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Compagnie di navigazione nel panico dopo le minacce dello Yemen di intensificare gli attacchi
Londra – Presstv.ir. Un’ondata di panico ha investito le compagnie di navigazione che utilizzano rotte marittime vicino allo Yemen, dopo che il Paese arabo ha minacciato un’intensificazione degli attacchi contro navi legate al regime israeliano, nell’ambito della sua campagna di solidarietà con la Palestina. Un articolo pubblicato martedì da Lloyd’s List, prestigiosa rivista di notizie marittime, ha riferito che gli armatori stanno sempre più evitando le rotte nel Mar Rosso e in altri corridoi marittimi regionali, due giorni dopo l’annuncio yemenita di una nuova fase di attacchi contro navi collegate a Israele nella regione. L’articolo cita dichiarazioni di importanti compagnie di navigazione greche, tra cui Ariston Navigation, Intercargo e Safe Bulkers, che hanno annunciato la decisione di sospendere le spedizioni nella regione. “Nessuno vuole correre rischi per la vita e la proprietà”, ha dichiarato Angeliki Frangou, amministratrice delegata di Navios, aggiungendo che le sue navi “opteranno per rotte prive di rischi”. Frangou ha riferito che la compagnia ha predisposto nuovi contratti con i clienti, che consentono la deviazione delle rotte, aggiungendo che evitare il Mar Rosso è ormai indispensabile, anche a causa degli elevati costi assicurativi legati a quella rotta. Il rapporto segue la dichiarazione del movimento Houthi Ansarullah, al potere nello Yemen, secondo cui prenderà di mira le navi mercantili appartenenti a qualsiasi compagnia che intrattenga rapporti commerciali con porti israeliani, a prescindere dalla nazionalità o destinazione, in una nuova fase della sua campagna di solidarietà con i palestinesi di Gaza nella loro lotta contro il regime israeliano. Lo Yemen prende di mira le navi legate a Israele dal novembre 2023, un mese dopo l’inizio dell’assalto israeliano a Gaza. Il Paese arabo ha dichiarato che porrà fine agli attacchi nella regione solo quando Israele avrà completamente cessato la sua guerra genocida contro i palestinesi. Traduzione per InfoPal di F.L.
Le Brigate al-Qassam lanciano attacchi contro le IOF a Khan Younis
Gaza-almayadeen.net. Le Brigate al-Qassam, ala militare di Hamas, hanno annunciato giovedì una serie di operazioni coordinate contro le forze di occupazione nel sud della Striscia di Gaza, in particolare a Khan Younis. Gli attacchi arrivano nel contesto di continui scontri e di persistenti incursioni terrestri israeliane nell’enclave assediata. Secondo una dichiarazione del gruppo della Resistenza, diversi colpi di mortaio sono stati lanciati contro un raggruppamento di soldati israeliani e veicoli militari a est dell’area di al-Qarara, a nord-est di Khan Younis. Il bombardamento avrebbe provocato vittime tra le forze di occupazione. In un’altra operazione, i combattenti di al-Qassam hanno fatto esplodere tre bombe artigianali all’interno di un hangar per veicoli militari israeliani situato a sud della zona di Batn al-Sameen. Secondo il gruppo, l’esplosione ha causato morti e feriti tra i soldati israeliani. Sempre nella giornata di giovedì, le Brigate al-Qassam hanno teso un’imboscata a tre veicoli blindati israeliani per il trasporto truppe in un’operazione ben coordinata a est di Khan Younis. Il gruppo ha descritto l’azione come “complessa” e finalizzata a ostacolare l’avanzata delle colonne militari israeliane nell’area. Questi sviluppi fanno parte di una più ampia campagna di operazioni delle Brigate al-Qassam a Khan Younis, dove la Resistenza continua a mantenere una presenza attiva nonostante intensi bombardamenti aerei e attacchi via terra. Le operazioni più recenti sottolineano la resilienza continua delle fazioni della Resistenza palestinese, nonostante gli sforzi dell’occupazione per consolidare il controllo nel sud di Gaza. Nonostante i bombardamenti prolungati e i tentativi di penetrare le posizioni difensive, i combattenti sono riusciti a colpire le forze israeliane. Mercoledì, le Brigate al-Qassam hanno annunciato che, lunedì sera, i loro combattenti avevano fatto esplodere un ordigno contro le forze israeliane nella Striscia di Gaza meridionale. In un comunicato, al-Qassam ha riferito che i suoi combattenti hanno fatto esplodere tre bombe contro un convoglio di veicoli militari israeliani nella zona meridionale di al-Batin as-Sameen, a sud di Khan Younis, provocando morti e feriti tra i soldati israeliani. Sabato 26 luglio, le Brigate al-Qassam hanno annunciato di aver eseguito un’imboscata complessa contro tre mezzi blindati israeliani per il trasporto truppe a est di Khan Younis, nella Striscia di Gaza meridionale. Nel loro comunicato, le Brigate hanno affermato che i combattenti hanno fatto esplodere con successo due di questi veicoli utilizzando ordigni esplosivi improvvisati piazzati in anticipo nelle cabine, distruggendo entrambi i mezzi e uccidendone gli occupanti. Traduzione per InfoPal di F.F.
