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[2025-11-13] L’ industria della guerra @ Zazie nel metrò
L’ INDUSTRIA DELLA GUERRA Zazie nel metrò - Via Ettore Giovenale 16, Roma (giovedì, 13 novembre 19:30) Giovedì 13 Novembre ore 19.00 da Zazie nel Metrò L’ INDUSTRIA DELLA GUERRA. Palestina paradigma dell' economia di guerra, boicottaggio come pratica di lotta, disarmo come prospettiva globale. “ Se l'Europa vuole evitare la guerra, deve prepararsi alla guerra… questo è il momento della pace attraverso la forza.” Ursula von der Laie In questa serata parleremo dell’industria della guerra, del caso Leonardo S.p.A. e dei percorsi possibili per costruire un’opposizione al riarmo globale. Presenteremo il dossier di BDS_Italia  "Piovono euro sull’industria “necessaria” di Crosetto e Leonardo S.p.A. Le relazioni con Israele " con  Rossana De Simone, attivista antimilitarista, in collegamento online. Sarà partecipe alla discussione Marco Bersani con cui parleremo dell’ opposizione alla politica di reArmEurope. Oggi la forza militare, la guerra e la violenza sono diventate strumenti legittimati dalle democrazie stesse: un nuovo paradigma che consente alle potenze mondiali di agire al di fuori di qualsiasi vincolo del diritto internazionale. La militarizzazione si presenta come risposta universale a crisi economiche, energetiche, climatiche e migratorie, segnando una trasformazione profonda del modello geopolitico e industriale: dal tradizionale concetto di difesa a quello di sicurezza globale. In questo scenario di “no-peace”, l’industria bellica si sostituisce alla politica degli stati, prosperando e non contemplando alternative al conflitto. Ma ciò di cui abbiamo davvero bisogno non è prepararci a nuove guerre: è costruire un modello diverso di “sicurezza” - sociale, ecologica - per l’Europa e per il mondo intero.
[2025-11-06] Boicotta l’economia di guerra @ Zazie nel metrò
BOICOTTA L’ECONOMIA DI GUERRA Zazie nel metrò - Via Ettore Giovenale 16, Roma (giovedì, 6 novembre 19:00) Giovedì 6 Novembre ore 19.00 da Zazie nel Metrò BOICOTTA L’ECONOMIA DI GUERRA. Palestina paradigma dell' economia di guerra, boicottaggio come pratica di lotta, disarmo come prospettiva globale. “Il genocidio a Gaza non si è fermato perché è redditizio, è redditizio per troppe persone. È un affare”. Francesca Albanese In questa serata parleremo di Boicottaggio e Inchieste come pratica di Lotta. Ascolteremo le voci del Bds_Roma che ci racconteranno del Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni come strumenti per colpire le economie colonialiste e predatorie che partecipano, oggi come ieri, al genocidio palestinese. Insieme a lor@, il gruppo di lavorator@ di Cobas-Poste ci illustrerà una loro inchiesta che approfondisce il ruolo di PosteItaliane nella cosiddetta “economia del genocidio”: la partecipazione di PosteItaliane alla fondazione Med-Or di Leonardo s.p.a., i trasporti di merci dual-use da partedi Poste Air Cargo e gli investimenti di Fondoposte nell’ economia di guerra. 
