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LA FLOTTA DEL GENOCIDIO: IL NUOVO DOSSIER DI LINDA MAGGIORI PER ALTRECONOMIA
“La flotta del genocidio – Sulle rotte delle armi dai porti italiani” è il dossier di Linda Maggiori pubblicato dai tipi di Altreconomia che spiega come il transito delle armi verso Israele possa continuare nei porti italiani, nonostante le leggi che lo impedirebbero a cominciare dalla legge 185 del 1990. Non solo il transito da parte di paesi esteri usando i porti italiani, ma anche merci a doppio utilizzo (civile e militare). I registri autorizzativi del ministero degli esteri sono vuoti, perché le compagnie straniere non sono tenute a dichiararsi all’Unità per le autorizzazioni dei materiali di armamento UAMA; eppure “il ministero dell’Interno e le prefetture conoscono con anticipo i traffici di armi e predispongono misure ad hoc (tra cui le scorte armate)”, scrive Linda Maggiori. Insomma, “non solo questi carichi vengono lasciati passare ma vengono persino scortati”. Ne abbiamo parlato ai nostri microfoni con Linda Maggiori, giornalista freelance di Ravenna collaboratrice di diverse testate tra cui Altreconomia. Ascolta o scarica
#Armi e appalti: l’Italia mantiene aperto il canale con l’industria #militare #israeliana #carabinieri #polizia di Antonio Mazzeo Nonostante la campagna di sterminio contro la popolazione palestinese della Striscia di Gaza, Arma dei Carabinieri e Polizia di Stato continuano ad equipaggiare i propri reparti di pronto intervento rifornendosi presso le più importanti aziende israeliane. https://antoniomazzeoblog.blogspot.com/2025/11/armi-e-appalti-litalia-mantiene-aperto.html
Armi e appalti: l’Italia mantiene aperto il canale con l’industria militare israeliana
Nonostante la campagna di sterminio contro la popolazione palestinese della Striscia di Gaza, Arma dei Carabinieri e Polizia di Stato continuano ad equipaggiare i propri reparti di pronto intervento rifornendosi presso le più importanti aziende israeliane. L’11 novembre 2025, in occasione di “Milipol”, l’esposizione internazionale delle attrezzature per le forze […] L'articolo Armi e appalti: l’Italia mantiene aperto il canale con l’industria militare israeliana su Contropiano.
Salerno: nessun porto per il genocidio. Presidio
Questa mattina la rete No Harbour for Genocide ha manifestato nuovamente davanti al porto di Salerno, insieme ai portuali SI Cobas in sciopero, per denunciare e bloccare l'uso del terminal per il trasporto di armi dirette a Israele. E' la terza manifestazioni a partire dal 22 settembre quando circa duemila persone occuparono il porto e riuscirono a imporre un colloquio con la società terminalista a cui fu posta la richiesta poi ribadita il 3 ottobre e portata anche oggi in strada: basta uso dei porti per le armi del genocidio. Ne parliamo con una compagna di No Harbour for Genocide.
Dinknesh, una storia etiope
Ieri mi è arrivato un pacchetto a casa: conteneva “Dinknesh, una storia etiope”, un libro scritto da Carlo Presciuttini, un carissimo amico che per le nostre storie personali considero come un fratello maggiore. Carlo infatti ha 70 anni ed è nato nel 1955, esattamente 10 anni più di me e come me ha fatto il servizio civile e l’insegnante. Certo quando lui fece obiezione di coscienza al servizio militare non erano molti a fare questa scelta. Bisognava sottoporsi al giudizio di una commissione esaminatrice, che aveva il compito di verificare l’autenticità della propria dichiarazione di contrarietà all’uso individuale e collettivo delle armi, ovviamente partendo dal presupposto che essere invece favorevoli all’uso delle armi sia la normalità che non ha bisogno di essere indagata e sottoposta a giudizio.  Inoltre, con una forma punitiva abrogata molti anni più tardi dalla Corte Costituzionale, vi era l’obbligo di prestare un Servizio Civile alternativo a quello militare di 20 mesi invece di 12. Carlo svolse quindi il suo servizio civile a Roma, tra la fine del 1977 e la metà del 1979, con il Movimento Internazionale per la Riconciliazione e aderì alla Lega Obiettori di Coscienza.  Si occupò in particolare della produzione e del commercio delle armi, che già allora l’Italia forniva con disinvoltura a feroci dittature e a Paesi in guerra, talvolta, con una buona dose di cinismo, addirittura ad entrambe le parti contrapposte (all’Iran e all’Iraq giusto per fare un esempio).  Carlo si occupava soprattutto allo studio di progetti di fattibilità finalizzati alla riconversione della produzione industriale, dal settore bellico a quello civile, collaborando con la Federazione Lavoratori Metalmeccanici, potente organizzazione sindacale che allora univa gli operai e gli impiegati metallurgici di Cgil, Cisl e Uil. Il principale interlocutore era il sindacalista Alberto Tridente, che in seguito sarebbe diventato europarlamentare per Democrazia Proletaria, partito della nuova sinistra rosso-verde affine alle opinioni politiche di Carlo e alle mie. Tra la fine del 1979 fino al termine del 1980, Carlo venne assunto come responsabile del Centro di Formazione di Trappeto da Danilo Dolci, uno dei maestri del pensiero nonviolento, che fondò e fu per molti anni responsabile del Centro Studi e Iniziative di Partinico; le due località si trovano a pochi chilometri di distanza in provincia di Palermo. I principali interlocutori di Carlo furono la Chiesa Valdese, le scuole elementari e medie del territorio e le realtà politiche e sindacali più sensibili ai temi del disarmo e della difesa dell’ambiente. Carlo seguì