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PISA: “CI VOGLIAMO VIVE*. PER SAMANTHA, PER TUTTE*”. FIACCOLATA NEL QUARTIERE SANT’ERMETE
Il Senato ha approvato all’unanimità, nel pomeriggio di mercoledì 23 luglio 2025, il disegno di legge del governo Meloni sul femminicidio. Il provvedimento passerà ora alla Camera. La nuova norma introduce l’articolo 577-bis del codice penale e punisce con l’ergastolo chiunque provochi la morte di una donna “commettendo il fatto con atti di discriminazione, di odio o di prevaricazione, ovvero mediante atti di controllo, possesso o dominio verso la vittima in quanto donna”. Nel paese reale, però, la strage dei femminicidi continua. L’ultimo caso si è verificato ieri, martedì 22 luglio 2025, nel quartiere di Sant’Ermete a Pisa. Samantha Del Gratta, 45 anni, è stata uccisa da un uomo di 50, il suo compagno, una guardia giurata, che le ha sparato con la pistola d’ordinanza. “Ci vogliamo vive*, per Samantha, per tutte*”: con queste parole d’ordine la Comunità di quartiere di Sant’Ermete ha organizzato per questa sera, 23 luglio, alle 21, una fiaccolata. Sulle frequenze di Radio Onda d’Urto è intervenuta Carla, della Comunità di Quartiere di Sant’Ermete. Ascolta o scarica.
“Femminismi nemici”: il caso italiano
Pubblichiamo l’intervento tenuto da Viola Carofalo alla sesta edizione della scuola femminista delle Asturie AMA (10-13 luglio 2025). Ciao a tutte compagne, in questo mio intervento vorrei provare a raccontarvi del contesto che, come femministe italiane, stiamo vivendo in particolare dell’avanzata dei cosiddetti femminismi di destra, quelli che Sophie Lewis chiama femminismi nemici, e della strumentalizzazione di molte delle nostre istanze. Come certamente sapete dal 2022 la Presidente del Consiglio – lei ci tiene moltissimo e ha sottolineato più volte che vuole essere chiamata IL Presidente – è Giorgia Meloni leader di un partito, Fratelli d’Italia, di stampo neofascista, che si è orgogliosamente definita: “Donna, madre e cristiana”. Nel suo discorso di insediamento, Meloni ha fatto un vero e proprio capolavoro, non ha rimosso il suo essere donna, la prima in assoluto In Italia ad essere a capo di un Governo, ma l’ha rivendicato in una maniera molto specifica: “Tra i tanti pesi che sento gravare sulle mie spalle oggi, non può non esserci anche quello di essere la prima donna a capo del governo in questa Nazione. Quando mi soffermo sulla portata di questo fatto, mi ritrovo inevitabilmente a pensare alla responsabilità che ho di fronte alle tante donne che in questo momento affrontano difficoltà grandi e ingiuste per affermare il proprio talento o il diritto di vedere apprezzati i loro sacrifici quotidiani. Ma penso anche, con riverenza, a coloro che hanno costruito con le assi del proprio esempio la scala che oggi consente a me di salire e rompere il pesante tetto di cristallo posto sulle nostre teste”. Di qui in avanti Meloni inizia a citare una serie di italiane famose dalla pedagoga Maria Montessori, alla scienziata Rita Levi Montalcini, alla giornalista dalle posizioni islamofobe Oriana Fallaci, fino ad arrivare a Nilde Iotti, tra le più note politiche italiane della prima Repubblica, partigiana, membro del Partito Comunista Italiano e dell’Assemblea Costituente. Quello che fa trasalire non è soltanto il richiamo a Iotti, che chiaramente sarebbe stata sua avversaria politica, ma un altro particolare e si rivela tutt’altro che un dettaglio. In questo lunghissimo elenco di donne illustri tutte le protagoniste sono chiamate con il solo nome proprio: Rita, Tina, Maria, Nilde, etc. È una provocazione, neanche tanto sottile. Il presidente Meloni mette subito le cose in chiaro: lei non rifiuta le istanze femministe