Non stanchiamoci di testimoniare contro l’orrore senza fine
Mentre è ripreso il bombardamento su Gaza, mentre si allarga l’occupazione della Cisgiordania con le reiterate violenze di coloni e soldati, mentre si aggrava l’aggressione al Libano impedendo alla popolazione civile di tornare nei villaggi distrutti, mentre le restituzioni dei cadaveri mutilati e torturati dei prigionieri palestinesi in Israele provano le sevizie perpetrate a detenuti senza processo, continua in tutto il mondo il boicottaggio contro i prodotti israeliani e lo sciopero della fame a staffetta (ndR) Appello per la liberazione dei medici in ostaggio nei campi di concentramento israeliani Medici Senza Frontiere (Msf) ha chiesto il rilascio immediato e incondizionato del dottor Mohammed Obeid, chirurgo ortopedico che lavora con Msf dal 2018. Obeid è detenuto nelle carceri di Israele da ormai quasi un anno, senza alcun contatto con la sua famiglia o avvocati. È stato arrestato dalle forze di occupazione israeliane il 26 ottobre 2024, durante un’operazione militare all’ospedale Kamal Adwan, nel nord di Gaza, insieme ad altre 57 persone. “Chiediamo che i suoi diritti, la sua dignità e la sua libertà siano ripristinati senza ulteriori ritardi”, afferma la dottoressa Tejshri Shah, direttrice generale di Msf. Il direttore dell’ospedale Auda, nel nord della Striscia, dott. Ahmad Mouhanna, è stato liberato nello scambio di prigionieri. “Sono stato ostaggio nelle mani dell’esercito israeliano per un anno e 10 mesi. Ho subito torture e maltrattamenti. Eravamo detenuti in gabbie metalliche in pieno deserto, in condizioni climatiche difficili, d’estate e d’inverno, con le mani ammanettate dietro la schiena. Alcune celle di punizione erano di un metro cubo, non si poteva stare dentro in piedi. Molti ostaggi palestinesi sono morti sotto tortura. Contro di noi sanitari non c’erano accuse e non abbiamo subito processi, ma soltanto interrogatori. L’unica nostra colpa era quella di aver curato donne incinte e neonati. Gli ufficiali ci dicevano che a Gaza non nasceranno più bambini. Il loro intento è annientarci come esseri umani, ma la nostra volontà di vita è più forte del loro nazismo”. L’esercito israeliano ha deciso di rinnovare la detenzione del dott. Abu Safuya di altri 6 mesi, senza accusa e senza processo. L’unica sua colpa è di aver curato i bambini. Meriterebbe il premio Nobel, non di essere preso in ostaggio. I due medici palestinesi, il dott. Hussam Abu Safiya e il dott. Dott. Marwan el-Homs, non sono stati rilasciati nello scambio di prigionieri attuale. I due medici sono ostaggi nelle mani dell’esercito israeliano da diverso tempo. Il primo è stato rapito il 27 dicembre 2024 e il secondo, direttore degli ospedali da campo, rapito dal suo ospedale il 21 luglio 2025. ANBAMED
Genocidio palestinese e dissenso in Italia: le piazze per la Palestina sono scenario di repressione?
Dal boicottaggio dei consumi alle manifestazioni di piazza: cresce in Italia il movimento di solidarietà con il popolo palestinese, mentre si moltiplicano episodi di repressione e dibattiti sulla libertà di espressione. Nel nostro paese stiamo assistendo a imponenti manifestazioni contro l’occupazione israeliana e il genocidio palestinese, attraverso l’attraversamento fisico dello spazio pubblico (presidi di piazza e cortei nelle strade) e anche mediante altri strumenti, come il boicottaggio dei consumi e delle strutture considerate coinvolte nelle violazioni dei diritti umani. Il tema “Palestina” attraversa le nostre coscienze: a partire da un moto di empatia umana, le posizioni di tante e tanti diventano politiche, poiché non piangiamo solo le persone uccise e, soprattutto, i tanti bambini, ma iniziamo a reclamare giustizia per il popolo palestinese e rispetto del diritto internazionale. Il che, tradotto in parole semplici, significa condannare l’intero progetto sionista e le azioni atroci che gli organi governativi che oggi lo portano avanti stanno perpetrando ai danni del popolo palestinese. Forse non sempre si è consapevoli di questo, ma è di questo che si tratta: quando scendiamo in piazza per la Palestina oppure acquistiamo Gaza Cola invece di Coca-Cola, lo facciamo per condannare il genocidio ma anche, necessariamente, per combatterne i presupposti. Vi è un nesso storico tra ciò che è accaduto cento anni fa