inoltre con interesse l’avviarsi dell’esperienza della scuola comunitaria di Mirto, fortemente voluta da Danilo Dolci. Rientrato a Roma fu tra i promotori di Archivio Disarmo, esperienza nata nel 1982 su sollecitazione del senatore Anderlini della Sinistra indipendente (composta da intellettuali eletti come indipendenti nelle liste del Partito Comunista Italiano). I primi anni Ottanta del secolo scorso (nonostante il crescente riflusso politico successivo al lungo Sessantotto italiano, che percorre tutti gli anni Settanta, fino alla sconfitta degli operai della Fiat di Torino del 1980) furono gli anni di un vasto movimento pacifista italiano ed europeo contro l’istallazione dei missili dotati di testate nucleari Pershing e Cruise da parte della Nato e SS20 da parte dell’Unione Sovietica. Il dispiegamento degli euromissili, in un periodo di forte tensione tra la Nato ed il Patto di Varsavia, aumentava esponenzialmente i rischi di una guerra atomica combattuta sul teatro europeo. Soltanto l’avvento di Michail Gorbaciov come Segretario Generale del Partito Comunista dell’Unione Sovietica portò a una politica di distensione e di disarmo, purtroppo abbandonata in questi ultimi anni, riesumando toni bellicisti finalizzati a far accettare le politiche di riarmo europeo a scapito della difesa delle conquiste dello stato sociale. Nel 1983 anche Carlo partecipò alle lotte per tentare di fermare la conversione dell’Aeroporto “Magliocco” di Comiso in una base militare statunitense dove posizionare i missili Cruise, che peraltro erano montati su veicoli in grado di disperderli nel territorio siciliano, come infatti accadeva durante le esercitazioni. In questa occasione tuttavia possiamo  registrare un vittoria postuma del movimento pacifista poiché l’Aeroporto di Comiso è ora civile e la base militare statunitense è stata smantellata. A quel tempo io e Carlo non ci conoscevamo, ma in qualche modo le nostre vite si intrecciarono: nel 1982 a Varese, mentre frequentavo l’istituto magistrale, ascoltai Danilo Dolci raccontare la storia delle lotte nonviolente in Sicilia, anch’io partecipai a Comiso al movimento pacifista e feci il Servizio Civile tra il 1984 e il 1985 per Pax Christi a Napoli, nel quartiere popolare Ina Casa di Secondigliano.  Infine collaborai a Roma con il Centro Interconfessionale per la Pace, diretto allora da Padre Gianni Novelli, che negli anni Settanta era stato giornalista della rivista COM/Nuovi Tempi (edita dalle Comunità Cristiane di Base e dai Valdesi). Successivamente, nel 1984, Carlo vinse il concorso come insegnante di Italiano, Storia, Geografia ed Educazione Civica di Scuola Media, diventò quindi Preside nel 1993 e, dopo un incarico presso il Ministero degli Affari Esteri alla Farnesina, andò a lavorare, a partire dal 2002, ad Addis Abeba, capitale dell’Etiopia come Direttore della Scuola Italiana. La Scuola Italiana di Addis Abeba è tuttora una delle numerose istituzioni scolastiche statali che operano all’estero per i dipendenti delle ambasciate e per i figli degli italiani che vogliono mantenere un più stretto contatto con la madrepatria. La Scuola Elementare e la Scuola Media di Addis Abeba avevano tuttavia la caratteristica di essere frequentate da un buon numero di bambine e bambini etiopi. Durante questa sua esperienza Carlo fece il possibile e l’impossibile per favorire l’inserimento di questi alunni etiopi e soprattutto per impedirne l’allontanamento per cause economiche, arrivando a pagare di tasca propria la retta alle famiglie più povere, con le quali strinse rapporti di sincera ed intensa amicizia. A circa 1 km dall'Università statale di Addis Abeba: moschea in costruzione (nel 2015). Sui lati sinistro e destro del corso d'acqua (maleodorante) vi sono abitazioni simili a quella di Shiromeda, dove Dinknesh, la protagonista del racconto e narratrice, ha vissuto per diversi anni. Foto di Carlo Presciuttini Un mercato etiope molto distante da Addis Abeba (2011), Foto Carlo Presciuttini Addis Abeba - Palazzina primo Novecento in legno e muratura nei pressi della scuola statale italiana. In basso: vecchie Lada (Fiat 124 prodotte in Russia) adibite a taxi. Foto Carlo Presciuttini Donne manovali in zona agricola. Foto di Carlo Presciuttini. Addis Abeba, Shiromeda, verso la chiesa, di domenica. Foto di Carlo Presciuttini Rientrato quindi a Roma nel 2010, sempre come Dirigente Scolastico, negli ultimi tre anni del suo lavoro approdò  alla mia scuola di allora, la Lola di Stefano, dell’Istituto Comprensivo Crivelli a Monteverde Nuovo. Io ero stato eletto come RSU della FLC CGIL, condividevamo principi di massima trasparenza ed equità nell’assegnazione del Fondo di Istituto (spesso invece utilizzato con grande disinvoltura a beneficio della ristretta corte di zelanti e fedeli collaboratori di Dirigenti Scolastici autoritari). Soprattutto ricordo l’impegno di Carlo (mio e di alcune altre insegnanti) per favorire l’inserimento nella nostra scuola delle bambine e dei bambini rom di origine rumena e bosniaca del Campo di Via Candoni, peraltro assai distante dalla nostra scuola, come atto di solidarietà nei confronti delle scuole più limitrofe (come quella in cui insegno attualmente al Trullo) che non potevano assumersi da sole questo compito gravoso ma fondamentale. Ricordo una visita che facemmo io e Carlo al campo di via Candoni per incontrare le famiglie di alcuni nostri alunni: non è facile trovare dirigenti scolastici così aperti e disponibili. Dopo essere andato in pensione nel 2016, Carlo è tornato per un anno nella sua amata Etiopia. Da anni divorziato e padre di tre figli ormai grandi (curiosamente due dei suoi quattro figli hanno lo stesso nome di due dei miei quattro figli: Irene e Francesco), si sposò con Alem, una donna etiope, anzi più precisamente tigrina, ma per ragioni di salute della moglie che necessita di cure specialistiche, è rientrato in Italia e vive ora a Terni, con la moglie e la sua quarta figlia Betty (a questo punto, per non farle un torto scrivo che l’altra figlia si chiama Chiara).  