Shaqoura (PhD) 43 Farmacista e PhD in Gestione Sanitaria Centro Medico Nasser Khan Younis In detenzione da 612 giorni 64 Detenuto Ahmed Kamal Hamdan Al-Najjar 26 Farmacista volontario Centro Medico Nasser Khan Younis In detenzione da 612 giorni 65 Detenuto Mahmoud Ali Younis Al-Nairab 34 Tecnico di Radiologia Ospedale Indonesiano Gaza nord In detenzione da 699 giorni 66 Detenuto Samer Mohammed Moeen Shaat 45 Personale Amministrativo col Dipartimento di Cooperazione Internazionale Ministero della Salute Gaza City In detenzione da 708 giorni 67 Detenuto Yousef Khalil Mohammed Abu-Afesh 29 Segretario del Direttore Generale Ospedale al-Shifa Gaza City In detenzione da 580 giorni 68 Detenuto Ahmed Mosaad Mahmoud Abu-Tabanja 24 Operatore di Sicurezza dell'Ospedale Centro Medico Nasser Khan Younis In detenzione da 612 giorni 69 Detenuto Ahmed Ibrahim Hussien Tabasi 38 Segretario Centro Medico Nasser Khan Younis In detenzione da 627 giorni 70 Detenuto Ali Yousef Mohammed Rostom 59 Personale amministrativo Centro Medico Nasser Khan Younis 71 Detenuto Nidal Fayez Jibreel Al-Moqayyad 32 Personale amministrativo Ospedale Kamal Adwan Gaza nord In detenzione da 359 giorni 72 Detenuto Mohammed Eid Abdulqader Sabbah 32 Specialista di Pubbliche Relazioni Ospedale Kamal Adwan Gaza nord In detenzione da 297 giorni 73 Detenuto Hammouda Riyad Asaad Shamallakh 33 Ingegnere Web e Software - Sistemi Informatici e Informazione Ministero della Salute Gaza City In detenzione da 581 giorni 74 Detenuto Saleh Maher Mahmoud Abu-Ammona 32 Ingegnere Web e Software - Sistemi Informatici e Informazione Ministero della Salute Gaza City In detenzione da 581 giorni 75 Detenuto Jaber Moustafa Ahmed Al-Fairi 62 Addetto all’obitorio Ospedale Kamal Adwan Gaza nord In detenzione da 359 giorni 76 Detenuto Bahaa-Al-Din Hosni Mahmoud Ashour 30 Personale amministrativo Ospedale Kamal Adwan Gaza nord In detenzione da 359 giorni 77 Detenuto Haroun Abdulfattah Mahmoud Al-Moqayyad 42 Personale amministrativo Ospedale Kamal Adwan Gaza nord In detenzione da 359 giorni 78 Detenuto Omar Mohammed Eid Al-Hawajri 54 Addetto all’obitorio Ospedale Kamal Adwan Gaza nord In detenzione da 359 giorni 79 Detenuto Abdullah Omar Ali Abu-Rayya 42 Personale amministrativo Ospedale Kamal Adwan Gaza nord In detenzione da 359 giorni 80 Detenuto Rezeq Essam Rezeq Abu-Azab 31 Tecnico Manutentore Centro Medico Nasser Khan Younis 81 Detenuto Dr Alaa-Al-Din Mohammed Ali Shalaldeh 47 Specializzando in Medicina di Emergenza Ospedale Alia Hebron In detenzione da 688 giorni 82 Detenuto Dr Aysar Al-Barghouthi Anestesista Complesso Medico Palestine Ramallah In detenzione da 652 giorni 83 Detenuto Dr Khaled Kharouf Medico Ministero della Salute El-Bireh In detenzione da 652 giorni 84 Detenuto Dr Momin Raed Abdulhameed Mesk 25 Medico Internista Ospedale Alia Hebron In detenzione da 582 giorni 85 Detenuto Dr Ahmed Ramzi Nemer Seder 33 Medico Generico e Manager sanitario Centro Medico Medicare Jericho In detenzione da 410 giorni 86 Detenuto Dr Bassam Ouda Al-Shabaan Al-Awaysa 49 Medico Generico Ospedale Abu al-Hassan al-Qasem Hebron In detenzione da 102 giorni 87 Detenuto Dr Rashad Murshid Rashad Al-Zarou 49 Specialista di chirurgia plastica and ricostruttiva Patient Friends Society all'Ospedale al-Ahli Hebron In detenzione da 579 giorni 88 Detenuto Dr Salah Ziad Al-Kharraz 23 Studente al quarto anno di Medicina An-Najah National University Nablus In detenzione da 547 giorni 89 Detenuto Ahmed Ali Abdulqader Ateeq 22 Studente di Medicina Veterinaria An-Najah National University Nablus In detenzione da 592 giorni 90 Detenuto Mohammed Jamal Mousa Al-Rayyan 22 Studente Infermiere Ospedale Ibn Sina Nablus 91 Detenuto Osaid Waleed Mahmoud Amro 25 Studente all'ultimo anno di medicina Al-Quds Open University Abu Dis In detenzione da 489 giorni 92 Detenuto Murid Al-Attari Dahadha Infermiere Complesso Medico Palestine Ramallah In detenzione da 652 giorni 93 Detenuto Jamal Hikmat Mahmoud Qandil 28 Paramedico Centro Ambulanze Jenin Jenin In detenzione da 630 giorni 94 Detenuto Ahmed Saeed Jamal Abu-Roumi 41 Paramedico Mezzaluna Rossa Palestinese Jerusalem In detenzione da 445 giorni 95 Detenuto Mahmoud Taiseer Al-Mashayekh 30 Operatore sanitario di comunità 1for3 Palestine Cisgiordania In detenzione da 529 giorni 96 Deceduto in prigionia Dr Iyad Ahmed Mohammed Al-Rantisi 53 Primario di Ostetricia e Ginecologia Ospedale Kamal Adwan Gaza nord 97 Deceduto in prigionia Hamdan Hassan Hamdan Ennaba 45 Paramedico Senior Centro Medico Nasser Khan Younis 98 Deceduto in prigionia Dr Adnan Ahmed Attia Al-Bursh 50 Chirurgo Ortopedico Ospedale Al-Shifa Gaza City 99 Deceduto in prigionia Dr Ziad Mohammed Saleh Al-Dalou (PhD) 65 Capo Infermiere Ospedale Al-Shifa Gaza City 100 Deceduto in prigionia Mosaab Hani Ghazi Haniyeh 35 Personale amministrativo Ospedale Al-Shifa Gaza City 101 Disperso Dr Mohammed Khaled Mohammed Al-Derdisawi 57 Specialista Gastroenterologia e Endoscopia Pediatrica Centro Medico Nasser Khan Younis Disperso for 636 giorni 102 Disperso Hammouda Salem Moustafa Shaat 78 Pediatra Centro Medico Nasser Khan Younis Disperso for 133 giorni 103 Disperso Dr Talal Akram Ismail Al-Shawwa 72 Pediatra Ospedale al-Shifa Gaza City Disperso for 639 giorni 104 Disperso Salwa Talal Akram Al-Shawwa 44 Farmacista Centro sanitario UNRWA di Jabalia Gaza nord Disperso for 639 giorni 105 Disperso Ehab Khalil Wajeeh Badra 48 Fisioterapista Servizi Medici Militari Gaza City Disperso for 639 giorni
I nomi dei 95 medici ed operatori sanitari palestinesi tenuti in ostaggio da Israele