con l’insediamento dei primi coloni attraverso il “primo aliyah”, “il primo ritorno”, cioè l’immigrazione dei primi coloni sionisti che avvenne tra il 1882 e il 1903, portando migliaia di ebrei in Palestina, e ciò che accade oggi con il colonialismo di insediamento iniziato nel 1948 in Cisgiordania, che ha portato sempre più persone a comprimersi dentro lo spazio della Striscia di Gaza per sfuggire all’apartheid e alla violenta sottrazione delle terre e del diritto di abitarle in modo dignitoso e sicuro. Senza infilarci in complicate ricostruzioni storiche, salta all’occhio che il fulcro della questione sia sempre la terra: la terra dei padri ma, soprattutto, la terra dei figli e per i figli. Il sionismo getta le basi per un’economia giorno dopo giorno sempre più fiorente, fuori e dentro Israele, e sempre più strettamente legata, purtroppo, anche alle operazioni militari. Uno sviluppo basato su un modello di investimento neoliberale, che ha consentito alle aziende israeliane di diventare dei colossi mondiali in alcuni settori; un esempio eclatante è il caso di TEVA, azienda farmaceutica che più volte ha dimostrato di non attenersi ad alcuna regola di controllo sulla produzione dei farmaci né sul divieto di fare cartello per imporre i propri prodotti al mercato. Il suo profilo etico (per quanto dichiarino i suoi siti ufficiali) è ampiamente compromesso dalle sanzioni dell’Unione Europea, che nell’ottobre del 2024 l’ha multata per 462 milioni di euro per concorrenza sleale e abuso di posizione dominante. Inoltre, di recente, la multinazionale sembra essere coinvolta, insieme ad altre realtà, in gravissime azioni contrarie al codice etico sanitario: “Rapporti inquietanti suggeriscono che il Ministero della Salute israeliano avrebbe permesso a grandi aziende farmaceutiche nazionali di testare prodotti sui prigionieri palestinesi detenuti nelle carceri israeliane. Questa affermazione, fatta dalla professoressa Nadera Shalhoub-Kevorkian e da Mohammad Baraka, capo dell’Alto Comitato di Follow-up per gli Arabi in Israele, solleva serie preoccupazioni etiche. Nel 1997, l’ex politica israeliana Dalia Itzik riferì che oltre 5.000 test erano stati eseguiti su questi prigionieri. Inoltre, storicamente, le autorità israeliane restituiscono sempre con grande ritardo i corpi dei prigionieri deceduti e questo alimenterebbe i sospetti di sperimentazioni mediche.” Fonte: BDS Italia. TEVA, ancora, effettua forniture dirette all’esercito israeliano e finanzia campagne di immagine a sostegno delle azioni belliche a Gaza. Per tutti questi motivi, BDS, il movimento globale per i diritti del popolo palestinese, è attivo da vari anni con una campagna massiva contro TEVA. A tal proposito è bene precisare cosa dice BDS: il boicottaggio combatte la complicità, non l’appartenenza. Può sembrare una precisazione banale, ma è meglio non dare spazio ad equivoci. È necessario farlo perché il terreno si fa sempre più scivoloso. In Italia, il 6 agosto scorso, è stato presentato un disegno di legge (S.1627, cosiddetto disegno di legge “Gasparri”) che si ispira, con molta approssimazione, alla definizione di antisemitismo adottata dalla “International Holocaust Remembrance Alliance” il 26 maggio 2016: “L’antisemitismo è una certa percezione degli ebrei che può essere espressa come odio per gli ebrei. Manifestazioni di antisemitismo verbali e fisiche sono dirette verso gli ebrei o i non ebrei e/o alle loro proprietà, verso istituzioni comunitarie ebraiche ed edifici utilizzati per il culto.” Ma l’aspetto innovativo portato nella proposta è un salto, quasi un volo pindarico, di associazione dell’antisemitismo all’antisionismo, nesso che (ci correggano i giuristi) non esiste nel testo della definizione adottata da IHRA. Le domande sono tante. Chi scrive immagina che, tra le persone giuste che attraversano le comunità ebraiche europee e tra le componenti sane della società israeliana, vi sia ampio dibattito per capire come la definizione dell’IHRA possa e debba essere aggiornata alla luce delle recenti accuse mosse dalla Corte Penale di Giustizia e degli avvenimenti storici. Lo testimonia il fatto che il noto storico israeliano Ilan Pappé ha pubblicato un libro che si chiama La fine di Israele e che delinea proprio come la spaccatura interna rispetto al progetto sionista sarà la motivazione del