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Fanon può entrare ma i palestinesi d’Italia no, perché? Perché il palestinese buono è quello morto o rassegnato. Appunti sull’inadeguatezza della sinistra italiana – di Laila Hassan
“La guerra di liberazione non è un'istanza di riforme, ma lo sforzo grandioso di un popolo, che era stato mummificato, per ritrovare il suo genio, riprendere in mano la sua storia e ricostituirsi sovrano” [1]   A 100 anni dalla nascita di Fanon alcune brevi, forse inutili, considerazioni. Se c’è un atteggiamento che in [...]
Bastioni di Orione a Belem, in Africa Occidentale e nel Saharawi
Questa settimana ci siamo dedicati dapprima alle proteste degli abitanti dell’Africa occidentale esasperati dalla perpetuazione di regimi autoritari, rintuzzate da un potere ancora postcoloniale che fa da perno al residuo controllo francese sui paesi della Françafrique, scatenate dalla rielezione truffaldina di dinosauri ultranovantenni in Africa occidentale, ponendole a confronto insieme a Roberto Valussi con la contrapposizione della unione dei paesi del Sahel, anch’essi messi in crisi dall’avanzata del jihadismo. Ci siamo poi spostati di poco verso nord, raggiungendo il Maghreb, in particolare la situazione nella regione dei Saharawi, da più di mezzo secolo alle prese di un’altra forma di colonialismo: la monarchia assoluta marocchina si è sostituita ai francesi, permettendo ancora lo sfruttamento dei fosfati e della pesca nel territorio del Sahara occidentale, dopo aver colonizzato la regione da cui ha cacciato il popolo saharawi. Ora all’Onu si è consumato un nuovo passaggio verso l’annessione marocchina della zona al confine mauritano, ne abbiamo parlato con il nostro consueto interlocutore in materia, Karim Metref. Abbiamo infine iniziato a occuparci della Cop30 in corso a Belem con Alfredo Somoza, che ha tracciato con chiarezza le modalità, gli intenti e i parziali risultati di una conferenza delel parti svolta per una volta su un campo che avrebbe dovuto essere sensibile alle istanze della difesa dell’ambiente e che la diplomazia internazionale costringe a barcamenarsi cercando di conseguire il risultato condiviso richiesto; parallelamente si è quindi svolto un Controvertice e le popolazioni native si sono prese il palcoscenico a più riprese. Elezioni africane, presidenti dinosauri e retaggio della Françafrique Partendo dalle elezioni in Costa d’Avorio che hanno riconfermato il modello autocratico del terzo mandato con l’elezione di Ouattara, legato mani e piedi agli interessi economici e strategici di una Francia in ritirata dallo scenario saheliano, proviamo con Roberto Valussi che scrive per la rivista Nigrizia a decrittare il risultato dei queste elezioni allargando lo sguardo ad altre aree del continente africano. La serie di colpi di stato che ha cambiato gli equilibri in Mali, Burkina Faso e Niger e la creazione dell’ Alleanza del Sahel (AES) ha spostato il baricentro degli interessi francesi verso la Costa D’Avorio che si consolida come pivot del residuo sistema di potere della Francia in Africa, pur aprendosi anche ad altri interlocutori come gli Stati Uniti e la Cina. Ouattara dopo aver impedito ai potenziali contendenti, Thiam e Gbabo, di presentarsi alle elezioni con artifici legali poco attendibili, ha vinto nonostante le proteste contro il suo ennesimo mandato sulla falsariga di un altro dinosauro africano, Paul Biya, che in Camerun alla tenera età di 92 anni continua a governare dal 1982 . Si definiscono in questa fase di mutamenti e fratture sociali tre modelli, quello dei colpi di stato militari che con tutti i loro limiti, interpretano il sentimento antifrancese che alberga nella maggioranza demografica dei giovani insofferenti, la continuità delle finte democrazie autocratiche che con la repressione e i brogli danno continuità ad un sistema di potere in agonia e la soluzione elettorale alla senegalese forse non esportabile per le caratteristiche proprie della storia senegalese che incanala il dissenso e la protesta verso un progetto di cambiamento. L’Onu ha scippato l’indipendenza saharawi Dopo anni di stallo alle Nazioni Unite, la Risoluzione 2797 del Consiglio di Sicurezza ha ridisegnato il panorama della questione del Sahara Occidentale. Adottata il 31 ottobre senza veto, segna un importante cambiamento strategico: il piano di autonomia marocchino è diventato la base del processo ONU, il Consiglio di sicurezza ha chiaramente sancito l’iniziativa marocchina dell’autonomia come base esclusiva per i negoziati per l’arrivo di una soluzione definitiva al conflitto regionale che ha afflitto la regione per mezzo secolo . Per l’Algeria, la battuta d’arresto diplomatica è tanto più grave in quanto questa risoluzione è stata adottata mentre il