anzi le fa sue e, a differenza delle forze parlamentari di centrosinistra, vuole difendere non soltanto poche privilegiate, ma tutte le donne soprattutto delle classi popolari. Però non si occupa di questioni “poco serie” come quelle legate al linguaggio e nemmeno “private” come considera essere quelle riguardanti l’orientamento sessuale. Lei si occupa di cose concrete: lavoro, sanità. E appare credibile, a differenza di molti populisti di destra, anche grazie alle sue origini realmente popolari e militanti la aiutano. Parla chiaro e senza tanti fronzoli. È celebre uno scambio con una delle parlamentari dell’opposizione che la criticava per non avere abbastanza a cuore la libertà delle donne e per aver promosso i movimenti pro-vita. Meloni risponde: “Ho sentito dire che io vorrei le donne un passo dietro agli uomini (risate in Parlamento) mi guardi onorevole Serracchiani le sembra che io stia un passo dietro agli uomini? (…) Io stamattina ho parlato di lavoro di welfare di una società che non costringa a scegliere tra lavoro e maternità”, sono una donna privilegiata per la posizione che ricopro, sottolinea, ma non tutte lo sono come me e io penso e provvedo a quelle donne. A questo punto direte voi: ma stiamo ascoltando un elogio di Giorgia Meloni? Ovviamente no! Quello che sto provando a fare, nei limiti di un breve intervento, è capire come mai il suo discorso riesca ad essere così popolare, efficace e guadagnare terreno. Soprattutto perché mi sembra che in molti altri contesti, quello francese in primis, ma anche negli Stati Uniti, sia sempre più chiara una capacità di affermarsi dei femminismi nemici, ovvero punitivisti, transfobici, neoliberisti, nazionalisti. E allora piuttosto che dipingere le nostre nemiche come delle rozze imbonitrici è forse più utile capire come mai il loro discorso riesce a fare così tanta presa. Vorrei fare altri due esempi molto recenti per mostrare quali siano le strategie del Governo  italiano, strategie che rischiano di rivelarsi vincenti, e di conquistare alla loro parte anche molti dei “nostri”. Il 7 marzo di quest’anno il governo Meloni in conferenza stampa ha annunciato un disegno di legge “contro la violenza sulle donne e il femminicidio”, vantandosi di essere il primo governo In Europa a introdurre questo specifico reato nel codice penale (non solo come aggravante ma come reato a sé stante) e di renderlo punibile con l’ergastolo, ovvero il carcere a vita. Inutile dire che in un paese nel quale viene uccisa una donna ogni tre giorni e in cui le notizie dei femminicidi sono particolarmente discusse (spesso con una buona dose di voyerismo e morbosità) soprattutto quando le vittime sono giovani studentesse carine la cui foto può essere sbattuta in prima pagina, o quando gli assassini sono soggetti razzializzati, immigrati, appartenenti alle classi disagiate e più povere (il ministro dell’Interno Piantedosi non manca mai di ripeterci che la violenza contro le donne “fa parte intrinsecamente della ‘loro’ cultura”). Il giorno seguente, l’otto marzo sembrava non si riuscisse a parlare d’altro (e si diceva, più o meno sottovoce, anche in ambienti femministi: “eh però non male questo governo Meloni…”). Il secondo episodio è di soltanto pochi giorni fa: nell’unico municipio di Roma governato dalla destra, quello di Tor Bella Monaca, viene aperto, in un momento nel quale i centri antiviolenza per le donne scarseggiano e non vengono finanziati né sostenuti con fondi pubblici, un centro antiviolenza specifico per uomini molestati, che hanno subito violenza fisica ma che sono anche vittime della fantomatica “alienazione parentale”. Ovviamente si tratta di un’operazione propagandistica, dell’utilizzo di una “falsa equivalenza” come metodo di delegittimazione per le rivendicazioni femministe. Forse qualche anno fa ci sarebbe sembrata surreale e ci avremmo riso su. Oggi scatena un gran dibattito perché, si dice, “tutte le violenze sono uguali! Non si capisce perché gli uomini non dovrebbero essere protetti e supportati proprio come le donne!”