suo annientamento. I fatti sembrano confermare questa visione dello studioso, che forse, ad alcuni, era potuta sembrare poco fondata poiché proiettata in un futuro troppo lontano. È di oggi la notizia della presenza in piazza a Gerusalemme di “una massiccia protesta che ha scosso la città, con la partecipazione di circa duecentomila ebrei ultraortodossi che hanno protestato contro la leva obbligatoria nell’esercito israeliano. Lo riporta il quotidiano Ynet, sottolineando il grande impatto della protesta che ha coinvolto una fetta significativa della comunità haredi locale. La manifestazione, denominata la ‘Marcia di un milione di uomini’, ha purtroppo registrato un tragico incidente: la morte di un ragazzo di 15 anni.” Altro quesito: è necessario un rafforzamento dei dispositivi di legge che puniscono l’antisemitismo nel nostro paese, in tutte le sue forme? Sì, certamente. Purtroppo, la scarsa o distorta conoscenza dei fatti storici porta tutt’oggi ancora troppe persone ad avere una percezione strisciante degli ebrei, considerati, nel pensiero di molti, come entità lobbistica. È ovvio che tale percezione, come tutte le azioni da essa generate, vada contrastata duramente. Ma allo stesso modo, se vogliamo restare in una posizione di correttezza etica e di efficacia giuridica, sono necessarie condanne di tutti i tipi di razzismo ben radicati nel nostro paese: vale per il razzismo anti-nero, l’antiziganismo, l’islamofobia, il razzismo antipalestinese, per tutti i giudizi negativi preconcetti basati su stereotipi riguardo a un gruppo etnico o razziale. Se la vediamo da questa prospettiva, individuando nell’antisionismo, d’emblée, una moderna manifestazione di antisemitismo, il progetto di legge pare promuovere una criminalizzazione del dissenso contro Israele, colpendo anche chi protesta per il riconoscimento dei diritti dei palestinesi e per l’affermazione della giustizia internazionale. È così? C’è chi, nel mondo dei giuristi democratici, solleva dubbi di incostituzionalità qualora la proposta venisse approvata dalle Camere. E ancora, la proposta si alimenta della deriva reazionaria che una sempre più poderosa parte della società civile sta denunciando, con particolare riguardo al modo con cui le forze dell’ordine agiscono nei confronti degli attivisti e delle attiviste per la Palestina? Fatto sta che, in tutta la penisola, da Milano a Torino, poi a Roma e infine a Napoli, si sono registrati episodi di violenza delle forze dell’ordine contro gli attivisti. Nel capoluogo partenopeo, in particolare, a seguito di una contestazione alla presenza di TEVA alla fiera PharmaExpò alla Mostra d’Oltremare, ci sono stati tre arresti. Dalle ricostruzioni della dinamica, effettuate grazie ai tanti video condivisi da parte di persone presenti, anche non direttamente coinvolte nella protesta, vi sarebbe stato un accanimento di alcuni agenti della Polizia e della Guardia di Finanza, che hanno accerchiato un gruppetto di venti attivisti che si stavano pacificamente avviando all’uscita dalla Mostra, dopo aver aperto uno striscione, minacciandoli e malmenandoli. Dopo tre giorni di detenzione, i fermi sono stati annullati senza che venisse convalidata la richiesta di arresti domiciliari mossa dal PM: solo obbligo di firma per gli attivisti, secondo il GIP. Una mitigazione della pena dovuta all’accertamento degli eventi che presenta una verità più vicina alla versione dei manifestanti che a quella della Questura? I fatti andranno accertati nelle sedi opportune. È però lecita una domanda: c’è reale possibilità di manifestare per una causa giusta come l’immediata sospensione della pulizia etnica dei palestinesi? Oppure, quando si toccano obiettivi sensibili economici (quelli che, tra l’altro, ha individuato la rapporteur delle Nazioni Unite per il popolo palestinese, Francesca Albanese, nei suoi due ultimi rapporti come base per le complicità con il genocidio “ongoing” da parte di imprese presenti in sessantatré Stati, tra cui l’Italia), si rischia di impattare con forme di repressione? * Storia degli insediamenti israeliani in Palestina – Vatican News * Colonialismo e apartheid in Israele – BDS Italia * Proteste in Israele: circa 200mila ultraortodossi in piazza, morto un ragazzo – Alanews * Disegno di legge S.1627 – Senato della Repubblica * DDL “antisemitismo”: il piano Gasparri tra università e propaganda – Domani * Napoli: fermi e abusi della polizia durante la protesta contro l’azienda israeliana TEVA – SiCobas * Scarcerati gli attivisti per la Palestina arrestati a Napoli – Rai News Campania * Rapporto ONU sul genocidio palestinese – Il Fatto Quotidiano   Nives Monda