Betty frequenta l’Università di Terni, dove ha ritrovato due studentesse etiopi della Scuola Italia, e dove collabora in particolare, come sempre con paziente spirito unitario, con i giovani di Potere al Popolo. Nel suo libro, con grande affetto Carlo mi ringrazia di averlo spinto a scrivere la sua straordinaria storia di educatore, militante nonviolento e dirigente di un’istituzione scolastica della Repubblica Italiana fedele ai valori della Costituzione più che ai desiderata dei vari governi. Una persona estremamente gentile e pacata nei modi, capace di dialogo, ma al tempo stesso di idee radicali. Un uomo sensibile e capace di empatia, di ascolto e di condivisione con le famiglie povere ed emarginate della capitale etiope per aiutarle a dare un futuro alle loro bambine ed ai loro bambini. . Dal fiume al villaggio, portatrici d’acqua, Foto Carlo Presciuttini Il suo libro è sicuramente uno strumento utilissimo per avvicinarsi alla cultura e alla vita quotidiana di un popolo, quello etiope, verso il quale peraltro l’Italia ha un debito storico per gli efferati crimini contro l’umanità commessi durante l’occupazione fascista. Soprattutto ci aiuta a capire perché molte donne e uomini rischiano di essere imprigionate, torturate e violentate e sfidano la morte attraversando il deserto ed il Mar Mediterraneo per sfuggire alla guerra e alla fame, pur restando intimamente legate alla propria terra e alla propria cultura. Buona lettura dunque. Dalla prefazione: Una giovane donna etiope racconta la propria vita e quella della sua famiglia a un amico italiano, dando voce a chi solitamente è costretto al silenzio. Emergono scene di un’infanzia difficile, lotte quotidiane per sopravvivere, speranze riposte nel futuro dei figli. E’ un racconto di precarietà endemica, ma anche di coraggio, solidarietà familiare e dignità. E’ il ritratto di un popolo che resiste e sogna, che non teme di guardarsi in uno specchio ove anche noi, lettori d’Occidente, possiamo osservarci, accorgendoci dell’indifferenza e superficialità che dimostriamo nel giudicare chi vive ai margini senza conoscerne la storia. “Laddove è sofferenza, non voltiamoci dall’altra parte: ciascuno di noi ha momenti difficili da affrontare e necessita del conforto di una persona amica.” Carlo Presciuttini Il libro può essere acquistato contattando ILMIOLIBRO seguendo questo link: > Dinknesh, una storia etiope Etiopia villaggio rurale. Foto di Carlo Presciuttini Capanna Barche di pescatori a Wenchi (2004), Foto ddi Carlo Presciuttini Chiesa Tewahedo (cristiano-ortodossa di rito etiope) a Wenchi. Foto di Carlo Presciuttini Mauro Carlo Zanella
Leonardo ed Edge Group: la nuova joint venture delle armi negli Emirati Arabi Uniti
Ogniqualvolta la Presidente del Consiglio Giorgia Meloni si reca all’estero è solita essere accompagnata da delegazioni di imprenditori, ma nel caso delle visite nel Golfo Persico il ritorno per la industria italiana è rappresentato dalle ordinazioni alle imprese produttrici di armi. EDGE Group e Leonardo SpA, a metà 2025, dichiaravano di voler dare vita a una joint venture (JV) ad Abu Dhab e a distanza di pochi mesi l’operazione entra nel vivo con una ripartizione di quote societarie pari, rispettivamente, al 51% e del 49%. Quali saranno le attività svolte da questo colosso industriale? C’è solo l’imbarazzo della scelta come leggiamo testualmente da un comunicato di Leonardo pubblicato anche da Analisi difesa: https://www.leonardo.com/it/press-release-detail/-/detail/19-11-2025-edge-group-and-leonardo-announce-key-milestone-toward-landmark-joint-venture-in-the-uae Riportiamo alcuni dettagli dell’accordo: «Progettazione, sviluppo, collaudo, industrializzazione e produzione, vendita e leasing, supporto e addestramento per l’intero ciclo di vita per i prodotti della JV negli Emirati Arabi Uniti, i diritti di proprietà intellettuale, nonché la formazione professionale della forza lavoro locale. I prodotti della JV saranno commercializzati in UAE e, dal paese, verso mercati export selezionati. La gamma oggetto di analisi sarà individuata tra soluzioni proposte da Leonardo che spaziano dal settore della sensoristica a quello dell’integrazione di sistemi e alle piattaforme». Leonardo SpA non ha bisogno di presentazioni, è una delle principali aziende compartecipate dello Stato italiano produttrici di armi, ha numerose alleanze e alcune join venture con importanti multinazionali in Europa e nel mondo, le più rilevanti quanto a sistemi tecnologici di ultima generazione. EDGE è a sua volta tra i primi gruppi al mondo proprio nel settore della tecnologia avanzata. Perché la scelta è ricaduta sugli Emirati Arabi Uniti? Perché intendono costruire una sorta di grande «hub globale per le industrie del futuro e creare percorsi chiari per la prossima generazione di talenti altamente qualificati». Parliamo delle ultimissime ed emergenti tecnologie, della trasformazione digitale, dell’utilizzo della IA per applicazioni militari di ogni genere: Piattaforme e Sistemi, Missili e Armamenti, Spazio e Tecnologie Cyber, Trading & Mission Support, Tecnologia e Innovazione, Sicurezza Nazionale. Federico Giusti, Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle università
