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Appello per liberare Abdullah Öcalan e Marwan Barghuthi. Appello per la pace
LIBERIAMOLI PER LIBERARE I POPOLI DALLA GUERRA. NO ALLA GUERRA, SÌ A UNA PACE GIUSTA IN PALESTINA E KURDISTAN. Simbolo di questa prospettiva, in due contesti diversi, sono Abdullah Öcalan e Marwan Barghuthi, detenuti rispettivamente nelle carceri turche e israeliane da oltre venti anni. Due uomini che continuano a resistere dietro le sbarre, rappresentando la speranza dei popoli in lotta contro l’oppressione coloniale, lo Stato-nazione autoritario, il neoliberismo armato. Öcalan ha unilateralmente deciso la fine della lotta armata in cambio del riconoscimento dei diritti del popolo Curdo. Barghuthi, una delle figure più autorevoli del popolo palestinese, come Mandela, chiede pace e giustizia, non vendetta. Entrambi sono stati definiti “terroristi”. Ma anche i partigiani in Italia erano definiti terroristi dai nazifascisti, così come Mandela dai Sudafricani bianchi e Arafat dagli Israeliani. Coloro che si oppongono alla guerra, al colonialismo e al capitalismo predatorio vengono sempre definiti terroristi, ma sono eroi per i loro popoli oppressi. Queste due storie così vicine, e per certi aspetti così lontane, ci dicono che il mondo ha bisogno di nuove coordinate politiche. La corsa globale al riarmo e le guerre in atto, con il punto più spaventoso rappresentato dal genocidio di Gaza, dimostrano il fallimento dell’ordine globale. Nel futuro, noi rischiamo centinaia di Gaza ed è per questo che tantissime/i continuano a mobilitarsi. Mentre l’Occidente si mostra complice di regimi occupanti e autoritari, imponendo con Trump la sua “pace” dopo aver creato un deserto a Gaza, i popoli oppressi continuano a costruire percorsi alternativi. La liberazione immediata e contestuale di Abdullah Öcalan e di Marwan Barghuthi, aprirebbe un processo di risoluzione pacifica dei conflitti senza precedenti. Sarebbe un antidoto al Caos sistemico che il capitalismo ha scatenato in quel quadrante politico. Per questo è fondamentale il riconoscimento delle lotte dei popoli curdo e palestinese come lotte di liberazione, il sostegno attivo ai progetti popolari di autodeterminazione e autonomia democratica, la rottura dei legami politici, militari ed economici con gli Stati coloniali e oppressori (Israele, Turchia, ecc.). Occorre, a partire da questo appello, costruire una rete globale di solidarietà per contribuire a generare dal basso uno spazio internazionale di discussione tra i popoli che si oppongono al colonialismo e all’imperialismo. Questo lavoro non è solo necessario: è urgente quanto una nuova internazionale dell’umanità insorgente. Info: catanesisolidali@tiscali.it Aderiscono Catanesi solidali con il popolo curdo, Verso il Kurdistan-Alessandria, Catanesi solidali con il popolo palestinese, Rete Kurdistan-Liguria, Cobas Scuola-Sicilia, Cobas Puglia, CSOA Angelina Cartella- Reggio Calabria, CarovaneMigranti, Ciavula-Caulonia, Associazione Senza paura-Genova, Città Felice-Ct, Lega per il Disarmo Unilaterale, Coordinamento Torino per Gaza, PRC-Sicilia, Sinistra Italiana-Sicilia, PRC fed. Biella, Rete Kurdistan Italia, Associazione cinema e diritti-Salerno, Festival del cinema per i diritti umani- Napoli. Per aderire: https://forms.gle/tyCnZ2Q7rRJipGcp7
Ancora in fiamme la Mezza Luna Fertile, pur con aliti di pace
Sudan Nonostante avessero annunciato il loro assenso ad una tregua umanitaria temporanea, le milizie “Forze di supporto rapido” hanno bombardato il Kordofan, poche ore dopo gli attacchi dei droni su Atbara e Omdurman. Una commissione di esperti delle Nazioni Unite ha accusato le milizie di aver commesso atrocità contro i civili a El Fasher, nel Darfur settentrionale. Le Forze di Supporto Rapido e il Movimento di Liberazione del Popolo Sudanese del Nord (SPLM-N) hanno bombardato la città di Dilling, importante centro del Kordofan Meridionale. Un drone delle Forze di Supporto Rapido ha bombardato diverse località a El Obeid, nel Kordofan Settentrionale. L’Emergency Lawyers Group, un gruppo per i diritti umani che monitora le violazioni in Sudan, ha riferito che 6 persone sono state uccise e 12 ferite quando un proiettile ha colpito all’interno dell’ospedale di Dilling. Tunisia La famiglia del prigioniero politico tunisino Jawhar Ben Mbarek e i suoi avvocati hanno lanciato un grido d’allarme, avvertendo di un pericolo imminente che potrebbe costargli la vita dopo che 10 giorni fa aveva intrapreso uno sciopero della fame totale e a tempo indeterminato, all’interno del carcere “Belli” nel governatorato di Nabeul (nord). Un gesto di protesta contro l’”ingiustizia politica” e un “processo iniquo”, subiti nel procedimento noto come “cospirazione contro la sicurezza dello Stato 1”. Ben Mbarek, professore di diritto costituzionale, è una delle figure di maggior spicco dell’opposizione al presidente Kais Saied da quando quest’ultimo ha dichiarato lo stato di emergenza il 25 luglio 2021. È una figura di spicco del Fronte di Salvezza Nazionale, una coalizione di personalità politiche e partiti di opposizione, in particolare il partito islamista Ennahda. Inizialmente è stato condannato in un processo farsa a 18 anni di carcere. Turchia /Israele La giustizia turca ha emesso mandati di arresto per genocidio contro il primo ministro israeliano Netanyahu e diversi politici e militari israeliani, tra cui il ministro della guerra Katz e il ministro della Sicurezza nazionale Itamar Ben Gvir. I mandati di arresto riguardano un totale di 37 sospetti. Tra questi, figura anche il capo di Stato