. Evidentemente nessuno nega che ci possano essere degli uomini che subiscono violenza, le donne non sono angeli, ma fino a poco tempo fa forse sarebbe stato chiaro a tutti che si tratta di casi isolati, di dinamiche interpersonali, relazionali, ma che non hanno natura sistemica. Bisogna prendere sul serio quello che un tempo avremmo detto essere solo una mossa pubblicitaria, ma mi sembra che la strumentalizzazione, la svalutazione delle battaglie transfemministe o addirittura la loro criminalizzazione, stiano diventando sempre di più nel mio paese un mezzo per costruire consenso. E soprattutto per nascondere quella che a ben vedere è un’evidenza: ovvero che dal punto di vista materiale, delle politiche di contrasto alla povertà, per il lavoro e per la sanità, questo governo non sta facendo assolutamente nulla. Alle persone deprivate, delle periferie, soprattutto uomini, giovani uomini (tra i quali il consenso per “Fratelli d’Italia” è in forte crescita) questi discorsi rischiano di dare, attraverso la rabbia e l’odio, consolazione e soprattutto identità e visibilità pubblica. A quello che un tempo in Italia era il Nero – l’immigrato da iper sfruttare e su cui riversare disgusto e rancore – oggi sembra essersi affiancata la Donna (o meglio, la femminista) che non sa “stare al suo posto”. Non si può non sottolineare che se le parole della destra funzionano è proprio perché ad esse è contrapposta l’inconsistenza di un centrosinistra, del Partito Democratico, che da sempre si presenta come poco concreto, “umanitario” nel senso peggiore del termine, e soprattutto estremamente elitario. Che negli ultimi 30 anni ha avuto un ruolo determinante nella distruzione del welfare e dei diritti, anche e soprattutto delle donne, concentrandosi solo su battaglie formali e “di facciata”. Come sottolinea Houria Bouteldja (Beaufs et barbares: Le pari du nous, 2024), ci sono molti uomini nelle periferie, nelle classi popolari che devono essere riconquistati al fronte delle persone oppresse se non vogliamo che pensino di trovare il loro posto altrove, perpetuando forme più o meno microscopiche di violenza e dominio nei confronti di chi sta peggio di loro – le donne, le persone razzializzate, etc. – e questo non può farlo un progressismo moralista, astratto e lontano dalla realtà. Questo dobbiamo farlo noi. È, mi sembra, uno dei nostri compiti per gli anni a venire. La falsa contrapposizione tra maschi poveri, talvolta razzializzati, che vivono in condizioni di precarietà, e donne e persone della comunità queer, serve solo a spaccare un fronte che sarebbe altrimenti naturalmente unito da interessi simili. Quelli legati alla necessità uscire da una condizione di oppressione e di abbandono, di trovare un proprio posto nel mondo. Catherine Malabou [Changer de différence. Le féminin et la question philosophique, 2009] propone un concetto minimale di donna o, meglio, di femminile, che credo possa esserci utile, che non riguarda sole le persone assegnate come tali dalla nascita, nemmeno quelle che procedono in un percorso di transizione, ma che tiene assieme tutti quei soggetti che sono implicati in un processo di femminilizzazione. (Si parla a proposito della precarizzazione, del lavoro ‘nero’, della mancanza di tutele, di ‘femminilizzazione del lavoro’, processo che evidentemente riguarda moltissimi maschi, persone trans, non binarie etc. europee, straniere). Un