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Seán Binder rischia vent’anni di carcere per aver salvato vite
È possibile rischiare vent’anni di carcere per aver aiutato delle persone a non morire in mare? È quello che sta accadendo a Seán Binder, 31enne tedesco cresciuto in Irlanda, esperto di soccorso subacqueo. Tutto inizia nel 2018 a Lesbo, in Grecia, quando viene arrestato dalla polizia insieme alla rifugiata siriana Sarah Mardini e accusato di vari reati, alcuni dei quali molto gravi. Passa 106 giorni in carcere fino al dicembre 2018, quando esce su cauzione. Da allora si apre per lui un percorso fatto di indagini, perquisizioni, informazioni parziali quando non del tutto assenti. Le accuse legate a reati minori – falsificazione, spionaggio, uso illegale delle frequenze radio – vengono annullate nel gennaio 2023 per vizi procedurali, ossia la mancata traduzione degli atti. L’impianto accusatorio connesso ai reati più gravi è ancora in piedi. Il processo si apre il 4 dicembre. Seán deve difendersi dalle accuse di favoreggiamento dell’immigrazione irregolare, appartenenza a un’organizzazione criminale e riciclaggio e rischia fino a 20 anni di carcere. Oggi Seán vive a Londra e insieme a Valeria Solarino siamo andati a trovarlo per farci raccontare la sua storia. Valeria Solarino ha curato la regia del video; le riprese e il montaggio sono di Anna Coccoli e le musiche sono a cura dei Mokadelic. “Se vedi qualcuno annegare, lo aiuti” Seán Binder ha scelto di andare in Grecia nel 2016, quando aveva 23 anni. Di fronte ai blocchi, ai respingimenti, all’indifferenza dell’Europa nei confronti delle persone migranti e richiedenti asilo che perdevano la vita in mare, ha pensato che quell’Europa non lo rappresentava ed è andato a Lesbo per attivarsi con una Ong locale. Il caso di Seán rientra in una dinamica di criminalizzazione della migrazione e di chi opera in solidarietà con le persone migranti, richiedenti asilo e rifugiate. Un approccio che si ritrova trasversalmente in tutta Europa e che, attraverso un uso distorto della normativa, colpisce singoli individui e Ong. Chi opera in solidarietà verso altre persone è in realtà un difensore dei diritti umani e, come sancito dall’omonimo Protocollo delle Nazioni Unite, il suo lavoro deve essere tutelato, non ostacolato. Siamo al fianco di Seán Binder e di tutte le persone criminalizzate solo per aver aiutato altri esseri umani. La solidarietà non è reato! Fai sentire la tua vicinanza a Seán, mandagli un messaggio e noi glielo consegneremo di persona. Cosa dice il diritto internazionale La lotta al traffico di esseri umani, su cui generalmente si basano i processi di criminalizzazione della solidarietà, dovrebbe al contrario incardinarsi nella creazione di percorsi di accesso regolari e sicuri, che tutelino i diritti delle persone in fuga. Le norme adottate dall’Unione Europea nel 2002 con l’obiettivo dichiarato di reprimere il traffico di esseri umani armonizzando la legislazione degli Stati membri in questo ambito – note come “pacchetto facilitatori” – e su cui attualmente sono in fase di negoziazione alcune proposte di riforma, devono essere in linea con il diritto internazionale: secondo il Protocollo delle Nazioni Unite sul traffico di esseri umani, perché una condotta possa essere soggetta a criminalizzazione deve esserci l’intenzione “di ottenere, direttamente o indirettamente, un vantaggio economico o materiale di altro genere” (articolo 6). Il riferimento esplicito alla necessità che vi sia l’elemento del profitto affinché una persona possa essere perseguita penalmente è volto a tutelare le persone migranti, i loro familiari, le Ong e i difensori dei diritti, riconoscendo inoltre che l’attraversamento irregolare delle frontiere è spesso l’unica possibilità per le persone in pericolo. L’attuale quadro normativo europeo e dei Paesi membri ha invece consentito la criminalizzazione e il perseguimento penale di chi agisce in solidarietà. Approfondisci il nostro lavoro sul tema.   Amnesty International
L’integrazione come pratica di esclusione
ELETTRA MARIA NICOLETTI 1 Il presente articolo è estratto da una ricerca svolta ai fini del conseguimento della laurea magistrale in Antropologia culturale ed etnologia e nasce da un periodo di volontariato svolto ad Atene, con un’associazione che si occupa di fornire supporto alle soggettività in movimento che approdano nella capitale greca. In particolare, si sviluppa una riflessione sul tema dell’integrazione utilizzando come punto di partenza le teorie proposte dal sociologo Willem Schinkel nell’articolo Against “immigrant integration”: for an end to neocolonial knowledge production (2018) e nel testo Imagined societies. A Critique of Immigrant Integration in Western Europe (2017). Sebbene le teorie dell’autore possano risultare fortemente radicali, offrono un punto di vista di critico sul tema dell’integrazione e possono essere adattate al contesto greco ed europeo in generale. L’articolo nasce da un progetto di più ampio che ha lo scopo di analizzare il tema della salute delle soggettività in movimento che approdano in Grecia, dimostrando come questa possa essere garantita non solo da interventi di carattere strettamente legati all’ambito medico. Durante il periodo di permanenza sul campo si sono sviluppate, insieme ai partecipanti alla ricerca, numerose riflessioni sul tema dell’integrazione in quanto argomento spesso utilizzato, tanto nel discorso pubblico politico, quanto nel senso comune, quando si parla di soggettività in movimento. Avviare un processo di decostruzione del concetto di integrazione costituisce un importante punto di partenza per sottolineare la necessità di politiche di accoglienza inclusive e rispettose della salute e del benessere delle soggettività in movimento. Parole chiave: integrazione, migrazione, inclusione, esclusione, società, individui, contesto sociale, accoglienza, diversità, relazione. Quando si parla di migrazione e accoglienza emerge frequentemente il tema dell’integrazione. Nelle scienze sociali l’integrazione rappresenta «il processo attraverso il quale gli individui diventano parte integrante di qualsiasi sistema sociale, aderendo in tutto in parte ai valori che ne definiscono l’ordine normativo» 2. Si sente spesso dire che le soggettività in movimento non vogliono integrarsi, sono cioè persone che si rifiuterebbero di essere parte di un qualche sistema sociale. Tuttavia, questa affermazione genera due quesiti: è possibile rifiutare di integrarsi? Infatti, se si è in possesso di un determinato status giuridico e si vive in un certo contesto si è comunque sottoposti a delle leggi, che non decadono nel momento in cui una persona rifiuta di seguirle. Il secondo quesito è: che tipo di costo ha l’integrazione che immaginiamo nel nostro senso comune per una persona migrante? Così concettualizzata, l’integrazione appare qualcosa che pone le soggettività migranti davanti a un ultimatum: rinunciare alla loro identità, alla loro storia per immergersi in una cultura nuova, che sembra essere concepita come gerarchicamente migliore. Questo perché, sempre seguendo il senso comune, chi migra ha deciso di lasciare il proprio paese d’origine ma se vi fosse rimasta non avrebbe dovuto sconvolgere la propria esistenza. Questo tipo di sguardo sui fenomeni migratori risulta molto diffuso, nonostante rimandi a una concezione miope dei motivi che possono portare un individuo a migrare, spesso legati a profonde cause storiche che influenzano le vicende personali. Inoltre, quando “noi” bianchi, europei emigriamo non siamo chiamati a rinunciare alla nostra identità, ci sentiamo in qualche modo liberi di non doverci integrare. Andando oltre lo sguardo che concepisce le culture altre unicamente come una versione meno evoluta della propria, la vera domanda da porsi, osservando i migranti che approdano in Grecia è: un migrante, indipendentemente dalla sua intenzione di voler rimanere o meno nel paese di approdo, in che tipo di sistema sociale è chiamato a integrarsi? Il richiedente asilo che arriva in Grecia affronta un lungo e tortuoso iter fatto di identificazioni, pratiche burocratiche e racconto dettagliato della propria storia di fuga, al termine del quale, se ha successo, ottiene lo status di rifugiato. Questo percorso ha delle tempistiche variabili e durante l’intero periodo il richiedente asilo vive all’interno di un campo di accoglienza sovraffollato, posto in un luogo isolato, condividendo con altre persone container insalubri e danneggiati, con pochissime possibilità di accedere all’assistenza medica se ne ha bisogno 3, con un solo pasto al giorno, quasi del tutto sprovvisto di trasporti per raggiungere le città vicine e senza un supporto linguistico per poter comunicare nel campo e al di fuori. Da numerose analisi risulta come continuano a scarseggiare l’accesso alla casa, al supporto medico e ai beni di prima necessità come cibo e vestiti, anche una volta ottenuti i documenti. Possiamo davvero chiedere alle soggettività in movimento di integrarsi a un sistema così profondamente disfunzionale? Viene imposta l’illusione che la rinuncia della propria identità sia l’inizio della costruzione di una nuova identità politica e sociale restituendo in cambio isolamento e abbandono. Per riflettere sul tema dell’integrazione risultano particolarmente interessanti le teorie proposte dal sociologo Willem Schinkel, secondo il quale la ricerca su migrazione e integrazione delle soggettività migranti in Europa occidentale avviene all’interno di un discorso pubblico “altamente tossico”. Sebbene lo studioso prenda come modello di riferimento i Paesi Bassi, le sue teorie sono in buona parte applicabili ad altre realtà europee e ai paesi di frontiera come la Grecia. Secondo il sociologo l’integrazione risulta problematica sia quando viene descritta come una modalità politica di inserimento dei migranti in una nuova società, sia quando viene utilizzata dalle scienze sociali come concetto per analizzare tali processi. Nelle scienze sociali, infatti, la società è concepita come un insieme coerente mentre l’integrazione costituisce l’adattamento di alcune parti (gli individui) a un tutto (la società). Questa concezione organicista concepisce in maniera dualistica la società e i suoi membri, ciò, secondo Schinkel ha l’effetto di individualizzare l’integrazione: non è più la proprietà di un generico tutto sociale ma la caratteristica di un singolo individuo. In questa problematica prospettiva, sono gli individui ad avere la possibilità di essere – o non essere – integrati in vari gradi. Questa rappresentazione deriva da una concezione neoliberale della società per cui la mancanza di integrazione viene attribuita ai migranti stessi. Secondo Schinkel risulta bizzarro considerare l’integrazione come la proprietà del singolo proprio perché il termine opposto, disintegrazione, non è applicabile ai membri di una società. Si può dire di un insieme che questo sia integrato o disintegrato, ma non si può considerare un individuo disintegrato, a meno che non lo si concepisca come un corpo che si disintegra dal punto di vista biologico. Per questo l’integrazione non può descrivere lo stato di un individuo, una sua scelta. Eppure non solo gli individui vengono considerati come non integrati, ma anche integrati in diversi gradi. L’idea di questa suddivisione serve per fornire una chiarezza concettuale al termine integrazione, che rimane privo di antitesi. L’argomentazione diviene maggiormente problematica quando le misurazioni individuali vengono estese a un intero gruppo. Quante volte siamo incappati in luoghi comuni secondo cui, ad esempio, i nigeriani, ovvero tutti i provenienti dalla Nigeria, sono meno in grado di integrarsi rispetto ad altri migranti? Per non parlare di come l’Islam o in generale una credenza religiosa differente rispetto a quella del paese di ospitante, viene concepita come motivo di impossibilità di integrazione. È forte la tendenza a suddividere i migranti in gruppi etnici o religiosi, per cui i congolesi, gli afghani, i somali, gli iraniani o i musulmani potrebbero avere diversi livelli di integrazione, in virtù della loro appartenenza etnica o del loro credo religioso. Così, secondo Schinkel l’integrazione appare come una forza individualizzante se la si considera come caratteristica del singolo e de-individualizzante quando si estende a interi gruppi sociali. Adottando questa prospettiva organicista si arriva a sostenere una linea di pensiero identitaria in cui l’etnia diviene un surrogato della razza e si trascurano le differenze. L’effetto di tutto ciò è che la diversità non è più una ricchezza costitutiva dell’universo sociale, ma una minaccia per esso. La differenza attribuita alle soggettività in movimento non è mai discussa in una dinamica relazionale, ma diviene un problema e una responsabilità di coloro che, si pensa, introducano queste differenze nella società, che sarebbe altrimenti un insieme immacolato, coerente e immutato. Nel caso della Grecia e anche di molti altri paesi europei la marcatura della differenza tra la popolazione ospitante e le soggettività in movimenti è resa evidente da una serie di politiche sicuritarie attuate dai governi. La narrazione costruita sul tema della migrazione contribuisce a costruire l’immagine del migrante come potenzialmente pericoloso, una minaccia. Quante volte abbiamo sentito parlare di migranti irregolari che approdano sulle “nostre” coste? Questo tipo di narrazione dall’effetto fortemente deumanizzante è un artificio retorico, anche facilmente smontabile, ma che tende a parlare alla pancia di cittadini spesso poco informati sul tema e già preoccupati per le condizioni economiche dei propri paesi. A smontare la narrazione sarebbe sufficiente parlare del fatto che è quasi del tutto impossibile raggiungere l’Europa in maniera regolare, vista la mancata possibilità di ottenere visti da moltissimi paesi da cui le persone migranti provengono e la mancanza di corridoi umanitari sicuri e legali. Inoltre, una volta raggiunti i paesi ospitanti sono evidenti le politiche di confinamento spaziale dei corpi delle soggettività migranti nei campi di accoglienza. Questi luoghi sono stati, negli anni, progressivamente allontanati dai centri abitati e spostati in zone sempre più remote e lontane dai centri cittadini e dalla maggior parte dei servizi, anche di base. Si tratta di strutture dotate di ultratecnologici (e ultracostosi) impianti per il controllo degli ingressi e degli spazi interni. Tuttavia, la presenza di queste attrezzature non contribuisce ad alleviare il clima di sofferenza e insicurezza che le persone sperimentano all’interno dei campi. La loro utilità sembra essere unicamente quella di creare una linea di demarcazione, una differenza tra coloro che vivono fuori, da quelli da quelli che vivono dentro. In poche parole, la pratica del confinamento è necessaria per la tutela dei cittadini dei paesi ospitanti, non tanto per chi abita quelle strutture. Proseguendo con il ragionamento di Schinkel, molto spesso anche le stesse critiche mosse al tema dell’integrazione sono fallimentari: esse non mettono mai in discussione la divisione netta e dualistica tra la società e i suoi membri, reiterando il dualismo inclusione/esclusione. Per Schinkel questa coppia di opposti è illusoria, perché feticizza la possibilità che una parte sia integrata nel tutto, assumendo automaticamente che sia possibile la sua esclusione. Inclusione ed esclusione rappresentano, in realtà, una differenziazione nell’accesso a varie forme di capitale, cioè il raggiungimento di differenti posizioni sociali. Esclusione e inclusione sono due modalità di relazione. Così, l’intera società diventa una cofiction: una forma di immaginazione sociale, la finzione di un insieme stabile in cui si convive. Questa cofiction esiste grazie a un lavoro di differenziazione, che serve a separare un presunto interno da un esterno, che permette di definire chi e che cosa fa parte – o meno – della società. Il fatto che la società sia vista come un corpo che deve funzionare in modo armonioso presuppone che la differenza, costituita dalle soggettività migranti, sia qualcosa che minaccia la stabilità dell’insieme sociale, invece di considerarla parte costitutiva di essa. Secondo Schinkel la società non è qualcosa di integro e stabile, ma un’entità relazionale in continuo cambiamento, formata da differenze e incontri tra persone. A dimostrazione una strategia retorica presente in Grecia e in altre realtà europee è quella di parlare di “crisi migratoria”. Questa modalità di costruzione del discorso pubblico-politico mobilità una modalità di gestione del fenomeno esclusivamente emergenziale e non strutturale, garantendo scarse tutele e risorse. Analizzare la problematicità del concetto di integrazione permette di sottolineare la necessità di superare l’idea di crisi, normalizzando i movimenti migratori e promuovendo politiche che favoriscano l’interazione tra tra migranti e popolazione locale. L’idea stessa di società concepita come un insieme idealizzato, a cui tutti devono aspirare, agisce rafforzando gerarchie sociali e divisioni di potere. La prospettiva di Schinkel offre una critica radicale al modo in cui le società occidentali immaginano se stesse, mostrando come i discorsi prodotti in questo ambito non siano mai neutrali. Si tratta di strumenti di potere che legittimano il controllo e la subordinazione di determinati gruppi sociali, come le soggettività migranti. In questo senso, parlando di integrazione ci si può stabilire un collegamento diretto con le politiche statali vigenti in materia di migrazione. Cosa accade, infatti, nel momento in cui gli individui vengono etichettati come non integrati? Si azzerano le responsabilità politiche presenti nella gestione del fenomeno e si rappresentano i migranti come soggetti intrinsecamente carenti. Nel processo di integrazione le soggettività in movimento sono continuamente spinte a dimostrare di meritare l’appartenenza sociale, attraverso gli iter burocratici. Le storie che i migranti raccontano devono essere accettabili e coerenti, espresse con un linguaggio appropriato, dettagliate, confermate da documenti e segni sui corpi. Ciò svela come il tema dell’integrazione, tanto nella ricerca, quanto nel discorso pubblico, non contribuisce solo a descrivere, ma anche a plasmare condizioni di esclusione. Le soggettività migranti vengono poste in una continua condizione di prova sociale, mentre le società ospitanti appaiono neutre e immutabili. Questo approccio, oltre ad aumentare il razzismo sistemico, rischia di impedire la produzione di narrazioni che vedono la migrazione non come una minaccia da gestire, ma come un’opportunità di trasformazione sociale. Le politiche greche mancano di una strategia di integrazione organica e a lungo termine, che agisca su problematiche strutturali. I programmi di accoglienza sono frammentati, quasi del tutto assenti e dipendenti dai finanziamenti dell’Unione Europea. In questo quadro, le difficoltà burocratiche, le barriere linguistiche e le scarse opportunità lavorative limitano le capacità dei migranti di potersi inserire pienamente nel nuovo contesto sociale. Questo, a sua volta, conduce a reiterare una narrativa di inadeguatezza delle soggettività in movimento e alimenta politiche discriminatorie nei loro confronti. L’adattamento al contesto di accoglienza non dovrebbe significare perdere la propria identità, rinunciando al proprio passato e non si può ridurre l’integrazione all’apprendimento di nuove abilità. L’accoglienza dovrebbe essere basata sulla costruzione di relazioni sociali qualificate e qualificanti, che possano favorire un processo di trasformazione, in cui la differenza e l’altro vengono concepiti in termini di ricchezza. Spesso si guarda alla migrazione come evento traumatico, per via del fatto che le soggettività in movimento fuggono spesso da contesti violenti. Tuttavia, per pianificare un adeguato avvicinamento alla società di accoglienza, è necessario considerare l’impatto che questi contesti sociali hanno sulle soggettività migranti. Il tema della migrazione, infatti, non ci racconta solo del perché le persone si allontanano dai loro paesi di origine, ma ci interroga sullo stato di benessere delle democrazie dei paesi ospitanti, che spesso non si dimostrano all’altezza dei valori su cui esse stesse si fondano. Per questo, l’integrazione non è da considerarsi come una qualità individuale, bensì come una responsabilità politica e sociale. Questa prospettiva deve essere volta a inaugurare approcci partecipativi con l’obiettivo di creare un contesto in cui, grazie a politiche maggiormente inclusive, le persone saranno in grado di negoziare i termini della propria esistenza, per poterne definire da sé il senso e il valore. BIBLIOGRAFIA Costantini, Osvaldo. 