Maggiore israeliano, Eyal Zamir, secondo quanto riferito dalla procura di Istanbul, che denuncia il “genocidio e i crimini contro l’umanità perpetrati in modo sistematico da Israele a Gaza”. La giustizia turca cita anche il caso dell’Ospedale dell’amicizia turco-palestinese nella Striscia di Gaza – costruito dalla Turchia – colpito e completamente distrutto a marzo dall’esercito israeliano. Turchia/Kurdistan Ankara sta vagliando un progetto per far rientrare i combattenti e i civili curdi rifugiati in Iraq. Una legge è allo studio ed è oggetto di discussioni in una commissione parlamentare che coinvolge anche deputati curdi. Secondo una fonte di Ankara, la proposta prevede prima il ritorno dei civili e poi l’amnistia per i combattenti che consegnano all’esercito iracheno le loro armi. Alcuni capi del movimento della guerriglia non saranno ammessi al rientro ma otterranno asilo politico in altri paesi. La proposta di legge dovrebbe essere discussa in parlamento entro novembre. Di seguito un’intervista all’avvocato di Ocalan, sul processo di pacificazione: LA PACE INCERTA TRA CURDI E TURCHI: UN PERCORSO DIFFICILE, CORAGGIOSO E DI SPERANZA PER I CURDI. – Anbamed Pakistan/Afghanistan Il secondo round di trattative a Istanbul è fallito. Lo ha ammesso il ministro della guerra di Islamabad, Assif, che ha però assicurato che gli scontri di frontiera non riprenderanno se non ci saranno attacchi da parte dei Talebani pakistani rifugiati in territorio afghano. La crisi tra i due paesi è arrivata al culmine in seguito ad una serie di attacchi di guerriglieri a postazioni di confine in Pakistan, con decine di vittime: l’aeronautica di Islamabad ha bombardato la stessa capitale afghana Kabul. Le mediazioni di Doha prima e adesso di Ankara non sono riuscite ad avvicinare le posizioni dei due paesi. ANBAMED
Kurdistan: timidi sviluppi nel processo di pace tra lo Stato turco ed il PKK
Il 28 ottobre le HPG, Forze di Difesa del Popolo del PKK, hanno annunciato il ritiro dalla Turchia come gesto di buona volontà nel processo di pace con Ankara. Una scelta che conferma la disponibilità curda al dialogo, nonostante repressione, arresti politici e militarizzazione del Kurdistan. Quasi in parallelo, l’ultranazionalista Bahçeli, alleato di Erdoğan, ha aperto alla liberazione di Selahattin Demirtaş, dirigente del partito democratico HDP condannato a 42 anni di carcere: una mossa che sembra più tattica che realmente orientata a una soluzione politica. Qual è oggi la forza del movimento rivoluzionario curdo? In che stato si trovano PKK, strutture civili e opposizione democratica dopo anni di attacco dello Stato turco? Il processo di pace può davvero aprire spazi a diritti e autodeterminazione, o siamo di fronte a una strategia di logoramento, in cui Ankara guadagna tempo senza concedere nulla? Con Murat Cinar proviamo a capire se la Turchia ed il Kurdistan si stiano avvicinando alla pace o se la guerra di Erdogan contro i curdi stia semplicemente cambiando volto.
La guerriglia curda lascia la Turchia
Ai nostri microfoni Tiziano, di UIKI onlus, ci illustra la situazione in Kurdistan partendo dall'articolo sottostante, apparso su Il manifesto. Le montagne del Kurdistan hanno vissuto domenica una giornata che resterà negli annali di uno dei conflitti più lunghi e sanguinosi del Medio Oriente contemporaneo. La leadership del Movimento per la Libertà del Kurdistan ha annunciato l’avvio del ritiro di tutte le forze di guerriglia dalla Turchia verso le Zone di Difesa di Medya, nella Regione del Kurdistan in Iraq, in quello che viene definito un passo decisivo per l’apertura della seconda fase del processo di «Pace e Società Democratica». NON SI TRATTA della prima iniziativa di questo genere, già nel 2013 la guerriglia del Pkk aveva lasciato la Turchia in risposta ad una appello del suo fondatore, Abdullah Öcalan, salvo poi tornarvi a seguito del collasso del processo di pace che innescò un’escalation culminata con l’assedio e la distruzione di intere città da parte dell’esercito turco. L’annuncio è stato dato nel cuore di Qandil, in una conferenza stampa a cui hanno partecipato decine di giornalisti internazionali, tra cui inviati di Bbc, Reuters, Afp e Al Arabiya. Alla guida dei guerriglieri comparsi davanti alle telecamere, si sono presentati Sabri Ok, membro del Consiglio esecutivo dell’Unione delle Comunità del Kurdistan (Kck) insieme a Vejîn Dersîm, comandante provinciale delle Yja Star, struttura autonoma delle donne nella guerriglia, e a Devrîm Palu del Consiglio di comando delle Forze di Protezione del Popolo (Hpg). Nella dichiarazione letta in turco e curdo, Sabri Ok ha affermato che il Movimento ha deciso di attuare le risoluzioni del XII congresso del Partito dei Lavoratori del Kurdistan, svoltosi lo scorso maggio, «ponendo fine alla struttura organizzativa del partito e alla strategia di lotta armata». Il documento sottolinea come le decisioni siano state prese «sulla base delle direttive del leader Abdullah Öcalan», che il 27 febbraio aveva lanciato l’«Appello per la Pace e una Società Democratica». «Abbiamo dichiarato un cessate il fuoco unilaterale il primo marzo – si legge nel testo – Successivamente, trenta combattenti per la libertà, guidati dalla co-presidente del Kck Besê Hozat, hanno bruciato le proprie armi in una cerimonia pubblica, manifestando così la nostra volontà di porre fine alla lotta armata». Secondo la leadership curda, il ritiro delle unità dalla Turchia è volto a «prevenire scontri e provocazioni» e a consolidare un contesto politico utile alla prosecuzione del processo. «La pratica