processo di esposizione alla violenza materiale e simbolica senza protezioni esterne né tutele che riguarda la maggioranza delle persone sulla terra. Anche interi popoli. Sto pensando alla Palestina. Dire che la precarizzazione del lavoro, che il colonialismo e la guerra, che la Palestina sono questioni femministe, non significa parlare del femminile come plasmato solo dall’oppressione ma anche e soprattutto dalla capacità di rispondere e di resistere. Significa trovare il minimo comun denominatore per costruire un fronte comune. Il 30 novembre 2023 (Giornata contro la violenza sulle donne) ci sono state a Roma e in tutta Italia, come ogni anno, manifestazioni di piazza molto partecipate. C’era stato da poco il femminicidio di Giulia Cecchettin per mano dell’ex fidanzato, un caso che aveva fortemente colpito l’opinione pubblica. Alcune intellettuali e gruppi femministi (potremmo definirli nemici? Non so, certamente non alleati), per fortuna minoritari, si sono battuti perché NON fossero portate in piazza bandiere palestinesi per due ragioni: – per “rispetto” alle donne israeliane alle quali era stata fatta violenza il 7 ottobre, perché Israele rappresenta la punta avanzata dei diritti civili e invece la Palestina, l’Islam (facendo per altro un’assurda equazione e generalizzazione) perseguita le donne e le persone queer1; – per non politicizzare una questione, quella della violenza, che riguarda tutte e che non ha parte o colore politico (!) e non distogliere l’attenzione dal tema dei femminicidi. Sul primo argomento non mi soffermo nemmeno. Sul secondo tutto quello che ho da dire è che la depoliticizzazione delle battaglie femministe, sostenere che riguardano le donne in generale, in astratto, e non le donne in carne e ossa (sfruttate, colonizzate, oppresse dalla guerra) rende facile il compito ai nostri nemici: ai femminismi di destra, al femonazionalismo, a un’idea della politica completamente separata dai bisogni materiali delle persone che vogliamo difendere e del fronte di cui facciamo parte. La strada da percorrere per ricostruire un femminismo realmente popolare, materialista, internazionalista è ancora molto lunga, dissestata e tutta da spianare. Ma questo giugno, dopo quasi due anni di battaglia su questo tema, al Pride, in tutta Italia, sventolavano migliaia di bandiere della Palestina.   1. Su questo rimandiamo a https://www.progettometi.org/analisi/rage-sense-and-sensibility/ ︎ Potere Al Popolo
La rabbia non basta
COSA STA SUCCEDENDO AI GIOVANI UOMINI? SIAMO DI FRONTE A UN PROFONDO ANALFABETISMO AFFETTIVO? CHI SE NE OCCUPA? PERCHÉ IL RICHIAMO ALL'”EDUCAZIONE DEI SENTIMENTI” NON È SUFFICIENTE? DOMANDE OLTRE L’INSOPPORTABILE E ILLUSORIA IDEA DI PREVENIRE E SCORAGGIARE I FEMMINICIDI AUMENTANDO LE PENE Bologna, 24 maggio: al Centro Sociale della Pace, con le Cattive maestre si ragiona di scuola a partire dal libro Dietro la cattedra, sotto il banco. Il corpo a scuola -------------------------------------------------------------------------------- Di fronte a un fenomeno quotidiano e allarmante come i femminicidi, soprattutto quando l’età dell’aggressore e della vittima si abbassano, non mi meraviglia l’indignazione e la rabbia che, soprattutto sui social, fanno seguito. Mi meraviglia invece che si possa pensare di prevenirli, scoraggiarli, aumentando le pene fino all’ergastolo. L’abbassamento dell’età, della vittima e dell’aggressore non può non interrogarci innanzi tutto su che cosa sta succedendo a giovani uomini, che cosa può spingere un abbandono, un rifiuto, la fine di una relazione quando si è ancora poco più che adolescenti, a un’azione così feroce di annientamento dell’altra. Al di là delle tante ragioni sociali, che sicuramente incidono – ambiente degradato, clima di guerra, predominio del più forte, ecc. -, non c’è dubbio che il peso maggiore viene dal cambiamento del rapporto tra i sessi. Le donne, già dall’adolescenza, sono oggi più consapevoli di quella che è stata storicamente la loro condizione, più decise nell’affermare la loro libertà. Il femminismo degli anni Settanta ha fatto fare un salto della coscienza storica e, se anche non ha cancellato la cultura patriarcale, il sessismo dominante, lo ha tolto dalla “naturalità” con cui è arrivato fino a noi. È di fronte a questa novità, imprevista, inaspettata, che scatta la reazione vendicativa di chi ha creduto, più o meno inconsapevolmente, di poter contare su corpi femminili, erotici e materni, obbedienti, sottomessi, attenti, come scriveva già Jean-Jacques Rousseau, a “rendere loro buona la vita”. L’ambiguità di un dominio particolare come quello maschile, intrecciato e confuso con le vicende più intime, viene oggi allo scoperto, e se è l’odio contro il femminile a prevalere, non è solo per un “possesso” che l’uomo si vede sfuggire, ma per la scoperta di una fragilità e dipendenza coperte finora dall’esistenza di corpi sociali rassicuranti riguardo a un privilegio millenario di superiorità “naturale”, intoccabile. È già accaduto, all’inizio del Novecento, che la comparsa dei movimenti femminili e femministi di emancipazione delle donne risvegliasse, insieme alla misoginia, la virilità guerriera che ha portato a due guerre mondiali e al nazifascismo. Dietro a quello che viene superficialmente definito “bullismo”, come sanno le donne che oggi insegnano, ci sono sessismo e razzismo, pregiudizi antichi e precoci per la storia millenaria che li ha trasmessi quasi inalterati. E c’è l’analfabetismo affettivo che ha la sua radice negli interrogativi che si pongono, spesso dolorosamente, nell’adolescenza per quanto riguarda il corpo e le passioni che lo attraversano, e cui nessuno risponde. Non la famiglia, che in qualche modo li crea, né la scuola, dove restano il “sottobanco”, il “fuori tema”. Nei tanti articoli e dibattiti che hanno fatto seguito al femminicidio di Martina Carbonaro, il richiamo all'”educazione dei sentimenti” di cui dovrebbe farsi carico la scuola, è ricorrente. Ma poco o niente si dice che l’educazione non è neutra, che sentimenti, sogni, emozioni, pulsioni, portano il segno delle costruzioni di genere, del diverso “destino” assegnato a un sesso e all’altro. Ancora meno si dice che chi, all’interno della scuola, prova ad affrontare la violenza maschile da questo punto di vista, viene osteggiato e ostacolato, a partire da decreti ministeriali repressivi, volti alla restaurazione di quegli stessi “valori” tradizionali che hanno garantito la durata storica della cultura patriarcale. -------------------------------------------------------------------------------- LIBRI Un suggerimento di lettura per chi tenta oggi coraggiosamente e faticosamente un cambiamento della scuola: Dietro la cattedra, sotto il banco. Il corpo a scuola, scritto da Lea Melandri insieme a Cattive Maestre e pubblicato da Prospero Editore. . . -------------------------------------------------------------------------------- Testo dell’intervento raccolto da “Tutta la città ne parla”, programma di Radio Tre, giovedì 29 maggio. Ospiti di Pietro Del Soldà, insieme a Lea Melandri: Dario Del Porto (giornalista), Maria Teresa Manente (avvocata), Matteo Lancini (psicologo e psicoterapeuta). Lea Melandri ha aderito alla campagna Partire dalla speranza e non dalla paura -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE: > Forse era il suo primo grande No -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo La rabbia non basta proviene da Comune-info.