L’Occidente dell’ipocrisia
L’Occidente dell’ipocrisia: guerre, armi, bambini violati e il Sud del mondo sotto ricatto  Mentre l’Occidente pontifica sulla pace, sui diritti umani e sulla democrazia, continua a fabbricare e vendere strumenti di morte, a decretare sofferenze e carestie nei Paesi del Sud del mondo. È un paradosso che si ripete da decenni: da una parte palazzi e media diffondono parole di condanna verso i conflitti “altrui”, dall’altra i governi, le multinazionali e le lobby belliche lucrano sulla guerra, progettandola, alimentandola, controllandola. La verità è cruda: l’Occidente vuole il Sud sotto schiaffo, perché un Sud destabilizzato, affamato e militarizzato è più facilmente soggetto a sfruttamento economico, politico e sociale. Le guerre “d’altri” sono il terreno su cui si coltiva la propria supremazia: materie prime sottratte, risorse naturali controllate, popoli privati di autodeterminazione. Chi parla di pace senza denunciare chi produce e commercia armi, chi parla di diritti umani senza guardare alle bombe che esporta, mente. È un’ipocrisia sistemica, funzionale agli interessi di pochi e devastante per molti. Guardando ai teatri di conflitto in Africa, Medio Oriente, America Latina o Asia, emerge un filo rosso evidente: le armi occidentali arrivano sempre prima delle missioni umanitarie, e spesso le precedono. Le stesse democrazie che condannano l’invasione di un Paese sono le prime a vendere missili, droni, bombe intelligenti e munizioni a chi alimenta quei conflitti. È un circolo vizioso che garantisce profitti ingenti e mantiene il Sud del mondo in una condizione di dipendenza e di vulnerabilità permanente. Ma le conseguenze non sono solo geopolitiche: la guerra produce traumi, disperazione e disperazione psicologica, soprattutto tra i giovani e gli adolescenti. Per loro, il mondo appare ingiusto e incomprensibile: immagini di bombardamenti, reportage di civili uccisi, notizie di carestie pilotate dall’avidità economica costruiscono un orizzonte di paura e impotenza. Eppure, educatori e operatori sociali continuano a testimoniare che si può coltivare resilienza, senso critico e coscienza politica, anche di fronte all’orrore, purché si denunci senza filtri la verità sui veri responsabili. L’Occidente predica l’ordine globale, ma la sua pace è un’illusione pagata con il sangue altrui. La vera giustizia richiederebbe di smettere di fabbricare armi, di cessare il commercio internazionale delle armi, di interrompere il ricatto economico e militare sui Paesi del Sud. Solo allora il concetto di “pace” non sarà più una parola svuotata e i “diritti umani” non verranno più usati come strumenti retorici per coprire interessi inconfessabili. Fino a quel momento, il compito di chi scrive e di chi educa è chiarissimo: denunciare, spiegare, rendere visibile la rete di potere e profitto che sta dietro la guerra. E stimolare una nuova generazione di ragazzi e ragazze a non accettare la menzogna come normalità, a leggere la realtà senza filtri e a pensare un mondo dove la pace non sia un lusso per pochi, ma un diritto universale. L’Occidente può continuare a parlare di valori, ma la verità resta: la sua guerra è la guerra degli affari, e i popoli del Sud sono il suo laboratorio permanente. E finché questa ipocrisia perdurerà, parlare di democrazia e umanità resterà un insulto a milioni di vittime silenziose. Educazione, infanzia ferita e il dovere di proteggere i più vulnerabili A pagare il prezzo più alto di questa ipocrisia sono i bambini. I conflitti alimentati dal commercio internazionale di armi privano intere generazioni della possibilità di crescere, imparare, immaginare il futuro. Nelle scuole bombardate o trasformate in rifugi, l’infanzia diventa un miraggio: i bambini imparano presto il linguaggio della paura, molto prima di quello della lettura e della scrittura. Molti sopravvivono a bombardamenti e carestie, ma restano segnati da ferite invisibili: incubi ricorrenti, mutismo selettivo, regressioni emotive, perdita di fiducia negli adulti. Questi traumi non sono accidenti della storia: sono la conseguenza diretta delle scelte politiche, economiche e militari dei Paesi che continuano a vendere armi sapendo perfettamente dove finiranno. L’educazione, in questi contesti, diventa un atto di resistenza. Insegnare significa restituire dignità, offrire strumenti critici, costruire anticorpi culturali contro la violenza strutturale. Le maestre e gli educatori, spesso volontari o operatori locali, sono i veri custodi di un futuro possibile: creano spazi di apprendimento in cui i bambini possono sentirsi sicuri, protetti, ascoltati. Ma non basta. Occorre che le società occidentali guardino in faccia la realtà: ogni bomba fabbricata porta con sé un bambino ferito, ogni arma venduta sottrae un banco di scuola, un libro, una possibilità. L’impegno educativo e sociale deve affiancarsi a una radicale critica del sistema bellico ed economico che continua a generare conflitti. Solo quando l’Occidente smetterà di produrre armi e inizierà a sostenere davvero istruzione, sviluppo, cooperazione e dignità, allora i bambini del Sud del mondo potranno crescere non come vittime ma come protagonisti del proprio destino. Fino a quel momento, la nostra civiltà non potrà dirsi civile.   Laura Tussi
Potenziata la Linea ferroviaria per Camp Darby: 44 treni carichi di armi solo negli ultimi 7 mesi