dimostrerà l’efficacia di questi passi unilaterali», ha dichiarato Sabri Ok, sottolineando che «è ora necessario adottare determinati approcci giuridici e politici, in linea con le risoluzioni del congresso». NEL SUO INTERVENTO, il dirigente del Kck ha precisato che il Movimento chiede «una legge transitoria specifica per il Pkk» e la promulgazione di «leggi per l’integrazione» che permettano ai militanti di partecipare alla politica legale. La conferenza stampa è stata accompagnata da misure di sicurezza eccezionali: telefoni sequestrati, disturbatori di segnale, accesso controllato. Alla fine della dichiarazione, i guerriglieri hanno salutato militarmente Sabri Ok prima di rientrare nelle loro aree operative. Poche ore dopo, è arrivato il sostegno del Congresso Nazionale del Kurdistan (Knk), che ha definito il passo del Movimento «un atto di coraggio e determinazione per una pace giusta». Il Consiglio esecutivo del Knk ha infine invitato l’Unione europea, il Consiglio d’Europa e gli Stati uniti a «sostenere il processo e a rimuovere immediatamente il Pkk dalle liste delle organizzazioni terroristiche». Anche Ankara ha reagito, ma in tutt’altra chiave. Il portavoce del partito di governo Akp, Ömer Çelik, ha rivendicato la decisione del Pkk come «un risultato concreto della tabella di marcia per una Turchia libera dal terrorismo». Secondo Çelik, il ritiro e l’annuncio di nuovi passi verso il disarmo rappresentano «progressi in linea con l’obiettivo strategico di liberare la nostra democrazia da ogni minaccia». Il vicepresidente dell’Akp, Efkan Ala, ha aggiunto che «con il sostegno della nostra amata nazione, stiamo marciando con determinazione verso l’obiettivo di una Turchia libera dal terrorismo», definendo le ultime dichiarazioni del Partito dei Lavoratori del Kurdistan «il completamento di un’altra importante tappa». DUE NARRAZIONI, dunque, che scorrono parallele. Da un lato quella curda, che parla di pace, democrazia e libertà di Abdullah Öcalan, «che deve ottenere la sua libertà fisica il prima possibile»; dall’altro quella del governo turco, che legge la mossa come un passo nella propria agenda di sicurezza e sovranità. I monti che per decenni sono stati fronte di una guerra senza tregua tornano a essere teatro di speranze. «Non vogliamo immaginare una mancata risposta – ha detto Sabri Ok – Risolvere la questione curda è impossibile nelle attuali condizioni di detenzione del leader Apo. Deve vivere e lavorare liberamente».
Un pioniere del movimento di liberazione del Kurdistan
Un pioniere del movimento di liberazione del Kurdistan – prima parte Pioniere della lotta socialista, Heval Rıza Altun ha vissuto una vita davvero straordinaria. Dopo aver incontrato Abdullah Öcalan nel 1974, ha dedicato la sua vita alla lotta di liberazione del popolo curdo. I suoi 45 anni da combattente della resistenza lo hanno visto impegnato in Turchia, in prigione, in Medio Oriente, in Europa e sulle montagne del Kurdistan. Sei anni fa (25 settembre 2019), è stato ucciso in Kurdistan da un attacco di droni turchi. Un eroe che avrebbe potuto essere il soggetto di un romanzo, ma la cui vita ribelle è stata reale. Era una calda giornata di giugno del 2018. Marciammo tra alberi da frutto e raggiungemmo il punto d’incontro, dove lui sedeva sotto un grande noce con altri tre guerriglieri. In seguito scoprimmo che aveva scelto quel posto perché l’ombra dell’albero offriva sia frescura che sicurezza. La sua scelta non era stata casuale: era un bersaglio dello stato turco, che ha dichiarato fuorilegge tutti i combattenti per la libertà dei Curdi. Ci trovavamo sui Monti Qandil, parte della catena montuosa Zagros, sul confine tracciato arbitrariamente tra Iraq e Iran. Circa 100 km più a nord confinano con la Turchia; a ovest si trova il confine con la Siria. A sfidare questi confini arbitrari, tuttavia, c’è il Kurdistan. Rıza Altun indossava abiti grigio-verdi – l’uniforme dei guerriglieri curdi – che gli coprivano il corpo snello. Ci accolse con un sorriso sul suo viso minuto e stretto. I suoi capelli erano diventati grigi da quando ci eravamo incontrati a Parigi, circa dieci anni prima. Tuttavia, la sua cortesia e il suo calore verso gli ospiti rimasero immutati. Contrariamente alla sua immagine austera, ci accolse con un calore modesto e affettuoso. Sorridendo, mi disse: “Anche tu non stai invecchiando”. Ospitalità in montagna – Quando esprimeva amore e affetto sincero, era spesso spiritoso. Per prima cosa, ci ha offerto dell’acqua fresca. “Guardate, questa è acqua biologica, che raramente si trova in Europa e per la quale si paga caro” – ha detto con un sorriso, aggiungendo che non la prendono in bottiglia, ma direttamente dalla sorgente. “Siete fortunati, oggi non ci sono droni che sorvolano la zona di Qandil. Ecco perché possiamo accendere un fuoco e offrirvi il nostro tè”. Il “tè della guerriglia” era fatto con tè nero, bollito in un bollitore su un fuoco di legna. Poiché il fumo del fuoco indicava la possibile presenza di guerriglieri, questi bracieri sono diventati rapidamente dei bersagli. Mentre bevevamo il tè, ha fatto domande per conoscere il gruppo. Ha sottolineato l’importanza del gruppo, giunto dall’Europa sulle montagne del Kurdistan per fare ricerche e documentare la rivoluzione; in genere, l’interesse per l’argomento è limitato a causa della criminalizzazione internazionale del movimento di liberazione curdo. Noi, un gruppo della campagna tedesca TATORT Kurdistan, eravamo entusiasti di avere l’opportunità di incontrare un importante pioniere della rivoluzione curda. Volevamo incontrare un membro