traccia tavolo VIOLENZA DI GENERE – assemblea nazionale genova 2025
Dopo il femminicidio di Giulia Cecchettin e di troppe altre*, siamo ancora qui a ripetere le stesse parole, a scendere in strada arrabbiate*, a trovare con noi a manifestare migliaia di giovani che anche autonomamente occupano le scuole, scioperano perché la violenza attraversa i loro spazi, le scuole, le famiglie e ora hanno le parole per protestare: femminismo/transfemminismo, patriarcato, maschilità tossica. Se pensavamo che qualcosa cambiasse, è cambiata in peggio sul piano legislativo e della politica istituzionale: la legge sul femminicidio altro non è che un dispositivo inutile per aggravare le pene e il sistema di repressione; di nuovo abbiamo sentito discorsi razzisti sulla “sensibilità diversa sulle donne” riferita ad alcune etnie (certo non quella italica) e sulla lettura manipolata dei dati riferiti alle violenze sessuali volta a criminalizzare i migranti; dopo la reazione pubblica di sgomento a seguito di femminicidi perpetrati da giovanissimi è intervenuta la garante per l’infanzia, a colpevolizzare le donne e a svalutare il ruolo dell’educazione sessuo affettiva nelle scuole; una insegnante è stata sospesa per avere messo foto su onlyfans ed è subito partito il codice etico per disciplinare i comportamenti di chi lavora nella scuola e nel pubblico impiego. Questo piano di ragionamenti punitivi, repressivi e di controllo, che da decenni accompagna il dibattito politico sui media e nei palazzi, non solo serve a evitare di affrontare il tema della violenza di genere alla sua radice sistemica e culturale, ma ha anche preparato il clima per introdurre tramite decreto legge una serie di misure repressive che hanno lo scopo di criminalizzare il dissenso, la protesta, lo sciopero, i picchetti e le azioni non violente della contestazione e del boicottaggio. Come reagiamo alla strumentalizzazione in chiave razzista, securitaria e repressiva della violenza patriarcale? Come ci opponiamo al tentativo di portare avanti politiche razziste e nazionalista in nostro nome e sui nostri corpi? Decidere per sé, per il proprio corpo è considerato un fattore di rischio. E ancora si continua a colpevolizzare le* supersititi e le vittime e il femminismo e le donne che hanno ridotto gli spazi di potere maschile, minato le sicurezze degli uomini, creato le condizioni della crisi della virilità e del conseguente disagio psicologico che poi dà sfogo alla violenza.  Come costruiamo narrazioni che riconoscano la natura strutturale della violenza patriarcale? Come costruiamo pratiche collettive per rispondere alla violenza? Cosa ci insegnano le mobilitazioni partecipate e spontanee in risposta agli ultimi femminicidi? Abbiamo detto che una caratteristica del governo Meloni è la rivalsa, la voglia di fare tabula rasa della cultura cosiddetta di sinistra, a partire dall’azzeramento delle conquiste del movimento LGBTQIA+ e del movimento delle donne*. In questo quadro si collocano gli attacchi al diritto di aborto e i milioni di euro dati a pioggia a Provita e famiglia, gli attacchi a* giovani gender non conforming e alle famiglie arcobaleno, spazi e finanziamenti dati a realtà neocattoliche e/o espressamente legate alla destra per ricoprire ruoli un tempo considerati estranei a quei soggetti, in particolare consultori, centri antiviolenza, formazione sull’educazione affettiva e sessuale. Non basta chiedere l’apertura di sportelli di ascolto a scuola, se poi vengono appaltati ad associazioni ed esperti alla Vannacci o alla Amadori.  Gli sportelli rientrano tra le nostre istanze?  Quante volte abbiamo scaricato sui cav funzioni e responsabilità anche al di fuori dei loro limiti di intervento? A scuola si chiedo lo/la psicologa, che spazio c’è per la peer education? A che ordine di idee appartengono queste diverse soluzioni? Oltre alle domande precedenti, proponiamo alla discussione due temi: uno ‘potenzialmente emergenziale’ sui cui occorre valutare pericolosità e possibili risposte; l’altro che interessa i nostri spazi e gli approcci con cui proviamo ad arginare le dinamiche patriarcali violente. 