La denuncia avanzata dai “Ferrovieri contro la guerra” è stata ufficialmente confermata in consiglio comunale come risulta dalla risposta di RFI Firenze tramite l’Assessore Dringoli all’interpellanza di Diritti in Comune: i lavori sulla linea Pisa-Livorno e sullo snodo di Tombolo sono serviti al potenziamento della logistica militare verso la base USA di Camp Darby. L’ampliamento dei binari della linea Pisa-Livorno e la realizzazione di un nuovo binario di accesso a Camp Darby sono stati completati. Attualmente, sono in corso i lavori per dotare l’intera linea di un nuovo impianto di gestione computerizzato. Secondo l’assessore, questo impianto consentirà di “aumentare le prestazioni della linea”, rendendola più efficiente per tutti i traffici, incluso il trasporto di materiale bellico. I dati emersi svelano l’intensità del traffico militare sulla linea civile: 44 treni sono stati “terminalizzati” a Camp Darby nei primi 7 mesi del 2025. Uno spostamento di armi e mezzi impressionante che ha attraversato il ponte girevole del Tombolo. È la prima volta che emerge nel dettaglio il traffico militare su ferro nel nostro territorio asservito totalmente agli interessi americani con la piena complicità di chi governa a livello nazionale, regionale e locale. Altro più critico riguarda la sicurezza sulla linea che non è garantita da RFI per l’utenza civile come si intende di norma, ma è “assicurata tramite scorta militare”. Ovvero la scorta è volta alla “protezione del carico” (armi e munizioni), non alla sicurezza dei cittadini e delle cittadine che usano ignari una linea civile trasformata in infrastruttura di guerra. Questa conferma da RFI è la prova lampante che il nostro territorio e le sue infrastrutture civili sono sistematicamente utilizzate e potenziate ai fini militari e bellici americani e della NATO. I lavori eseguiti sulla linea civile, che hanno causato anche disagi ai pendolari, non hanno primariamente un fine civile, ma servono a rendere Camp Darby un arsenale sempre più efficiente e strategico. Occorre disertare e disobbedire a questo sistema di guerra che vede sempre più centrale il nostro territorio. Rilanciamo la campagna per cui nessuna infrastrutture civile deve essere messa a disposizione per il trasporto di guerra e ancora una volta chiediamo che Camp Darby sia smantellata e restituita all’uso civile, Subito! Redazione Toscana
A Sarajevo bisogna camminare in fretta
«PER RAGGIUNGERE IL PALAZZO DEL PARLAMENTO BOSNIACO NEL CENTRO DI SARAJEVO BISOGNA CAMMINARE IN FRETTA, SENZA FERMARSI. CI HANNO RACCOMANDATO DI FARLO DIJANA E LASNA, INQUILINE DEL SESTO PIANO DELL’EDIFICIO CHE HA VOLUTO OSPITARE LA DELEGAZIONE ITALIANA GIUNTA A SARAJEVO, ULTIMA TAPPA DELL’INIZIATIVA “TRE CITTÀ, UNA PACE” DEL CONSORZIO ITALIANO DI SOLIDARIETÀ…». COMINCIA COSÌ IL REPORTAGE DI MARCO CALABRIA E MATTEO MODER PUBBLICATO SU IL MANIFESTO DEL 7 GENNAIO 1994 E RACCOLTO OGGI NEL LIBRO GRIDARE, FARE, PENSARE MONDI NUOVI (ELEUTHERA). IN QUESTI GIORNI, GRAZIE A UN ESPOSTO DEL GIORNALISTA EZIO GAVAZZENI (IN REALTÀ LA NOTIZIA SI È PIÙ VOLTE DIFFUSA IN PASSATO MA NON HA RAGGIUNTO I “GRANDI” MEDIA), APPRENDIAMO CHE DURANTE L’ASSEDIO DI SARAJEVO, TRA IL 1993 E IL 1995, QUANDO UNDICIMILA PERSONE FURONO UCCISE, CI FURONO DIVERSI “CECCHINI DEL WEEKEND” ITALIANI, APPASSIONATI DI ARMI E SIMPATIZZANTI DELL’ESTREMA DESTRA, CHE RAGGIUNSERO LE COLLINE INTORNO ALLA CITTÀ, PAGANDO I MILITARI SERBO-BOSNIACI, PER SENTIRE L’ADRENALINA DELLA MORTE: I BAMBINI COSTAVANO DI PIÙ, POI GLI UOMINI ARMATI, QUINDI QUELLI NON ARMATI, LE DONNE E INFINE I VECCHI CHE SI POTEVANO UCCIDERE GRATIS Sarajevo. Foto unsplash.com -------------------------------------------------------------------------------- «Resistenza per Sarajevo» (Marco Calabria e Matteo Moder) Per raggiungere il palazzo del parlamento bosniaco nel centro di Sarajevo bisogna camminare in fretta, senza fermarsi. Ci hanno raccomandato di farlo Dijana e lasna, inquiline del sesto piano dell’edificio che ha voluto ospitare la delegazione italiana giunta a Sarajevo, ultima tappa dell’iniziativa «Tre città, una pace» del Consorzio italiano di solidarietà. Dobbiamo incontrare Kemal Muftic, consigliere del presidente Izetbegovic e direttore dell’agenzia B.H. Press. Muftic esprime perplessità per il percorso che ha preceduto l’arrivo della delegazione nella capitale bosniaca. È molto scettico sulla partecipazione, certo non di massa, dei cittadini di Zagabria e Belgrado alle manifestazioni promosse dai pacifisti italiani. «Per le operazioni umanitarie bisogna aprire l’aeroporto di Tuzla. Tutto il mondo è d’accordo, i serbi no. Non ci può essere pace senza libertà – chiarisce Muftic – Non so spiegare perché tanta ferocia, non dovete domandare a me perché anche padri di famiglia e contadini vengano a sparare a noi». L’unica risposta è che vivono in un regime fascista di tipo cileno, ma con una fortissima sindrome da accerchiamento. «La comunità internazionale – prosegue il portavoce governativo – ha lasciato che l’armata serba si scatenasse senza intervenire e oggi non ci consente ancora di poterci difendere. Questa guerra ha già fatto più di 300.000 vittime in Bosnia e a Sarajevo si continua a morire» [a oggi le morti stimate sono poco più di centomila N.d.C.]