del Consiglio Esecutivo della Comunità delle Società del Kurdistan (Koma Civakên Kurdistanê, KCK), l’organizzazione ombrello della rivoluzione in Kurdistan, e quando abbiamo saputo che Rıza Altun avrebbe partecipato, siamo stati felicissimi. Dal 2012, aveva svolto un ruolo chiave nella creazione del Comitato per le Relazioni Estere del KCK. Oltre alle attività diplomatiche, le sue responsabilità includevano la spiegazione e la rappresentanza della posizione ideologica e politica del movimento di liberazione del Kurdistan al mondo esterno. Nelle sue interviste, ha offerto analisi dettagliate degli sviluppi politici in Kurdistan e in Medio Oriente, nonché prospettive filosofiche per i combattenti della resistenza e i socialisti di tutto il mondo. Con grande ammirazione e interesse, abbiamo ascoltato Heval Rıza per oltre cinque ore ed eravamo molto riluttanti ad andarcene. Durante una pausa, ci fu preparato un pasto delizioso in mezzo alle montagne. Solo dopo esserci saziati, raccontò al gruppo di aver contribuito personalmente alla preparazione del pasto. Per il gruppo fu una sorpresa, ma per me fu una conferma: conoscevo il suo carattere altruista dai nostri trascorsi insieme, da Parigi tra il 2002 e il 2007 e da vari altri incontri successivi. Kurdistan: Rivoluzione tra grandi difficoltà – Le nostre intense discussioni sono state pubblicate (in tedesco) in un opuscolo intitolato “I nostri alleati strategici sono le forze anti-sistema di questo mondo”. Descrive in dettaglio la crisi strutturale del capitalismo, la situazione politica mondiale e le sfide dell’internazionalismo dal punto di vista del movimento di liberazione del Kurdistan. “Nessuna rivoluzione è difficile come la nostra in Kurdistan. Eppure nessuno ha affermato che i nostri sforzi per una rivoluzione siano particolarmente grandi o eccezionali. Perché stiamo lottando contro le più grandi difficoltà del mondo e stiamo cercando di aprire la strada alla rivoluzione attraverso gli approcci più interessanti” – ha affermato, riferendosi agli sviluppi nel Kurdistan orientale. Lì, nelle aree a maggioranza curda della Siria settentrionale e orientale, è stata organizzata un’amministrazione autonoma (l’Amministrazione Democratica Autonoma della Siria settentrionale e orientale o DAANES, colloquialmente nota come “Rojava”) sulla scia della Primavera araba e della successiva rivolta contro il regime di Assad in Siria nel 2011. La Rivoluzione del Rojava è il coronamento della lotta di liberazione. Il modello politico della società ivi instaurato si basa sulla forza combinata di curdi, arabi, assiri, armeni, yazidi e di molti altri gruppi etnici della Regione, anche nel contesto del conflitto in corso in Siria. Il concetto di confederalismo democratico, che promuove l’auto-organizzazione della società a tutti i livelli e la libertà delle donne, ne è il fulcro. In precedenza, era molto difficile per il movimento di liberazione curdo raggiungere i compagni internazionali con il suo messaggio. Mentre il governo turco combatteva la rivolta (usando ogni mezzo illegittimo a sua disposizione), chiedeva la criminalizzazione internazionale del PKK in cambio di concessioni geostrategiche, economiche e politiche in quanto partner statale “legittimo”. Di conseguenza, nella politica e nei media mainstream, le vittime sono diventate carnefici e i carnefici sono diventati vittime. Ma i combattenti della resistenza non sono sgomenti da queste misure. Con occhi brillanti, Altun espresse la sua convinzione: “La lotta è segnata dalle difficoltà, ma la cosa più entusiasmante di tutte queste difficoltà è la ricerca della libertà stessa. Questa ricerca è mozzafiato”. Per le forze anti-sistema e soprattutto per i socialisti di questo mondo, Rıza Altun era ed è un portatore di speranza e una fonte di ispirazione che, attraverso la sua vita, ha dato uno straordinario esempio di come resistere con fermezza all’oppressione e lottare per la liberazione. La storia della lotta per la libertà del Kurdistan, guidata da Abdullah Öcalan, è anche la sua storia. Storia nella storia – Il Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK), fondato nel 1978, costituisce il nucleo dell’intero movimento di liberazione del Kurdistan. Il 12 maggio 2025, il PPK ha annunciato la morte dei suoi co-fondatori, Rıza Altun e Ali Haydar Kaytan, insieme alla notizia del proprio scioglimento e della fine della lotta armata, nell’ambito di un rinnovato processo di pace con lo Stato turco. In questo momento, il movimento ha ridefinito la forma e l’istituzionalizzazione della propria lotta. In mezzo secolo di lotta, il PKK ha affermato l’esistenza del popolo curdo ed è stato in prima linea nella lotta per il cambiamento sociale e politico, al fine di garantirne i diritti e la dignità. Il ruolo di leadership di Abdullah Öcalan, rapito il 15 febbraio 1999 a seguito di una cospirazione internazionale e da allora imprigionato sull’isola di İmrali, è stato decisivo in questo processo. In un manifesto indirizzato al XII Congresso del PKK, Öcalan ha affermato quanto segue: “Il PKK è un movimento che rende visibile la realtà del Kurdistan e la sua esistenza indistruttibile. Il passo successivo è raggiungere la libertà. La società libera prenderà forma sulla base della comunanza e lungo linee politico-morali. La realizzazione di questo passo non sembra possibile con il PKK”. Sebbene richieda ancora un riconoscimento legale e ufficiale, Öcalan ha riconosciuto che “l’esistenza dei Curdi è stata riconosciuta, quindi l’obiettivo principale è stato raggiunto”. Gli obiettivi di Öcalan sono gli stessi del movimento: un’esistenza al di là di negazione, oppressione e assimilazione; un futuro libero, democratico ed ecologico per la società curda; il tutto basato sulla libertà delle donne in tutti gli Stati in cui vivono. Ciò è stato confermato al XII (e ultimo) congresso del PKK. Altun e Kaytan pionieri ispiratori: – Öcalan ha anche condiviso un messaggio di cordoglio per i suoi due compagni caduti: “Il loro ruolo nella nostra lotta per l’esistenza nazionale e la comunità democratica è permanente. Anche nel nuovo paradigma e nella sua istituzionalizzazione, continueranno a svolgere per sempre il loro ruolo di pionieri con valori fondamentali e ispiratori. Come guide permanenti, continueranno a vivere e saranno mantenuti in vita nella nostra lotta”. Abdullah Öcalan and Rıza Altun nel 1977  Öcalan e Ali Haydar Kaytan, ucciso il 3 luglio 2018, si incontrarono ad Ankara nel 1972 durante gli studi. Il suo ruolo nel movimento di liberazione curdo, di cui parleremo più dettagliatamente in un altro articolo, è altrettanto importante, diversificato e istruttivo di quello di Altun. Negli anni successivi, attrassero altri compagni dal corpo studentesco, tra cui Haki Karer, Kemal Pir e Duran Kalkan (tutti di origine turca), così come i curdi Mazlum Doğan, Mehmet Hayri Durmuş, Cemil Bayık, Mustafa Karasu e Rıza Altun. Vivevano a Tuzluçayır, un quartiere povero di Ankara noto all’epoca come “Piccola Mosca” perché molte famiglie di sinistra e curdo-alevite come gli Altun si erano stabilite lì. Era il loro terzo trasferimento all’interno di un paese in cui erano “senza casa”. A causa delle difficoltà economiche e dei conflitti con i nazionalisti turchi dei villaggi vicini, Rıza Altun dovette lasciare il villaggio di Küçüksöbeçimen a Sarız con la sua famiglia all’età di sei anni. Come gli altri abitanti del villaggio, la sua famiglia – composta da curdi aleviti provenienti dalle regioni di Dersim e Sivas – fu reinsediata con la forza perché si era opposta alle politiche di esclusione e discriminazione dello stato turco. Quindi, anche allora, aveva familiarità con una tradizione di resistenza. Imparò fin da piccolo a rifiutare l’assimilazione e l’oppressione. Difenditi sempre dal male – Quando era ancora bambino, sua madre Hatice gli indicò la via della ribellione, preparandolo così alla sua vita futura: “Non venire da me piangendo. Devi sempre combattere contro il male; è l’unico modo per restare in piedi”. Questo background senza dubbio aiutò Rıza Altun a integrarsi rapidamente nel gruppo di “amici” che incontrò a Tuzluçayır. Nel suo quartiere, Rıza Altun era il leader di un gruppo di difesa antifascista. Le sue qualità di leader avevano impressionato anche Kemal Pir. Il gruppo allora ancora piccolo attorno a Öcalan, a cui apparteneva Kemal Pir, era ideologicamente e politicamente forte, ma il gruppo di Rıza Altun era molto più numeroso. Kemal Pir, forte nella teoria e nell’ideologia, cercò di convincere Altun a unirsi al movimento. D’altra parte, Altun inizialmente era scettico nei confronti di Pir. Altun era turco e cercava contatti e nuovi amici nel quartiere di sinistra. Per dissipare i suoi dubbi e mettere alla prova Pir, lo invitò a partecipare ad azioni contro i fascisti nel distretto vicino. “Il mio scetticismo svanì rapidamente dopo che Kemal ebbe combattuto contro i fascisti più duramente di molti nel mio gruppo. Era come un predicatore e allo stesso tempo un attivista inflessibile. Questo mi ispirò. Col tempo, iniziai ad ammirarlo, perché ovunque fosse, c’erano azioni e dibattiti.” Fu anche Kemal Pir a presentare Rıza Altun a Öcalan. Fu rapidamente accettato nel gruppo. Durante questo periodo a Tuzluçayır, la casa di Rıza Altun e la sua famiglia ospitavano regolarmente il gruppo; Hatice cucinava spesso e si prendeva cura degli amici di Rıza con amore e affetto. ……………………………………………………………………… Sabato, 4 ottobre 2025 – Anno V – n°40/2025 In copertina: a destra, Riza Altun – Immagini fornite dall’autore   di Devriş Çimen   da  THE BLACK COFFEE
Tre donne condannate a morte in Iran ottengono la cittadinanza onoraria in Italia
La città di Fabriano, in Italia, ha concesso la cittadinanza onoraria a tre donne condannate a morte dallo Stato iraniano: Pakshan Azizi, Sharifa Mohammadi e Warisha Muradi. La consigliera comunale di Fabriano, Marta Ricciuti, ha annunciato che la decisione è stata presa per onorare la lotta delle donne per i diritti civili e la giustizia sociale. La risoluzione proposta dalla Commissione per le Pari Opportunità di Genere, è stata approvata all’unanimità dal consiglio. In una dichiarazione sui social media ha affermato: “ Il conferimento della cittadinanza onoraria a Pakshan Azizi, Sharifa Mohammadi e Warisha Muradi è stato approvato all’unanimità dal nostro consiglio. Queste donne sono state condannate a morte per le loro attività pacifiche in difesa dei diritti delle donne e dei lavoratori”. Marta Ricciuti ha sottolineato che la cittadinanza onoraria non è solo un gesto simbolico, ma anche un modo per amplificare le voci di coloro che lottano per la libertà e la dignità umana in tutto il mondo. Ha aggiunto che l’iniziativa mira ad aumentare la pressione internazionale per fermare le esecuzioni e a spingere le autorità iraniane a rivedere le loro decisioni. “La libertà di pensiero e di espressione non è solo un diritto, ma anche un potente strumento di resistenza e solidarietà. Il silenzio, d’altra parte, è una forma di complicità”, ha affermato Ricciuti. L'articolo Tre donne condannate a morte in Iran ottengono la cittadinanza onoraria in Italia proviene da Retekurdistan.it.
CPT: l’esercito turco ha effettuato almeno 18 attacchi nel Kurdistan iracheno a luglio
Dall’inizio dell’anno, sono stati registrati 1.696 attacchi e raid militari da parte delle Forze armate turche (TAF) all’interno del Kurdistan iracheno, lo ha riferito il CPT Community Peacemaker Teams (CPT) – Kurdistan iracheno, che documenta le attività militari, politiche ed economiche della Turchia nel Kurdistan meridionale, ha condiviso i dati del mese di luglio. Nonostante la distruzione delle armi da parte del PKK, la Turchia ha effettuato almeno 18 bombardamenti e attacchi aerei tra il 1° e il 31 luglio, ha dichiarato il CPT. L’11 luglio, il Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK) ha tenuto una cerimonia simbolica per segnare l’inizio del suo processo di disarmo, con diversi membri che hanno bruciato pubblicamente le loro armi, più di quattro mesi dopo aver annunciato la loro intenzione di sciogliersi. Questa decisione ha fatto seguito a un appello per la pace lanciato dal leader del PKK incarcerato Abdullah Öcalan a fine febbraio, seguito da un cessate il fuoco unilaterale dichiarato a marzo. “Con l’avvio del disarmo e i negoziati di pace in corso e gli sforzi per l’attuazione, gli attacchi militari turchi sono diminuiti drasticamente – del 97% rispetto al mese precedente – rappresentando un cambiamento significativo e la prima riduzione di questo tipo da molto tempo. Tuttavia, nonostante questo calo, le forze turche hanno lanciato una nuova operazione terrestre il 29 luglio e hanno continuato le attività militari che hanno ostacolato gli spostamenti dei civili e causato danni ai terreni agricoli”, ha affermato il CPT. Di conseguenza, tra il 1° e il 31 luglio sono stati documentati almeno 18 bombardamenti e attacchi aerei nel Kurdistan iracheno, in netto calo rispetto ai mesi precedenti. La maggior parte degli incidenti si è verificata nel governatorato di Duhok, in particolare nel distretto di Amedi. Questo totale include 17 bombardamenti di artiglieria, tutti concentrati ad Amedi, e un attacco con drone segnalato a Penjwen, nel governatorato di Sulaymaniyah, il primo incidente con drone registrato dall’annuncio del cessate il fuoco. Il CPT ha inoltre riferito quanto segue: Inoltre non sono stati registrati casi di utilizzo di droni da parte dell’Iran nelle zone di confine del governatorato di Slemani; sono stati documentati solo bombardamenti di artiglieria. Pertanto, è altamente probabile che si sia trattato di un drone turco. L’attacco ha anche innescato incendi nei terreni agricoli circostanti, che i civili locali hanno impiegato circa cinque ore per spegnere. Il 22 luglio, i residenti del villaggio di Dargale Musa Bage, situato nel sottodistretto di Kani Mase di Amedi, nel governatorato di Duhok, hanno tentato di tornare alle loro case e ai loro terreni agricoli dopo essere stati sfollati dal giugno dell’anno precedente. Tuttavia, i soldati turchi di stanza nella zona hanno negato loro l’ingresso. Secondo quanto riportato da fonti locali, i soldati hanno appiccato incendi attorno al perimetro del villaggio, che si sono rapidamente propagati ai villaggi di Dargale Musa Bage, Miska, Bave, Shilaza, Blizane e Qasrok. Gli incendi hanno causato ingenti danni e ci sono voluti quasi due giorni prima che i residenti locali li spegnessero. Il 29 luglio, la Turchia ha lanciato un’operazione di terra nel distretto di Batifa, appartenente all’amministrazione di Zakho, nel governatorato di Duhok, con il coinvolgimento di circa 250 soldati. L’operazione ha preso di mira i villaggi di Shilin, Shilane, Banke, Lehvane, Avlahe e Pirbila. Sul monte Siara Sttawre, le forze turche hanno istituito una nuova base militare. Ai residenti è stato ordinato di rimanere in casa e l’accesso a questi villaggi è stato proibito. Le forze turche hanno condotto operazioni di ricerca nella zona con l’obiettivo di salvare due agenti dell’Organizzazione Nazionale di Intelligence Turca (MIT), che sarebbero stati tenuti prigionieri dal PKK. Uno degli agenti è stato recuperato vivo, mentre l’altro è stato trovato deceduto. Nonostante l’operazione, le forze turche non si sono ritirate dalla nuova base e mantengono la loro presenza nell’area. Dall’inizio dell’anno, sono stati registrati 1.696 attacchi e raid militari da parte delle Forze armate turche (TAF) all’interno del Kurdistan iracheno. Questi incidenti hanno incluso 1.249 bombardamenti di artiglieria, 398 attacchi aerei da caccia e droni, 43 attacchi di elicotteri, 5 incidenti con armi leggere e 1 incidente con ordigni esplosivi. Inoltre, sono stati registrati 1.501 attacchi e raid nel governatorato di Duhok, 140 nel governatorato di Erbil, 55 nel governatorato di Sulaymaniyah e nessuno nel governatorato di Ninive. Inoltre, si sono verificate nove vittime civili, con tre morti e sei feriti. Nel complesso, i dati indicano che alcuni elementi del processo di pace di luglio hanno contribuito a una significativa riduzione di bombardamenti e attacchi. Tuttavia, le forze militari turche non si sono ritirate dalle aree contese; anzi, continuano a stabilire nuove basi militari, a impedire ai civili di tornare nelle loro terre sfollate e a incidere negativamente sui mezzi di sussistenza della popolazione. The post CPT: l’esercito turco ha effettuato almeno 18 attacchi nel Kurdistan iracheno a luglio first appeared on Retekurdistan.it. L'articolo CPT: l’esercito turco ha effettuato almeno 18 attacchi nel Kurdistan iracheno a luglio proviene da Retekurdistan.it.
L’Italia tace sul caso dell’attivista curdo Mehmet Çakas che rischia l’espulsione in Turchia
Mentre le autorità tedesche si preparano a deportare l’attivista curdo Mehmet Çakas in Turchia il 28 agosto, l’Italia, che lo ha consegnato a determinate condizioni, rimane in silenzio. L’attivista curdo Mehmet Çakas sarà deportato in Turchia alla fine del mese, nonostante le sentenze pendenti dei tribunali. Attualmente sta scontando una pena detentiva in Germania per appartenenza al PKK e sarebbe in grave pericolo in Turchia. Mehmet detenuto nel carcere di Uelzen, ha dichiarato in una nota tramite la sua famiglia che vorrebbe che il tribunale italiano mantenesse la garanzia che non potrà essere estradato in Turchia, garanzia data durante il processo di estradizione in Germania. Ha dichiarato di aver presentato domanda di asilo in Italia prima di essere consegnato alla Germania. Ha affermato che la procedura è stata interrotta dal suo arresto e ha chiesto che venisse riavviata e che gli venissero concessi i diritti di residenza. Mehmet ha rivolto un appello ai curdi in Italia, ai difensori dei diritti umani e agli ambienti democratici, sottolineando l’importanza di dare attuazione alla decisione della corte italiana e di esercitare una pressione pubblica a tal fine. Cansu Özdemir, membro del Parlamento federale (Bundestag) per Die Linke, ha portato la questione all’ordine del giorno del governo. Nella sua interrogazione parlamentare, Cansu Özdemir ha fatto riferimento alla decisione del Ministero federale di Giustizia del 2023, secondo cui la richiesta di estradizione di Çakas doveva essere respinta a causa della minaccia di una condanna all’ergastolo aggravata in Turchia. Il deputato del partito della sinistra ha chiesto se il Ministero federale degli Interni e l’Ufficio federale per la migrazione e i rifugiati (BAMF) avessero preso in considerazione questa decisione. Cansu Özdemir ha risposto: “Come si può spiegare che l’Ufficio federale per le migrazioni e i rifugiati non abbia imposto un divieto di espulsione nonostante la chiara valutazione dell’Ufficio federale di giustizia in merito a Mehmet Çakas?” The post L’Italia tace sul caso dell’attivista curdo Mehmet Çakas che rischia l’espulsione in Turchia first appeared on Retekurdistan.it. L'articolo L’Italia tace sul caso dell’attivista curdo Mehmet Çakas che rischia l’espulsione in Turchia proviene da Retekurdistan.it.