4 novembre 2025: Convegno nazionale – formazione online “La Scuola non si arruola”
IL 4 NOVEMBRE NON È LA NOSTRA FESTA! CONTRO LA MILITARIZZAZIONE DELLA CULTURA, CONTRO IL RIARMO E LE POLITICHE DI GUERRA, PER SOSTENERE LA PALESTINA. COSTRUIAMO L’ALTERNATIVA. CONVEGNO NAZIONALE ONLINE ISCRIVERSI SU PIATTAFORMA SOFIA (ID CORSO 101607) O TRAMITE LINK: HTTPS://FORM.JOTFORM.COM/USB_SCUOLA/CONVEGNO-4-NOVEMBRE Con la legge n. 27 del 1 marzo 2024 è stata istituita, il 4 novembre, la Giornata dell’unità nazionale e delle forze armate, data in cui i/le docenti delle scuole di ogni ordine e grado vengono invitati/e ad accompagnare i propri studenti e studentesse a celebrazioni che esaltano i valori della patria e del sacrificio, con particolare riferimento al primo conflitto mondiale. «Si intende ricordare, in special modo, tutti coloro che, anche giovanissimi molto giovani, hanno sacrificato il bene supremo della vita per un ideale di Patria e di attaccamento al dovere: valori immutati nel tempo, per i militari di allora e quelli di oggi», recita la legge. Si tratta invece, a nostro avviso, di un salto di qualità della ideologia militarista che porta dentro le scuole di ogni ordine e grado una forte ventata di nazionalismo, attraverso la retorica del compimento dell’unità nazionale, e di militarismo, con ampio ricorso alla retorica del sacrificio. La storia ci ricorda invece che la Prima Guerra Mondiale fu, per il nostro Paese, oltre che un atto di aggressione, una vera e propria carneficina. Simili celebrazioni – la prima guerra Mondiale venne preceduta da aggressioni coloniali dell’Italia monarchica e liberale che cercava di entrare nel novero delle grandi potenze – rappresentano dunque un ulteriore passo avanti rispetto al processo di normalizzazione della guerra, in un contesto Europeo e mondiale che, con i progetti di riarmo e l’investimento di ingentissime risorse nella difesa e nella sicurezza, avrà presto ripercussioni dirette sulle spese sociali, sul welfare, sull’istruzione, sulla sanità. Questo anno poi è purtroppo tragicamente automatico parlare del genocidio in Palestina, espressione più evidente di quel riordinamento economico-politico-militare mondiale che non può prescindere dalla guerra e dal colonialismo. Un Genocidio in diretta e in corso, che il mondo della scuola non vuole appoggiare ma vuole anzi in ogni modo contrastare. Come Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle Università consideriamo il 4 novembre non una giornata di festa e da celebrare, ma piuttosto una giornata di lutto. Una narrazione falsa che tace sulla violenza e le distruzioni della guerra, che marginalizza la cultura della pace e l’educazione improntata sulla risoluzione pacifica dei conflitti. Ci opponiamo con forza e determinazione al militarismo e alla guerra e a gran voce diciamo “Il 4 novembre non è la nostra festa!”, invitando così i/le docenti a disertare le iniziative ad esso legate, a denunciarle e a partecipare al convegno che abbiamo organizzato per il mattino e alle mobilitazioni previste per il pomeriggio in tutta Italia. PER QUESTI MOTIVI, INSIEME AL CESTES, L’OSSERVATORIO CONTRO LA MILITARIZZAZIONE DELLE SCUOLE E DELLE UNIVERSITÀ HA ORGANIZZATO PER IL 4 NOVEMBRE 2025 UN CONVEGNO NAZIONALE ONLINE VALIDO COME CORSO DI AGGIORNAMENTO E FORMAZIONE CON IL SEGUENTE PROGRAMMA: 8.15-8.30 ACCOGLIENZA IN PIATTAFORMA Roberta Leoni, docente e presidente Osservatorio contro la militarizzazione
delle scuole e delle università Cultura della difesa e militarizzazione dell’istruzione Luciano Vasapollo, direttore CESTES, Università La Sapienza Roma Una politica culturale del sociale per il mondo multipolare della pace Antonio Mazzeo, docente e giornalista Rearm Europe e militarizzazione
del sapere Marco Meotto, docente e ricercatore Sguardi coloniali. Il genocidio
nella didattica della storia: dall’inizio del Novecento
alla Palestina odierna Mjriam Abu Samra, ricercatrice e attivista italo-palestinese Critica decoloniale dell’accademia neoliberale: la conoscenza