Genocidio israelo-statunitense a Gaza: 660° giorno. 132° dalla fine unilaterale del cessate il fuoco. Morte per fame. Bambini disperati
Gaza-InfoPal. Le forze nazi-sioniste di occupazione israeliane (IOF) hanno continuato la loro guerra genocida sulla Striscia di Gaza per il 132° giorno consecutivo dopo aver posto fine unilateralmente al cessate il fuoco, sostenuti politicamente, economicamente e militarmente dagli Stati Uniti, dall’Europa e da parte del mondo arabo. Decine di attacchi aerei e raffiche di artiglieria hanno colpito tutto il territorio, prendendo di mira case, tende e rifugi civili, e centri di distribuzione aiuti. Si tratta di una campagna sistematica di sterminio contro la popolazione civile di Gaza. Il ministero della Salute di Gaza segnala 14 decessi nelle ultime 24 ore dovuti a fame e malnutrizione, tra cui due bambini deceduti per fame estrema. Ciò avviene nel contesto di un blocco totale israeliano e di una campagna di carestia in corso contro 2 milioni (i restanti di 2,2 milioni) di palestinesi nella regione. Palestinesi affamati, compresi bambini, si affannano per procurarsi cibo di cui hanno disperatamente bisogno in una mensa di beneficenza a Gaza, nel mezzo della guerra per la fame in corso sul territorio da parte di Israele. (Fonti: Quds Press, Quds News network, PressTv, PIC, Wafa, The Cradle, Al-Mayadeen; ministero della Salute di Gaza; Euro-Med monitor, Telegram; credits foto e video: Quds News network, PIC, Wafa, ministero della Salute di Gaza, Telegram e singoli autori). Per i precedenti aggiornamenti: https://www.infopal.it/category/genocidio-e-pulizia-etnica-a-gaza
Il capo dell’UNRWA: i lanci aerei non fermeranno la carestia a Gaza, urge aprire i valichi di frontiera
New York – PIC. Philippe Lazzarini, Commissario Generale dell’Agenzia delle Nazioni Unite per il Soccorso e l’Occupazione dei Rifugiati Palestinesi (UNRWA), ha affermato sabato che i lanci aerei di aiuti umanitari su Gaza sono una distrazione inefficace e pericolosa rispetto all’urgente necessità di revocare l’assedio e aprire i valichi di frontiera. «I lanci aerei su Gaza sono solo una distrazione e una cortina fumogena», ha dichiarato Lazzarini in un comunicato stampa, avvertendo che tali operazioni «non fermeranno il peggioramento della carestia» nella Striscia assediata. Ha sottolineato che queste operazioni sono costose, inefficienti e potenzialmente letali per i civili, sollecitando invece la consegna degli aiuti via terra, che ha definito «più facile, più efficace, più rapida, più sicura e più dignitosa per la popolazione di Gaza». Lazzarini ha rivelato che 6.000 camion carichi di aiuti umanitari essenziali sono attualmente in attesa in Giordania ed Egitto, pronti a entrare a Gaza non appena sarà concesso il permesso. Ha quindi chiesto la revoca immediata dell’assedio, l’apertura di tutti i valichi e la possibilità per le agenzie delle Nazioni Unite e i partner umanitari di operare liberamente nella Striscia. Le sue dichiarazioni arrivano mentre aumentano le discussioni sugli aiuti lanciati dal cielo. Un funzionario israeliano ha detto alla CNN venerdì che Tel Aviv consentirà a paesi stranieri di effettuare lanci aerei nei prossimi giorni, menzionando Giordania ed Emirati Arabi Uniti come partecipanti. Tuttavia, molte fazioni palestinesi e organizzazioni umanitarie internazionali hanno criticato il piano, sottolineando che i lanci aerei non possono sostituire un accesso continuativo e sostenibile degli aiuti via terra. I precedenti lanci aerei autorizzati da Israele si sono rivelati pericolosi e tragici, con decine di palestinesi uccisi dopo che i pacchi di aiuti sono caduti su di loro o sono atterrati in zone pericolose. Sabato mattina, l’Ufficio Stampa del Governo di Gaza ha lanciato un allarme per una catastrofe umanitaria senza precedenti: oltre 100.000 bambini, tra cui 40.000 neonati, rischiano la vita a causa del blocco. Il bilancio