. Muftic si fa poche illusioni sull’utilità di un’informazione critica in Europa. Descrive con pungente ironia l’incontro avuto con Valery Giscard d’Estaing, venuto a Sarajevo a portare la solidarietà del parlamento francese. «La politica di non intervento dei governi occidentali ha già dato i suoi frutti. Guardate dalla finestra», è il suo amaro commento sostenuto dalle voci di fabbricazione europea delle armi usate dagli assedianti. A Sarajevo lo sanno tutti, lo leggono sulle migliaia di schegge di granate che si possono raccogliere in strada. Non servono conferme o smentite ufficiali, non cambia poi molto se si tratta ‘Parlal por «L’Onu noi di forniture dirette o passate per mani terze. Muftic pensa che l’Europa non potrà tollerare culturalmente ciò che è avvenuto a Sarajevo, ma la scelta di non intervento è ai suoi occhi cinicamente lineare. «La gente qui non ha fiducia, né si sente protetta dall’Unprofor. Noi stessi non ci sentiamo sicuri nell’affidare una delegazione straniera alle forze dell’Onu. Un anno fa è stato ucciso il vicepresidente del nostro governo su un mezzo blindato dell’Onu. Se altri non vogliono farlo, chiediamo ancora una volta di poterci difendere da soli. L’Onu deve togliere l’embargo. Dobbiamo difendere molti civili in questa città che ha deciso di non arrendersi, a Mostar e nelle altre città bosniache assediate. La nostra capacità di resistenza aumenta ogni giorno, nonostante lo stillicidio dei massacri quotidiani. Ma ad ogni nostra avanzata sulle colline di Sarajevo consegue una rappresaglia sui civili in altre zone, magari non di guerra, come Banja Luka. Lì i serbi hanno distrutto 1.200 moschee, cimiteri, luoghi di culto, tutte le tracce di una cultura che vogliono estirpare». La situazione è del tutto chiara per Il consigliere di Izetbegovic, l’idea della Grande Serbia nata nel XIX secolo, è stata rinnovata con l’ascesa al potere di Milosevic. «Qui a Sarajevo non hanno optato per un golpe – prosegue Muftic – che non sarebbe stato troppo difficile da organizzare con una repentina decapitazione del governo bosniaco. Hanno scelto di fare come gli europei con le popolazioni indigene in America: cancellazione sistematica delle persone fisiche, della cultura, dei monumenti e della storia. L’Europa invita alla pace e alla vita in comune. In Bosnia questo esiste da otto secoli. Sarajevo è questo, ma la Jugoslavia è stata distrutta e adesso vogliono distruggere la Bosnia per fare una grande Serbia e una grande Croazia. Ma non si può fermare il fascismo solo con le parole. Dovreste saperlo, ci vuole la Resistenza», conclude in italiano Muftic. -------------------------------------------------------------------------------- Questo articolo, pubblicato originariamente su il quotidiano il manifesto del 7 gennaio 1994, fa parte oggi del libro Gridare, fare, pensare mondi nuovi (Eleuthera). L'articolo A Sarajevo bisogna camminare in fretta proviene da Comune-info.
Cosa c’entra Leonardo con il genocidio a Gaza?
Gianni Alioti, ricercatore di The Weapon Watch – Osservatorio sulle armi nei porti europei e mediterranei, ha scritto per Pressenza un approfondimento, con notizie inedite, sulle responsabilità di Leonardo nel genocidio a Gaza. Come ha scritto in un bellissimo articolo il regista e drammaturgo Carlo Orlando, nativo di Novi e genovese di adozione, «Viviamo il tempo del genocidio. Da oltre 700 giorni. I palestinesi di Gaza e della Cisgiordania, i milioni di profughi che vivono in diaspora da generazioni, vivono la realtà della pulizia etnica da oltre mezzo secolo e ora quella del genocidio. […] l’orrore di questo genocidio ci peserà addosso per anni (per sempre) e presto tardi ne pagheremo le conseguenze. […] Spesso si dice che “l’Occidente è indifferente” mettendo sullo stesso piano, implicitamente, governi e persone. É una narrazione tossica, che non rende giustizia alla realtà e contribuisce a generare paralisi e sconforto. Contribuisce, secondo me, all’accettazione di questo massacro quasi fosse un destino inevitabile, a cui l’Occidente non può sottrarsi. […] È una narrazione tossica che vede solo l’ombra e non la luce, umilia e offende. Il nostro governo non è indifferente. È complice. I giornalisti che fanno propaganda attiva al genocidio, non sono indifferenti. Sono complici». E complici di ciò che Francesca Albanese, nel suo rapporto all’Onu sulla situazione dei diritti umani nei territori palestinesi occupati dal 1967, definisce “economia del genocidio” ci sono anche diverse multinazionali, specie operanti nell’industria bellica, come la statunitense Lockheed Martin (la numero uno al mondo per fatturato militare) e l’italiana Leonardo. Controllata dal Ministero dell’Economia e delle Finanze che detiene il 30,2% delle azioni la Leonardo ha una significativa presenza internazionale. Degli oltre 60 mila dipendenti alla fine del 2024, il 15% operano nel Regno Unito, il 13% negli Usa, il 5% in Polonia, il 60% in Italia e il 7% nel resto del mondo tra cui 250 persone in Israele. Fino al 2023, nella pubblicazione “Leonardo at a Glance” contenuta nel sito web del Gruppo, Israele figurava come il quinto “mercato domestico” dopo quello italiano, inglese, americano e polacco. Dal 2024, per una questione di opportunità (o di opacità), è stato ricompreso nel “resto del mondo”. Ma la realtà non si cancella. Nel momento che il portafoglio ordini e il titolo in Borsa di Leonardo hanno iniziato a gonfiarsi, spinti dalle politiche di riarmo dei paesi europei della Nato e dalle guerre in Ucraina e in Medio-Oriente, le politiche di comunicazione aziendale si sono preoccupate di non dare di sé un’immagine militarista e ‘muscolare’, preferendo collocarsi in un generico mercato dual use per l’aero-spazio, la difesa e la sicurezza. Insistendo sul proprio profilo ‘sostenibile’. Ma non sempre le politiche d’immagine riescono a nascondere l’evidenza dei fatti, come quando, nel gennaio 2024, Papa Francesco rifiutò una donazione di 1,5 milioni di euro da parte della Leonardo per l’ospedale romano del Bambin Gesù. L’azienda, risentita per quel gesto del pontefice, rispose con un comunicato dove affermava che in tutti i teatri di guerra in corso, a partire dall’Ucraina e dal Medio Oriente, non c’era nessun sistema offensivo di loro produzione. Peccato che, come The Weapon Watch, abbiamo subito dimostrato, utilizzando fonti ufficiali della Israel Defense Forces – Idf, che i cannoni navali super rapidi Oto Melara 76/62 costruiti dalla Leonardo negli stabilimenti di Spezia e montati sulle corvette israeliane fossero usati nei bombardamenti dal mare su Gaza, colpendo aree urbane densamente abitate da popolazione civile. Un quotidiano, nel pubblicare il nostro articolo, aggiunse un bellissimo titolo «Non si dicono bugie al Papa». Bugie e omissioni (con qualche “ammissione”) che abbiamo riascoltato a fine settembre di quest’anno. Roberto Cingolani, amministratore delegato della Leonardo, dopo la scelta del Festival della Scienza di Genova di escludere l’azienda dagli sponsor dell’evento e, preoccupato per le sempre più frequenti manifestazioni davanti alle sedi di Leonardo contro la complicità con il genocidio a Gaza, ha affermato in un’intervista al Corriere della Sera che le accuse a Leonardo sono false: «non vendiamo armamenti ai paesi in guerra come Israele» . È vera questa affermazione categorica dell’amministratore delegato di Leonardo? Cominciamo ad analizzare le prime ammissioni Roberto Cingolani nel tentativo di allontanare le accuse di ‘complicità nel genocidio’ di Israele ha ammesso (smentendo due anni di falsità raccontate dai ministri Tajani e Crosetto) che Leonardo ha continuato a esportare materiale dʼarmamento verso Tel Aviv dopo il 7 ottobre 2023, in forza di autorizzazioni – rilasciate prima di quella data – dallʼUnità per le autorizzazioni dei materiali dʼarmamento (Uama), istituita presso il Ministero Affari Esteri. Autorizzazioni che non sono mai state sospese o revocate dal Governo, che pure avrebbe potuto e dovuto farlo in forza della legge 185/1990, che prevede esplicitamente la circostanza della sospensione o revoca di licenze già autorizzate “quando vengano a cessare le condizioni prescritte per il rilascio” (articolo 15). Come nel caso specifico di Israele entrato in guerra, non solo contro Hamas, ma verso altri paesi della regione. Oltre alle palesi e gravi violazioni a Gaza, sia della Legge 185/90, sia delle convenzioni internazionali in materia di diritti umani fondamentali, denunciate prima e poi accertate da numerosi organismi internazionali, anche in seno alle Nazioni Unite. Si tratta del contratto in essere relativo alla fornitura di attività di supporto logistico, assistenza tecnica da remoto, riparazioni e ricambi per i trenta M-346 Aermacchi (aerei da addestramento militare sviluppato e prodotto a Varese). Il contratto per i velivoli M-346 e relativi simulatori di volo fu firmato nel 2012. È superfluo ricordare che con gli M-346 e i relativi simulatori di volo si sono addestrati e continuano a farlo i piloti dell’aviazione israeliana degli F-16 e F-35 che hanno bombardato e ancora bombardano Gaza. Analizziamo ora le omissioni Roberto Cingolani non è il direttore della “filiale italiana” di Leonardo, ma lo Chief Executive Officer (cioè il massimo dirigente) del gruppo. E, come tale, la sua gestione non è a responsabilità limitata, sia da un punto di vista geografico, sia societario (rispetto alle aziende controllate e partecipate. Per questo, in quanto Ceo del gruppo, non può sorvolare sui due contratti di fornitura a Israele (il primo nel 2019 e il secondo nel 2022) per un totale di dodici elicotteri da addestramento militare AW119Kx sviluppati e prodotti dalla AgustaWestland di Philadelphia, società statunitense controllata al 100% da Leonardo. Il valore complessivo dei due contratti di 67,4 milioni di dollari comprende anche i simulatori di volo e altri equipaggiamenti dedicati, nuove infrastrutture e il supporto tecnico per 20 anni. In questo caso, a onore del vero, che non c’è alcuna violazione della Legge 185/90 sull’export, essendo un trasferimento diretto dagli Usa. C’è solo un problema di policy aziendale coerente o no con il proprio Codice Etico. Diversa, e più grave, è l’omissione reiterata sul trasferimento a Israele dei cannoni navali super rapidi Oto Melara 76/62, installati sulle corvette già in dotazione della marina militare israeliana e di quelli che saranno installati nelle nuove corvette in costruzione. Eppure la Leonardo avevo reso nota nel 2022 la consegna dei primi quattro cannoni navali super rapidi e il loro allestimento a bordo delle corvette classe Magen (tipo Sa’ar 6) costruite per Israele dalla tedesca ThyssenKrupp Marine Systems. L’“accettazione” veniva celebrata il 13 settembre del 2022 con una cerimonia ufficiale presso la base navale di Haifa. Di questa commessa per la fornitura di tredici cannoni navali super rapidi Oto Melara 76/62 alla forze di difesa israeliane, nonostante sia uno dei maggiori affari mai realizzati da Leonardo nello scacchiere di guerra mediorientale, per un valore di 440 milioni di dollari compresi i servizi di supporto, test e manutenzione, non c’è alcuna traccia tra le esportazioni di materiale d’armamento dall’Italia a Israele. L’arcano è presto svelato. I cannoni navali di Leonardo sono stati esportati