non marcia Raffaele Spiga, BDS Italia Boicottare il pensiero unico militare Tommaso Marcon, studente, OSA La militarizzazione della formazione, tra scuola gabbia e Valditara Leonardo Cusmai, studente universitario Cambiare Rotta L’università ai tempi della crisi
tra militarizzazione, repressione
e riforme Roberta Leoni Conclusioni Modera: Lorenzo Giustolisi, CESTES MODALITÀ DI ISCRIZIONE: È POSSIBILE ISCRIVERSI SU PIATTAFORMA SOFIA (ID CORSO 101607) O TRAMITE LINK: HTTPS://FORM.JOTFORM.COM/USB_SCUOLA/CONVEGNO-4-NOVEMBRE MODALITÀ DI PARTECIPAZIONE: IL LINK CON CUI CONNETTERSI VERRÀ INVIATO VIA MAIL. Il CESTES è ente accreditato al MIM, per il corso si può fruire di un permesso giornaliero
 per formazione ai sensi del’ art. 36 del CCNL 2019/21 Per info:
 scrivere a info@formazione-cestes.it
 o telefonare a Silvia Bisagna 349/7221900 FUORI I MILITARI, IL MILITARISMO E LA GUERRA DALLA SCUOLA! COSA POSSIAMO FARE SE IL 4 NOVEMBRE SIAMO INDIVIDUATI COME ACCOMPAGNATORI/TRICI A INIZIATIVE PER LA GIORNATA DELLE FORZE ARMATE? 1) Iscriverci al convegno organizzato dall’Osservatorio per la mattina del 4 novembre (consulta il sito dell’Osservatorio per prendere visione del programma e scaricare il modulo di domanda da produrre alla scuola); la formazione è un diritto: come docenti abbiamo 5 giorni all’anno di permesso retribuito per la formazione e se il preside dovesse fare problemi nella concessione del permesso, si può scrivere all’Osservatorio (osservatorionomili@gmail.com) e avrete il supporto, anche normativo, necessario; 2) Presentare una dichiarazione di indisponibilità o una rimostranza (in allegato o da scaricare dal sito dell’Osservatorio); si tratta di un documento in cui si ribadisce la propria obiezione di coscienza relativamente alla presenza dei militari in ambiente scolastico; il preside potrebbe o individuare un/a sostituto/a oppure procedere con ordine di servizio oppure tacere; nel secondo e terzo caso consigliamo di procedere con la procedura prevista per la rimostranza che comunque può essere presentata anche indipendentemente dalla dichiarazione di indisponibilità. Ricordiamo che, in ogni caso, se l’attività prevista per il 4 novembre si tenesse fuori dalla scuola, non sussiste alcun obbligo per il docente di accompagnare la classe (le uscite didattiche sono svolte sempre su base volontaria); Presentare un atto di rimostranza, un atto perfettamente legale e previsto dalla normativa in base al quale un dirigente della pubblica amministrazione non può impartire ordini con vizi legislativi. Se vi viene chiesto di accompagnare una classe a una qualche forma di parata militare senza che questa attività sia stata deliberata dal Collegio Docenti e/o dal Consiglio di Classe, potete opporvi. Di fronte a una circolare che vi individua come accompagnatori/trici dovete richiedere (per scritto) un ordine di servizio; quando arriva l’ordine di servizio potete utilizzare il modello di atto di rimostranza scaricabile dal sito dell’Osservatorio (meglio protocollare il tutto nella segreteria della scuola). Di fronte a una rimostranza, il preside ha due strade: a) Non risponde; a questo punto la rimostranza si intende accolta e non sussiste più l’obbligo previsto dalla circolare o dall’ordine di servizio su cui la rimostranza stessa è stata prodotta; b) Il preside reitera l’ordine di servizio; a questo punto il lavoratore ha due scelte: o ottempera oppure decide di resistere con la consapevolezza che può incorrere in provvedimenti disciplinari (sui quali l’Osservatorio dà la massima disponibilità a dare l’eventuale copertura legale). A4-LA-SCUOLA-NON-SI-ARRUOLADownload
Il vergognoso gemellaggio tra Milano e Tel Aviv continua (per ora…)