complessivo delle vittime per fame e malnutrizione è salito a 122, tra cui 83 bambini, e si prevede che aumenterà drasticamente con il protrarsi dell’assedio e la chiusura dei valichi. Nel frattempo, le agenzie delle Nazioni Unite e le organizzazioni umanitarie hanno lanciato avvertimenti urgenti: il cibo terapeutico per i bambini gravemente malnutriti sta per esaurirsi, mettendo a repentaglio la vita di migliaia di persone tra le più vulnerabili. Dal 7 ottobre 2023, Israele sta conducendo una guerra genocida contro Gaza, caratterizzata da uccisioni di massa, fame deliberata, sfollamenti forzati e distruzione delle infrastrutture civili, il tutto con il pieno appoggio degli Stati Uniti e in violazione del diritto internazionale e delle sentenze della Corte Internazionale di Giustizia.
La fame miete cinque vittime a Gaza
Gaza – PIC. Cinque cittadini palestinesi, tra cui due bambini, sono morti di fame e malnutrizione nella Striscia di Gaza nelle scorse 24 ore, secondo una dichiarazione rilasciata sabato sera dal ministero della Salute di Gaza. Secondo il Ministero, la campagna israeliana di fame deliberata a Gaza ha causato finora la morte di almeno 127 palestinesi, tra cui 85 bambini. Nel frattempo, il dottor Ahmed al-Farra, direttore dell’ospedale pediatrico presso il Nasser Medical Complex, ha avvertito che i bambini affamati di Gaza non possono resistere a lunghi periodi senza cibo, rendendoli estremamente vulnerabili a gravi rischi per la salute. “Stiamo affrontando la situazione più dolorosa degli ultimi 22 mesi”, ha dichiarato il dottor al-Farra.
Le forze israeliane sequestrano la nave Handala della Freedom Flotilla
Gaza. Le forze navali del regime israeliano hanno sequestrato la nave di aiuti battente bandiera britannica della coalizione della Freedom Flotilla mentre si dirigeva verso la Striscia di Gaza, nel tentativo di rompere l’assedio. I media israeliani hanno riportato la notizia sabato. L’imbarcazione, chiamata Handala, era partita dall’Italia con a bordo 21 attivisti disarmati — tra cui parlamentari, medici e volontari — diretti verso la costa gazawi. L’equipaggio ha riferito di aver avvistato un drone librarsi sopra la nave prima che fosse avvicinata da unità della marina israeliana. Ritrovandosi nella situazione, hanno lanciato una “richiesta di soccorso”. Huwaida Arraf, una delle persone a bordo, ha dichiarato che, dopo aver avvistato le navi israeliane, l’equipaggio ha tentato “di contattare la Marina israeliana — ma non è giunta alcuna risposta”. Infine, Emma Fourreau, europarlamentare francese presente sull’Handala, ha annunciato il dirottamento dichiarando: “L’esercito israeliano è qui”. Immagini diffuse in streaming online mostrano l’equipaggio raggruppato con indosso i giubbotti di salvataggio, le mani alzate nel tentativo di evitare scontri. “Fermate il genocidio”, ha aggiunto Fourreau, riferendosi alla guerra genocida lanciata dal regime israeliano contro Gaza nell’ottobre 2023. Nel corso del conflitto, il regime ha ulteriormente inasprito il già severo assedio imposto dal 2007, impedendo l’ingresso di gran parte degli aiuti umanitari urgentemente necessari. Gli attacchi militari diretti, uniti al rafforzamento delle restrizioni — denunciati come un mezzo per “trasformare la fame in un’arma” — hanno finora causato la morte di oltre 59.700 palestinesi, in maggioranza donne e bambini. Handala trasportava rifornimenti umanitari, tra cui latte in polvere, alimenti e medicinali, destinati alla popolazione colpita. Lo scorso mese, l’esercito israeliano ha dirottato un’altra nave umanitaria diretta a Gaza, a bordo della quale si trovavano 12 attivisti internazionali di alto profilo. Anche a maggio, droni israeliani avevano attaccato un’imbarcazione simile, a bordo della quale viaggiavano Greta Thunberg, nota attivista svedese, e altri, mentre si trovava al largo della costa di Malta. (Fonti: PressTV, Quds News, Telegram).
Albanese: Gaza affronta la forma “più orribile” di genocidio mentre il mondo rimane in silenzio
Gaza. La Relatrice Speciale delle Nazioni Unite per i Diritti Umani nei Territori Palestinesi, Francesca Albanese, ha dichiarato che Israele sta commettendo un genocidio a Gaza “nella sua forma più orribile”. Parlando in un contesto di crescente preoccupazione internazionale, Albanese ha sottolineato che non può esserci pace in Medio Oriente senza giustizia e responsabilità, entrambe assenti mentre l’assalto contro Gaza prosegue. Anche il primo ministro australiano, Anthony Albanese, è intervenuto, definendo la situazione a Gaza un “disastro umanitario”. In una dichiarazione rilasciata venerdì, ha chiesto un’azione urgente per porre fine alle sofferenze della popolazione civile, affermando che “ogni sforzo deve essere compiuto per proteggere vite innocenti e porre fine alla fame”. Ha condannato il blocco in corso da parte di Israele, dichiarando: “Il fatto che Israele impedisca l’ingresso degli aiuti e uccida civili, compresi bambini in cerca di acqua e cibo, non può essere ignorato né giustificato”. Dal 7 ottobre 2023, Israele conduce una guerra di genocidio contro Gaza, con il sostegno degli Stati Uniti. Il conflitto ha provocato oltre 203.000 vittime palestinesi, tra morti e feriti, in gran parte donne e bambini. Più di 9.000 persone risultano ancora disperse, mentre una carestia mortale si sta diffondendo e centinaia di migliaia sono state costrette a fuggire dalle proprie case.
Il bilancio delle vittime della fame a Gaza sale a 122 a causa del blocco israeliano in corso
Gaza. Il numero di palestinesi morti a causa dell’attuale guerra della fame condotta da Israele nella Striscia di Gaza è salito a 122, dopo il decesso di altre nove persone nelle scorse 24 ore, secondo fonti mediche. Tra le vittime della crisi alimentare in corso, causata dal blocco israeliano, si contano 83 bambini. L’ultima vittima è un bambino deceduto venerdì mattina per fame e grave malnutrizione. Le stime attuali indicano che 900.000 bambini nell’enclave assediata soffrono la fame, e che 70.000 di loro hanno raggiunto uno stadio di malnutrizione acuta. L’Agenzia delle Nazioni Unite per il Soccorso e l’Occupazione dei Rifugiati Palestinesi (UNRWA) aveva già avvertito che i tassi di malnutrizione tra i bambini sotto i cinque anni sono raddoppiati tra marzo e giugno di quest’anno. L’agenzia attribuisce questo allarmante aumento al blocco israeliano in corso, che ha gravemente limitato l’accesso a cibo, forniture mediche e aiuti umanitari. Le organizzazioni per i diritti umani e i gruppi di aiuto umanitario hanno lanciato l’allarme per la catastrofe umanitaria in atto a Gaza, sollecitando un intervento internazionale immediato per porre fine al blocco e fornire assistenza salvavita alla popolazione. (Fonti: Wafa, Quds News).
Genocidio in Palestina: le tecniche con cui i media normalizzano l’orrore
Gaza-L’Antidiplomatico.it. Di Maylyn López. La Striscia è sprofondata in una catastrofe umanitaria di proporzioni bibliche. Secondo i dati più aggiornati delle Nazioni Unite, oltre 50.000 palestinesi hanno perso la vita e circa 115.000 sono rimasti feriti nel massacro che Israele ha messo in scena dal 7 ottobre 2023. 1,9 milioni di persone – praticamente l’intera popolazione di Gaza – risultano sfollate, mentre intere porzioni del territorio sono state rase al suolo. Città come Rafah semplicemente sono state cancellate dalla mappa.  Mentre le bombe e le privazioni mietono vittime, l’indignazione internazionale resta attenuata, intermittente, quasi anestetizzata. Come è possibile? Quali meccanismi comunicativi e cognitivi permettono al mondo di assistere, perlopiù impassibile, a questa tragedia? La dissonanza cognitiva è quel malessere psicologico che insorge quando credenze e realtà confliggono. Nel caso della Palestina, chi da un lato crede nei diritti umani universali ma dall’altro supporta o giustifica le azioni militari indiscriminate di Israele, si trova in una tensione interna. Per ridurla, inconsciamente può attuare strategie mentali: ad esempio convincersi che “in fondo Hamas usa i civili come scudi umani, quindi quelle morti non sono colpa nostra”, oppure che “è una guerra al terrorismo, i civili sono vittime inevitabili”. Si sposta l’attenzione dalla sofferenza umana al quadro narrativo che la giustifica.  Un ruolo rilevante lo gioca anche il bias empatico di gruppo. Studi neuroscientifici hanno dimostrato che gli esseri umani provano più empatia per chi percepiscono come simile o appartenente al proprio gruppo, mentre l’empatia cala verso l’“altro”, soprattutto se intervengono paure e pregiudizi. In situazioni di conflitto etnico-nazionale, i media e la propaganda enfatizzano le differenze, seminano paura dell’altro (dipinto magari come fanatico, barbaro o terrorista), con l’effetto di ridurre biologicamente la nostra capacità di provare compassione.  Questo vale in maniera evidente nel caso dell’attacco da parte di Israele contro la Palestina. Nei media occidentali, la sofferenza di questo popolo è filtrata attraverso frame o cornici che riducono o omettono:  si parla di “conflitto”, “operazione militare”, “risposta difensiva”. Raramente si usano parole come “massacro”, “occupazione”, “pulizia etnica”. Il lessico anestetizza l’orrore. Le vittime israeliane vengono descritte come “brutalmente uccise”; i palestinesi, semplicemente, “muoiono”. Le responsabilità svaniscono dietro il passivo verbale: “sono stati trovati morti”. Dietro l’indifferenza di parte della comunità internazionale verso la tragedia palestinese, agiscono potenti meccanismi psicologici. Judith Butler, filosofa, si chiede provocatoriamente: “Chi è considerato umano? Quali vite contano come vite? Che cosa rende una vita degna di lutto?” . Nel suo saggio Frames of War, Butler sostiene che nei nostri apparati cognitivi e culturali esiste una cornice che decide quali vite siano “piangibili” (grievable) e quali no. Se una vita non rientra nel quadro di ciò che la nostra società considera degno di cordoglio, la sua perdita non ci scuote né ci indigna allo stesso modo. Per risolvere l’incongruenza fra i nostri valori umani dichiarati e l’indifferenza di fatto verso certe vittime, tendiamo ad adattare la percezione – minimizzando la sofferenza altrui, giustificando l’ingiustificabile come “necessario”. Come aveva brillantemente anticipato Carl von Clausewitz, il fenomeno comunicativo è diventato il vero centro di gravità della guerra: guida la percezione, la modifica e adatta alle necessità di chi ha il potere dell’informazione. Lo conferma anche Bernard Cohen, secondo cui “se un governo perde il controllo sulla narrazione mediatica, può perdere il potere di usare la forza militare”. Framing mediatico: vittime “degne” o vittime invisibili. Nel suo saggio The Press and Foreign Policy (1963), il politologo Bernard Cohen formulò una massima tuttora illuminante: i media “possono non riuscire sempre a dire alla gente cosa pensare, ma sono sorprendentemente abili nel dire alla gente a cosa pensare”. Questa funzione di agenda-setting diventa cruciale nei conflitti. Già Edward Said denunciava che ai palestinesi è stata a lungo negata perfino la “permission to narrate”, ovvero il permeso di raccontare la propria storia. La narrazione dominante del conflitto israelo-palestinese nei media occidentali tradizionali è spesso improntata a un frame squilibrato: gli attacchi che colpiscono civili israeliani ricevono una copertura mediatica immediata, dettagliata, personalizzata; al contrario, le sofferenze palestinesi – pur numerose e collettive – tendono a essere raccontate in modo vago, impersonale, talvolta giustificate con il lessico asettico delle “rappresaglie” o dei “danni collaterali”. Con le più avanzate tecniche nel campo della persuasione di massa, la comunicazione sceglie cosa inquadrare e di mostrare. Come spiega il politologo Robert Entman, “inquadrare significa selezionare alcuni aspetti della realtà percepita e renderli più salienti nel testo comunicativo”. Così, i media possono decidere se mostrare le macerie di un ospedale bombardato a Gaza o piuttosto le immagini del terrore in un kibbutz israeliano; se usare parole come “massacro” oppure “operazione di sicurezza”, stabilendo implicitamente, per esempio, chi merita empatia e chi invece può essere ignorato. Le neuroscienze e la psicologia cognitiva confermano che le persone sono più inclini ad agire quando vedono e comprendono la sofferenza di un individuo identificabile. È il cosiddetto identifiable victim effect. Le storie personali attivano il sistema limbico, sede delle emozioni. I gruppi anonimi, invece, generano distacco, specialmente quando le immagini vengono oscurate con l’etichetta “contenuto sensibile”. In questo scenario, i media decidono cosa si può vedere, cosa no. Questa dicotomia alimenta un doppio standard empatico, che crea una gerarchia morale tra le vittime. È su questa base che si costruisce — e si legittima — l’accettazione silenziosa di un genocidio. I teorici della comunicazione, Edward Herman e Noam Chomsky, già negli anni ’80 analizzarono questo fenomeno con il concetto di worthy and unworthy victims – vittime degne e indegne. Nel modello di Herman e Chomsky, i media nelle società occidentali tendono a dare ampia visibilità e umanità alle vittime di regimi nemici o di cause “utili” alla propria agenda, mentre minimizzano le vittime di regimi alleati o “amici” .  In questo modo, le vittime degne monopolizzano l’empatia pubblica, diventano “persone come noi”; le “vittime indegne”, al contrario, rimangono numeri senza nome. Dissonanza cognitiva e bias empatici. La conseguenza è duplice. Da un lato, l’opinione pubblica occidentale è incoraggiata a immedesimarsi nelle paure e nel dolore di una parte (tipicamente, “gli israeliani colpiti da attacchi terroristici”), riconoscendo loro pienamente lo status di vittime umane innocenti. Le vittime dell’altra parte (i palestinesi sotto le bombe, le famiglie decimate a Gaza) vengono, al contrario, spersonalizzate. Questa sproporzione narrativa alimenta un bias empatico: l’empatia collettiva si attiva selettivamente, guidata non tanto dall’entità oggettiva della sofferenza, quanto dal frame mediatico e politico in cui quella sofferenza è presentata. Chi muore “dalla parte sbagliata” rischia di non entrare nemmeno nel cerchio della nostra compassione.  Questo meccanismo rientra perfettamente nel modello di Manufacturing Consent elaborato da Noam Chomsky ed Edward Herman: l’informazione passa attraverso filtri che la rendono compatibile con gli interessi dominanti. La sofferenza palestinese è oscurata, la sua legittimità negata e per questo motivo le narrazioni alternative vengono screditate o tacciate di antisemitismo. Un esperimento citato su Psychological Science ha rilevato che basta esporre le persone a immagini spaventose (collegate all’altro gruppo) per sopprimere la risposta empatica quando vedono membri di quel gruppo soffrire. La paura e la propaganda sono molto efficaci: attivano l’amigdala e altre strutture cerebrali legate all’allarme e all’aggressività, disattivando le connessioni empatiche. In altre parole, se siamo bombardati di notizie che dipingono un popolo intero come minaccioso, arretrato o diverso, finiamo con il “sentire” meno il dolore di quel popolo. Si instaura quella che alcuni psicologi definiscono “morte dell’empatia” verso l’esterno. Parallelamente, l’eccesso di immagini di violenza può avere un duplice effetto: mobilitare le coscienze oppure, al contrario, intorpidire i sentimenti. La scrittrice Susan Sontag, in Regarding the Pain of Others, rifletteva su come la visione continua di atrocità in fotografia e video possa servire a “rafforzarsi contro la debolezza, a rendersi più insensibili” .   Se ci limitiamo a consumare passivamente immagini rischiamo di costruirci una corazza emotiva per sopravvivere all’orrore, specialmente se percepiamo di non poter fare nulla per cambiarlo. Sontag però aggiungeva che non è la quantità di immagini in sé a desensibilizzarci, bensì la passività con cui le assorbiamo.  La compassione è un’emozione instabile: senza un’azione, senza una risposta etica, finisce per appassire. Così, l’opinione pubblica– esposta a un flusso costante di violenza in Medio Oriente – rischia di cadere in una sorta di shock del reale: o volta lo sguardo per non soccombere alla sofferenza altrui, oppure la osserva come attraverso un vetro, senza più reagire. In entrambi i casi, la conseguenza è micidiale: l’agonia di un popolo perde la capacità di interpellare le coscienze, diventa rumore di fondo. La comunicazione mediatica non è solo veicolo di notizie: è uno strumento di potere.  Gli errori cognitivi – come il bias di conferma, omissione e illusione della simmetria – agiscono a livello inconscio e determinano il modo in cui percepiamo la realtà. La dissonanza cognitiva nasce proprio dal conflitto tra i nostri valori dichiarati, per esempio, giustizia, diritti umani, e l’accettazione di pratiche disumane: fame, uccisioni di bambini e vittime innocenti, bombardamenti su scuole. Come scriveva Susan Sontag, nessun “noi” può essere dato per scontato di fronte al dolore degli altri. E come ci insegna l’eredità di Edward Said, ai popoli oppressi va restituito il diritto di raccontarsi: ascoltare le voci palestinesi, le loro storie quotidiane di resilienza oltre che di sofferenza, è il primo passo per restituire loro dignità e per ricalibrare il nostro stesso senso di giustizia. Di fronte alla tragedia palestinese, l’urgenza è duplice: agire per fermare l’ecatombe, e raccontare con verità ciò che sta accadendo. In gioco c’è la nostra stessa umanità.  Maylyn López Responsabile delle Relazioni Internazionali e Coordinatrice della BRNN “Belt and Road News Network” per l’AD. Docente universitaria. Specialista in Comunicazione Strategica e Istituzionale, giornalista, mediatrice internazionale. Certificazione in programmazione Neurolinguistica. 20 anni di esperienza nell’ambito diplomatico e multilaterale. 
BBC, AFP, AP e Reuters: i giornalisti di Gaza “sempre più impossibilitati a sfamarsi” a causa della carestia provocata da Israele
Gaza – Quds News. Associated Press, AFP, BBC News e Reuters hanno rilasciato giovedì una dichiarazione congiunta esprimendo profonda preoccupazione per i loro giornalisti a Gaza, che sono “sempre più incapaci di sfamarsi e sfamare le proprie famiglie”, mentre Israele continua a bloccare l’ingresso degli aiuti nell’enclave da oltre quattro mesi. “Siamo estremamente preoccupati per i nostri giornalisti a Gaza, che sono sempre più incapaci di procurarsi il cibo per sé e per le loro famiglie” — hanno dichiarato le quattro principali testate giornalistiche. “Per molti mesi, questi giornalisti indipendenti sono stati gli occhi e le orecchie del mondo sul campo a Gaza. Ora si trovano ad affrontare le stesse condizioni disperate delle persone di cui stanno raccontando”. “I giornalisti sopportano molte privazioni e difficoltà nelle zone di guerra. Siamo profondamente allarmati dal fatto che ora anche la fame sia una di queste”. La dichiarazione chiede a Israele di permettere ai giornalisti di entrare e uscire da Gaza e di autorizzare l’ingresso di adeguati rifornimenti alimentari nel territorio. “Rinnoviamo il nostro appello alle autorità israeliane affinché permettano ai giornalisti di entrare e uscire da Gaza. È essenziale che la popolazione riceva rifornimenti alimentari adeguati”. Mercoledì, anche Al Jazeera Media Network ha sollecitato la comunità giornalistica, le organizzazioni per la libertà di stampa e gli organi legali competenti a “intraprendere azioni decisive” per fermare “la fame forzata e i crimini” commessi da Israele contro i giornalisti e i professionisti dei media a Gaza. “Da oltre 21 mesi, i bombardamenti israeliani e la fame sistematica inflitta a quasi due milioni di persone a Gaza hanno portato un’intera popolazione sull’orlo della morte” — ha dichiarato l’emittente. “I giornalisti sul campo, che hanno coraggiosamente denunciato questo genocidio in corso, hanno messo a rischio le proprie vite e quelle delle loro famiglie per dare visibilità a queste atrocità. Ma ora lottano per la propria sopravvivenza”. Il 19 luglio, i giornalisti di Al Jazeera hanno iniziato a pubblicare messaggi strazianti sui social media, segnalando che la loro capacità di continuare a lavorare sta venendo meno. “Non ho smesso di raccontare ciò che accade nemmeno per un momento, in 21 mesi, e oggi lo dico chiaramente… e con un dolore indescrivibile. Sto annegando nella fame, tremo per la stanchezza e resisto agli svenimenti che mi colgono a ogni istante… Gaza sta morendo. E noi moriamo con lei” — ha scritto Anas al-Sharif di Al Jazeera. Mostefa Souag, direttore generale di Al Jazeera Media Network, commentando la situazione dei giornalisti a Gaza, ha dichiarato: “Dobbiamo amplificare le voci dei coraggiosi giornalisti di Gaza e porre fine alle insopportabili sofferenze che stanno subendo a causa della fame forzata e delle uccisioni mirate da parte delle forze di occupazione israeliane”. “La comunità giornalistica e il mondo hanno una grande responsabilità: è nostro dovere far sentire la loro voce e mobilitare tutti i mezzi disponibili per sostenere i nostri colleghi in questa nobile professione. Se non agiamo ora, rischiamo un futuro in cui non ci sarà più nessuno a raccontare le nostre storie. La nostra inazione sarà ricordata come un fallimento monumentale nella difesa dei nostri colleghi giornalisti e come un tradimento dei principi che ogni giornalista dovrebbe difendere”. 232 giornalisti palestinesi sono stati uccisi negli attacchi israeliani sulla Striscia di Gaza dall’inizio del genocidio in corso, nell’ottobre 2023. Domenica, anche l’AFP ha lanciato un grave allarme: i suoi giornalisti a Gaza rischiano di morire di fame, una tragedia mai vissuta nei suoi 80 anni di storia. “Per la prima volta temiamo di perdere colleghi a causa della fame” — ha affermato in un comunicato la Società dei Giornalisti (SDJ) dell’agenzia. “Abbiamo assistito a ferite di guerra, incarcerazioni e morti sul campo, ma mai a questo”. Gli avvertimenti arrivano mentre continua ad aumentare il numero delle vittime dell’assedio e della carestia imposti da Israele. Secondo quanto riferito mercoledì dal ministero della Sanità palestinese, dall’inizio del genocidio nell’ottobre 2023, sono morte per fame e malnutrizione 111 persone, tra cui 81 bambini. Oltre 100 organizzazioni umanitarie — tra cui Amnesty International, Medici Senza Frontiere (MSF) e Oxfam — hanno avvertito mercoledì che la “fame di massa” si sta diffondendo a Gaza, con i loro colleghi nell’enclave che si consumano per la fame mentre Israele continua a bloccare l’ingresso degli aiuti da oltre quattro mesi. “I medici segnalano tassi record di malnutrizione acuta, in particolare tra i bambini e gli anziani” — si legge in una nota. “Si diffondono malattie come la diarrea acquosa acuta, i mercati sono vuoti, i rifiuti si accumulano, e gli adulti crollano per le strade per la fame e la disidratazione”. “A Gaza arrivano in media solo 28 camion al giorno — ben lontani dal soddisfare i bisogni di oltre due milioni di persone, molte delle quali non ricevono aiuti da settimane” — hanno aggiunto. “Il sistema umanitario guidato dall’ONU non ha fallito: gli è stato impedito di funzionare”. Le ONG hanno dichiarato che i governi devono smettere di aspettare un’autorizzazione per agire. “È il momento di agire con decisione: chiedere un cessate il fuoco immediato e permanente; revocare tutte le restrizioni burocratiche e amministrative; aprire tutti i valichi di frontiera; garantire accesso completo a tutta Gaza; rifiutare modelli di distribuzione controllati dai militari; ripristinare una risposta umanitaria guidata dall’ONU, fondata su principi, e continuare a finanziare organizzazioni umanitarie imparziali e indipendenti”. “Accordi parziali e gesti simbolici, come lanci aerei o accordi di aiuto difettosi, sono solo una cortina fumogena per l’inazione” — conclude la dichiarazione. “Non possono sostituire gli obblighi legali e morali degli Stati di proteggere i civili palestinesi e garantire un accesso efficace e su larga scala. Gli Stati possono e devono salvare vite umane prima che non ne resti più nessuna da salvare”.