Israele continua a detenere 80 medici e operatori sanitari palestinesi provenienti da Gaza e 15 dalla Cisgiordania occupata. di Hanna Duggal e Mohammed Haddad Al Jazeera, 22 ottobre 2025 Sempre più medici e operatori sanitari si stanno mobilitando e chiedono un intervento per ottenere il rilascio del dottor Hussam Abu Safia e di almeno altri 94 medici palestinesi attualmente tenuti in ostaggio dalle autorità israeliane. Lunedì, in un evento organizzato da Healthcare Workers Watch (HWW) e Amnesty International UK, medici e operatori sanitari hanno protestato davanti al St Thomas' Hospital nel centro di Londra, chiedendo il rilascio immediato e incondizionato di tutti gli operatori sanitari attualmente detenuti, in condizioni spaventose, in Israele. La protesta arriva pochi giorni dopo che un tribunale israeliano ha prorogato la detenzione arbitraria di Abu Safia per altri sei mesi in base alla legge sui combattenti illegali, legge ampiamente condannata nel mondo. Healthcare Workers Watch (HWW), Amnesty International UK, medici e operatori sanitari protestano davanti al St Thomas' Hospital nel centro di Londra il 20 ottobre [Immagine per gentile concessione di Healthcare Workers Watch] Altri cinque operatori sanitari sono morti o sono stati uccisi mentre erano detenuti da Israele, e altri cinque sono dispersi, senza che si conosca la loro sorte. Secondo il Ministero della Salute palestinese, almeno 1.722 operatori sanitari sono stati uccisi negli attacchi israeliani negli ultimi due anni. Secondo HWW, la maggior parte degli operatori sanitari è stata rapita dall'esercito israeliano dai loro ospedali o dalle loro ambulanze mentre erano in servizio. Le testimonianze raccolte da HWW e da altre organizzazioni documentano le torture e gli abusi subiti dai palestinesi durante la detenzione israeliana. La dottoressa Rebecca Inglis, di HWW, afferma: “La detenzione continuata da parte di Israele di quasi un centinaio di operatori sanitari è in chiara violazione del diritto internazionale umanitario. Siamo gravemente preoccupati per il loro benessere, date le numerose prove che dimostrano che i detenuti palestinesi vengono torturati durante la detenzione israeliana”. Chi è il dottor Hussam Abu Safia? Abu Safia, direttore dell'ospedale Kamal Adwan nel nord di Gaza, è stato rapito dalle forze israeliane il 27 dicembre 2024, dopo che le truppe hanno fatto irruzione nell'ospedale, che all'epoca era una delle ultime strutture mediche funzionanti nella regione. Amnesty International afferma che il direttore dell'ospedale è detenuto senza accuse né processo in base a una legge israeliana sulla sicurezza. Nonostante i bombardamenti incessanti e la tragica morte di suo figlio in un attacco aereo israeliano, Abu Safia è rimasto in servizio, curando i pazienti e guidando la sua équipe in condizioni inimmaginabili. Dal momento del suo arresto, sono emerse testimonianze attendibili di torture, abusi fisici e trattamenti degradanti, tra cui una significativa perdita di peso e il rifiuto di cure mediche adeguate, igiene e accesso tempestivo a un avvocato, in chiara violazione del diritto internazionale. L'attacco sistematico di Israele alle infrastrutture sanitarie di Gaza Almeno il 94% degli ospedali di Gaza è stato danneggiato o distrutto e molti non sono più operativi. Inoltre, medici e operatori sanitari qualificati sono stati uccisi e questo, insieme alla detenzione di operatori sanitari (la maggior parte dei quali è stata rapita mentre lavorava negli ospedali e nelle strutture sanitarie) ha aumentato l'enorme pressione sul già vulnerabile sistema sanitario di Gaza. Tra il 7 ottobre 2023 e il 20 ottobre 2025, HWW ha documentato un totale di 431 casi di operatori sanitari palestinesi detenuti. Al 20 ottobre 2025: * 309 dei 431 operatori sanitari detenuti sono stati rilasciati; di questi, 67 sono stati rilasciati nell'ambito dell'ultimo accordo di scambio del 13 ottobre * Cinque operatori sanitari sono ancora dispersi (tre medici senior, un farmacista dell'UNRWA e un fisioterapista senior) * Cinque operatori sanitari sarebbero stati uccisi o sarebbero morti durante la detenzione israeliana, ma i loro corpi non sono stati restituiti alle famiglie. HWW ha dichiarato di non aver ancora ricevuto aggiornamenti dalle famiglie di 22 operatori sanitari detenuti, che non sono inclusi nelle cifre relative ai “detenuti confermati” o ai “rilasciati confermati”. Chi sono gli altri operatori sanitari in ostaggio? Gli operatori sanitari ancora in ostaggio di Israele hanno trascorso in media 511 giorni in carcere, alcuni di loro sono prigionieri sin dalle prime settimane di guerra. Dei 95 detenuti, 80 provengono da Gaza, mentre i restanti 15 dalla Cisgiordania occupata. Solo a Gaza sono stati arrestati 31 infermieri, seguiti da 17 medici, 15 membri del personale di supporto e di gestione ospedaliera, 14 paramedici, due farmacisti e un tecnico medico. Venticinque ricoprivano posizioni di alto livello, 50 occupavano posizioni di medio livello, mentre cinque erano operatori sanitari junior. Tutti sono uomini, con una eccezione. La maggior parte degli operatori sanitari viveva nel nord di Gaza, da dove provengono 36 dei prigionieri, seguiti da 24 di Khan Younis, 18 della città di Gaza e 3 di Rafah. La tabella sottostante riporta i nomi e ulteriori informazioni sui 95 operatori sanitari ancora tenuti in ostaggio da Israele.   Chi sono i 95 operatori sanitari palestinesi ancora tenuti in ostaggio da Israele? Healthcare Workers Watch ha verificato che 80 operatori sanitari di Gaza e 15 della Cisgiordania occupata sono ancora detenuti in Israele. Altri cinque operatori sanitari sono morti durante la detenzione in Israele e altri cinque sono dispersi. Dati aggiornati al 20 ottobre 2025.     Stato Nome Età Titolo Ospedale Città/Governatorato Durata 1 Detenuto Dr Akram Hassan Mohammed Abu-Odeh 61 Chirurgo Ortopedico e Primario di Ortopedia Ospedale Indonesiano Gaza nord In detenzione da 698 giorni 2 Detenuto Dr Sulieman Zuhdi Sulieman Abu-Shareea 37 Medico Generico Volontario Centro ambulanze di Jabalia della Mezzaluna Rossa Palestinese Gaza nord In detenzione da 670 giorni 3 Detenuto Dr Ahmed Ibrahim Hassan Mousa 43 Specialista di Chirurgia Generale Centro Medico Nasser Khan Younis In detenzione da 612 giorni 4 Detenuto Dr Ghassan Ihmaidan Musallam Abu-Zuhri 52 Responsabile Chirurgia Ortopedica Centro Medico Nasser Khan Younis In detenzione da 612 giorni 5 Detenuto Dr Nahed Zaki Ismail Abu-Taima 49 Responsabile Chirurgia Centro Medico Nasser Khan Younis In detenzione da 612 giorni 6 Detenuto Dr Mosab Fakhry Atia Samaan 28 Medico specializzando Centro Medico Nasser Khan Younis In detenzione da 612 giorni 7 Detenuto Dr Hamza Mohammed Hussien Abu-Sabha 31 Medico specializzando Centro Medico Nasser Khan Younis