Il 13 ottobre alle ore 18 il Consiglio Comunale di Milano ha bocciato un punto dell’ordine del giorno presentato da Europa Verde (a firma Monguzzi, Cucchiara e altri), che impegnava sindaco e giunta “a sospendere immediatamente ogni forma di cooperazione istituzionale e di ricerca tra il Comune e lo Stato di Israele, incluso il gemellaggio con la città di Tel Aviv, fino alla cessazione delle gravi violazioni accertate”. I consiglieri sono stati chiamati a votare punto per punto, e proprio questo è stato respinto, a causa dei voti contrari di tutta l’opposizione e di buona parte del Partito Democratico. Sono stati infatti solamente 9 i voti a favore, tra cui 3 di Europa Verde e 4 del PD, rispetto a 21 contrari e 6 astenuti, tra cui 9 consiglieri del PD. In “Piazza Gaza” (ex piazza Scala), si erano riunite migliaia di persone in un presidio convocato e sostenuto da numerose associazioni e realtà cittadine, sindacati, partiti e centri sociali, tra cui BDS (Boicottaggio, Disinvestimento, Sanzioni), USB, Potere al Popolo, Giovani Palestinesi, Associazione Palestinesi d’Italia, Cantiere, CSA Lambretta ed altri. Alla notizia dell’esito negativo di tale votazione, le proteste da parte dei partecipanti si sono fatte sempre più forti, alle grida di “Vergogna” e “Dimissioni” e hanno portato a qualche scontro con la polizia antisommossa che era stata schierata davanti a Palazzo Marino, che ha colpito e ferito coi manganelli varie persone. Il BDS (movimento a guida palestinese che da 20 anni lotta per la fine dell’occupazione e della colonizzazione, il riconoscimento dei diritti dei cittadini arabo-palestinesi ed il rispetto dei diritti dei rifugiati a tornare alle loro case) considera la votazione del Consiglio Comunale un’opportunità mancata. Si chiede a gran voce che Milano, Medaglia d’oro della Resistenza, abbia il coraggio di prendere posizione su un tema così rilevante come la rottura dei rapporti con uno Stato che da due anni commette un genocidio in Palestina, e che da 77 anni si macchia di innumerevoli violazioni del diritto internazionale, nella totale impunità. Il gemellaggio tra il Comune di Milano e quello di Tel Aviv esiste dal 3 maggio 1994. “Contraddistinte da analoghi ideali democratici, Milano e Tel Aviv aspirano a migliorare le proprie condizioni di vita e di crescita civile”, si legge sul sito del Comune di Milano. “Scopo di questo gemellaggio è sviluppare, oltre ai rapporti tra le due città, anche una collaborazione nei settori urbanistico, economico-commerciale, culturale, accademico, turistico e sportivo”. Che Israele fosse tutt’altro che contraddistinto da ideali democratici e non si adoperasse per sostenere lo spirito di pace e fratellanza tra tutti i cittadini del mondo era già del tutto evidente nel 1994 ed ancora di più lo è oggi. Ricordiamo che Israele detiene il record mondiale delle violazioni di risoluzioni dell’ONU, è sotto indagine della Corte di Giustizia Internazionale per il crimine di genocidio e il suo premier ha un mandato di arresto internazionale per crimini di guerra e crimini contro l’umanità. Ci chiediamo dunque quale dialogo sia possibile con uno Stato, e la sua capitale, che da 77 anni viola ogni basilare diritto della popolazione palestinese, attraverso uccisioni, migliaia di arresti senza accuse formali anche di minorenni, torture, un vero a proprio regime di apartheid ed il costante furto e occupazione di terre palestinesi. Sebbene in questi giorni la popolazione di Gaza riesca finalmente a respirare e dormire sonni relativamente tranquilli grazie ad un cessate il fuoco, si è ben lungi dal raggiungere una pace giusta. Una pace in cui vengano rispettati i diritti del popolo palestinese, in cui il regime di apartheid israeliano venga abolito, finisca l’occupazione ed il furto illegale di terre, si riconosca il diritto al ritorno dei profughi palestinesi e, soprattutto, si faccia giustizia e si garantiscano riparazioni per tutte le violazioni commesse da Israele nel corso dei decenni passati. Non consideriamo dunque accettabile come motivazione di voto contrario da parte di vari integranti del Consiglio l’aggrapparsi al “mutato scenario internazionale”. Per il popolo palestinese lo scenario sarà mutato quando potrà finalmente godere a pieno dei propri diritti, in primis quello all’autodeterminazione. Fino ad allora, ogni invito al dialogo e alla pacificazione attraverso strumenti come quello del gemellaggio sarà un invito ipocrita che non tiene conto della realtà e, al contrario, punta a mettere sullo stesso piano colonizzati e colonizzatori, oppressi ed oppressori, aggrediti ed aggressori. Ma come si può chiedere di dialogare con il proprio carnefice a un popolo, quello palestinese, che è stato martoriato per decenni, e che negli ultimi due anni ha vissuto sulla propria pelle il crimine dei crimini, un genocidio? Quando si sostiene che i popoli colonizzati debbano andare d’accordo con i propri colonizzatori, si sta di fatto sostenendo il