negli Usa e, questi, attraverso una classica triangolazione tipica nel mercato opaco delle armi, li hanno girati a Israele. Il tutto violando la Legge 185/90, la quale prevede che l’uso finale sia conforme all’autorizzazione della licenza di esportazione rilasciata dall’Uama. E visto che i cannoni navali di Leonardo saranno installati anche nelle corvette di nuova generazione classe Reshef, la cui costruzione delle prime 5 unità è iniziata a febbraio di quest’anno nei cantieri della Israel Shipyards, bisognerebbe mettere fine a questa pratica illecita di triangolazione. La stessa pratica illecita (in questo caso non alla luce del sole come Italia-Usa-Israele) che, probabilmente, è alla base dei cannoni navali di Leonardo finiti sulle corvette della marina militare del Myanmar, in violazione non solo della Legge 185/90 ma anche dell’embargo internazionale. Con i manager di Leonardo che, invece di assumersi la responsabilità di ricostruire come sia potuto accadere, hanno minacciato querele a chi ha denunciato il fatto, come l’Associazione di solidarietà Italia-Birmania. L’ultima omissione di Roberto Cingolani riguarda la corresponsabilità di Leonardo sulle bombe GBU-39 co-prodotte da MBDA e fornite a Israele. MBDA è la principale azienda missilistica europea, di cui Leonardo possiede il 25% del controllo azionario, con la restante quota ripartita equamente (il 37,5%) da Airbus Group e BAE Systems. Secondo un’esclusiva del “Guardian” a luglio del 2025, MBDA vende componenti chiave per le bombe che sono state spedite a migliaia in Israele e utilizzate in numerosi attacchi aerei, in cui secondo le ricerche effettuate, sono stati uccisi anche bambini palestinesi e altri civili. MBDA possiede uno stabilimento negli Stati Uniti, che produce le “ali” che vengono montate sulle GBU-39, prodotte da Boeing. Esse si dispiegano dopo il lancio, consentendo alla bomba di essere guidata verso il suo obiettivo. I ricavi della società statunitense MBDA Incorporated passano attraverso MBDA Uk, con sede in Inghilterra, che poi trasferisce i profitti al gruppo MBDA, con sede in Francia. L’anno scorso l’azienda ha distribuito dividendi per quasi 350 milioni di sterline (400 milioni di euro) ai suoi tre azionisti, tra cui Leonardo. E finiamo con l’esaminare altre gravi responsabilità e una giustificazione imbarazzante Il fatto che Leonardo sia direttamente coinvolta come partner di 2° livello al programma internazionale degli F-35, gestito dalla multinazionale statunitense Lockheed Martin, attraverso la produzione nello stabilimento di Cameri (Novara) dei cassoni alari per la versione F-35A e la fornitura di componenti elettronici, è innegabile. Israele è stato il primo paese a dotarsi dei caccia-bombardieri F-35 fuori dagli Usa, acquistandone 50 unità (gli ultimi lotti per un totale di 14 aerei sono stati consegnati nel 2024). Nel giugno 2024 Israele ha ordinato agli Usa altri 25 F-35A. La Leonardo ha partecipato (e partecipa) alla fabbricazione degli F-35A destinati a Israele e impiegati nei bombardamenti su Gaza. Non è confutabile. Non è, quindi, una forzatura o peggio una strumentalizzazione aver incluso la Leonardo, in quanto co-produttore degli F-35 venduti a Israele, tra le aziende multinazionali implicate nell’economia del genocidio, come ha fatto Francesca Albanese nel suo rapporto Onu sui territori palestinesi occupati. Infine la Leonardo, attraverso la società controllata Leonardo DRS con sede negli Usa ha incorporato per fusione l’azienda israeliana Rada Electronic Industries, specializzata in radar per la difesa a corto raggio e anti-droni, la quale opera esclusivamente in campo militare. La società nata da questa fusione, la DRS Rada Technologies ha 3 siti produttivi in Israele che occupano 250 persone. Nel 2023 ha partecipato alla realizzazione di “Iron Fist”, un sistema di protezione attivo montato sui nuovi mezzi corazzati da combattimento delle Israel Defence Forces, gli “Eitan” a otto ruote destinati a sostituire i vecchi M113. Subito testati negli attacchi a Gaza. Anche i giganteschi bulldozer blindati Caterpillar D9 dell’Esercito israeliano si sono dotati dei sistemi di protezione attiva e dei radar tattici di DRS Rada. Rispetto alle responsabilità di Leonardo sulla gestione di queste aziende controllate, le cose scritte da Roberto Cingolani alla direzione e alla presidenza del Festival della Scienza di Genova sono realmente imbarazzanti sia per lui amministratore delegato di Leonardo, sia per il Governo italiano che ne detiene il controllo azionario. «[…] L’azienda [Leonardo DRS] è una ‘proxy’, dove tutti i membri del Cda devono essere americani e le questioni di sicurezza e difesa nazionale Usa non sono accessibili nemmeno a noi soci. Si tratta di attività esclusivamente americane in cui Leonardo e l’Italia non hanno alcuna voce in capitolo». Se le cose stanno così, l’amministratore delegato del Gruppo Leonardo e l’azionista di controllo (cioè il Governo italiano) dovrebbero avere la dignità e il coraggio di mettere subito in vendita l’azienda americana Leonardo DRS, come a suo tempo nel 2015 avrebbe voluto fare l’ex-AD di Finmeccanica, Mauro Moretti. La DRS nel 2008 non è costata un euro, come propongono i fondi americani per comprare oggi la ex-Ilva, ma ben 5,2 miliardi di dollari (più 3 miliardi di dollari di perdite fino al 2015). Ingenti risorse trasferite allora dal nostro paese agli Usa. Risorse rastrellate da Finmeccanica svendendo importanti asset civili del gruppo, in buona parte baricentrati su Genova. Redazione Italia