paese era già membro del Consiglio di Sicurezza. Per il Marocco, la sfida è cambiata: non si tratta più di convincere gli altri della credibilità del suo piano, ma di dettagliarlo e attuarlo . Il termine “referendum” non compare più nella nuova risoluzione. l mandato della MINURSO, la missione ONU sul campo, sarà rivisto alla luce dei progressi politici, ponendo così fine al ciclo di proroghe tecniche automatiche. Le Nazioni Unite continuano a menzionare il principio di autodeterminazione, ma non lo collegano più a un referendum . l Polisario ha reagito timidamente alla risoluzione, semplicemente prendendo nota di alcuni elementi del testo, che costituiscono una deviazione molto pericolosa e senza precedenti dalla base su cui il Consiglio di Sicurezza affronta la questione “come questione di decolonizzazione”. Tuttavia, quattro giorni prima dell’adozione della risoluzione, il Polisario aveva “categoricamente respinto qualsiasi iniziativa come la bozza di risoluzione promossa dagli Stati Uniti “mirava a imporre il piano di autonomia marocchino o a limitare il diritto inalienabile del popolo saharawi di decidere liberamente il proprio futuro”. La soluzione proposta dall’ONU sulla spinta degli Stati Uniti e la Francia elimina qualsisiai riferimento all’autodeterminazione del popolo saharawi prospettando un’autonomia sotto il controllo del Marocco. Di questo e della denuncia dell’accordo franco algerino del 1968 ,passata all’Assemblea nazionale su proposta dei lepenisti parliamo con Karim Metref  giornalista algerino Cop30. Mitigare il clima, almeno nel suo cambiamento In un mondo sempre più attraversato da conflitti, dove le nazioni sono sempre più  bellicose, sembra reggere a parole l’impegno di ciascuno sulle grandi linee della tutela dell’ambiente. Anche perché dietro al carrozzone mediatico si nascondono anche molte occasioni di business (riconversione, sostenibilità…). Nel commento di Alfredo Somoza si riscontrano note di parziale ottimismo per l’impostazione della Cop30 e per i primi risultati che Lula può dichiarare conseguiti come i 5 miliardi versati per la creazione di un fondo mondiale per la tutela delle foreste tropicali e dunque Alfredo, che ha partecipato ad alcune edizioni precedenti, ritiene si possa considerare non fallimentare questa edizione improntata al pragmatismo fin dal discorso inaugurale del presidente brasiliano, per quanto sia possibile in simili consessi istituzionali che devono regolare con il bilancino diplomatico i rapporti e le risoluzioni finali, sempre sottoposte a veti contrapposti delle molteplici lobbies presenti, pronte a mettere in stallo obiettivi e finanziamenti – in particolare per il superamento del fossile e l’abbattimento del CO2.  Infatti il fulcro di questa edizione, a dieci anni dalle promesse disattese della Cop20 parigina, della conferenza climatica è il capitolo dell’istituzione di uno stanziamento di 1300 miliardi per l’incremento dei flussi finanziari verso i paesi vulnerabili (metà della spesa bellica annuale) per mettere sotto controllo gli aspetti più drammatici del cambiamento climatico. Un terreno che vede la Cina protagonista – non presente con i vertici politici ma con i tecnici – è quello inerente all’aspetto tecnologico che prevederebbe secondo precedenti accordi internazionali la neutralità climatica per il 2050, mentre Pechino ci può arrivare già nel 2047; mentre invece l’India non ha né capacità tecnologica, né l’intenzione di rispettare i termini, spostando il traguardo al 2070.  L’Unfcc che organizza l’evento ha fatto uscire proprio in questi giorni il rapporto sull’impatto economico e climatico della climatizzazione domestica  Intanto si è svolto parallelamente il “Controvertice” Cúpula dos Povos, che ha dato luogo nell’assemblea conclusiva al Movimento delle Comunità Colpite dalle Dighe, dalla Crisi Climatica e dai Sistemi Energetici, polemico con un vertice ufficiale contaminato dalla presenza di molte imprese responsabili di crimini ambientali e persino emissari di crimini petroliferi. Molti nativi sono giunti da ogni paese amazzonico e non solo per rivendicare i diritti delle popolazioni indigene, che peraltro si trovano a casa loro e un migliaio sono anche accreditate all’ingresso, nonostante la Conferenza delle Parti sia riservata dall’Onu a discussioni di carattere tecnico (i leader politici partecipano al vertice preliminare che dovrebbe demarcare i limiti entro i quali negoziare gli accordi finali) ed è il momento in cui gli stati devono essere inchiodati alle loro responsabilità. E stanno facendo sentire la voce e il fiato di chi vive più vicino alla Natura. --------------------------------------------------------------------------------
Rifinanziati i “rimpatri umanitari” dalla Libia nonostante l’allarme dell’ONU
Nonostante i richiami delle Nazioni Unite, il governo italiano ha rifinanziato i programmi di “rimpatrio volontario umanitario” dalla Libia, strumenti che da anni sollevano gravi criticità sul rispetto dei diritti fondamentali delle persone migranti 1. Lo rende noto il progetto Sciabaca & Oruka di Asgi che promuove, in rete con organizzazioni della società civile europee e africane, azioni di contenzioso strategico per la libertà di circolazione e per contrastare le violazioni dei diritti umani causate dalle politiche di esternalizzazione delle frontiere. A luglio 2025 il Ministero degli Affari Esteri, scrive il progetto, ha disposto l’erogazione di 7 milioni di euro all’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM) per l’attuazione del progetto Multi-Sectoral Support for Migrants and Vulnerable Populations in Libya, della durata di due anni. Oltre 3 milioni saranno destinati al rimpatrio di 910 persone verso i paesi d’origine, attraverso il cosiddetto Voluntary Humanitarian Return (VHR), una forma di rimpatrio volontario assistito rivolta a migranti «bloccati o in situazioni di vulnerabilità, tra cui l’intercettazione in mare, la detenzione arbitraria e lo sfruttamento». Secondo i documenti ufficiali, tali operazioni mirano a «ridurre la vulnerabilità» delle persone e a «migliorare la loro situazione di protezione». Ma la realtà descritta da numerosi organismi internazionali è ben diversa. Già il 30 aprile 2025, la Relatrice Speciale sulla tratta di esseri umani, il Relatore Speciale sui diritti dei migranti e il Gruppo di lavoro sulla detenzione arbitraria delle Nazioni Unite avevano indirizzato una comunicazione formale al governo italiano per esprimere forte preoccupazione riguardo a un progetto simile, anch’esso finanziato dall’Italia, denominato “Multi-Sectoral Support for Vulnerable Migrants in Libya”. Nel documento, lə espertə Onu evidenziavano che il rimpatrio volontario, nelle condizioni esistenti in Libia, «funziona in pratica come l’ultima e l’unica soluzione alle intercettazioni e alla detenzione prolungata per periodi indeterminati». In queste circostanze, aggiungevano, «in assenza di alternative, migranti, rifugiati e richiedenti asilo possono essere costretti ad accettare di tornare in situazioni non sicure, dove rischiano di essere esposti alle medesime condizioni da cui fuggivano». Inoltre, sottolineavano come le persone coinvolte non possano esprimere un consenso libero e informato, poiché «la mancanza di assistenza adeguata le priva di fatto della possibilità di accedere alla protezione internazionale e alle garanzie giudiziarie». La comunicazione denunciava anche il rischio che i programmi VHR «possano aprire canali di mobilità forzata verso i paesi di origine e legittimare la cooperazione con la Libia in violazione del principio di non respingimento». Lə relatorə delle Nazioni Unite rilevavano inoltre la mancanza di trasparenza sull’impatto di questi progetti e l’assenza di «misure preventive e di mitigazione contro i rischi di tratta o di rimpatrio illegale». Un ulteriore elemento critico è il supporto tecnico e operativo previsto per le autorità libiche: il progetto include infatti attività di rafforzamento della capacità di gestione delle operazioni di ricerca e soccorso (SAR) e di intercettazione in mare. Secondo gli esperti, ciò rischia di tradursi in un aumento delle intercettazioni e dei respingimenti illegali verso la Libia, dove le persone migranti sono sistematicamente esposte a detenzioni arbitrarie, torture e violenze, in un contesto che la stessa giurisprudenza italiana riconosce come non sicuro. La comunicazione ONU si concludeva con una serie di richieste al governo italiano: informazioni sull’utilizzo dei fondi, sulle misure di prevenzione delle violazioni dei diritti umani e sulle alternative alla detenzione e al rimpatrio. Tuttavia, nella risposta fornita a luglio 2025, l’Italia non ha dato riscontri sostanziali alle criticità sollevate. La valutazione del monitoraggio è stata completamente delegata all’OIM, senza alcun controllo indipendente da parte del governo. UNA STRATEGIA DI ESTERNALIZZAZIONE SEMPRE PIÙ STRUTTURALE Nonostante le contestazioni, l’Italia ha proseguito nella strategia di esternalizzazione delle frontiere. Ad aprile 2025 è stato approvato un ulteriore stanziamento di 20 milioni di euro per il programma L.A.I.T. – Sviluppo dei meccanismi di rimpatrio volontario assistito e di reintegrazione (AVRR) e di rimpatrio volontario umanitario (VHR), in collaborazione con OIM e AICS. Il nuovo progetto prevede il rimpatrio di oltre 3.300 persone da Algeria, Libia e Tunisia e il rafforzamento delle capacità istituzionali dei governi di questi paesi nella gestione dei rimpatri. Si tratta di un tassello ulteriore in un processo ormai consolidato: il massiccio finanziamento dei rimpatri “volontari”, che consente di rimpatriare persone in assenza delle garanzie previste per i rimpatri forzati, contribuendo al contempo ad “alleggerire” la pressione migratoria sui paesi di transito e a consolidare la cooperazione con regimi autoritari o instabili. Questi programmi, presentati come strumenti di protezione umanitaria, finiscono invece per legittimare il blocco della mobilità e per violare il diritto d’asilo e il principio di non-refoulement. A fronte di queste pratiche, diverse organizzazioni italiane – tra cui ASGI, A Buon Diritto, ActionAid Italia, Lucha y Siesta, Differenza Donna, Spazi Circolari e Le Carbet – hanno promosso un contenzioso legale e lanciato la campagna di comunicazione «Voluntary Humanitarian Refusal – a choice you cannot refuse», per denunciare «l’uso distorto dei fondi pubblici destinati a programmi che, sotto la facciata di “umanitari”, contribuiscono in realtà a violare diritti fondamentali e limitare la libertà di movimento». > Visualizza questo post su Instagram > > > > > Un post condiviso da VHR: Voluntary Humanitarian Refusal > (@voluntary.humanitarian.refusal) 1. Nowhere but Back. Assisted return, reintegration and the human rights protection of migrants in Libya, by the OHCHR Migration Unit ↩︎
Piano Mattei fra mito e realtà
APPENA INSEDIATA A PALAZZO CHIGI, GIORGIA MELONI HA ANNUNCIATO UN PIANO MATTEI NEI CONFRONTI DELL’AFRICA. OGGI LA QUESTIONE ENERGETICA È SEMPRE DI PIÙ AL CENTRO DI QUEL PIANO, NELLA CUI “CABINA DI REGIA”, ISTITUITA PRESSO LA PRESIDENZA DEL CONSIGLIO, CI SONO, TRA GLI ALTRI, ACEA, SNAM, FINCANTIERI, ENI, LEONARDO, FS, ENEL, TERNA… TRA GLI OBIETTIVI DEL GOVERNO E DEI SUOI AMICI CI SONO IN PARTICOLARE LA COSTRUZIONE TRA SICILIA E TUNISIA DI UN ELETTRODOTTO E DI UNA CONDUTTURA PER FAR ARRIVARE IDROGENO IN EUROPA. “I POPOLI DEL SUD DEL MONDO SONO STATI DEPREDATI DA SECOLI DI COLONIALISMO, GUERRE, SCAMBIO INEGUALE, LATROCINIO FINANZIARIO… – SCRIVE FRANCESCO GESUALDI – SOLO LA SOLIDARIETÀ GRATUITA, SENZA ASPETTARSI NIENTE INDIETRO, PUÒ PORTARE SVILUPPO UMANO. NON È CARITÀ, MA GIUSTIZIA…” Costa tunisina. Foto di unsplash.com -------------------------------------------------------------------------------- Poco dopo il suo insediamento a Palazzo Chigi, Giorgia Meloni annunciò di voler lanciare un piano Mattei nei confronti dell’Africa. Inizialmente la proposta appariva piuttosto nebulosa perché se da una parte evocava l’idea di cooperazione, quindi di interventi senza contropartita economica, dall’altra la chiamata in causa di Mattei enunciava la connotazione commerciale, ricordandoci che Enrico Mattei è passato alla storia per avere instaurato nuovi rapporti economici con i paesi del Nord Africa produttori di petrolio. Col passare del tempo i contorni si sono fatti più chiari e alcune cose si possono affermare con certezza. La prima è che di tutto il Sud del mondo, il continente che Meloni ritiene strategico per l’Italia è l’Africa. Lo puntualizzò nella Conferenza Italia-Africa che convocò a Roma il 24 gennaio 2024. Alla presenza di una quarantina di delegazioni africane affermò: «L’obiettivo che ci siamo dati è quello di dimostrare che siamo consapevoli di quanto il destino dei nostri due continenti, Europa e Africa, sia interconnesso». Un’interconnessione che Meloni vede sotto due profili: da una parte la grande quantità di risorse custodite dall’Africa che se sfruttate adeguatamente possono fare la ricchezza sia dell’Africa, sia dell’Italia; dall’altra la crescita della popolazione africana a cui va data una prospettiva economica per impedire l’emergere di migrazioni di massa. La seconda cosa che si può dire è che la presidente del Consiglio, vuole seguire direttamente tutta la partita riguardante i rapporti di cooperazione e sviluppo con l’Africa. Come ogni stato, anche l’Italia dispone di una politica di aiuto al Sud del mondo articolata in più direzioni. Da una parte partecipando a fondi gestiti da istituzioni internazionali come la Banca Mondiale; dall’altra finanziando in forma diretta progetti di cooperazione sociale e ambientale. Secondo il bilancio di previsione dello stato, nel 2025 questo doppio canale di intervento dovrebbe assorbire 4,5 miliardi di euro, lo 0,20% del pil italiano ben lontano dallo 0,70% raccomandato dalle Nazioni Unite. Con l’istituzione del piano Mattei, divenuto legge con un provvedimento del gennaio 2024, tutti gli interventi riguardanti l’Africa saranno coordinati da un organismo unico, denominato “Cabina di regia” istituito presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri. Allo stato attuale è composto da una trentina di membri, sia pubblici, sia privati, al cui apice siede il Presidente del Consiglio. ‬‬‬‬‬ La terza cosa che si può dire è che il Piano Mattei intende agire fortemente anche tramite le imprese private, sia africane, che italiane. Non a caso una buona metà dei componenti della Cabina di regia sono rappresentanti d’impresa o di associazioni imprenditoriali, fra cui Acea, Snam, Fincantieri, Eni, Fondazione Med-Or, Leonardo, Fs, Enel, Terna, Cna, Cia, Confagricoltura, Coldiretti, Confartigianato. Del resto durante il discorso che tenne alla Conferenza Italia-Africa nel gennaio 2024, Giorgia Meloni precisò che il Piano non può «prescindere dal pieno coinvolgimento di tutto il “Sistema Italia” complessivamente inteso, a partire dalla Cooperazione allo Sviluppo e dal settore privato che è fondamentale coinvolgere nella nostra strategia, dato l’enorme patrimonio di conoscenza, tecnologia e soluzioni innovative che può vantare». Il risultato è che fra i primi progetti inseriti nel Piano Mattei c’è l’avvio in Algeria di un polo agricolo gestito dall’azienda italiana Bonifiche Ferraresi per la messa in produzione di 800 ettari di terreni semi aridi, estendibili a 36.000 nella parte sud-orientale del Sahara algerino. Oltre alla coltivazione di grano, cereali e semi per oli, è prevista la costruzione di impianti di molitura, spremitura e altri stabilimenti di trasformazione alimentare, precisando che il 30% della produzione sarà riservato all’esportazione verso l’Italia. La stessa azienda sarà sostenuta per la realizzazione di un progetto agricolo in Egitto, paese nel quale sono previsti vari altri interventi fra cui la costruzione da parte di Arsenale Spa, di un treno turistico “Made in Italy” sulla tratta Il Cairo-Assuan. E rimanendo in ambito agricolo compare perfino un progetto gestito da Eni, già finanziato dalla Banca Mondiale e dal Fondo Italiano per il Clima per un totale di 210mila euro. Il paese di attuazione è il Kenya dal quale, già da anni la multinazionale petrolifera si approvvigiona di olio di ricino e altri oli vegetali da trasformare in biocarburante nei suoi stabilimenti di Gela e Porto Marghera. Dopo la forte riduzione di gas proveniente dalla Russia, il tema energetico è diventato di importanza strategica per tutta l’Europa e Gorgia Meloni non ha mai fatto mistero di volere inserire la questione energetica nel Piano Mattei con l’obiettivo di trasformare l’Italia in un hub, ossia un punto di approdo e smistamento energetico per tutta l’Europa. Lo ha ripetuto anche nel gennaio 2024 durante il discorso che tenne alla conferenza Italia-Africa: «Noi siamo sempre stati convinti che l’Italia abbia tutte le carte in regola per diventare l’hub naturale di approvvigionamento energetico per l’intera Europa. È un obiettivo che possiamo raggiungere se usiamo l’energia come chiave di sviluppo per tutti. L’interesse che persegue l’Italia è aiutare le Nazioni africane interessate a produrre energia sufficiente alle proprie esigenze e ad esportare in Europa la parte in eccesso. (,,,). Tra le iniziative in questo ambito voglio ricordare quella in Kenya dedicato allo sviluppo della filiera dei biocarburanti, che punta a coinvolgere fino a circa 400 mila agricoltori entro il 2027. Ma chiaramente questo scambio funziona se ci sono anche infrastrutture di connessione tra i due continenti e lavoriamo da tempo anche su questo, soprattutto insieme all’Unione Europea. Penso all’interconnessione elettrica ELMED tra Italia e Tunisia, o al nuovo Corridoio H2 Sud per il trasporto dell’idrogeno dal Nord Africa all’Europa centrale passando per l’Italia». Per capire meglio il discorso di Meloni, vale la pena precisare che Elmed è un progetto che prevede la costruzione di un elettrodotto tra Sicilia e Tunisia, per una lunghezza complessiva di 220 chilometri, di cui 200 in cavo sottomarino. Un progetto portato avanti dalla società elettrica italiana Terna e quella tunisina Steg, col finanziamento di fondi europei e della Banca Mondiale, per garantire all’Europa energia elettrica prodotta in Nord Africa da fonti rinnovabili. Quanto al Corridoio H2 Sud, è un progetto portato avanti da un consorzio di imprese europee, fra cui l’italiana Snam, finalizzato a costruire una conduttura lunga 3300 km per trasportare idrogeno prodotto in Tunisia fino al cuore d’Europa. Viste le dichiarazioni di Meloni, c’è da aspettarsi che entrambi i progetti saranno inseriti nel piano Mattei assorbendo chissà quanti soldi dei contribuenti italiani. Da un punto di vista finanziario, il Piano è piuttosto generico. Non precisa quali progetti hanno diritto a contributi a fondo perduto, quali solo a prestiti. Si limita a dire che in un quadriennio, il Piano potrà contare su 5,2 miliardi di euro, di cui 3 attinti dal Fondo italiano per il clima e 2,5 dai fondi per la Cooperazione allo sviluppo. Inoltre asserisce di volersi avvalere della collaborazione di una serie di istituti finanziari italiani di natura pubblica come la Cassa Depositi e Prestiti, Simest, Sace e altri fondi di livello internazionale. Ma non precisa né i criteri di finanziamento né le procedure da seguire, forse per lasciare mano libera alla Cabina di regia che di volta in volta potrà decidere quale forma di aiuto assicurare e da parte di chi. Meloni ha presentato il Piano come «una cooperazione da pari a pari, lontana da qualsiasi tentazione predatoria, ma anche da quell’impostazione “caritatevole” che mal si concilia con le straordinarie potenzialità di sviluppo dell’Africa». Per sapere se è davvero così dovremo aspettare qualche anno, ma l’eccessiva attenzione ai benefici che ne può trarre l’Italia e l’eccessivo protagonismo del mondo degli affari non sono di buon auspicio. In Kenya, ad esempio, in località Mbegi ci sono già state proteste da parte dei piccoli contadini che producono ricino per Eni: i guadagni promessi non sono arrivati. Lo scrive il Financial Times dell’11 aprile 2025. I popoli del Sud del mondo sono stati depredati da secoli di colonialismo, guerre, scambio ineguale, latrocinio finanziario. Per rialzarsi hanno bisogno di opere e servizi di base pensati per loro: acqua, sanità, corrente elettrica, scuole, trasporti. Il mondo degli affari ha portato sfruttamento e miseria. Solo la solidarietà gratuita, senza aspettarsi niente indietro, può portare sviluppo umano. Non è carità, ma giustizia. -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Piano Mattei fra mito e realtà proviene da Comune-info.
Convoglio Sumud è ufficialmente partito per Rafah
Il 9 giugno in migliaia di persone hanno lasciato la capitale Tunisi verso Sousse e altre città, dove si prevede che altri si uniranno. I libici si uniranno al convoglio in seguito, una volta attraversato il confine di Ras Ajdir. Questo convoglio fa parte di un movimento globale per rompere l’assedio di Gaza e fare pressione affinché cibo e aiuti arrivino nella Striscia. La flottiglia Madleen potrebbe essere stata intercettata l’8 giugno, ma dal 9 giugno ne stanno arrivando migliaia. La Palestina è sempre stata una prova di coscienza per la nazione, ed eccoci qui a issare la bandiera della “Carovana della Resilienza” per trasformare questa prova in un atto tangibile di liberazione. Fin dal primo momento, i nostri sforzi si sono concentrati nel coordinare il lavoro congiunto per la Palestina, per costruire il meccanismo di attuazione del convoglio e garantire l’accesso al valico di Rafah, attraverso percorsi che iniziano con una pianificazione dettagliata e terminano con un coordinamento sobrio e responsabile con tutte le parti che possono facilitare il percorso del convoglio. È importante per noi della Gioventù Nazionale Araba sottolineare quattro pilastri fondamentali in questo contesto: 1. Ci impegniamo con tutti i nostri partner affinché il convoglio diventi uno strumento per rompere l’assedio di Gaza e fermare la macchina di sterminio e migrazione che minaccia l’esistenza del nostro popolo e della nostra nazione. 2. Stiamo lavorando con i nostri fratelli in Libia e in Egitto per spianare la strada al convoglio e in questa cooperazione vediamo la pietra angolare per raggiungere i suoi obiettivi. 3. Invitiamo le organizzazioni internazionali libere, i media e le potenze arabe a unire gli sforzi per denunciare i crimini dell’occupazione e la complicità della comunità internazionale nelle violazioni del diritto umanitario. 4. Il successo del convoglio rappresenta un punto di svolta nella battaglia per spezzare la volontà sionista e invitiamo tutte le forze in azione a farne un elemento determinante nell’equilibrio di forze per la liberazione della Palestina. Facciamo sapere al mondo che ogni giorno che passa sotto l’assedio di Gaza accresce la nostra determinazione e che la volontà dei giovani della nazione sarà il ponte verso la libertà. Qual è il coordinamento tra il Convoglio della Resistenza e l’iniziativa Marcia verso Gaza? Siamo partner attivi dell’iniziativa Marcia Globale verso Gaza e della Freedom Fleet e operiamo come organismo di coordinamento globale che unisce iniziative arabe e internazionali per unificare gli sforzi. Qual è la strada per raggiungere Gaza? – La strada per Kalati: Tunisia: Capitale → Susa → Sfax + Gabès → Civili → Ras Jedir (in un giorno con punti di sosta e propaganda) Libia: Strada costiera, con fermate in 4 città (3 giorni / 2 notti) Egitto: Camminiamo fino al Cairo (una notte) e poi al valico di Rafah Perché ci impediscono di entrare in Egitto? Sono in contatto con le autorità tunisine, la società civile, personalità libiche ed egiziane che sono in contatto con i loro Paesi. E speriamo vivamente in autorizzazioni e agevolazioni per questa missione umanitaria. Se non ottenessimo i permessi, il convoglio di Bash starebbe partendo e dirigendosi verso il confine egiziano, e noi chiediamo un attraversamento diretto. Il divieto è in vigore, ma questo non è un viaggio turistico, è una carovana di lotta e solidarietà, e ogni passo rappresenta una pressione internazionale sull’assedio. C’è un coordinamento con le autorità di Tunisia, Libia ed Egitto? Tunisia: Tutto procede normalmente, le nostre cose vanno bene e stiamo rispettando tutti i requisiti legali tunisini. Libia: Ottima comunicazione con la società civile e il Consiglio delle Tribù, e l’accoglienza è buona. Egitto: I tentativi di comunicazione ufficiale sono ancora in corso e non abbiamo ricevuto una risposta ufficiale. Altre carovane dal Marocco arabo? Il convoglio Bash parte dalla Tunisia, e i nostri fratelli di Marocco, Algeria e Mauritania si uniscono a noi. Libici ed egiziani dovrebbero unirsi a noi, ciascuno entro i confini del proprio Paese.   Questo il link per seguire il live tracking del convoglio https://al-soumoud-convoy.com/ SEGUITE gli account Instagram taggati @Cjapalestine @Pal.actions_tn, assicuratevi di dare visibilità a questo convoglio, che è stato per lo più ignorato dai media internazionali, e soprattutto continuate a battervi per Gaza.  Redazione Italia
Notizie dal mondo arabo
Gaza L’esercito israeliano ha richiamato decine di migliaia di riservisti per allargare l’offensiva su Gaza. Non bastano più i bombardamenti, il governo di Tel Aviv vuole il controllo diretto del territorio per deportare la popolazione e ammassarla in 4 campi di concentramento dietro il filo spinato. “Faremo come a Rafah”, ha minacciato il ministro della guerra Katz. A Rafah tutta la popolazione è stata costretta ad evacuare e buona parte della città è stata rasa al suolo. È la soluzione finale. Dopo la fame, la popolazione sarà costretta militarmente alla deportazione verso l’Egitto. Il rapporto giornaliero del ministero della sanità parla di 40 uccisi e 125 feriti nella giornata di ieri, fino a mezzogiorno. Il numero totale delle vittime accertate è di 52.535 persone uccise e 118.491 persone ferite. La statistica comprende soltanto i trasferimenti negli ospedali. Il numero reale è molto più alto. I media locali hanno dato notizie stamattina di altri 19 uccisi in due stragi compiute dagli occupanti a Gaza città e Jebalia. Il Direttore degli ospedali da campo del Ministero della Salute nella Striscia di Gaza ha dichiarato che: “La maggior parte della popolazione della Striscia di Gaza vive sotto la fame imposta dall’occupazione; la carestia è inevitabile nella Striscia di Gaza e non abbiamo scelta; niente latte artificiale per i neonati e niente farmaci per le donne incinte; il mio messaggio al mondo intero è di fermare la guerra di sterminio e di fame; vogliamo vivere in pace, come ogni altro popolo al mondo; la quantità di carburante disponibile negli ospedali è sufficiente solo per tre giorni”. La fame come arma di guerra. Le organizzazioni umanitarie internazionali operanti a Gaza, comprese le agenzie dell’ONU, hanno denunciato che l’esercito israeliano, dopo aver ostacolato il lavoro umanitario internazionale a Gaza, ha proposto di presiedere direttamente alla distribuzione degli aiuti con proprie strutture militari. “Da 9 settimane Israele vieta l’ingresso degli aiuti a Gaza, provocando la chiusura dei forni e diffondendo una fame senza precedenti. Una fame che ha colpito in particolare oltre un milione di bambini. Non parteciperemo a nessun piano militare che non rispetti i principi umanitari delle norme internazionali. Gli aiuti non possono essere un ricatto per la deportazione”. L’ipotesi avanzata dal governo Netanyahu di provvedere direttamente alla distribuzione degli aiuti umanitari internazionali, non ha trovato il consenso dei capi militari dell’esercito di occupazione. La stampa israeliana rivela un battibecco tra il neo capo di Stato maggiore e il premier: “non distribuiremo gli aiuti a una folla affamata e arrabbiata”, ha detto Eyal Zamir. Il piano governativo israeliano di impossessarsi degli aiuti internazionali ha un intento politico chiaro: usare la fame per assoggettare la popolazione ad un programma di deportazione, ammassata in campi di concentramento chiusi e recintati, sorvegliati da contractor armati e con controllo biometrico alle entrate e uscite. Gaza chiama alla solidarietà Il ministero della sanità di Gaza ha annunciato in una conferenza stampa una campagna internazionale per la protezione dei bambini di Gaza. #SalvateibambinidiGaza #siatevoilalorovoce. Cisgiordania Il capo ufficio tecnico del comune di Jenin, Mamdouh Assaf, ha affermato che il campo e i sei quartieri residenziali circostanti stanno subendo la completa distruzione delle loro