2016. “La politica e la sua materia. Didier Fassin, Ripoliticizzare il mondo”. AM Rivista della società italiana di antropologia medica 41:289-302. European Union Agency for Asylum (EUAA). 2024. “Asylum report 2024. Annual Report on the Situation of Asylum in the European Union”. Fassin, Didier. 2019. Le vite ineguali. Quanto vale un essere umano. Milano:Feltrinelli. Fassin, Didier, Rechtman, Richard. 2020. L’impero del trauma. Nascita della condizione di vittima. Milano:Meltemi. Mencacci, Elisa. 2014. “Riparare storie. Istituzionalizzazione della richiesta d’asilo e questioni cliniche”. AM Rivista della Società italiana di antropologia medica 38:397-414. MIT-Mobile Info Team. 2024. “Voices from the Camps: Living Conditions and Access to Services in Refugee Camps on the Greek Mainland”. Sayad, Abdelmalek. 2002. La doppia assenza. Dalle illusioni dell’emigrato alle sofferenze dell’immigrato. Milano:Raffaello Cortina Editore. Schinkel, Willem. 2017. Imagined societies. A Critique of Immigrant Integration in Western Europe, Cambridge:Cambridge University Press. Schinkel, Willem. 2018. “Against immigrant integration: for an end to neocolonial knowledge production”. Comparative Migrant Studies 6:31. 1. Mi sono laureata in antropologia culturale presso l’università di Bologna a Marzo del 2025. La mia tesi di laurea magistrale nasce da un lavoro di tirocinio svolto ad Atene, in Grecia, in cui partecipato per tre mesi alle attività di un centro di orientamento per rifugiati, richiedenti asilo e persone in movimento che arrivano in città ↩︎ 2. Treccani online, Ultimo accesso 10/11/25 ↩︎ 3. Nel campo di Ritsona, uno dei più grandi della mainland di Atene si conta 1 medico su 97 residenti del campo (MIT, 2024) ↩︎
Strage di Pylos: al via l’azione penale contro i vertici della Guardia Costiera greca
Un comunicato congiunto di sei importanti organizzazioni greche 1 ha annunciato una svolta decisiva nell’inchiesta sul naufragio di Pylos: la Procura d’appello ha accolto i ricorsi presentati dai sopravvissuti e ha aperto un procedimento penale contro quattro alti ufficiali della Hellenic Coast Guard, tra cui l’attuale comandante. Secondo le organizzazioni firmatarie, «la decisione della Procura d’appello ribalta l’archiviazione disposta dal procuratore del Tribunale Navale del Pireo e riconosce la gravità delle omissioni denunciate dai sopravvissuti che avevano presentato ricorso contro l’archiviazione». Gli indagati dovranno rispondere di omissione di soccorso, esposizione a pericolo e omicidio colposo. Il provvedimento stabilisce che saranno contestati «reati gravi e ripetuti» e nello specifico: «a) esposizione seriale per mancato adempimento dell’obbligo legale di soccorrere e assistere persone in pericolo, che ha causato la morte delle vittime; b) esposizione seriale di altre persone per mancato adempimento dell’obbligo legale di soccorrerle e lasciarle indifese; c) omicidio colposo per negligenza per mancato adempimento seriale degli obblighi legali». Le organizzazioni ricordano inoltre che il 16 maggio 2025 era già stato avviato un procedimento penale «contro 17 membri della Guardia Costiera, tra cui alti ufficiali del comando e l’ex capo», un’inchiesta che era stata trasmessa al giudice istruttore competente. Notizie STRAGE DI PYLOS: INDAGATI 17 MEMBRI DELLA GUARDIA COSTIERA GRECA «A due anni dal naufragio, un primo, sostanziale passo verso la giustizia» Redazione 19 Giugno 2025 La nuova decisione conferma molti dei punti sollevati sia nelle denunce sia nei ricorsi dei sopravvissuti, che hanno più volte affermato che «le autorità non solo non sono intervenute tempestivamente, ma hanno messo ulteriormente a rischio le persone a bordo». Secondo l’ordinanza del Procuratore della Corte d’Appello e come sottolineato dai sopravvissuti nelle loro denunce e ricorsi: “[…] è chiaro che le condizioni del peschereccio Adriana erano precarie fin dall’inizio […] la situazione è gradualmente peggiorata e, per quanto riguarda i passeggeri, questi fatti sono stati confermati e sono apparsi chiari fin dall’inizio dell’incidente a tutti coloro che prestavano servizio nel Centro di coordinamento congiunto delle operazioni di soccorso (JRCC) e a tutta la gerarchia (coinvolta nella sua gestione), tuttavia non è stata attivata alcuna operazione di soccorso o di prevenzione dei rischi (l’incidente non è stato nemmeno classificato come “allerta”, ovvero al secondo livello di rischio previsto dalla Convenzione internazionale SAR) durante la prima fase dell’incidente, ovvero dalle ore 11:00 del 13-06-2023 (quando il Centro di coordinamento del soccorso marittimo italiano ha segnalato per la prima volta l’esistenza della nave sovraccarica) fino all’arrivo della nave P.P.L.S.-920 nella zona […]“. Nel frattempo: “[…] si può dedurre che tra la nuova immobilizzazione del peschereccio e il suo capovolgimento, ci sia stato un intervallo di mezz’ora durante il quale il JRCC non ha emesso l’ordine di inviare un MAYDAY, attenendosi alla sua decisione, durante tutta la gestione dell’incidente, che non fosse necessaria un’operazione di soccorso immediata. In questo modo, si è perso tempo prezioso, compromettendo le possibilità di sopravvivenza dei naufraghi, in un momento in cui le azioni del Centro e della nave PPLS 920 rivelano la consapevolezza dell’imminente pericolo di capovolgimento […]”. “[…] i quattro (4) ufficiali […] hanno partecipato attivamente alla gestione dell’incidente, poiché sono stati costantemente e personalmente informati dei suoi sviluppi, hanno partecipato alle riunioni per valutare e pianificare le azioni necessarie e, infine, hanno approvato (come essi stessi ammettono) le decisioni che sono state prese, ciascuno di loro avendo [….] un obbligo giuridico indipendente di proteggere la vita in mare e, per estensione, un obbligo giuridico specifico di soccorso (dato che hanno concordato o almeno condiviso le decisioni specifiche che sono state prese), e qualsiasi deviazione o mancato adempimento di tale obbligo stabilisce la loro responsabilità penale indipendente […], mentre, in altre parole, “[…] avrebbero dovuto rendersi conto, sulla base della loro esperienza, del loro ruolo, delle loro conoscenze specialistiche e delle informazioni a loro disposizione, che si trattava di una nave in pericolo, ma non hanno intrapreso le azioni necessarie e prescritte per classificare la nave come nave in pericolo e attivare i piani operativi prescritti e appropriati [come, ad esempio, Memoranda/Schede operative n. 1 “Nave in pericolo (indipendentemente dalla bandiera) all’interno della SRR greca” e n. 13 “Incidente grave”, ecc.] per il salvataggio delle persone a bordo della nave [….]“. Le organizzazioni fanno notare la valutazione inclusa nella disposizione relativa alla causa del ribaltamento e dell’affondamento della nave, secondo la quale: ”[…] Questa versione del traino (in combinazione con l’ammissione da parte dei membri della nave P.P.L.S. 920 di aver utilizzato una fune – indipendentemente dal fatto che non ammettano che ciò sia stato fatto a scopo di traino o che non sia stato menzionato dai presenti al JRCC nella fatidica notte) è più convincente e plausibile, dato che, d’altra parte (la Guardia Costiera), non viene fornita alcuna spiegazione dettagliata e convincente per l’improvviso (altrimenti) capovolgimento e affondamento del peschereccio. [….] Dato che il mare era calmo, non c’erano navi commerciali di passaggio (che avrebbero potuto causare grandi onde), i movimenti improvvisi e massicci dei passeggeri all’interno del peschereccio (sia verso l’alto che orizzontalmente, a destra o a sinistra) erano quasi impossibili (a causa del sovraffollamento e del relativo divieto di movimento, come spiegato sopra) ma anche ingiustificati, l’improvviso e potente traino da parte della nave della Guardia Costiera sembra essere l’unica causa possibile e attiva che ha portato il peschereccio a compiere (in quel particolare momento) le due brusche virate (a sinistra e a destra), impedendogli di riprendersi e causandone il ribaltamento. […]”. Gli avvocati delle organizzazioni e dei collettivi che rappresentano i sopravvissuti e le famiglie delle vittime della strage hanno espresso «piena soddisfazione per l’accoglimento dei ricorsi e per l’estensione del procedimento penale nei confronti dei quattro alti ufficiali della Guardia Costiera, il cui caso era stato inizialmente archiviato». Infine, considerano «il rinvio a giudizio per reati gravi di 21 membri della Guardia Costiera, compresi i suoi attuali e precedenti capi e altri alti ufficiali, nonché le conclusioni della Procura della Corte d’Appello, uno sviluppo sostanziale e evidente nel processo di rivendicazione delle vittime e di giustizia». 1. Le organizzazioni: Network for the Social Support of Refugees and Migrants; Greek League for Human Rights; Greek Council for Refugees (GCR); Initiative of Lawyers and Jurists for the shipwreck of Pylos; Refugee Support Aegean (RSA); Legal Centre Lesvos ↩︎
Grecia. Quando i diritti diventano reato
Dal 2016, le autorità greche hanno avviato oltre cinquantatré procedimenti giudiziari e indagini nei confronti di organizzazioni della società civile e singoli individui impegnati in attività di assistenza alle persone in movimento. Nel solo 2023, trentuno persone sono state imputate per reati connessi a tali attività. Con procedimenti dalla durata media di circa tre anni e mezzo, la criminalizzazione della solidarietà da parte delle autorità greche incide profondamente sull’operato delle organizzazioni umanitarie e dei difensori dei diritti coinvolti, compromettendo altresì il pieno esercizio dei diritti fondamentali delle persone in movimento. Tale fenomeno si configura come una diramazione diretta del processo di securitizzazione 1 e, più specificamente, come manifestazione della criminalizzazione della migrazione, intesa quale insieme di politiche, norme e prassi amministrative che, fondendo il diritto dell’immigrazione con la logica punitiva del diritto penale, finiscono per trasformare la mobilità umana in una condotta di rilevanza criminale. Attraverso questo approccio, il governo greco ha progressivamente costruito un vero e proprio “diritto penale del nemico”, nel quale la persona migrante non è più riconosciuta come soggetto titolare di diritti, ma viene trattato come potenziale trasgressore, destinatario di un apparato sanzionatorio spesso privo delle garanzie procedurali proprie dello Stato di diritto. Emblematico, in tal senso, è l’emendamento n. 71 della Legge 5218 2 adottato dal governo greco nel luglio 2025, che ha sospeso per tre mesi la possibilità di presentare domanda d’asilo per le persone giunte via mare dal Nord Africa, nonché l’intervento normativo introdotto con la Legge 5226/2025 3, approvata nel mese di settembre 2025, che istituzionalizza la criminalizzazione del soggiorno irregolare. Approfondimenti/Confini e frontiere GRECIA, SOSPENSIONE DELL’ASILO E NUOVA RIFORMA RAZZISTA DEL GOVERNO MITSOTAKIS Atene anticipa la linea più dura del Patto UE Redazione 14 Agosto 2025 In risposta all’implementazione di questa legge draconiana e alle deportazioni da Creta dei richiedenti asilo senza alcun esame individuale delle loro domande, centootto organizzazioni della società civile hanno presentato ricorso cautelare dinanzi alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo 4. Le organizzazioni hanno denunciato la palese incompatibilità di tale sospensione con il diritto internazionale ed europeo, in particolare con il divieto assoluto di refoulement, ottenendo così l’emanazione delle misure provvisorie della Corte del 14 agosto 5, che hanno impedito la deportazione di otto richiedenti asilo sudanesi e, il 29 agosto 6, di quattro richiedenti asilo eritrei, tutti giunti a Creta. PH: Stop Pushbacks Lesvos (4.11.25) Questa vittoria della società civile rappresenta un trionfo dello Stato di diritto e dei diritti umani sulle logiche securitarie della politica migratoria greca. Tuttavia, il Ministro della Migrazione, Thanos Plevris, ha annunciato nuove misure per silenziare le critiche alle politiche del governo: le ONG potrebbero essere rimosse dal registro ufficiale se promuovono politiche migratorie contrarie, contestano decisioni come detenzioni amministrative o sospensioni delle procedure di asilo, o gestiscono i fondi in maniera ritenuta irregolare. Secondo le autorità, queste restrizioni sarebbero giustificate dalla presunta condotta “anticostituzionale” delle organizzazioni, accusate persino di consigliare ai migranti di ignorare l’ordinamento giuridico greco. In realtà, questa misura si inscrive perfettamente nel piano di criminalizzazione avviato dal governo ellenico con l’obiettivo di plasmare uno spazio civico sempre più ristretto per le organizzazioni operanti nell’ambito della solidarietà come evidenziato, tra l’altro, dal rapporto della Relatrice Speciale delle Nazioni Unite per i Difensori dei Diritti Umani 7, Mary Lawlor, già nel 2023. Tuttavia, contro la criminalizzazione governativa della società civile – che, oltre a danneggiare chi ha bisogno, mina il tessuto stesso della democrazia, come sottolineato da Human Rights Watch 8 – continuano a resistere numerose realtà di solidarietà attiva. Tra queste, a Lesbo, il Community Centre di Paréa (Europe Cares), dal greco “cerchio di amici”, a soli dieci minuti dal campo di Mavrovouni, ridà alle persone in movimento normalità, dignità e senso di comunità. Secondo il team, il centro rappresenta un memorandum quotidiano del potere del lavoro collettivo, uno spazio in cui volontari internazionali e della comunità migrante costruiscono insieme una vera comunità nella solidarietà. Oltre ai servizi offerti, Paréa promuove l’empowerment delle persone in movimento, anche attraverso la partecipazione politica. Un gruppo di volontari attivi sull’isola di Lesvos in Grecia, uniti per lottare contro i pushbacks delle persone in movimento nel Mar Egeo. La loro missione è creare consapevolezza, attraverso proteste e una campagna sui social media, per porre fine a queste pratiche. Profilo IG Il 4 novembre, a Mitilene (sull’isola di Lesbo), si è svolta una manifestazione e commemorazione contro la condotta illegale dei pushbacks in mare e le morti in mare, in seguito alla tragedia del 27 ottobre, che ha visto la morte di quattro persone nelle acque dell’isola. Volontari internazionali, persone in movimento e abitanti locali si sono radunati davanti al mare, ciascuno con una candela in mano, in un potente momento di memoria, solidarietà e resilienza. 1. Con il termine “securitizzazione” della migrazione si fa riferimento al processo attraverso il quale le persone in movimento vengono rappresentate e trattate come una minaccia esistenziale per l’identità nazionale, la sicurezza dello Stato e l’ordine pubblico. Tale processo si fonda su atti linguistici e pratiche istituzionali che mirano a trasferire la questione migratoria dal piano della gestione ordinaria a quello dell’emergenza e della sicurezza. In tal modo, si legittima una gestione eccezionale del fenomeno migratorio, spesso estranea alle procedure democratiche e ai meccanismi ordinari del diritto, e pertanto priva delle garanzie proprie dello Stato di diritto ↩︎ 2. Qui l’emendamento ↩︎ 3. Qui la legge ↩︎ 4. Ai sensi dell’articolo 39 del Regolamento della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, il ricorso cautelare è una procedura d’urgenza volta all’ottenimento di un provvedimento idoneo a fronteggiare – e, se possibile, a prevenire – il rischio di un’imminente violazione di un diritto garantito dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo ↩︎ 5. European Court of Human Rights blocks deportation of refugees detained by Greece under unlawful asylum suspension – RSA (agosto 2025) ↩︎ 6. New ECtHR decision: Greece prohibited from deporting refugees before they have had access to asylum procedure – RSA (settembre 2025) ↩︎ 7. Leggi il rapporto ↩︎ 8. Eva Cossé, (2025). “Greece’s Latest Assault on Civil Society. EU Action Needed to Protect Civic Space”, Human Rights Watch ↩︎
La procedura di richiesta di asilo in Grecia
Papers, una rubrica di Melting Pot per la condivisione di tesi di laurea, ricerche e studi. Per pubblicare il tuo lavoro consulta la pagina della rubrica e scrivi a collaborazioni@meltingpot.org. -------------------------------------------------------------------------------- INTRODUZIONE Questo secondo contributo analizza il sistema di asilo in Grecia, evidenziando le prassi illegali di respingimento e le criticità strutturali che caratterizzano l’accoglienza e la gestione dei richiedenti protezione internazionale. Attraverso testimonianze dirette, rapporti istituzionali e documentazione giornalistica, il testo ricostruisce un quadro fatto di omissioni di soccorso, deportazioni informali e detenzioni arbitrarie, in violazione sistematica dei diritti umani. Tesi di laurea, ricerche e studi/Papers COMPRENDERE IL SISTEMA D’ASILO GRECO Evoluzione storica delle politiche migratorie Giulia Stella Ingallina 31 Ottobre 2025 Viene descritto il funzionamento della procedura d’asilo – dall’identificazione all’ottenimento della “red card” – e le gravi disfunzioni burocratiche che mantengono i richiedenti in uno stato di sospensione e vulnerabilità prolungata. L’analisi mette in luce come la concessione o il diniego dell’asilo aprono due strade, seppur differenziate, di esclusione sociale anche vista la disgiunzione tra assistenza umanitaria e protezione sociale. Le storie di vita raccolte mostrano come molti migranti, frustrati da un sistema inefficiente e discriminatorio, scelgano di abbandonare la Grecia, tentando il “game” verso il Nord Europa. Il testo propone così una riflessione critica sulla “governance dell’abbandono” che trasforma la Grecia da “porta d’ingresso” dell’Europa a luogo di invisibilizzazione e sofferenza istituzionalizzata. Scarica l’elaborato
Comprendere il sistema d’asilo greco
Papers, una rubrica di Melting Pot per la condivisione di tesi di laurea, ricerche e studi. Per pubblicare il tuo lavoro consulta la pagina della rubrica e scrivi a collaborazioni@meltingpot.org. -------------------------------------------------------------------------------- L’articolo esplora il sistema di asilo in Grecia, ricostruendone l’evoluzione e mettendo in luce le continuità tra le politiche del passato e le pratiche attuali. Attraverso un’analisi che intreccia fonti istituzionali, testimonianze dirette e osservazioni di campo, il testo mostra come la gestione dell’asilo resti segnata da una logica emergenziale e da una burocrazia irregolare, più orientata al controllo che alla tutela dei diritti. Dalle procedure di registrazione ai centri di detenzione, dalle decisioni dell’Asylum Service ai percorsi di invisibilità che molti richiedenti asilo sono costretti a intraprendere, emerge un quadro di precarietà istituzionalizzata. Conoscere la storia di queste politiche diventa così una lente indispensabile per leggere il presente: un sistema che, pur mutando forme e linguaggi, continua a produrre esclusione, incertezza e marginalità. Scarica il documento Approfondimenti/Papers IN GRECIA VIENE PREVISTO IL CARCERE PER I RICHIEDENTI ASILO IN RIGETTO Analisi della nuova legge che penalizza e criminalizza l'ingresso e il soggiorno nel Paese Giulia Stella Ingallina 22 Ottobre 2025
Il confine come laboratorio di impunità: il Policy Memo del BVMN sui Balcani
Il 22 settembre, il Border Violence Monitoring Network (BVMN) ha pubblicato Policy Memo: Strengthening Migration Governance Monitoring in the Balkans 1, un documento politico che ha preso forma nel corso della consultazione con l’Alto Commissariato ONU per i diritti umani. Rispondendo alla Risoluzione 57/14 del Consiglio dei diritti umani, l’Ufficio dell’Alto Commissariato ONU per i diritti umani (OHCHR) ha realizzato un’indagine sulla possibilità di monitorare gli effetti pratici delle politiche migratorie europee. In questo contesto, le Nazioni Unite hanno consultato organizzazioni della società civile per rispondere a una domanda complessa: è possibile trovare strumenti per rilevare e controllare le pratiche usate nella gestione dei flussi migratori? La relazione finale dell’OHCHR 2 nominava in modo esplicito il Border Violence Migration Network (BVMN) come soggetto in grado di svolgere questa funzione, specialmente nei contesti caratterizzati da scarsa accessibilità e ostacolo al monitoraggio (delle aree più remote, ma non solo), criminalizzazione e difficoltà nel contatto coi i decisori politici. Il Network è stato quindi una delle organizzazioni più ascoltate dell’OHCHR stessa nel corso dei suoi lavori. Nel contesto di questi, il BVNM ha consegnato alle Nazioni Unite una nota politica e risposte scritte alle domande più critiche sollevate sulle tecnologie usate per il controllo delle persone migranti. Nel Policy Memo, i Balcani in particolare sono individuati come zona di grave mancanza di accountability degli attori statali e di confini segnati da violenza e violazioni dei diritti umani 3. Gli unici soggetti che qui agiscono per cercare un cambiamento positivo sono organizzazioni della società civile, spesso criminalizzate e in difficoltà per la mancanza cronica di fondi e di spazi (reali e virtuali) dove diffondere il proprio lavoro e portare avanti azioni di sensibilizzazione del contesto sociale. In generale, gli Stati europei usano sparizioni forzate e pushback istantanei per nascondere i propri abusi sui migranti. Il Network e i suoi membri hanno rilevato 25.000 pushback da parte di 14 Paesi. Spesso le persone migranti vengono detenute in segreto in luoghi inadatti al fermo di qualsiasi soggetto: garage, caravan, stalle, edifici abbandonati e pericolanti, container di metallo e addirittura canili. Nel 2021 il 20% delle detenzioni dimostrate di persone migranti non erano comunicate formalmente, non seguivano le normali procedure per la detenzione di individui. Nel 2024, il BVMN ha raccolto prove di 19 detenzioni irregolari. In totale continuità con questa pratica è evitare di registrare le persone migranti detenute: diventano fantasmi che passano attraverso carceri (veri o improvvisati) senza lasciare traccia. Tra 2022 e 2024, il 96% delle persone migranti soggette a pushback in Grecia non era stata registrata dalle autorità. Questo meccanismo alimenta l’impossibilità di obbligare gli attori statali a rispondere del destino delle persone migranti sul loro territorio. Per creare poi maggior danno alle persone migranti e insieme nascondere meglio gli abusi da loro subiti, le autorità distruggono i loro beni personali (e sopratutto dei telefoni cellulari). Significa distruggere la loro possibilità di geolocalizzarsi, comunicare con la famiglia, dimostrare la loro identità, provare l’eventuale passaggio attraverso diversi Stati e raccogliere prove di violazioni dei loro diritti. In Croazia, il Network ha documentato vere e proprie pire di oggetti “migranti”. Questa pratica si inserisce all’interno di un contesto legislativo, amministrativo e spesso sociale che criminalizza la migrazione nel tentativo (mai riuscito) di scoraggiarla. Nel 2022, ad esempio, la Turchia ha deportato una ragazza siriana verso il Nord della Siria dopo che, per proteggerla, il fratello ha denunciato gli abusi fisici e verbali che lei subiva a scuola. Rispetto alla società civile, il BVMN ha rilevato che gli Stati costruiscono ostacoli (legislativi e di fatto) per impedire alle organizzazioni non-governative di monitorare la gestione dei flussi migratori e di effettuare operazioni di search and rescue a terra. In più, si impegnano nella criminalizzazione dei difensori dei diritti umani attraverso strumenti più o meno formali: ostacoli burocratici e amministrativi alla loro vita quotidiana, legislazioni sempre più restrittive, sorveglianza (non dichiarata), inchieste e procedimenti giudiziari non giustificati, campagne diffamatorie, aggressioni, atti di vandalismo, furti. Il tutto nella quasi completa impunità, perché anche in questo contesto le autorità continuano a sfuggire a qualsiasi meccanismo di controllo e di ottemperanza a politiche rispettose dei diritti umani. Nel Policy Memo, il Border Violence Migration Network suggerisce buone pratiche. Sottolinea particolarmente la necessità di integrare il lavoro di investigazione della società civile, delle ONG e dei difensori dei diritti umani nelle riflessioni e procedure delle grandi istituzioni (come l’ONU) per portare alla luce in modo più completo e capillare le violazioni dei diritti umani che gli Stati perpetrano (quasi) indisturbati ai danni delle persone migranti e per responsabilizzare in modo inderogabile i decisori politici. Suggerisce anche l’uso delle nuove tecnologie per verificare il destino e/o la posizione delle persone migranti scomparse. Ma proprio la tecnologia, sottolinea ancora il BVMN, ha una doppia valenza. Chiamato dal Consiglio ONU sui diritti umani a rispondere ad alcune domande riguardanti l’uso di nuove tecnologie nelle politiche migratorie da parte degli Stati, il Network ha infatti messo in luce alcune pratiche molto pericolose. Innanzitutto, la mancanza di trasparenza nell’implementazione di tecnologie per la consapevolezza situazionale nei sistemi di sorveglianza dei confini: i Governi non rendono noto in maniera completa quali strumenti tecnologici usano, in che quantità e modalità, dove lungo i confini li posizionano. La scusa è la “sicurezza nazionale”, spesso usata nei discorsi giustificanti la violenza contro le persone migranti e chi le aiuta e difende. Complesso è pure l’accesso a dati, fotografie, filmati raccolti da droni, radar e camere: spesso sono fatti scomparire, cancellati o nascosti, per evitare che servano in processi di denuncia e rivendicazione di diritti umani. A ciò si aggiunge l’evoluzione materiale di queste tecnologie, che ne rende molto difficile l’identificazione: a fronte di una sempre crescente precisione e velocità di rilevamento dati, hanno dimensioni sempre più piccole e aspetto sempre più anonimo. Infine, c’è l’uso allarmante di spyware per colpire organizzazioni e individui che difendono i diritti delle persone migranti. A febbraio 2025, diversi quotidiani italiani hanno riportato che i cellulari di circa 90 attiviste italiane e non sono stati infettati da Graphite, un software di spionaggio creato a scopi militari dall’azienda israeliana Paragon. In merito alla questione, il presidente esecutivo di Parago John Fleming ha dichiarato: la società «concede in licenza la sua tecnologia a un gruppo selezionato di democrazie globali, principalmente agli Stati Uniti e ai suoi alleati». Non ha fatto alcuna ulteriore specifica. Il Policy Memo: Strengthening Migration Governance Monitoring in the Balkans contiene un’ulteriore prova che il sistema di impunità costruito, alimentato e difeso da “democrazie” violatrici di diritti umani, discriminatorie e razziste è consistente e si sta evolvendo utilizzando strumenti di ultima generazione, pratiche che tendono alla “violazione invisibile” dei diritti umani e politiche che de-umanizzano le persone migranti mentre squalificano socialmente chi le aiuta. Il lavoro del Border Violence Migration Network dimostra anche che l’unico ostacolo a questa corruzione è la reazione della società civile. 1. Qui il documento ↩︎ 2. Leggi il documento ↩︎ 3. BVMN Monthly Report – August 2025 ↩︎
In Grecia viene previsto il carcere per i richiedenti asilo in rigetto
I vertici del governo non usano mezzi termini: fine alla filoxenia in favore della xenofobia Un tempo le istituzioni greche vantavano il proprio sentimento di ospitalità, filoxenίa, pubblicamente rivendicato come caratteristica nazionale. La xenia però «è ben lontana dall’immagine dolce e amabile» 1 che veniva rivendicata come “buona pratica” e oggi le istituzioni ci mostrano solo quello che c’è all’estremo opposto: Xenofobia. Il 3 settembre 2025 il Parlamento greco ha approvato la Legge 5226/2025 «Riforma del quadro e delle procedure per i cittadini di paesi terzi» 2, già presentata nel maggio 2025, con misure finalizzate ad un consistente inasprimento delle politiche migratorie del paese. Sotto l’egida del partito di destra Nuova Democrazia (ND) e inserita nel quadro di una più ampia strategia del governo Mitsotakis per accelerare i rimpatri e disincentivare soggiorni irregolari, la nuova norma di legge prevede l’utilizzo della detenzione come strumento di deterrenza per contrastare la permanenza sul territorio, trasformando in criminali le persone che vengono rigettate dal sistema d’asilo europeo. Approfondimenti GRECIA, SOSPENSIONE DELL’ASILO E NUOVA RIFORMA RAZZISTA DEL GOVERNO MITSOTAKIS Atene anticipa la linea più dura del Patto UE Redazione 14 Agosto 2025 La legge si inserisce in un contesto di progressivo deterioramento dei diritti delle persone in movimento: a luglio il governo aveva già deciso di sospendere per tre mesi tutte le domande dei richiedenti asilo provenienti dal Nord Africa, annullando completamente quanto sancito dall’articolo 18 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione europea. Thanos Plevris 3 (il nuovo ministro dell’Immigrazione da giugno 2025) sta attuando indisturbato la sua agenda politica, apertamente dichiarata in molteplici occasioni. Già nel 2011 durante un evento pubblico aveva annunciato: «Non c’è protezione di frontiera senza morti». Nel suo discorso in Parlamento, in occasione dell’approvazione della nuova legge, Plevris si era inoltre vantato del programma politico in atto: «Lo dico con grande orgoglio: sono felice di essere un ministro di questo governo che criminalizza la residenza illegale nel paese» e rivolgendosi ai rifugiati con una diretta minaccia aveva asserito: «Se la tua domanda di asilo viene respinta, hai due opzioni. O finisci in prigione o torni in patria. Lo stato greco non ti accetta. Non sei tollerato perché sei entrato illegalmente. Hai una sola scelta: tornare. Non siete i benvenuti»3. Le parole e le azioni istituzionali e legislative del governo greco perdono oggi ogni riferimento a quell’ospitalità, i sentimenti di filoxenίa si sono trasformati in αφιλοξενία (a- filoxenίa), assenza di ospitalità e, naturalizzando la paura dell’altro 4 in ostilità e pura xenofobia, che mostra tutta la sua forza in questa legga razzista. Chi è Thanos Plevris Ministro della Migrazione dal 28 giugno 2025, è noto per posizioni estremiste e dichiarazioni apertamente razziste. Celebre, e inquietante, la frase: «La sicurezza delle frontiere non può esistere senza vittime, per essere chiari, se non ci sono morti». La sua nomina segna la continuità e, per certi versi, la radicalizzazione della linea di Voridis I PUNTI SALIENTI DI UNA NORMA “VOLTO” DEL RAZZISMO ISTITUZIONALE: Le sue parole si trasformano in fatti tramite la nuova riforma dell’asilo che comprende un intero pacchetto di misure criminalizzanti, improntate alla lesione dei diritti: * in relazione alla partenza volontaria: * il termine per la partenza volontaria (nonché per la sua proroga) è ridotto da 25 a 14 giorni; ciò significa che un richiedente asilo respinto dalla procedura ha solo due settimane di tempo per lasciare il paese. * imposizione della sorveglianza elettronica come misura restrittiva durante i 14 giorni fino alla partenza volontaria: i richiedenti asilo respinti possono essere monitorati tramite etichette elettroniche alla caviglia, per essere immediatamente arrestati allo scadere del termine concesso in caso di inottemperanza. * In relazione al divieto di ingresso nel paese: * Per la prima volta, la legge stabilisce un divieto d’ingresso per le persone classificate come “minaccia all’ordine pubblico e alla sicurezza”, dettame che può essere interpretato in modo ampio e applicato arbitrariamente. * I nuovi arrivati senza documenti validi saranno trattenuti in strutture chiuse. Tale detenzione amministrativa, estesa da 18 a un massimo di 24 mesi, oltrepassa di gran lunga il limite imposto dalle direttive europee. * La durata del divieto d’ingresso da 5 a 10 anni può essere ulteriormente prorogata di altri 5 anni, limitando la possibilità di presentare successive domande di protezione internazionale. * Penalizzazione del soggiorno illegale dopo il completamento del procedimento amministrativo: * Chi a seguito di un rigetto rimane “illegalmente” in Grecia, è passibile di reclusione da due a cinque anni senza condizionale e a multe che vanno da €5.000 fino a €10.000 per rientro illegale. L’unica possibilità di sospensione della pena è rappresentata dalla partenza. * Abolizione del permesso di soggiorno per chi vive illegalmente nel Paese oltre sette anni: le persone senza documenti non potranno più ricevere lo status legale dopo sette anni di permanenza in Grecia; in pratica, ciò significa che possono essere arrestati in qualsiasi momento come “migranti illegali”. Questi attacchi normativi colpiscono direttamente la maggioranza dei rifugiati dal momento che, in Grecia, è sempre più difficile ottenere l’accesso all’asilo e una procedura adeguata di valutazione. Secondo i dati dell’Agenzia Europea per l’Asilo, il tasso di riconoscimento nell’UE è sceso al 25%, il livello più basso mai registrato. Per quanto riguarda la Grecia non ci sono stime specifiche ma è molto probabile che la percentuale sia ancora più bassa. GLI EFFETTI CRIMINALIZZANTI E LE CONTRADDIZIONI LEGISLATIVE: La legge, che ha come obiettivo l’amplificazione della politica securitaria a scapito di quella umanitaria, rientra all’interno di un generale programma volto alla criminalizzazione della migrazione. Il panorama in cui si inserisce tale scenario è quello della Crimmigration, termine coniato nel 2006 dalla studiosa statunitense Juliet Stumpf 5, in cui l’intersezione tra diritto penale (“criminal law”) e diritto dell’immigrazione (“immigration law”), porta le due sfere normative ad una progressiva fusione. Il sistema del diritto penale viene quindi distorto e applicato con un preciso obiettivo: trasformare un diritto penale del fatto, che criminalizza il comportamento reo, in uno d’autore, che criminalizza il soggetto in quanto tale, ovvero la persona migrante. La responsabilità penale, che dovrebbe essere personale e in funzione del reato compiuto, diventa collettiva e tesa a colpire “lo straniero massa” irregolarizzato e dunque criminalizzato. In relazione a questa nuova legge, la pena detentiva (strumento del diritto penale) viene mutuata in favore del diritto amministrativo, per ovviare all’incapacità di procedere coi rimpatri e perseguire la volontà di espulsione dei richiedenti asilo “non meritevoli”. Lo strumento penale della detenzione si trasforma in “minaccia della detenzione”, un banale espediente di deterrenza nei confronti di coloro che intendono rimanere sul territorio. Il diritto amministrativo dell’immigrazione approfitta così degli strumenti del penale per favorire gli interessi politici, dimenticando però, intenzionalmente, di importare anche le garanzie previste e andando a ledere i diritti fondamentali. La norma che prevede la possibilità di utilizzare la cavigliera di sorveglianza elettronica presenta carattere di incostituzionalità nella limitazione della libertà personale dell’individuo che, secondo l’articolo 5 della costituzione 6 e l’articolo 5 della CEDU 7 è inviolabile se non «nei casi e nei modi previsti dalla legge». Il divieto di ingresso per le persone classificate come “minaccia all’ordine pubblico e alla sicurezza” è lesivo del diritto d’asilo sancito dalla Convenzione di Ginevra del 1951 – di cui la Grecia è firmataria – che concede ad ogni persona tale diritto. La richiesta d’asilo deve essere accolta ed esaminata individualmente sulla base dei rischi che il richiedente può subire in caso di reingresso nel paese d’origine, e non sulla base di una valutazione approssimativa di ordine pubblico. Nel caso in cui ci siano fondati motivi per ritenere che la persona possa essere una minaccia alla sicurezza dello stato, deve essere attuato un bilanciamento che tenga in considerazione il rischio di reingresso nel paese d’origine in tutela dei diritti fondamentali, come il diritto alla vita e a non subire trattamenti inumani e degradanti. Nell’ipotesi di un effettivo rischio di danno grave e nell’impossibilità di concedere la protezione internazionale in relazione al motivo ostativo di minaccia all’ordine pubblico, deve essere prevista una forma residuale di protezione. Allungare a 24 mesi il termine massimo di detenzione nei centri per il rimpatrio, è in contrasto con la Direttiva Rimpatri dell’Unione Europea (2008/115/CE) che all’Articolo 15, paragrafo 5 e 6 prevede: Art. 15(5): Il trattenimento è di regola il più breve possibile e non può superare 6 mesi. Art. 15(6): Gli Stati membri possono prolungare il periodo di trattenimento per un massimo di 12 mesi supplementari (quindi fino a 18 mesi totali) solo se: * la cooperazione del cittadino di paese terzo per il rimpatrio è insufficiente, oppure * vi sono ritardi nell’ottenimento dei documenti dai paesi terzi. La durata massima prevista è dunque di 18 mesi dal momento che, ricordando alcuni principi fondamentali, il trattenimento non è una pena, ma una misura amministrativa. Il trattenimento deve essere quindi giustificato e proporzionato, e usato esclusivamente nei casi in cui il rimpatrio non possa essere garantito con misure meno coercitive (Art. 15(1)). Attualmente la legge prevede un utilizzo massiccio e improprio del trattenimento, limitando la libertà individuale oltre ogni garanzia procedurale. Allo stesso modo, predisporre la pena detentiva trasformando in reato l’inottemperanza all’ordine di allentamento dal territorio dello stato risulta essere un escamotage non nuovo, su cui anni fa si era già espressa la Corte di Giustizia dell’Unione Europea quando nel 2002, con la legge Bossi Fini, in Italia erano state introdotte nuove fattispecie di reato, ampliando le condotte penali imputabili allo straniero. Tra queste, all’articolo 14, comma 5-ter del TUI (Testo Unico sull’Immigrazione), la mancata ottemperanza all’ordine del questore di allontanamento dallo stato diventava punibile con l’arresto da 6 mesi a 1 anno. L’intervento della Corte costituzionale aveva sancito l’incostituzionalità di una misura cautelare a seguito di un reato contravvenzionale (sentenza 15 luglio 2004, n.223), cosa che aveva portato il legislatore a trasformare l’illecito contravvenzionale in illecito delittuoso, rendendo possibile la misura cautelare e alzando la pena da 1 a 4 anni. Nel 2011 la Corte di Giustizia dell’Unione Europea, pronunciandosi 8 sul caso El Dridi, sancisce l’inapplicabilità di questa norma: la pena detentiva non rispetta il principio dell’effettivo utile nell’applicazione della Direttiva Rimpatri contrastando il suo fine ultimo, per l’appunto il rimpatrio. Il legislatore italiano ha quindi provveduto, pur con riluttanza, all’adeguamento della norma al richiamo della Corte, punendo la violazione dell’ordine di allontanamento con una multa da 10.000 a 20.000 euro, una cifra a carattere simbolico, talmente alta da risultare ridicola. La nuova legge greca che criminalizza lo stesso atteggiamento apre le medesime problematiche: prevedendo la pena detentiva (da 2 fino a 5 anni, quindi per un periodo addirittura superiore a quello previsto dall’ex-legge italiana) si pone in contrasto con la Direttiva Rimpatri; sarebbe logico aspettarsi dunque un ulteriore intervento della CGEU in tal senso. Inoltre, la multa di almeno €5.000 e fino a €10.000 in caso di reingresso illegale si presenta con uguale ineffettuabilità, quasi come una forma di scherno. Pagare queste somme, com’anche la previsione di lasciare il territorio con partenza volontaria in sole due settimane sono misure concretamente non poco realizzabili, risultando efficaci solo dal punto di vista propagandistico. Evidente sembra essere la refrattarietà dei legislatori europei a seguire le indicazioni normative, nazionali e internazionali, relative al diritto all’immigrazione. Sicuramente quello che risulta ancor più aberrante, è che, ad oggi, le direttive europee si stanno muovendo in senso sempre meno garantistico, prevedendo un uso più massiccio di strumenti lesivi del diritto d’asilo come il trattenimento e la valutazione delle domande in procedura accelerata. Questo porta a riflettere sulla volontà effettiva delle istituzione europee di intervenire in contrasto a questa normativa greca, che per quanto corrode in due direzioni diverse e quasi contrastanti la direttiva rimpatri e il diritto d’asilo, sembra in linea con gli ultimi indirizzi che gli Stati Europei stanno prendendo. RICONOSCERE LA CRIMINALIZZAZIONE PROPAGANDISTICA E DIFENDERE I DIRITTI DELLE PERSONE IN MOVIMENTO: La legge greca rappresenta un passo ulteriore verso il processo di normalizzazione della violenza giuridica contro le persone migranti, un paradigma in cui la privazione della libertà diventa strumento di governo e deterrenza. In questa prospettiva, la detenzione amministrativa e la criminalizzazione del soggiorno non rispondono a esigenze di giustizia o di sicurezza, ma a una logica di esclusione strutturale che ridefinisce la figura del migrante come soggetto “pericoloso” per il solo fatto di esistere fuori dai confini della cittadinanza. È difficile immaginare un intervento correttivo da parte delle istituzioni europee, poiché la deriva greca appare ormai coerente con l’indirizzo generale dell’Unione: un’Europa che parla sempre più di “gestione delle frontiere” e sempre meno di protezione e diritti. Di fronte a questo scenario, diventa necessario riaffermare il principio per cui la libertà personale, la tutela dalla detenzione arbitraria e il diritto d’asilo non sono concessioni politiche ma diritti fondamentali, che nessuna strategia securitaria può alienare. Contrastare la crimmigration significa, oggi, difendere la stessa idea di diritto in Europa. 1. Dupont, F. (2013). L’Antiquité, territoire des écarts (entretiens avec Pauline Colonna d’Istria et Sylvie Taussig). Parigi: Albin Michel ↩︎ 2. Legge 5226/2025 – Criminalizzazione dell’ingresso e del soggiorno illegali nel paese – Riforma del quadro di restituzione (in greco) ↩︎ 3. Greek government appoints right-wing extremist Athanasios Plevris as health minister ↩︎ 4. Verena Stolke in “Talking culture. New boundaries, new retoric of exclusion in Europe” (1995) parla di un nuovo razzismo che definisce «fondamentalismo culturale», basato su una naturalizzazione della xenofobia e quindi della paura dell’altro. Mentre Douglas Holmes in “Integral Europe. Fast Capitalism, Multiculturalism, Neofascism.” (2000), parla di integralismo da cui emerge la xenofobia come strategia di elusione dell’insicurezza sociale ↩︎ 5. Juliet Stumpf,“The Crimmigration Crisis: Immigrants, Crime, and Sovereign Power”, American University Law Review, vol. 56, 2006, pp. 367-419 ↩︎ 6. La Costituzione greca ↩︎ 7. Corte europea dei diritti dell’uomo. Guida all’articolo 5 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo ↩︎ 8. Sentenza della Corte di Giustizia Europea C-61/11/PPU del 28 aprile 2011 ↩︎
Grecia, il Parlamento ha approvato la giornata lavorativa di 13 ore. Proteste nel Paese
Nonostante le proteste e gli scioperi generali, il Parlamento greco ha approvato la legge che consente l’allungamento della giornata lavorativa. La legge permette ai datori di lavoro di ampliare la giornata lavorativa fino a 13 ore al giorno per un massimo di 37 giorni l’anno, su base volontaria. La modifica aveva ricevuto diverse critiche dal mondo della politica e dai sindacati, che denunciavano uno «smantellamento dei diritti dei lavoratori» affermando che in molti, sebbene dotati di facoltà di scegliere se aderire all’allungamento della giornata lavorativa, non avrebbero potuto rifiutare a causa delle basse paghe e dello squilibrio di potere tra datore di lavoro e impiegato. Contro di essa sono state organizzate diverse manifestazioni in tutte le maggiori città greche, tanto che solo nel mese di ottobre sono scoppiati due scioperi generali, che hanno bloccato treni, traghetti e traffico in tutta la penisola ellenica. La legge sull’ampliamento della giornata lavorativa fa parte di una più ampia riforma delle norme sul lavoro che mira a rendere le regole da seguire nel mercato lavorativo più flessibili. In Grecia si lavora di norma otto o nove ore al giorno con un massimo di tre ore di straordinario, pagate il 40% in più della normale paga oraria. La misura prevede un ampliamento del tetto degli straordinari a quattro ore lavorative per non più di 37 giorni l’anno e su base volontaria; essa vuole inoltre che il monte ore settimanale resti invariato, così come il totale delle ore straordinarie permesse in un anno, che in Grecia ammonta generalmente a 150. La nuova legge si inserisce sulla scia di analoghe manovre sul lavoro proposte negli anni precedenti dall’attuale governo Mitsotakis, che ha precedentemente introdotto la settimana lavorativa da sei giorni e permesso ai dipendenti di lavorare fino a 74 anni, 7 anni oltre l’età pensionabile attualmente prevista. È anche per tale motivo che è stata contestata dalle opposizioni e dai lavoratori, che denunciano come la Grecia sia uno dei Paesi dell’UE in cui si lavora di più e si guadagna di meno. La misura era stata approvata mesi fa, ma è stata discussa dal Parlamento ieri, e approvata oggi, giovedì 16 ottobre. Contro di essa sono state organizzate diverse proteste, tra cui due scioperi generali nel solo mese di ottobre. L’ultimo, martedì 14 ottobre, ha visto migliaia di manifestanti riversarsi nelle piazze del Paese, e bloccare le infrastrutture elleniche. Lo sciopero è durato 24 ore, ha impedito ai treni di circolare, interrotto i servizi locali di trasporto pubblico, il traffico automobilistico, e i servizi di traghetti. A Tessalonica e Atene sono state organizzate ampie proteste; nella capitale i manifestanti hanno raggiunto piazza Syntagma, protestando davanti al palazzo del Parlamento. Secondo i dati Eurostat, la Grecia è il Paese dell’UE dove si lavora di più, con gli uomini che raggiungono una media settimanale di 42,8 ore e le donne con 39,1. Sebbene non siano toccati da questa norma, anche i lavoratori autonomi ellenici risultano i più carichi di lavoro, con una media di 46,6 ore per settimana. Il Paese è il terzo peggiore per salario annuo corretto per il tempo pieno (che stima, in termini assoluti, quanto guadagnerebbero i lavoratori di un Paese se tutti lavorassero a tempo pieno), e il peggiore per reddito reale, seguito proprio dall’Italia. Nel Belpaese non è possibile lavorare più di 13 ore al giorno, e il monte ore di straordinari annuale è generalmente fissato a 250 ore, nonostante le variazioni previste per i singoli contratti collettivi.   L'Indipendente
Riduzione dello spazio civico e delle OSC in Europa: un focus sulla Grecia
Papers, una rubrica di Melting Pot per la condivisione di tesi di laurea, ricerche e studi. Per pubblicare il tuo lavoro consulta la pagina della rubrica e scrivi a collaborazioni@meltingpot.org. -------------------------------------------------------------------------------- Università degli studi di Padova Department of political science, law, and international studies Master’s degree in Human Rights and Multi-level Governance SHRINKING CIVIC SPACE AND CIVIL SOCIETY ORGANIZATIONS IN EUROPE. A FOCUS ON GREECE Tesi di Clementina Maiullari (2023/2024) Scarica l’elaborato INTRODUZIONE Negli ultimi anni, il concetto di restringimento dello spazio civico ha acquisito crescente attenzione, poiché i governi di tutto il mondo hanno implementato misure restrittive che limitano lo spazio operativo delle organizzazioni della società civile (OSC). La capacità di queste organizzazioni di difendere i diritti umani, i valori democratici e la giustizia sociale è stata limitata in vari modi, che vanno dalle restrizioni legali alle intimidazioni dirette. Sebbene le minacce e le restrizioni nei confronti degli attori della società civile, sia da parte di Stati che di gruppi non statali, siano sempre esistite, nell’ultimo decennio si è assistito a un passaggio da episodi isolati a pressioni più diffuse e sistematiche: lo spazio civico viene sistematicamente e deliberatamente limitato in un numero significativo di paesi, con particolare riferimento ai diritti di associazione, riunione ed espressione della società civile. Questo non è solo un problema degli Stati autoritari o semi-autoritari. Nella lotta continua contro il terrorismo, spesso per motivi di sicurezza nazionale, molte democrazie consolidate hanno adottato misure che limitano le attività degli attori della società civile: organizzazioni, ma anche giornalisti, attivisti, studenti, intellettuali e difensori dei diritti umani. La percezione delle organizzazioni della società civile come potenziali minacce ha portato a una crescente riluttanza da parte dei governi a collaborare con queste organizzazioni. Anziché essere considerate partner nella promozione dello sviluppo sociale e nella lotta al terrorismo attraverso il coinvolgimento della comunità, molte ONG sono viste con sospetto. Questo cambiamento ha portato a una riduzione della cooperazione tra i governi e la società civile, minando gli sforzi volti ad affrontare le cause profonde della violenza e dell’estremismo. Questa tesi, intitolata “Shrinking civic space and civil society organizations. A focus on Greece”, mira a esplorare come questo fenomeno globale si manifesti in tutto il mondo e nel contesto europeo, con particolare attenzione alla Grecia e al suo trattamento delle organizzazioni della società civile che si occupano di migrazione. La domanda di ricerca che guida questo lavoro è: in che misura il restringimento dello spazio civico ha influenzato le organizzazioni della società civile in Grecia, in particolare quelle che lavorano con i richiedenti asilo e i rifugiati? E in che modo queste restrizioni si allineano con le tendenze europee e globali più ampie? Questa domanda cerca di svelare i vincoli legali, politici e sociali imposti alle organizzazioni della società civile e di comprenderne l’impatto sulla loro capacità di lavorare in modo efficace. La questione è importante in quanto le organizzazioni della società civile svolgono un ruolo fondamentale nella promozione e nella tutela della democrazia, dei diritti umani e della giustizia sociale. Negli ultimi anni, tuttavia, si è registrato un notevole aumento della criminalizzazione della solidarietà nei confronti dei migranti e delle sanzioni nei confronti delle persone che attraversano le frontiere in Europa. Questa tendenza rappresenta una grave minaccia per lo spazio civico e mina lo Stato di diritto all’interno dell’Unione europea, sanzionando di fatto i migranti esclusivamente sulla base del loro metodo di ingresso nel territorio dell’UE, spesso ignorando le loro esigenze umanitarie e i loro diritti. La criminalizzazione della solidarietà ha gravi implicazioni per i diritti umani. Non solo punisce coloro che cercano di aiutare i più vulnerabili, ma mina anche i principi fondamentali di dignità e umanità che dovrebbero guidare le politiche migratorie. Comprendere come la riduzione dello spazio civico influisca sulle operazioni e sulle strategie delle organizzazioni della società civile è essenziale per sviluppare risposte efficaci volte a proteggere e ampliare lo spazio civico. Per quanto riguarda la metodologia utilizzata, questo lavoro adotta un approccio di ricerca che integra un’analisi della letteratura recente, l’esame di dati secondari e un lavoro sul campo primario, con l’obiettivo di offrire una comprensione articolata del restringimento dello spazio civico. Mostrando e descrivendo i dati e i rapporti prodotti da organizzazioni chiave che monitorano lo spazio civico nel mondo, come Civicus, The International Center for Not-for-Profit Law, Civic Space Watch, Amnesty International e Human Rights Watch, la tesi attinge alla letteratura esistente e alle prove empiriche per identificare le tendenze globali ed europee nella restrizione delle organizzazioni della società civile. Le fonti sopra citate offrono una prospettiva macroeconomica sul fenomeno, chiarendo i modelli di repressione, gli ostacoli legislativi e le forme di vessazione incontrate dalle organizzazioni della società civile su scala globale. Oltre ai dati secondari, la ricerca include un caso di studio microeconomico sulla Grecia. Nonostante il paese sia formalmente uno stato democratico, sono state attuate politiche restrittive nei confronti degli attori della società civile, in particolare quelli che operano nei settori della migrazione e dell’asilo. Il mio tirocinio presso La Luna di Vasilika onlus, un’organizzazione che sostiene i richiedenti asilo del campo di Corinto, mi ha offerto l’opportunità di acquisire una visione diretta delle sfide più significative che un’ONG deve affrontare in Grecia. Allo stesso tempo, è diventato evidente che vi è un’urgente necessità di identificare strategie di resilienza. Le interviste raccolte hanno facilitato il coinvolgimento diretto delle persone colpite dalla riduzione dello spazio civico: esse forniscono dati qualitativi sulle strategie dell’organizzazione per far fronte all’ambiente restrittivo in cui opera e sulla sua capacità di difendere i diritti fondamentali dei richiedenti asilo. Questa combinazione di tendenze a livello macro e casi di studio a livello micro cerca di arricchire il discorso più ampio sulla riduzione dello spazio civico con esperienze specifiche e contestualizzate. Concentrandosi sulla Grecia, uno Stato membro dell’Unione Europea con istituzioni democratiche consolidate, la tesi mette in luce i modi intricati in cui anche una democrazia ben radicata può attuare politiche che limitano la società civile. In questo modo, contribuisce al più ampio dibattito sull’impatto della contrazione dello spazio civico sulla protezione dei diritti umani, sul funzionamento della governance democratica e sulla responsabilità degli Stati in tutta Europa. Al fine di affrontare la questione oggetto di ricerca, la tesi è strutturata come segue: la prima sezione è una rassegna bibliografica completa che fornisce le basi concettuali per l’analisi successiva. Questo capitolo sintetizza le teorie chiave, le definizioni e gli studi empirici rilevanti per l’argomento, fornendo un solido quadro di riferimento per comprendere le dinamiche in gioco. Esso mira a valutare criticamente il corpus di conoscenze esistente, integrando diverse prospettive per introdurre l’analisi nei capitoli successivi. Alcuni di questi studi vengono poi ripresi e analizzati in modo più dettagliato nel corso del lavoro, fornendo una base teorica per i casi di studio e i dati esaminati. Il primo capitolo vero e proprio fornisce un’esplorazione teorica dello sviluppo storico della società civile, dalle sue origini nel concetto greco di Politiké Koinonia e nella Societas Civilis latina, fino alla nascita di una società civile globale alla fine del XX secolo e al ruolo delle organizzazioni della società civile e delle organizzazioni non governative come difensori dei diritti umani e dei valori democratici. Il capitolo evidenzia le sfide affrontate dalla società civile negli ultimi anni, con particolare attenzione all’impatto della pandemia di COVID-19, che ha aggravato le sfide esistenti e creato nuovi ostacoli alla partecipazione civica. Il secondo capitolo sposta l’attenzione dai fondamenti teorici agli esempi pratici di come la riduzione dello spazio civico stia influenzando le organizzazioni della società civile in tutto il mondo. L’obiettivo è quello di esaminare come le varie restrizioni influenzano la capacità delle organizzazioni della società civile di difendere e proteggere i diritti umani. Attraverso casi di studio provenienti da diverse regioni, questo capitolo evidenzia la natura globale della questione. Questa sezione esamina anche le risposte delle Nazioni Unite a tali tendenze: mentre, da un lato, i suoi organi riconoscono il ruolo essenziale della società civile nella promozione dei diritti umani e della pace, le loro risoluzioni mancano di meccanismi di applicazione efficaci per rimuovere le barriere poste dai governi. Il terzo capitolo restringe l’analisi al contesto europeo e all’Unione europea, esaminando i quadri giuridici che regolano le organizzazioni della società civile e le crescenti restrizioni osservate in diversi Stati membri, in particolare all’indomani della crisi migratoria del 2015, dimostrando che anche le democrazie sono vulnerabili alle restrizioni delle libertà della società civile. Le istituzioni dell’UE hanno tradizionalmente promosso la partecipazione della società civile alla governance, sostenuta da trattati come il Trattato di Lisbona e la Carta dei diritti fondamentali, che offrono opportunità per un maggiore coinvolgimento delle OSC. Nonostante questi sforzi e i programmi di finanziamento dell’UE, permangono ostacoli per le OSC. Questo capitolo esamina anche l’uso di azioni legali strategiche contro la partecipazione pubblica (SLAPPs) e altre forme di vessazione legale in Polonia, Ungheria e Germania. Il capitolo conclusivo è dedicato all’esame della situazione in Grecia, con particolare attenzione al contesto socio-politico, alle politiche migratorie e alla criminalizzazione delle organizzazioni della società civile che forniscono assistenza ai richiedenti asilo. Questo caso di studio presenta un’analisi approfondita di La Luna di Vasilika. A Corinto, il centro comunitario Keirapsìes e la scuola gestita da questa organizzazione, in collaborazione con One Bridge to Idomeni e Aletheia, rappresentano uno spazio sicuro per le persone che vivono nel campo di Korinthos. Il capitolo include interviste e dati raccolti sul campo che evidenziano il ruolo fondamentale dell’organizzazione e le sfide che deve affrontare, causate soprattutto dai nuovi requisiti di registrazione.