In detenzione da 612 giorni 8 Detenuto Dr Raed Yaqoub Salam Mahdi 52 Pediatra Ospedale Pediatrico al-Durra Gaza City In detenzione da 682 giorni 9 Detenuto Dr Khalid Abdul-Aziz Abdallah Seiyam 30 Specializzando in Chirurgia Generale Ospedale al-Shifa Gaza City In detenzione da 580 giorni 10 Detenuto Dr Murad Waleed Murad al-Qouqa 47 Chirurgo Ortopedico e primario di Ortopedia Ospedale al-Shifa Gaza City In detenzione da 580 giorni 11 Detenuto Dr Mahmoud Ahmed Khalil al-Hallaq 37 Specializzando di Medicina intensiva Centro Medico Nasser Khan Younis In detenzione da 612 giorni 12 Detenuto Dr Ahmed Mahmoud Mohammed Shehada 52 Specialista in cardiologia Centro Medico Nasser Khan Younis In detenzione da 627 giorni 13 Detenuto Dr Mohammed Hassan Ali Obaid 42 Chirurgo Ortopedico e primario di Ortopedia  Ospedale al-Awda Gaza nord In detenzione da 359 giorni 14 Detenuto Dr Hassan Khalil Hassan al-Moqayyed 53 Chirurgo Vascolare Ospedale Kamal Adwan Gaza nord In detenzione da 359 giorni 15 Detenuto Dr Medhat Asaad Mahmoud Abu-Tabanja 45 Primario del Dipartimento di Terapia intensiva Ospedale Indonesiano Gaza nord In detenzione da 697 giorni 16 Detenuto Dr Hussam Idrees Amer Abu Safiya 52 Pediatra e primario facente funzione Ospedale Kamal Adwan Gaza nord In detenzione da 297 giorni 17 Detenuto Dr Marwan Shafeeq Ali al-Hams 53 Anestesista e direttore di ospedali da campo Ministero della Salute Gaza Strip In detenzione da 91 giorni 18 Detenuto Dr Ahmed Mohammed Hassan Al-Kahlout (PhD) 53 Direttore Generale Ospedale Kamal Adwan Gaza nord In detenzione da 678 giorni 19 Detenuto Anas Abdulkareem Mohammed al-Shaikh 40 Responsabile dell'Unità di Controllo Infezioni Ospedale Indonesiano Gaza nord In detenzione da 580 giorni 20 Detenuto Rawhi Fayez Mohammed Al-Labban 38 Capo Infermiere al Dipartimento di Ortopedia Ospedale al-Shifa Gaza City In detenzione da 580 giorni 21 Detenuto Mahmoud Mohammed Awad Al-Shaweesh Lubbad 43 Capo Infermiere Ospedale Kamal Adwan Gaza nord In detenzione da 359 giorni 22 Detenuto Moayad Ismail Darwish Al-Ron 43 Capo dell'Unità di Controllo Infezioni e Cure Palliative e Infermieri della Riabilatazione Ospedale Indonesiano Gaza nord In detenzione da 297 giorni 23 Detenuto Mohammed Adham Abdullah Matar 24 Infermiere volontario Ministero della Salute Palestinese Gaza City In detenzione da 634 giorni 24 Detenuto Hamza Mansour Abdulkareem Nayfa 28 Infermiere Ospedale Kamal Adwan Gaza nord In detenzione da 359 giorni 25 Detenuto Hossam Waleed Abdulhameed Daher 28 Infermiere volontario Ospedale Kamal Adwan Gaza nord In detenzione da 359 giorni 26 Detenuto Ahmed Ramadan Hassan Abu-Riala 29 Infermiere Terapia Intensiva Ospedale al-Shifa Gaza City In detenzione da 701 giorni 27 Detenuto Ahmed Amin Mohammed Abdelhadi 27 Infermiere Centro Medico Nasser Khan Younis In detenzione da 612 giorni 28 Detenuto Rami Hasan Abdulqader Al-Kurdi 34 Infermiere volontario Ospedale al-Shifa Gaza City In detenzione da 580 giorni 29 Detenuto Azzam Khalid Motleq Eissa 34 Infermiere volontario Ospedale al-Shifa Gaza City In detenzione da 580 giorni 30 Detenuto Ezz-Elddin Moustafa Hussein Al-Zaanin 27 Infermiere volontario Ospedale al-Shifa Gaza City In detenzione da 580 giorni 31 Detenuto Majed Jamal Roubin Al-Jaish 26 Infermiere volontario Ospedale al-Shifa Gaza City In detenzione da 580 giorni 32 Detenuto Louai Majed Darwish Harara 36 Infermiere volontario Ospedale al-Shifa Gaza City In detenzione da 580 giorni 33 Detenuto Fayez Zaghloul Abdulrahman Abu-Anza 42 Infermiere di Pronto Soccorso Centro Medico Nasser Khan Younis In detenzione da 612 giorni 34 Detenuto Ahmed Abdulrahman Salem Sadeq 26 Infermiere Centro Medico Nasser Khan Younis In detenzione da 612 giorni 35 Detenuto Mohammed Abdulrahim Shaaban Al-Arbeed 34 Infermiere Ospedale al-Shifa Gaza City In detenzione da 626 giorni 36 Detenuto Ahmed Mousa Ismail Mousa 34 Infermiere Centro Medico Nasser Khan Younis In detenzione da 633 giorni 37 Detenuto Hatem Hussien Ibrahim Al-Jamal 48 Infermiere Ospedale Kamal Adwan Gaza nord In detenzione da 359 giorni 38 Detenuto Moataz Nabeel Nathmi Nassar 37 Infermiere Ospedale Kamal Adwan Gaza nord In detenzione da 359 giorni 39 Detenuto Al-Hassan Nabeel Nathmi Nassar 34 Infermiere Ospedale Kamal Adwan Gaza nord In detenzione da 359 giorni 40 Detenuto Anwar Muneer Anwar Al-Shorbaji 24 Infermiere Ospedale Kamal Adwan Gaza nord   41 Detenuto Zakariya Moneer Kamel Al-Draimli 38 Infermiere Servizi Medici Militari Gaza nord In detenzione da 297 giorni 42 Detenuto Hussien Mostafa Hussien Al-Zaaneen 43 Infermiere Clinica Beit Hanoon Gaza nord In detenzione da 316 giorni 43 Detenuto Ameer Khalil Mohammed Shehada 36 Infermiere Ministero della Salute Gaza City In detenzione da 357 giorni 44 Detenuto Ahmed Atef Hassan Shaheen 30 Infermiere Ospedale Indonesiano Gaza nord In detenzione da 699 giorni 45 Detenuto Ibrahim Wajeeh Ismail Al-Ayoubi 35 Infermiere Ospedale Kamal Adwan Gaza nord In detenzione da 359 giorni 46 Detenuto Saleh Hashem Hassan Abu-Al-Aish 33 Infermiere Ospedale Kamal Adwan Gaza nord In detenzione da 359 giorni 47 Detenuto Moayyad Mounir Fahmi Al-Masri 36 Infermiere all'Unità di Controllo Infettivo Ministero della Salute Gaza City In detenzione da 359 giorni 48 Detenuta Tasneem Marwan Shafeeq Al-Hams 23 Infermiere al Punto Medico MoH campo per sfollati Al-Ard al-Tayba Khan Younis In detenzione da 18 giorni 49 Detenuto Anees Al-Dunia Abdulhamid Al-Astal 46 Responsabile del Dipartimento Paramedici area sud Ministero della Salute Khan Younis In detenzione da 688 giorni 50 Detenuto Mohammed Bassam Ahmed Al-Nahhal 32 Paramedico Ospedale Abu Youssef al-Najjar Rafah   51 Detenuto Tamer Mahmoud Hussien Abu-Shahin 48 Paramedico Ospedale Al-Amal Mezzaluna Rossa Palestinese Khan Younis In detenzione da 623 giorni 52 Detenuto Abdulaziz Moustafa Salman Kali 39 Paramedico Servizi Medici Militari Gaza nord In detenzione da 297 giorni 53 Detenuto Mohammed Bassam Ismail Al-Qedra 34 Paramedico Centro Medico Nasser Khan Younis In detenzione da 612 giorni 54 Detenuto Waleed Hammad Saleh Abu-Haddaf 34 Paramedico Centro Medico Nasser Khan Younis In detenzione da 612 giorni 55 Detenuto Ahmed Mohammed Adel Abu-Draz 40 Paramedico Centro Medico Nasser Khan Younis In detenzione da 612 giorni 56 Detenuto Wesam Essam Abu-Nada 37 Paramedico Ospedale Kamal Adwan Gaza nord In detenzione da 359 giorni 57 Detenuto Abdullah Abdulhafez Abdullah Awkal 45 Paramedico Ospedale Kamal Adwan Gaza nord In detenzione da 359 giorni 58 Detenuto Maher Mohammed Mohsin Al-Ajrami 52 Paramedico Ospedale Kamal Adwan Gaza nord In detenzione da 297 giorni 59 Detenuto Abdallah Khamis Abdallah Abu-Taha 45 Autista Ambulanze Ministero della Salute Khan Younis In detenzione da 697 giorni 60 Detenuto Mohammed Mahmoud Mohammed Abu-Saqer 40 Paramedico Ospedale Kamal Adwan Gaza nord   61 Detenuto Ali Hassan Khader Al-Rantisi 31 Paramedico Ospedale Kamal Adwan Gaza nord In detenzione da 359 giorni 62 Detenuto Hatem Ismail Abdullatif Rayyan 58 Paramedico Ospedale Kamal Adwan Gaza nord In detenzione da 359 giorni 63 Detenuto Dr Iyad Ibrahim Hussien Shaqoura (PhD) 43 Farmacista e PhD in Gestione Sanitaria Centro Medico Nasser Khan Younis In detenzione da 612 giorni 64 Detenuto Ahmed Kamal Hamdan Al-Najjar 26 Farmacista volontario Centro Medico Nasser Khan Younis In detenzione da 612 giorni 65 Detenuto Mahmoud Ali Younis Al-Nairab 34 Tecnico di Radiologia Ospedale Indonesiano Gaza nord In detenzione da 699 giorni 66 Detenuto Samer Mohammed Moeen Shaat 45 Personale Amministrativo col Dipartimento di Cooperazione Internazionale Ministero della Salute Gaza City In detenzione da 708 giorni 67 Detenuto Yousef Khalil Mohammed Abu-Afesh 29 Segretario del Direttore Generale Ospedale al-Shifa Gaza City In detenzione da 580 giorni 68 Detenuto Ahmed Mosaad Mahmoud Abu-Tabanja 24 Operatore di Sicurezza dell'Ospedale Centro Medico Nasser Khan Younis In detenzione da 612 giorni 69 Detenuto Ahmed Ibrahim Hussien Tabasi 38 Segretario Centro Medico Nasser Khan Younis In detenzione da 627 giorni 70 Detenuto Ali Yousef Mohammed Rostom 59 Personale amministrativo Centro Medico Nasser Khan Younis   71 Detenuto Nidal Fayez Jibreel Al-Moqayyad 32 Personale amministrativo Ospedale Kamal Adwan Gaza nord In detenzione da 359 giorni 72 Detenuto Mohammed Eid Abdulqader Sabbah 32 Specialista di Pubbliche Relazioni Ospedale Kamal Adwan Gaza nord In detenzione da 297 giorni 73 Detenuto Hammouda Riyad Asaad Shamallakh 33 Ingegnere Web e Software - Sistemi Informatici e Informazione Ministero della Salute Gaza City In detenzione da 581 giorni 74 Detenuto Saleh Maher Mahmoud Abu-Ammona 32 Ingegnere Web e Software - Sistemi Informatici e Informazione Ministero della Salute Gaza City In detenzione da 581 giorni 75 Detenuto Jaber Moustafa Ahmed Al-Fairi 62 Addetto all’obitorio Ospedale Kamal Adwan Gaza nord In detenzione da 359 giorni 76 Detenuto Bahaa-Al-Din Hosni Mahmoud Ashour 30 Personale amministrativo Ospedale Kamal Adwan Gaza nord In detenzione da 359 giorni 77 Detenuto Haroun Abdulfattah Mahmoud Al-Moqayyad 42 Personale amministrativo Ospedale Kamal Adwan Gaza nord In detenzione da 359 giorni 78 Detenuto Omar Mohammed Eid Al-Hawajri 54 Addetto all’obitorio Ospedale Kamal Adwan Gaza nord In detenzione da 359 giorni 79 Detenuto Abdullah Omar Ali Abu-Rayya 42 Personale amministrativo Ospedale Kamal Adwan Gaza nord In detenzione da 359 giorni 80 Detenuto Rezeq Essam Rezeq Abu-Azab 31 Tecnico Manutentore Centro Medico Nasser Khan Younis   81 Detenuto Dr Alaa-Al-Din Mohammed Ali Shalaldeh 47 Specializzando in Medicina di Emergenza Ospedale Alia Hebron In detenzione da 688 giorni 82 Detenuto Dr Aysar Al-Barghouthi   Anestesista Complesso Medico Palestine Ramallah In detenzione da 652 giorni 83 Detenuto Dr Khaled Kharouf   Medico Ministero della Salute El-Bireh In detenzione da 652 giorni 84 Detenuto Dr Momin Raed Abdulhameed Mesk 25 Medico Internista Ospedale Alia Hebron In detenzione da 582 giorni 85 Detenuto Dr Ahmed Ramzi Nemer Seder 33 Medico Generico e Manager sanitario Centro Medico Medicare Jericho In detenzione da 410 giorni 86 Detenuto Dr Bassam Ouda Al-Shabaan Al-Awaysa 49 Medico Generico Ospedale Abu al-Hassan al-Qasem Hebron In detenzione da 102 giorni 87 Detenuto Dr Rashad Murshid Rashad Al-Zarou 49 Specialista di chirurgia plastica e ricostruttiva Patient Friends Society all'Ospedale al-Ahli Hebron In detenzione da 579 giorni 88 Detenuto Dr Salah Ziad Al-Kharraz 23 Studente al quarto anno di Medicina An-Najah National University Nablus In detenzione da 547 giorni 89 Detenuto Ahmed Ali Abdulqader Ateeq 22 Studente di Medicina Veterinaria An-Najah National University Nablus In detenzione da 592 giorni 90 Detenuto Mohammed Jamal Mousa Al-Rayyan 22 Studente Infermiere Ospedale Ibn Sina Nablus   91 Detenuto Osaid Waleed Mahmoud Amro 25 Studente all'ultimo anno di medicina Al-Quds Open University Abu Dis In detenzione da 489 giorni 92 Detenuto Murid Al-Attari Dahadha   Infermiere Complesso Medico Palestine Ramallah In detenzione da 652 giorni 93 Detenuto Jamal Hikmat Mahmoud Qandil 28 Paramedico Centro Ambulanze Jenin Jenin In detenzione da 630 giorni 94 Detenuto Ahmed Saeed Jamal Abu-Roumi 41 Paramedico Mezzaluna Rossa Palestinese Jerusalem In detenzione da 445 giorni 95 Detenuto Mahmoud Taiseer Al-Mashayekh 30 Operatore sanitario di comunità 1for3 Palestine Cisgiordania In detenzione da 529 giorni 96 Deceduto in prigionia Dr Iyad Ahmed Mohammed Al-Rantisi 53 Primario di Ostetricia e Ginecologia Ospedale Kamal Adwan Gaza nord   97 Deceduto in prigionia Hamdan Hassan Hamdan Ennaba 45 Paramedico Senior Centro Medico Nasser Khan Younis   98 Deceduto in prigionia Dr Adnan Ahmed Attia Al-Bursh 50 Chirurgo Ortopedico Ospedale Al-Shifa Gaza City   99 Deceduto in prigionia Dr Ziad Mohammed Saleh Al-Dalou (PhD) 65 Capo Infermiere Ospedale Al-Shifa Gaza City   100 Deceduto in prigionia Mosaab Hani Ghazi Haniyeh 35 Personale amministrativo Ospedale Al-Shifa Gaza City   101 Disperso Dr Mohammed Khaled Mohammed Al-Derdisawi 57 Specialista Gastroenterologia e Endoscopia Pediatrica Centro Medico Nasser Khan Younis Disperso for 636 giorni 102 Disperso Hammouda Salem Moustafa Shaat 78 Pediatra Centro Medico Nasser Khan Younis Disperso for 133 giorni 103 Disperso Dr Talal Akram Ismail Al-Shawwa 72 Pediatra Ospedale al-Shifa Gaza City Disperso for 639 giorni 104 Disperso Salwa Talal Akram Al-Shawwa 44 Farmacista Centro sanitario UNRWA di Jabalia Gaza nord Disperso for 639 giorni 105 Disperso Ehab Khalil Wajeeh Badra 48 Fisioterapista Servizi Medici Militari Gaza City Disperso for 639 giorni
Si chiamava Hind: la sua Fondazione porta 24 soldati e comandanti israeliani di fronte alla Corte Penale Internazionale per il suo omicidio
Fondazione Hind Rajab, 21 ottobre 2025 Bruxelles/L'Aia Il giorno dopo la messa in onda del documentario in lingua araba di Al Jazeera “Tip of the Iceberg” (La punta dell'iceberg), in cui la Fondazione Hind Rajab (HRF) ha rivelato l'identità del battaglione, della compagnia e dei comandanti israeliani responsabili dell'uccisione della bambina di 6 anni Hind Rajab, la Fondazione ha presentato un ricorso di 120 pagine ai sensi dell'articolo 15 alla Corte penale internazionale (CPI) dell'Aia. Questo ricorso fa i nomi di 24 soldati e comandanti israeliani responsabili dell'uccisione di Hind Rajab, di sei membri della sua famiglia e di due paramedici della Mezzaluna Rossa palestinese, Yusuf al-Zeino e Ahmed al-Madhoun, che sono stati deliberatamente presi di mira mentre tentavano di salvarla il 29 gennaio 2024 nella città di Gaza. Il documentario "Tip of the Iceberg" su Al Jazeera (in arabo con sottotitoli in inglese) I nomi dei 24 responsabili La denuncia si basa sulla prima comunicazione dell'HRF del 3 maggio 2025 e fornisce prove dettagliate che identificano la Vampire Empire Company del 52° Battaglione Corazzato (“Ha-Bok'im / The Breachers”), che opera sotto la 401ª Brigata Corazzata israeliana. La denuncia nomina: * Il colonnello Beni Aharon, comandante della 401ª Brigata Corazzata * Il Tenente colonnello Daniel Ella, comandante del 52° battaglione corazzato * Il Maggiore Sean Glass, comandante della Vampire Empire Company, insieme a 22 membri identificati dell'equipaggio dei carri armati della stessa compagnia che hanno partecipato direttamente o facilitato l'attacco. Nel documentario in lingua araba di Al Jazeera, HRF ha rivelato pubblicamente le identità dei comandanti e del membro dell'equipaggio del carro armato Itay Cukierkopf. I restanti 22 nomi sono stati ora trasmessi in forma riservata alla Corte penale internazionale e saranno resi pubblici progressivamente, man mano che saranno presentate denunce a livello nazionale in diverse giurisdizioni. Prove e fondamenti giuridici La comunicazione include prove digitali, satellitari e forensi complete che confermano che i carri armati Merkava IV della Vampire Empire Company hanno ripetutamente sparato sulla Kia Picanto nera in cui erano intrappolati Hind e la sua famiglia, e successivamente hanno preso di mira l'ambulanza inviata per soccorrerla. Gli attacchi sono stati effettuati con la piena consapevolezza dello status civile e protetto delle vittime, essendo successivi al coordinamento tra la Mezzaluna Rossa palestinese e le autorità israeliane. Il team legale della Fondazione conclude che questi atti costituiscono crimini di guerra, crimini contro l'umanità e genocidio, ai sensi degli articoli 6, 7 e 8 dello Statuto di Roma. Sean Glass, Comandante della Vampire Empire Company   Espandere la lotta per la giustizia in tutto il mondo Parallelamente alla denuncia alla Corte penale internazionale, l'HRF sta perseguendo procedimenti penali nazionali sia in base alla giurisdizione universale che alla giurisdizione della doppia nazionalità, prendendo di mira i responsabili che possiedono la cittadinanza straniera oltre a quella israeliana. Un primo caso è già stato presentato in Argentina contro Itay Cukierkopf, uno dei membri dell'equipaggio del carro armato citati nella denuncia alla Corte penale internazionale. Altri casi sono in fase di preparazione in Europa, America Latina e Nord America, per garantire che nessun criminale di guerra possa trovare rifugio dietro confini o passaporti. > “Non si tratta solo di un atto legale, ma di una rivolta contro l'ordine > globale dell'impunità”, ha affermato Dyab Abou Jahjah, direttore generale > della Fondazione Hind Rajab. > “Credevano che l'omicidio di Hind sarebbe rimasto impunito; stiamo dimostrando > che si sbagliavano, passo dopo passo. Ventiquattro nomi sono ora davanti alla > Corte penale internazionale e altri seguiranno nei tribunali nazionali. La > giustizia non è un favore che chiediamo, è l'inevitabile resa dei conti con la > verità”. Appello alla Corte penale internazionale La Fondazione Hind Rajab chiede all'Ufficio del Procuratore della Corte penale internazionale di: 1. Incorporare l'omicidio di Hind Rajab e dei suoi soccorritori ne dossier  "Situazione nello Stato di Palestina"; 2. Ampliare le indagini per includere la Vampire Empire Company, il 52° Battaglione corazzato e la 401ª Brigata corazzata; 3. Emettere mandati di arresto per i 24 autori identificati. Natacha Bracq, responsabile del contenzioso presso l'HRF, ha dichiarato: > “Questa denuncia stabilisce una catena di comando diretta, un controllo > operativo e un intento deliberato. Le prove dimostrano la natura organizzata e > sistematica dell'attacco, che soddisfa i requisiti legali per il perseguimento > penale ai sensi del diritto penale internazionale. Il caso di Hind Rajab non è > isolato, ma rappresenta un modello più ampio di violazioni che la Corte penale > internazionale deve affrontare con urgenza. Lo Stato di diritto non può > rimanere selettivo quando il crimine è il genocidio”. L'uccisione di Hind Rajab aveva lo scopo di spezzare lo spirito di un popolo; invece, ha risvegliato un movimento globale per la giustizia. Ogni fascicolo che presentiamo, ogni nome che riveliamo e ogni aula di tribunale in cui entriamo porta con sé il suo ricordo come una sfida all'arroganza del potere. L'era dell'impunità sta volgendo al termine e il nome di Hind segnerà il punto in cui ha iniziato a crollare.   Traduzione a cura dell'Associazione di Amicizia Italo-Palestinese Onlus, Firenze
Gaza non dimenticherà, la Palestina ricorderà
di Jamal Kanj Middle East Monitor, 13.10.2024   Gaza non dimenticherà Il fumo soffocante aleggia ancora sulle sue rovine, denso dell'odore acre della polvere da sparo e della polvere che porta con sé l'odore del tradimento e il segno del coraggio. Le sue strade, un tempo piene delle risate dei bambini, sono diventate campi di sterminio israeliani. Ora riecheggiano dei nomi e dei ricordi dei martiri. Le fosse comuni, il cemento frantumato e l'acciaio contorto non sono solo la prova dell'odio sionista. Sono testimoni di coloro che le sono stati vicini e di coloro che l'hanno abbandonata. Oggi, le macerie di Gaza racchiudono più ricordi di tutte le biblioteche della nazione. La Palestina ricorderà Ricorderà i sacrifici altruistici dei medici e degli operatori sanitari che hanno rifiutato di abbandonare i loro pazienti malati mentre le bombe piovevano sui loro ospedali; ricorderà i giornalisti che sono diventati notizia, presi di mira per aver osato rivelare la verità; ricorderà le madri che hanno avvolto i loro figli nella bandiera rossa, nera, verde e bianca di una nazione che Israele vuole disperatamente cancellare. Queste non sono storie di disperazione, ma di sfida, di strenua difesa del  proprio diritto a respirare la vita in mezzo alla morte. Gaza non dimenticherà Non dimenticherà il silenzio delle democrazie occidentali. In una tragica inversione di tendenza, la maggior parte delle nazioni europee, incatenate dai fantasmi del loro passato, hanno barattato la moralità con l'assoluzione. I sedicenti paladini dei diritti umani hanno offerto i palestinesi sull'altare delle vittime di ieri per espiare i peccati dell'Europa. Gaza non dimenticherà l'amministrazione Biden, che ha posto il veto su ogni risoluzione del Consiglio di sicurezza dell'ONU che chiedeva la fine del genocidio. Né Donald Trump, che ha gettato benzina sul fuoco, per poi chiedere un riconoscimento per aver spento le sue stesse fiamme. Questa settimana, i leader arabi, musulmani e mondiali si riuniscono come falene attorno al piromane americano diventato pompiere, “celebrando” le ceneri di Gaza. La Palestina ricorderà Ricorderà le persone che si sono sollevate per Gaza, dallo Yemen a Dublino, da Città del Capo a Londra e Madrid, mentre le capitali arabe dal Cairo a Riyadh dormivano. L'Irlanda e la Spagna hanno guidato il boicottaggio, mentre i paesi arabi dal Golfo alla Giordania hanno aperto i loro porti e le loro autostrade per fornire rotte alternative alle merci israeliane, mentre lo Yemen imponeva un blocco marittimo nel Mar Rosso. Gaza non dimenticherà - né perdonerà - i governi arabi che hanno aperto i loro porti mentre i lavoratori dei cantieri navali in Italia si rifiutavano di collaborare, consegnando armi americane usate per annientare i suoi bambini e distruggere i suoi ospedali. La Palestina ricorderà Ricorderà il Sudafrica – una nazione che non è araba o musulmana – che ha portato il suo dossier davanti alla Corte internazionale di giustizia, accusando Israele di genocidio. Un paese un tempo segnato dall'apartheid è diventato la coscienza morale di un mondo troppo timido per parlare. Con quel gesto di solidarietà, il Sudafrica ha riaffermato quella verità universale: che la giustizia non conosce confini. La Palestina ricorderà la resistenza libanese che ha sacrificato i suoi leader per la difesa di Gaza; lo Yemen, povero di ricchezze ma ricco di dignità, la cui solidarietà non ha mai vacillato; e l'Iran, risoluto contro l'arroganza israeliana. Ricorderà l'Irlanda e la Spagna, che non hanno voltato le spalle quando gli arabi lo hanno fatto, dimostrando che la vera solidarietà trascende i confini, la fede e la parentela, e si basa solo sull'umanità condivisa. Ricorderà gli eroi delle flottiglie che hanno sfidato ondate di odio e assedi per portare messaggi di compassione; i volontari senza nome che hanno lasciato la sicurezza dei loro paesi per curare i feriti e sfamare gli affamati; gli studenti americani che hanno trasformato i campus in accampamenti di resistenza; gli artisti, gli attori e i musicisti che hanno rischiato la carriera per la giustizia; i dipendenti che hanno perso il lavoro protestando contro la complicità di Google, Microsoft e altri giganti della tecnologia nei crimini di Israele. Gaza non dimenticherà coloro che l'hanno tradita La Palestina sarà per sempre grata a coloro che hanno osato dire la verità quando era pericoloso, che hanno marciato quando era proibito, che hanno pianto quando non era di moda. La Palestina ricorderà. La storia ricorderà. La giustizia ricorderà. Per quasi due anni, Gaza ha subito un genocidio così implacabile da sfidare ogni descrizione. La macchina da guerra israeliana ha trasformato gli ospedali in obitori, le scuole delle Nazioni Unite in fosse comuni e i campi profughi in crateri. Eppure Gaza rifiuta di morire. Ogni volta che viene bombardata e riportata “all'età della pietra”, risorge come una fenice per ricostruire non solo le sue strutture, ma anche la sua indomabile volontà. In questa sfida risiede la più grande paura dell'occupante: la memoria. Israele può distruggere gli edifici, ma non cancellare i ricordi. L'assedio può affamare il corpo di Gaza, ma nutre l'anima collettiva della Palestina. I bambini di Gaza cresceranno con ricordi che nessun bambino dovrebbe portare. Ma erediteranno anche qualcosa di indistruttibile: la dignità. In ogni casa demolita e in ogni famiglia distrutta vive una storia che rifiuta di essere sepolta. La memoria di Gaza non svanirà. Perché la mente, a differenza della pietra, non può essere occupata. È l'archivio eterno della resilienza di un popolo, tramandato di generazione in generazione, che tesse l'indelebile arazzo della Palestina di oggi. Le rovine di Gaza non sono solo la testimonianza del genocidio perpetrato da Israele, ma anche del crollo morale di coloro che lo hanno reso possibile. Gaza risorgerà, mattone dopo mattone. Ma ciò che non risorgerà mai è la menzogna israeliana che, per otto decenni, ha mascherato il progetto sionista sotto le spoglie della vittimizzazione, occupando le narrazioni occidentali e fabbricando consenso. Gaza risorgerà e il mito israeliano rimarrà sepolto sotto le sue macerie, per sempre. Traduzione a cura dell'Associazione di Amicizia Italo-Palestinese Onlus, Firenze
La Palestina è ora la coscienza del mondo. Nessun accordo potrà cambiare questa realtà.
Mascherata da abile mossa politica, la proposta di Trump e Netanyahu non è altro che un tentativo di imporre la resa. di Soumaya Ghannoushi      Middle East Eye, 02.10.2025 Quello che il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha presentato questa settimana a Washington non era un piano di pace, ma una sua parodia; un accordo proclamato come una svolta, ma negoziato tra un facilitatore americano e un perpetratore israeliano, mentre le persone il cui destino è in gioco sono state cancellate dalla scena. Trump sedeva raggiante accanto al primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, ringraziandolo per aver “accettato” un piano che lui stesso aveva scritto, mentre i palestinesi erano del tutto assenti. Niente Hamas, niente Autorità Palestinese, nemmeno una presenza simbolica per dare un minimo di credibilità alla farsa. Si continua con la stessa logica coloniale che ha dato vita agli Accordi di Abramo: stringere accordi sulla Palestina senza i palestinesi. Celebrare la “pace” ignorando l'occupazione, il blocco e la pulizia etnica. Ripetere a pappagallo il linguaggio della riconciliazione escludendo sistematicamente le uniche persone che hanno il diritto di parlare per sé stesse. Questo accordo non è un negoziato, è un'imposizione. È una resa mascherata da abilità politica. Netanyahu ha già assassinato o tentato di uccidere negoziatori in passato, dal leader di Hamas Ismail Haniyeh a quelli presi di mira a Doha mentre erano seduti a discutere la bozza di accordo di Trump. La sua politica è sempre stata chiara: eliminare i negoziatori, eliminare i negoziati e poi affiancarsi a Washington per annunciare un piano elaborato dai partner del genocidio. Per dare dignità a questo spettacolo, è stata convocata una schiera di leader arabi e musulmani, non per difendere i palestinesi, ma per esercitare pressioni su di loro. Il loro ruolo è quello di fungere da copertura per Trump e Netanyahu; il loro compito non è quello di proteggere la Palestina, ma di spingerla alla sottomissione. Lo stesso Netanyahu ha esclamato stupito: «Chi avrebbe mai potuto crederci?» - che i regimi musulmani avrebbero fornito una foglia di fico per il diktat di Israele.   L'onda dell'opinione pubblica Al di là della messinscena, il piano è inconsistente. C'è un unico punto concreto: il ritorno degli ostaggi. Tutto il resto è fumo. Nessuna garanzia di ritiro, nessun impegno vincolante, solo vaghe promesse, mentre le truppe israeliane rimangono trincerate. Ciò che Trump ha offerto a Netanyahu non è stato un compromesso, ma una vittoria: proprio quella vittoria che non è riuscito a ottenere con la forza, dopo due anni di bombe e massacri. Israele non è riuscito a schiacciare Gaza. Non è riuscito a riportare a casa i suoi ostaggi con la guerra. Non è riuscito a spezzare la volontà palestinese. L'accordo di Trump è un tentativo di trasformare la sconfitta in trionfo, di ottenere con la diplomazia ciò che non è stato possibile ottenere sul campo di battaglia. Ma Israele non è trionfante, è isolato. Alle Nazioni Unite, Netanyahu è salito sul podio mentre 77 delegazioni abbandonavano la sala, lasciandolo a declamare davanti a sedie vuote. I sondaggi in Europa e negli Stati Uniti mostrano che l'opinione pubblica si sta decisamente schierando contro Israele, con le giovani generazioni in prima linea in questo cambiamento. L'ondata di solidarietà globale con la Palestina sta crescendo, e nulla terrorizza Washington e Tel Aviv più di questo. Questo è il vero obiettivo dell'accordo: fermare quell'ondata. Soffocare lo slancio dei boicottaggi, delle proteste e di una crescente coscienza globale. Sostituire l'agenzia palestinese con una tutela imposta, un “Consiglio di pace” presieduto da Trump e supervisionato da Tony Blair, un uomo le cui illusioni coloniali e il cui passato sanguinario in Iraq lo squalificherebbero dall'amministrare un parco giochi, figuriamoci il futuro di Gaza. Questa non è pace. È la "Fondazione per l'Umiliazione di Gaza" scritta a grandi lettere, lo stesso meccanismo di controllo esterno, travestito con gergo umanitario. E i governanti musulmani che siedono accanto a Netanyahu - dagli emiratini che parlottavano con lui mentre il mondo voltava le spalle all'ONU, a quelli che ora sfilano dietro il podio di Trump - non sono partner di pace. Sono complici della resa. Come ha affermato l'ex delegato egiziano all'ONU Motaz Khalil, questo non è altro che un “piano di resa”. Zittisce i palestinesi, li priva di rappresentanza e consegna a Netanyahu la vittoria assoluta che aveva promesso e non era riuscito a ottenere. La storia non sarà clemente con questo momento. Un piano di cessate il fuoco che esclude gli occupati non è un piano di pace. È un diktat coloniale, il linguaggio del mandato e della tutela riportato in auge nel XXI secolo. È la stessa presunzione che ha promesso la terra palestinese in loro assenza, senza il loro consenso, nella Dichiarazione Balfour del 1917. Mandati, protettorati, amministrazioni fiduciarie: tutti gli eufemismi dell'impero vengono riciclati per negare ai palestinesi la loro voce. Trump e Netanyahu possono redigere tutti i piani che vogliono, ma fuori dalle loro sale conferenze il mondo sta cambiando. Milioni di persone marciano, i boicottaggi si intensificano, l'opinione pubblica si schiera. La marea sta cambiando e nessun accordo sulla carta potrà fermarla. La Palestina è diventata la coscienza del mondo e questo non può essere negoziato. Soumaya Ghannoushi è una scrittrice britannica di origini tunisine ed esperta di politica mediorientale. I suoi articoli giornalistici sono stati pubblicati su The Guardian, The Independent, Corriere della Sera, aljazeera.net e Al Quds. Una selezione dei suoi scritti è disponibile su: soumayaghannoushi.com e su Twitter @SMGhannoushi.   Traduzione a cura dell'Associazione di Amicizia Italo-Palestinese Onlus, Firenze
Ilan Pappe: Il calice avvelenato del riconoscimento: un'arma a doppio taglio per la Palestina
 26 Settembre 2025 12:30 Anche se non dovremmo considerarlo un “momento storico” o un “punto di svolta”, questo riconoscimento ha il potenziale per aiutare i palestinesi a condurci verso un futuro diverso. Ilan Pappeé* – The Palestine Chronicle  In passato, ero piuttosto scettico riguardo al riconoscimento della Palestina, poiché sembrava che coloro che erano coinvolti nella conversazione si riferissero solo a parti della Cisgiordania e della Striscia di Gaza come Stato di Palestina, e a un governo autonomo da parte di un ente come l'Autorità Nazionale Palestinese, privo di una vera e propria sovranità: una Palestina Bantustan. Un simile riconoscimento avrebbe potuto creare l'errata impressione che il cosiddetto conflitto in Palestina fosse stato risolto con successo. Molti dei capi di governo e dei loro ministeri degli esteri che oggi parlano di riconoscimento fanno ancora riferimento a questo tipo di Palestina. Quindi, dovremmo sostenere maggiormente questa iniziativa in questo momento? Suggerirei di affrontarla in modo più sfumato in questo particolare momento storico, mentre il genocidio continua. Non sorprende che nessuno a Gaza abbia tratto speranza, ispirazione o soddisfazione da questa dichiarazione. Solo a Ramallah e in alcuni settori del movimento di solidarietà è stata celebrata come un grande risultato. I governi che hanno riconosciuto la Palestina la associano direttamente alla soluzione obsoleta e ormai morta da tempo dei due stati, una formula impraticabile, immorale e basata sull'ingiustizia fin dal momento in cui è stata concepita come "soluzione". Eppure, ci sono dinamiche potenziali e più positive che potrebbero essere innescate da questo attuale riconoscimento globale della Palestina. Sebbene non dovremmo considerarlo un "momento storico" o un "punto di svolta", ha il potenziale per aiutare i palestinesi a condurci verso un futuro diverso. Ha un significato simbolico come contromovimento all'attuale strategia israeliana di eliminare la Palestina come popolo, come nazione, come paese e come storia. Qualsiasi tipo di riferimento, anche simbolico, alla Palestina come entità esistente in questo momento è una benedizione. A un livello molto insoddisfacente ma minimamente necessario, impedisce alla Palestina di scomparire dal dibattito globale e regionale. In secondo luogo, fa parte di una reazione globale dall'alto, insufficiente ma in qualche modo più incoraggiante, contro il genocidio in corso. Non si tratta di sanzioni – che sono ben più importanti dello spettacolo a cui abbiamo assistito all'ONU – né di una mossa che pone fine al commercio militare occidentale con Israele, che sarebbe stato molto più efficace contro il genocidio rispetto al riconoscimento della Palestina. Tuttavia, esprime una certa disponibilità da parte dei governi occidentali a confrontarsi non solo con Israele, ma anche con gli Stati Uniti sul futuro della Palestina. Il riconoscimento stesso ha creato – forse inavvertitamente – due importanti conseguenze. In primo luogo, i territori occupati costituiscono ora lo Stato di Palestina occupato: l'intero Stato di Palestina. Questo non è nemmeno paragonabile all'occupazione parziale russa di due province dell'Ucraina; si tratta dell'occupazione totale di uno Stato. Almeno a prima vista, sarebbe molto più difficile ignorarlo da una prospettiva giuridica internazionale. In secondo luogo, è molto chiaro quale sarà la reazione israeliana: imporre ufficialmente la legge israeliana prima su alcune parti della Cisgiordania, poi sull'intera regione e forse più tardi sulla Striscia di Gaza. Sebbene ci si aspetti così poco dai nostri attuali politici, in particolare nel Nord del mondo, non potranno affermare di aver fatto tutto il possibile per riconoscere la Palestina se questa sarà occupata nella sua interezza da Israele e annessa completamente. Persino per questi politici, tale inazione esporrà un nuovo nadir di codardia morale e conficcherà l'ultimo chiodo nella bara del diritto internazionale. Noi attivisti siamo pienamente consapevoli del pericolo di distogliere l'attenzione anche solo per un secondo dalla missione di fermare il genocidio. Il riconoscimento non fermerà il genocidio, quindi ciò che stiamo facendo e ciò che intendiamo fare per salvare Gaza non è influenzato dai discorsi e dalle dichiarazioni alle Nazioni Unite del 22 settembre 2025. La nostra manifestazione a Londra questo ottobre – si spera con la partecipazione prevista di un milione di persone – è altrettanto importante, se non di più. Lo sciopero generale italiano a sostegno della flottiglia Sumud è altrettanto importante, se non di più. Ma è anche un promemoria del fatto che dovremmo essere vigili e molto sospettosi quando la Francia e i suoi alleati parlano del "giorno dopo". C'è un senso di déjà vu nell'istrionismo che ha accompagnato la firma degli Accordi di Oslo esattamente 32 anni fa. Questo potrebbe pericolosamente trasformarsi in un'altra farsa di pace che sostituisce una forma di colonialismo con un'altra, più gradita all'Occidente. Tutto ciò è stato evidente nel discorso del presidente francese Emmanuel Macron. La prima parte del suo discorso ha ribadito l'impegno della Francia nei confronti di Israele e il suo odio per Hamas. La seconda parte ha imposto ai palestinesi che solo l'Autorità Nazionale Palestinese li avrebbe rappresentati e che lo Stato palestinese sarebbe stato smilitarizzato. Non ha menzionato il genocidio o le sanzioni contro Israele, il che non sorprende. Macron è un politico egocentrico e privo di spina dorsale morale, eppure è consapevole che il 70% del suo popolo è insoddisfatto della sua politica nei confronti della Palestina. Affermare che un bantustan dell'Autorità Nazionale Palestinese sia ciò che la gente desidera – che sia in Francia, in Palestina o altrove – dimostra ancora una volta il distacco di così tanti politici europei dalla realtà sul campo. Quindi non è qui che risiede l'importanza del riconoscimento. È un'arma a doppio taglio. Per quanto ne so, la strategia migliore per noi del movimento di solidarietà è sostenere e insistere – attraverso l'attivismo e la ricerca – che la Palestina è il Paese che si estende dal fiume al mare, e che i palestinesi sono tutti coloro che vivono nella Palestina storica e coloro che ne sono stati espulsi. Sono loro che decideranno il futuro della loro patria. E, cosa più importante di ogni altra, dobbiamo insistere sul fatto che finché il sionismo dominerà ideologicamente la realtà della Palestina storica, non ci sarà alcuna autodeterminazione, libertà o liberazione palestinese. (Traduzione de l'AntiDiplomatico) *Ilan Pappé è professore presso l'Università di Exeter. In precedenza è stato docente di scienze politiche presso l'Università di Haifa. È autore di "The Ethnic Cleansing of Palestine", "The Modern Middle East", "A History of Modern Palestine: One Land, Two Peoples" e "Ten Myths about Israel". È co-curatore, con Ramzy Baroud, di " Our Vision for Liberation". Pappé è descritto come uno dei "nuovi storici" di Israele che, dalla pubblicazione di documenti pertinenti dei governi britannico e israeliano all'inizio degli anni '80, hanno riscritto la storia della creazione di Israele nel 1948. Ha contribuito con questo articolo su "The Palestine Chronicle". https://www.lantidiplomatico.it/dettnews-ilan_pappe_il_calice_avvelenato_del_riconoscimento_unarma_a_doppio_taglio_per_la_palestina/39602_62791/ Altro sull’argomento: Il cavallo di Troia del "riconoscimento" e la Palestina come bussola morale - OP-ED - L'Antidiplomatico