1. L’associazione Padri Separati sta raccogliendo le firme per una proposta di legge che è peggiorativa del DDL Pillon che siamo riuscite a non far passare. Vengono riproposti alcuni aspetti già presenti nel DDL Pillon ma a questi si aggiungono gli articoli 9/11 che rappresentano la fine dei percorsi di uscita dalla violenza familiare per le donne con figlie*. Oltre al danno la beffa: i Padri Separati nel sostenere il diritto paterno di essere pari all’altro genitore sottolineano la co-responsabilità parentale quale “essenziale contributo al fine di liberarsi dagli stereotipi di genere che riguardano i ruoli socialmente assegnati alla donna e all’uomo che riverberano la ripartizione di compiti in seno alla famiglia, ancorati a logiche patriarcali” (sic). I primi articoli riguardano: Ø Il piano genitoriale. Ø La possibilità di assegnare la casa, ma solo alle* figlie* stesse*, determinandovi così l’alternanza dei genitori nei periodi di accudimento delle* figlie* secondo il piano genitoriale. Ø Il limite del mantenimento ai 19 anni a meno di frequenza proficua di studi universitari o simili, ma non oltre i 26 anni. Ø I limiti entro cui ha validità una Consulenza tecnica d’ufficio (CTU) L’Articolo 9 e l’Articolo 10 fronteggiano le cosiddette false accuse, definite “pratica diffusissima e comunemente usata per pressioni sull’altra componente genitoriale, per vantaggi prettamente economici e di godimento di beni”. Gli articoli recitano: Art 9. Il giudice dichiara la decadenza dalla responsabilità genitoriale del genitore che abbia allegato in giudizio fatti costituenti abusi familiari o condotte di violenza domestica o di genere ovvero altri reati ai danni dell’altro genitore o del figlio che, anche all’esito di una sommaria istruttoria, siano risultati insussistenti. Art 11. 1. Chiunque, abusando dell’affidamento di un minorenne, indebitamente limita, impedisce o nega al genitore non affidatario il suo diritto di frequentarlo, istruirlo ed educarlo è punito con la reclusione fino ad un anno. La pena è della reclusione da 2 a 4 anni nel caso in cui l’autore interrompa senza giustificato motivo per un periodo superiore ai tre mesi la continuità della relazione del genitore non affidatario col figlio minore. In caso di gravi e ripetute violazioni delle disposizioni di cui ai commi precedenti, il giudice può applicare la pena accessoria della decadenza dalla responsabilità genitoriale. Si tratta di mera rivalsa e gravissima minaccia che limiterà la libertà delle donne di denunciare le violenze: un freno alla fuga e un ostacolo enorme per le attività dei CAV. Focus: attacco alla libertà delle donne; attacco all’attuabilità delle azioni dei CAV; impunità per la violenza maschile. Output: serve un’azione di massa e in anticipo, prima che sia in discussione in parlamento, come fu per il DDL Pillon. Criticità: quali tempi scegliere per sollevare questa lotta. Paura di arrivare tardi e paura di iniziare presto. 2. La nostra critica al carcere, alle politiche punitive e repressive è critica radicale. Come si applica per la violenza di genere? Iniziano a emergere metodologie ed esperienze di giustizia trasformativa, applicata in particolare nelle comunità che abitiamo. Ne abbiamo esperienza o conoscenza? Come si pone questa metodologia rispetto agli sportelli che spesso vengono richiesti in particolare nelle scuole e università? È un argomento che può fare da argine alle politiche mainstream che individuano nell’aumento delle pene le sole soluzioni per la violenza di genere e maschile? Focus: andare oltre le soluzioni di allontanamento dei responsabili delle violenze nei nostri spazi, avere uno sguardo che supera il binarismo vittima/colpevole. Output: avere nuovi approcci per la cura, per la gestione dei conflitti e per la presa di coscienza in caso di violenza di genere. Criticità: ci sono resistenze anche nella rete DiRe, da approfondire. Richiede tempi e risorse che poche realtà hanno.
Crisi abitativa e lavoro povero sono un problema anche per i Centri antiviolenza
Nove operatrici della Casa delle donne gestiscono una media di 190 percorsi di fuoriuscita dalla violenza simultanei, che si allungano per la difficoltà di riconquistare casa e reddito. Il coordinamento regionale dei Centri conferma la tendenza. Oggi le piazze di Non Una Di Meno per l'8 marzo: "Ddl femminicidio? Più carcere non è la soluzione".