infrastrutture, tra cui le condutture idriche e fognarie, per mano delle truppe di occupazione israeliane. Assaf ha spiegato che, due giorni fa, le squadre del Comune sono riuscite a rimuovere una barriera di terra all’ingresso dell’ospedale settentrionale di Jenin. Ha sottolineato anche che le forze di occupazione avevano spianato con i bulldozer le strade principali della città, stimate in 37 chilometri di lunghezza. Non è possibile raggiungere quei quartieri devastati a causa della presenza delle forze militari di occupazione. Ha sottolineato che il Comune ha fatto ricorso a metodi di emergenza nel tentativo di fornire acqua ad alcuni quartieri che avevano sofferto di interruzioni idriche per più di 100 giorni consecutivi. Ha fatto notare che l’occupazione ha impedito alle squadre comunali di accedere al pozzo “Al-Sa’ada”, la principale fonte di approvvigionamento idrico della città di Jenin. Siria È stato raggiunto un accordo di pacificazione tra i capi delle comunità druse siriane e il governo centrale guidato da Tahrir Sham. È già iniziato il ritiro delle forze di sicurezza da Sueidaa, in particolare le unità provenienti dall’esterno della città. È un accordo che taglia la strada al tentativo israeliano di incendiare il paese con crisi locali su base etnico-confessionale. Ma Israele, oltre all’occupazione militare del sud del paese ed i bombardamenti su tutta la Siria, fomenta suoi agenti tra gli stessi siriani. E non soltanto tra i drusi. Ogni volta si raggiunge un accordo per la pacificazione, gli agitatori armati scendono in campo per mandare a monte gli accordi. Yemen I bombardamenti anglo-americani sono incessanti da oltre 50 giorni. Le zone controllate dalle milizie Houthi sono colpite da bombe e droni e con missili lanciati dalle navi da guerra. Aerei britannici sono partiti da Cipro per bombardare Sanaa, ma anche Maarib, città in mano del governo esiliato ad Aden. Il primo ministro del governo yemenita esiliato ad Aden, Ahmed Awad Bin Mubarak, ha annunciato due giorni fa le sue dimissioni. Una mossa che dà un segnale di fragilità del fronte impegnato da oltre dieci anni in una guerra civile contro la milizia Ansar Allah, conosciuta come Houthi. Le divisioni tra milizie locali secessioniste sostenute da Abu Dhabi e il governo appoggiato da Riad hanno vanificato gli sforzi per una ricomposizione di un fronte interno anti-Houthi. Si aggiunge inoltre il pericolo di un’invasione di terra tripartita israelo-anglo-statunitense. Dopo gli attacchi di ieri degli Houthi sull’aeroporto di Tel Aviv, che ne hanno causato la chiusura per alcune ore, Netanyahu ha minacciato di colpire duramente sia l’Iran che le milizie Houthi. Pakistan Islamabad ha fatto ricorso al Consiglio di Sicurezza contro le minacce indiane. Russia e Cina hanno dichiarato di voler collaborare per una distensione nella regione. Algeria La lingua Amazigh è stata riconosciuta ufficialmente in Algeria nel 2016, ma c’è chi in Algeria intende rinnegare l’esistenza di una realtà fondamentale della società algerina e di tutto il Maghreb. Uno storico intervistato da un canale mediatico di Abu Dhabi ha accusato ingiustamente gli Amazigh di praticare un piano “colonialista sionista”. La risposta di Algeri non è tardata, denunciando il governo degli Emirati di pescare nel torbido per destabilizzare l’Algeria. Il lanciatore di fango, Mohammed Amine Bilghaith, è stato arrestato “per aggressione contro i pilasti fondamentali della nazione e la convivenza”. BDS/Tunisia Carrefour chiude temporaneamente i suoi mercati dopo una riuscita campagna di boicottaggio dei gruppi BDS tunisini. Gli attivisti hanno organizzato in diverse città presidi simultanei davanti ai negozi del marchio francese. La campagna che dura dal 2023 ha ottenuto i suoi frutti, i negozi sono vuoti e la società ha dovuto prendere atto del fallimento. Si parla del ritiro dal mercato tunisino e di vendere i locali ad un altro marchio. Solidarietà con la Palestina in Italia Un gruppo di intellettuali, giornalisti e professori universitari hanno lanciato un appello sui social per un’azione collettiva di massa per il cessate-il-fuoco, da tenere online per tutto il giorno del 9 maggio 2025, dalle 00:00 alle 24:00. #ultimogiornodigaza #gazalastday è stata denominata l’azione di bombardamento del web con messaggi, foto, video, vignette, ecc… con l’hashtag in italiano e inglese. Per aderire e attivarti: https://www.anbamed.it/2025/04/28/ultimogiornodigaza-gazalastday-9-maggio-leuropa-contro-il-genocidio/ Lo stesso giorno alle 17:30 si terrà a Milano un incontro tra intellettuali ebrei italiani (fra cui Gad Lerner) e attivisti palestinesi residenti in Italia. “Dialoghi possibili” è il titolo dell’evento. https://www.anbamed.it/2025/05/01/no-other-land-dialoghi-possibili/ ANBAMED