Şingal, undici anni dopo il genocidio yazida: il silenzio che pesa sull’umanità
Il 3 agosto è un’altra macchia nera nella storia dell’umanità. In quel giorno del 2014, si consumò ancora una volta una brutale operazione di pulizia etnica contro un popolo dimenticato: gli yazidi di Şingal. Questo popolo non è solo una minoranza religiosa, ma il simbolo vivente dell’identità storica del Kurdistan e il custode di una tradizione culturale millenaria che ha resistito nei secoli a ogni tentativo di cancellazione. Il 3 agosto non è solo una data di lutto, ma il ricordo doloroso di un genocidio pianificato e sistematico. Sciovinismo e fondamentalismo islamico, uniti da un’ideologia profondamente ostile ai Kurdi e alla loro esistenza, colpirono duramente. Sotto la bandiera dell’ISIS, lanciarono un attacco violento al Kurdistan passando per Şingal, una delle porte simboliche della resistenza curda. Il popolo yazida fu preso di mira con un piano preciso: annientarlo. L’obiettivo dell’ISIS e dei poteri che lo hanno sostenuto – tra cui la Turchia, l’Iran e il regime siriano – era chiaro: cancellare tutte le conquiste del popolo Kurdo, sia nel Kurdistan del Sud (Başûr) che nel Rojava. Riaffermare il proprio dominio politico e ideologico e, nel farlo, sradicare le radici spirituali e culturali degli yazidi. Eppure, l’ISIS non rappresentava solo una minaccia per il Medio Oriente. Mentre compiva massacri nel Kurdistan, colpiva anche l’Europa con attacchi sanguinosi. Il terrorismo non conosce confini, ma l’indifferenza sì. Durante l’assalto a Şingal, le forze dell’ISIS occuparono città e villaggi, massacrando uomini e deportando donne e bambini. Migliaia di donne yazide furono ridotte in schiavitù, vendute nei mercati come oggetti, sottoposte a torture, stupri e umiliazioni inimmaginabili. Chi riuscì a fuggire, spesso a piedi e senza nulla, cercò rifugio tra le montagne o in altre regioni del Kurdistan. Le montagne di Şingal, come sempre, si ergono fiere: divennero scudo e rifugio per gli yazidi in fuga. Ma questa tragedia non ha colpito solo una comunità. Ha colpito l’intera umanità. Il popolo curdo non rimase a guardare. Da ogni angolo del Kurdistan arrivarono aiuti, rifugi, braccia aperte. In particolare, le forze di difesa del Rojava mostrarono un coraggio straordinario, intervenendo rapidamente e fermando l’avanzata dell’ISIS con determinazione e sacrificio. Oggi Şingal è stata liberata. Molti yazidi sono tornati, lentamente, sulle terre dei propri avi. Ma le ferite di quel genocidio sono tutt’altro che guarite. Migliaia di persone risultano ancora disperse. Centinaia di donne yazide sono tuttora prigioniere o non identificate. Le loro famiglie aspettano, nell’angoscia, notizie che non arrivano. In questo contesto di dolore e speranza, la figura della donna yazida si è trasformata nel simbolo di una lotta silenziosa ma potente: quella contro l’oscurantismo, la schiavitù e il fanatismo religioso. Şingal oggi ha ancora bisogno. Ha bisogno di protezione, giustizia, ricostruzione. Ha bisogno di verità e memoria. E, soprattutto, ha bisogno del sostegno della comunità internazionale: non a parole, ma con impegni concreti. Serve giustizia per i sopravvissuti, sicurezza per chi vive ancora nella paura, e la piena libertà per chi vuole ricominciare. Eppure, in questa undicesima commemorazione del genocidio yazida, a parlare è il silenzio. I difensori dei diritti umani, la politica, i media occidentali… tacciono. Addormentati nell’indifferenza e nell’oblio. Pensano che l’ISIS sia stato sconfitto. Ma l’ISIS c’è ancora, sotto forma di cellule dormienti, e continua a colpire i Kurdi e il Kurdistan. L’Occidente non soffre solo di memoria corta: si comporta come un cavallo con i paraocchi. Guarda e commenta solo ciò che vuole vedere, e tutto il resto – compresa Şingal – viene lasciato ai margini della coscienza collettiva. La storia, però, non dimentica. La storia ha scritto il genocidio. E ha scritto, con la stessa forza, anche la resistenza delle donne di Şingal. Gulala Salih Presidente UDIK Unione donne Italiane e Kurde Unione Donne Italiane e Kurde (UDIK)
Il KNK chiede il riconoscimento dello status di Shengal nell’undicesimo anniversario del genocidio
In occasione dell’undicesimo anniversario del genocidio contro gli yazidi, il KNK ha chiesto il rispetto della volontà di Shengal e ha sottolineato la necessità che la regione sia protetta con uno status speciale. Il Congresso nazionale del Kurdistan (KNK) ha rilasciato una dichiarazione scritta in occasione dell’undicesimo anniversario del genocidio commesso contro il popolo yazida dall’ISIS a Shengal (Sinjar) il 3 agosto 2014. Il KNK ha condannato gli attacchi contro Shengal e ha sottolineato la propria opposizione a tutti i piani elaborati contro la volontà del suo popolo. La dichiarazione KNK include quanto segue: “Il 3 agosto 2014 è un giorno buio e doloroso, in cui è stato perpetrato l’ennesimo genocidio contro il nostro popolo yazida. Lo sciovinismo arabo, il fanatismo islamico e le forze reazionarie si sono uniti sotto una prospettiva anti-curda e anti-Kurdistan e hanno attaccato il Kurdistan attraverso le porte di Shengal sotto le mentite spoglie dell’ISIS. Shengal, l’antica patria del popolo yazida, è stata trasformata in un obiettivo pianificato di attacchi dell’ISIS. Tutte le forze di occupazione in Kurdistan