colonialismo. Finché non ci sarà giustizia e non verranno rispettati i diritti del popolo palestinese, non ci potrà essere alcun dialogo. Pertanto, consideriamo vergognoso l’invito a dialogare e “aprire ponti” portato avanti da parte del Consiglio Comunale di Milano, ed in particolare dal Partito Democratico, che non è stato in grado di ascoltare e recepire le richieste delle migliaia di persone radunate in piazza, che esigevano a gran voce l’interruzione di ogni rapporto con Israele e la rottura del gemellaggio con Tel Aviv. Inoltre, sulla base dell’accertamento di rischio di genocidio effettuato dalla Corte Internazionale di giustizia (CIG) il 26 gennaio 2024, gli enti territoriali sono tenuti ad interrompere immediatamente qualunque relazione economica, politica, accademica, sociale e culturale che possa rafforzare o giustificare la commissione di violazioni del diritto internazionale da parte di Israele o ostacolare l’esercizio del diritto di autodeterminazione del popolo palestinese, e ad interrompere i rapporti istituzionali con lo Stato di Israele e le entità ad esso collegate. Ricordiamo che numerose Regioni e Comuni italiani (tra cui Bari, Bologna, Torino, Napoli e Genova, per citarne solo alcuni) hanno già interrotto le relazioni istituzionali con Israele. Nonostante il punto relativo alla sospensione del gemellaggio sia stato bocciato, è stato invece approvato un punto che impegna Sindaco e Giunta a “Non avviare, considerate le ostilità e le gravi violazioni del diritto internazionale in corso, progetti, collaborazioni o relazioni istituzionali con i rappresentanti del governo israeliano in carica e con tutti i soggetti ad esso direttamente riconducibili…”. Nelle prossime settimane, dunque, la popolazione continuerà a vigilare sull’applicazione di questo punto e a fare pressione sulle proprie istituzioni affinché anche Milano prenda finalmente una posizione chiara di distanza da uno Stato genocida. La popolazione milanese nelle ultime settimane non ha smesso nemmeno per un giorno di riversarsi a migliaia per le strade della sua città e, come gridavano i partecipanti ieri al presidio trasformato poi in corteo, ha dimostrato che “Milano sa da che parte stare”. Auspichiamo che anche i consiglieri, che dovrebbero rappresentare la cittadinanza, decidano di ascoltare tali richieste e agire di conseguenza, unendosi ai Comuni virtuosi e dando un segnale chiaro della volontà popolare al governo.       Redazione Milano
Partita Italia-Israele: continuiamo a chiedere giustizia con la fine dell’occupazione israeliana
CONTINUIAMO A CHIEDERE GIUSTIZIA: LA MOBILITAZIONE FINIRÀ CON LA FINE DELL’OCCUPAZIONE ISRAELIANA Le immagini di festa che arrivano da Gaza non possono che essere accolte con grande gioia e invitare tutti a festeggiare l’attuale cessate il fuoco e la riduzione delle violenze di Israele. Tuttavia, la fine dei bombardamenti non può essere considerata una garanzia di pace e giustizia. Il piano di Donald Trump per Gaza presenta come generose concessioni quelle che in realtà sono garanzie imposte dal diritto internazionale (il rilascio dei prigionieri palestinesi, l’assistenza umanitaria ai palestinesi e gli impegni israeliani a smettere sfollamenti forzati e annessioni). Inoltre, secondo 36 esperti legali e per i diritti umani delle Nazioni Unite, gli elementi chiave della proposta sono incompatibili con il parere della Corte internazionale di giustizia (Cig), che esorta Israele a porre fine all’occupazione illegale dei territori palestinesi. Vengono infatti violati i principi fondamentali del diritto internazionale per 15 ragioni principali: dalla condizionalità del diritto all’autodeterminazione palestinese, alla sostituzione dell’occupazione con un controllo straniero mascherato, fino all’assenza di meccanismi di responsabilità per i crimini israeliani e al rischio di indebito sfruttamento economico di Gaza. PER QUESTO, LA CAMPAGNA DI BOICOTTAGGIO DELLA PARTITA ITALIA-ISRAELE CONTINUA. CONSIDERIAMO INACCETTABILE CHE LA FIGC E IL GOVERNO ITALIANO NORMALIZZINO LE POLITICHE DI UN PAESE CHE PRATICA DA DECENNI, IN MANIERA CONTINUATIVA E STRUTTURALE, VIOLAZIONI DEI DIRITTI UMANI.
Sanzioni economiche: quando pacifismo e nonviolenza non corrispondono
Sentiamo spesso parlare di sanzioni economiche, specialmente quelle recentemente attuate verso la Russia. