
I posti di blocco israeliani soffocano i palestinesi
Associazionie amicizia italo-palestinese - Sunday, November 23, 2025Amira Hass, Haaretz, Israele
Internazionale 1640 | 14 novembre 2025
Il tempo per spostarsi da un
luogo a un altro in Cisgiordania
è determinato dalle decisioni
arbitrarie dei soldati di Tel Aviv,
scrive la giornalista israeliana,
che vive nel territorio

Gli ospiti sono stati invitati per
festeggiare la buona notizia: i
risultati degli esami della loro
amica Lina sono negativi. Il
cancro non è tornato. Tra un bicchiere di
vino e l’altro, la padrona di casa racconta
che l’esame è stato anticipato perché la
persona che aveva l’appuntamento quel
giorno non è riuscita ad arrivare: era rimasta
imbottigliata tra posti di blocco e
checkpoint (la differenza è che i secondi
sono più strutturati e permanenti).
Inizialmente l’esame di Lina (uno
pseudonimo, come quello di altri intervistati)
era stato fissato per la fine dell’anno,
ma l’ospedale di Ramallah l’aveva
messa in lista d’attesa per due date diverse.
L’esperienza insegna che a causa dei
blocchi – o di soldati insolitamente lenti,
o di un’incursione militare in un quartiere
o villaggio vicino – capita che qualcuno
non si presenti. Alla prima data non c’erano
state cancellazioni. Circa due settimane
dopo, l’ospedale l’ha chiamata intorno
alle 10 del mattino dicendole di andare lì
immediatamente. “Eravamo felici, ma abbiamo anche pensato alla frustrazione
e alla preoccupazione di una persona che
non conosciamo e che non è riuscita ad
andare all’appuntamento”, dicono Lina e
il suo compagno.
E loro sanno bene quanto sia rischioso
saltare una pet-tc come quella a cui si è
sottoposta Lina. Il macchinario di Ramallah
(disponibile solo in un altro ospedale
in Cisgiordania) può esaminare al
massimo dieci pazienti al giorno. Richiede
un materiale radioattivo, che è acquistato
in Israele e portato in ospedale in
quantità contate per gli esami del giorno.
Dato che la maggior parte dei pazienti
non viene da Ramallah, la lista è composta
anche considerando le restrizioni al
movimento imposte da Israele.
Più lunghi e più lenti
Secondo i documenti ufficiali e i dati
dell’ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento
degli affari umanitari
(Ocha), ci sono 877 checkpoint e posti di
blocco sparsi intorno alle enclave palestinesi
della Cisgiordania (note come aree A
e B). Circa un quarto (220) sono stati creati
dopo l’ottobre 2023; tra febbraio e settembre
di quest’anno ne sono stati alle-
stiti 28. Un’indagine della Commissione
palestinese per la resistenza al muro e
agli insediamenti realizzata a settembre
ne ha contati 911 totali, di cui ottanta costruiti
dall’inizio del 2025. Questa leggera
discrepanza indica la grande quantità dei
blocchi, la loro diffusione e la facilità con
cui sono allestiti, quindi il loro numero a
volte dipende dal giorno.
Inoltre, ci sono posti di blocco temporanei
a sorpresa: i soldati sostano per una
o due ore tra i villaggi o all’ingresso di un
villaggio, fermando tutte le macchine e
controllando il documento d’identità di
autisti e passeggeri, a volte anche fotografandoli.
La loro posizione varia, ma la
pratica è sempre la stessa. Secondo il dipartimento
per i negoziati dell’Organizzazione
per la liberazione della Palestina,
a settembre sono comparsi 495
checkpoint temporanei e dati simili si
erano registrati nei mesi precedenti.
Questi vari blocchi stradali delineano
i contorni artificiali delle “sacche” territoriali
palestinesi A e B, che costituiscono
il 40 per cento della Cisgiordania. Allontanano
– o escludono del tutto – i palestinesi
dalle strade più veloci all’interno
della Cisgiordania, usate prevalentemente
dagli israeliani. Così per i palestinesi
i tragitti in auto diventano più lunghi
e a volte il traffico si blocca. L’incertezza è
un fattore costante di ogni itinerario.
Tirare a indovinare
Mentre era in attesa, Lina ha incontrato
una giovane paziente oncologica che vive
in un villaggio a sud di Nablus. Avrebbe
potuto sottoporsi alla chemioterapia
all’ospedale dell’università Al Najah, a un
quarto d’ora da casa sua, in tempi normali.
Tuttavia, dall’ottobre 2023 l’accesso
sud alla Route 60 (la superstrada principale)
per Nablus è bloccato da quello che
è conosciuto come il checkpoint di Hawara.
Per lei la strada per Ramallah non è
più breve né la più veloce, ma almeno è
sicura di arrivare.
Il checkpoint di Hawara è noto per essere
chiuso, ma ci sono anche cancelli
metallici dove i soldati giocano a fare
“apri e chiudi”, senza una regola precisa,
sicuramente non per i palestinesi. In altre
parole, molti possono solo provare a indovinare
quale situazione troveranno: i
soldati non ci sono e il varco è aperto; i
soldati non ci sono ma il varco è chiuso; i
soldati ci sono e il varco è chiuso; i soldati
ci sono e il varco è aperto, ma fermano e
controllano i conducenti con una lentezza
che sembra voluta. Tuttavia, a un varco
aperto può seguirne uno chiuso, o può
esserci un ingorgo stradale creato dal balletto
di chiusure e deviazioni forzate attraverso
i villaggi su stradine che non sono
pensate per il traffico interurbano.
“Dille quanti dossi stradali incontri
ogni giorno” suggerisce Abu Nihad, un
tassista di Ramallah, al suo amico che
guida sulla strada per Tulkarem. Invece di
prendere la strada Nablus-Anabta, che è
bloccata dal checkpoint di Einav, deve destreggiarsi
tra le vie sterrate e non asfaltate
dei villaggi circostanti. “A volte passo
per un checkpoint e il traffico scorre normalmente”,
spiega Abu Nihad. “Quando
torno indietro, dieci minuti dopo, il cancello
è chiuso e devo fare un altro percorso,
oppure aspettare mezz’ora prima che
riapra”. Abu Nihad considera questi ritardi
un’umiliazione. Come molti altri palestinesi
ha il sospetto che il vero motivo per
creare blocchi a determinati orari sia che i
soldati hanno ricevuto l’ordine di tenere
le strade libere per i veicoli israeliani, così
da ridurre gli ingorghi delle ore di punta al
mattino e nel pomeriggio. “Non è solo
umiliante”, aggiunge Lina. “Ogni volta
che ci mettiamo in macchina – o decidiamo
di non farlo – ho la sensazione che ci
venga rubato il tempo”.
In uno studio recente il Palestine economic
policy research institute (Mas) ha
calcolato quanto tempo è rubato. Sulla
base di un campione di cento veicoli pubblici
che passavano quasi tutta la giornata
in strada per cinque giorni a settimana
nell’ottobre 2023, lo studio ha rilevato
che ogni tragitto breve nel distretto di Nablus
comportava in media un ritardo di 23
minuti a causa di posti di blocco e sbarramenti.
Il dato è stato ottenuto confrontando
questi viaggi con quelli dei “giorni
normali” (cioè prima della guerra).
Il tragitto verso e da Gerico comportava
43 minuti persi, mentre per la tratta da
Nablus alla Cisgiordania centrale o meridionale
i ritardi si allungavano di circa
un’ora. Tuttavia, la portata di questo tempo
perso diventa evidente quando si
guarda al quadro generale: secondo la
stessa ricerca ogni giorno erano perse
191.146 ore lavorative a causa dei
checkpoint e dei posti di blocco. Le ore
perdute costavano all’economia palestinese
circa 764.600 dollari (660mila
euro) al giorno, più o meno 16,8 milioni di
dollari al mese. Questi costi derivavano
non solo dalle attese ma anche dai tentativi
di aggirare i blocchi: i conducenti che
preferivano cercare tratte alternative
spendevano di più in carburante e questa
quotidiana spesa supplementare ammontava
a circa 19.200 dollari, che sommati
diventavano 6 milioni all’anno.
Ogni automobilista lo sperimenta in
prima persona. Abu Nihad non si prende
più la briga di calcolare le sue perdite;
conta solo i motivi che le hanno causate.
Le persone viaggiano meno; le attese ai
posti di blocco fanno sprecare gasolio;
sulle strade sterrate gli pneumatici si consumano
più velocemente e si usa più carburante;
i guasti ai veicoli sono più frequenti.
Lina ha saputo dal medico che una
delle sue pazienti, che vive a nord di Ramallah,
ha smesso di andare in ospedale
per le terapie. Quando il medico l’ha
chiamata per chiederle spiegazioni, lei ha
detto che non poteva permettersi il trasporto
pubblico e preferiva risparmiare il
poco che aveva per sfamare i figli. Allora
lui le ha mandato i soldi per coprire le
spese di viaggio per i tre mesi, ma lei li ha
dati ai suoi figli.
La rinuncia a viaggiare in auto è un fenomeno
generale ed è uno dei sintomi
della crisi economica in Cisgiordania. Decine
di migliaia di famiglie hanno perso la
loro fonte primaria di sussistenza quando
Israele ha vietato l’ingresso dei lavoratori
palestinesi dopo il 7 ottobre 2023. L’Autorità
nazionale palestinese (Anp) non è in
grado di pagare interamente i salari ai dipendenti
pubblici, perché Israele confisca
una quota significativa delle entrate del
ministero delle finanze dell’Anp ottenute
con i dazi sulle importazioni. Gli impiegati
lavorano in ufficio solo pochi giorni a
settimana, gli insegnanti tengono le lezioni
su Zoom due o tre giorni a settimana,
quando è possibile.
Regole più severe
Daliya, un’abitante di Gerusalemme Est
che lavora in Cisgiordania, conosce bene
i posti di blocco. “È evidente come contribuiscono
a frammentare il nostro territorio,
ma è difficile spiegare come hanno
preso il controllo delle nostre vite”. Agli
occhi di un osservatore esterno, ogni
blocco è un “non-evento”. “Quando il
traffico è congestionato al checkpoint di
Qalandiya puoi lamentarti dell’aumento
delle auto private e della cultura consumistica,
dimenticando che tre corsie convergono
in un unico posto di blocco e che
questi posti di blocco di fatto separano i
palestinesi
tra loro”. E offre altri esempi:
“Quando il tragitto alternativo comporta
una salita ripida, chi sente il cuore degli
autisti martellare nei loro veicoli grossi e
ansimanti? Quando un varco è chiuso,
l’immobilità non si vede: l’insegnante
che non arriva in classe, la riunione che si
svolge senza alcuni partecipanti. Quando
in una strada asfaltata vuota e fatiscente
spuntano un’estate dopo l’altra rovi e cardi,
non vedi il trattore o il carretto trainato
da un asino che un tempo passavano
qui per raggiungere gli uliveti o le sorgenti
d’acqua. Non vedi la vita che c’era una
volta”.
Questi non-eventi determinano e invadono
la vita quotidiana, non solo nel
luogo in cui accadono – cioè sulle strade –
ma anche nelle conversazioni di ogni giorno,
a scuola, al supermercato, in famiglia;
condizionano le decisioni su dove vivere
(a nord o a sud di un checkpoint), le spese,
i conti in banca e la pressione sanguigna.
Questa era la realtà anche sette anni
fa, quando i checkpoint e i posti di blocco
erano 706, o nel 2023 quando il numero
era sceso a 645. Da due anni però la situazione
sta peggiorando. Questa realtà porta
i palestinesi a trovare nuove definizioni
di disperazione. “Quando muore uno di
noi, per loro è un sollievo, è un peso in
meno”, dice Abu Nihad. “Ma noi siamo
reclusi senza essere ufficialmente incarcerati.
Io muoio ogni giorno”.
Le forme di questa reclusione sono
molte, l’unico limite è l’immaginazione
di chi stabilisce i blocchi: cubi di cemento
o cumuli di terra e pietre in mezzo a una
strada, fossati costeggiati da terrapieni;
varchi metallici sempre chiusi, o aperti a
intermittenza; quelli chiusi e aperti a distanza;
quelli che i soldati vengono ad
aprire e chiudere con una chiave; i posti
di controllo presidiati dai soldati 24 ore su
24 sette giorni su sette e quelli chiusi
quando i soldati tornano alla base a mezzogiorno;
quelli chiusi a orari fissi, e quelli
chiusi al traffico in base a qualche oscura
decisione o, come sostengono i palestinesi,
“all’umore del soldato di turno”.
Il medico di Lina, che arriva dalla zona
di Betlemme, passa ogni giorno da quello
che viene chiamato il checkpoint Container
a Wadi Nar: tutto il traffico palestinese
tra il sud e il nord della Cisgiordania passa
da lì. Una breve pausa degli agenti della
polizia di frontiera per andare in bagno o
mangiare un panino è sufficiente a paralizzare
il traffico per mezz’ora o più.
Di fatto, è sufficiente che la polizia di
frontiera chieda a ogni auto di fermarsi
per cinque secondi, senza dare neppure
un’occhiata al documento di identità del
conducente o senza aprire il portabagagli
per formare un serpentone di auto
dalla cima della collina fino alla vallata,
che si muove di cento metri all’ora.
In passato capitava che l’esercito israeliano
alleggerisse la pressione dopo alcune
settimane o mesi di restrizioni più
rigide. Oggi la tendenza è imporre politiche
più severe. L’Ocha ha constatato che
vent’anni fa circa tre quarti dei vari blocchi
stradali erano costituiti da cumuli di
terra e barriere di cemento, quindi erano
temporanei e facilmente rimovibili. Oggi
si tende a usare più spesso infrastrutture
stabili, il che indica un’istituzionalizzazione
dei limiti al movimento.
A maggio di quest’anno c’erano 94
checkpoint presidiati dai militari sempre,
sette giorni su sette, mentre altri 153 erano
sorvegliati per poche ore al giorno. Sui
223 varchi metallici contati dall’Ocha a
settembre, 127 erano abitualmente chiusi.
Il loro scopo evidentemente non è solo
bloccare: sopra ogni struttura ci sono videocamere
per il riconoscimento facciale,
che registrano anche tutte le targhe. In
questo modo, dice Daliya, “ci muoviamo
tra una sensazione di claustrofobia in
ogni enclave circondata da checkpoint,
blocchi, postazioni militari, avamposti e
insediamenti e la consapevolezza di essere
costantemente sotto sorveglianza”.
L’esercito israeliano non ha risposto
alla richiesta di Haaretz sul numero di
varchi metallici e su chi decide quando
chiuderli e aprirli, o ordina ai soldati di
fotografare i conducenti palestinesi. Si è
anche rifiutato di commentare se i ritardi
hanno lo scopo di facilitare il movimento
dei cittadini ebrei dagli insediamenti al
territorio israeliano vero e proprio. “Le decisioni sulla creazione dei posti di blocco”,
ha detto un portavoce, “così come le
loro aperture e chiusure sono prese sulla
base di valutazioni operative e per motivi
di sicurezza. La loro disposizione serve a
consentire il controllo operativo e una difesa
efficace dell’intera area. La politica
sui posti di blocco cambia a seconda della
situazione sul campo, unendo le necessità
in materia di sicurezza con la possibilità
di viaggiare nell’area”. Nell’ambito
delle attività militari, ha concluso, “dispositivi
tecnologici sono usati nel rispetto
del diritto internazionale per tutelare
la sicurezza. L’uso di questi dispositivi ha
consentito di sventare decine di attentati
terroristici, in parte grazie ai posti di blocco.”
fdl