hanno accolto con favore questi attacchi. Turchia, Iran e persino l’amministrazione di Baghdad e il regime sciovinista di Damasco hanno acconsentito a questi eventi. L’ISIS è diventato l’avanguardia dei sentimenti, delle idee e delle emozioni anti-curde e anti-Kurdistan emanati da questi centri di occupazione. L’ISIS ha fatto da innesco per i sistemi coloniali in Kurdistan. Con questo assalto, il loro obiettivo principale era quello di eliminare tutte le conquiste fatte dai curdi nel Kurdistan meridionale e occidentale, imporre nuovamente il colonialismo ai curdi e colpire la fede yazida attraverso il fanatismo islamico con l’obiettivo di sradicarla. Per questo motivo, hanno perpetrato un genocidio contro il nostro popolo yazida. Le orde dell’ISIS hanno invaso Shengal e hanno iniziato a massacrare il nostro popolo yazida. Hanno circondato e massacrato gli uomini, catturato donne e bambini e trascinato nel loro oscuro mondo islamista. Hanno venduto migliaia di donne yazide che avevano fatto prigioniere nei mercati corrotti. Le hanno sottoposte a stupri sistematici. Quelle che sono riuscite a sfuggire dalle atrocità dell’ISIS sono fuggite in altre regioni del Kurdistan in condizioni di estrema povertà. Il monte Shengal è tornato a essere un rifugio per la resistenza del popolo yazida. Questi tragici atti contro il popolo yazida hanno scosso il Kurdistan e il mondo. I curdi sono accorsi in aiuto del popolo yazida da ogni parte. In particolare, i guerriglieri dell’HPG e le forze YPG-YPJ hanno dato prova di grande eroismo e abnegazione, intervenendo rapidamente e fermando gli attacchi. La popolazione del Kurdistan si è mobilitata su ogni fronte, civile e militare. Da un lato, combattendo contro l’ISIS, dall’altro, si è presa cura degli sfollati. Anche gli ambienti umanitari internazionali hanno fornito un supporto significativo in termini sia militari che umanitari. Le forze nazionali del Kurdistan hanno protetto il popolo yazida con una grande resistenza. L’ISIS è stato fermato grazie a questa unità nazionale e internazionale e Shengal e altre regioni curde sono state liberate. Sebbene Shengal sia stata liberata dall’ISIS e molti yazidi siano tornati in patria da allora, le ferite del 3 agosto 2014 sanguinano ancora. Il destino di molte donne yazide catturate rimane sconosciuto. Sfortunatamente, il governo iracheno e le forze del KDP, che in quel momento si trovavano a Shengal e avevano il compito di proteggere la città, non sono riusciti a farlo. Per questo motivo, questa tragedia ha trasformato le donne yazide in un simbolo della lotta contro i reazionari islamisti, il fanatismo e le mentalità oscure. Questa questione deve essere mantenuta all’ordine del giorno in tutta la sua gravità. Molti dei nostri yazidi vivono ancora come rifugiati in condizioni difficili; molti sono ospitati nei campi e non sono tornati a Shengal. È necessario aprire le strade per il loro ritorno e rafforzare gli sforzi nazionali e internazionali per migliorare le loro condizioni di vita. Il PDK, che fa parte dell’amministrazione di Bashur, e il governo di Baghdad hanno firmato un accordo il 9 ottobre 2020, senza consultare la popolazione di Shengal, con l’obiettivo di lasciare la città e i suoi abitanti nuovamente indifesi e impotenti. La Turchia è stata molto soddisfatta di questo accordo. Così come ha collaborato con l’ISIS nell’occupazione di Shengal, ha anche contribuito all’accordo del 9 ottobre. La popolazione di Shengal e le forze che la difendono non accettano questo accordo e si oppongono. Grazie alla resistenza della popolazione di Shengal, questo accordo non è stato ancora attuato e non dovrebbe esserlo nemmeno in futuro. La volontà del popolo di Shengal deve essere rispettata e nessun piano deve essere imposto contro la sua volontà. La popolazione yazida ha subito brutali attacchi per secoli a causa della sua fede. Questa situazione rivela una verità: Shengal deve sia proteggersi che governarsi. Pertanto, Shengal deve godere di uno status speciale e autonomo all’interno del Kurdistan. Sono trascorsi undici anni dal genocidio del 2014, ma le minacce e i pericoli che Shengal deve affrontare non sono cessati. Forze oscure e nemici dei curdi sono ancora impegnati in piani e giochi sporchi. Cercano nuovi genocidi, con l’obiettivo di espellere da Shengal coloro che professano la fede yazida e di separare questa città dal Kurdistan. A questo proposito, tutti i curdi e i curdisti devono rimanere vigili e difendere la terra yazida. Nell’anniversario dei tragici eventi che hanno colpito il nostro popolo yazida, i cuori del popolo curdo sono spezzati e ancora feriti. Guarire queste ferite e alleviare questo dolore è possibile solo attraverso l’unità nazionale del popolo curdo e del popolo del Kurdistan. Il KNK spera che il ricordo di questo genocidio inflitto al nostro popolo yazida serva da catalizzatore per l’unità nazionale, che tutte le componenti del Kurdistan si uniscano per liberare la nostra patria, il Kurdistan, dall’occupazione e che il nostro popolo raggiunga la vera libertà” The post Il KNK chiede il riconoscimento dello status di Shengal nell’undicesimo anniversario del genocidio first appeared on Retekurdistan.it. L'articolo Il KNK chiede il riconoscimento dello status di Shengal nell’undicesimo anniversario del genocidio proviene da Retekurdistan.it.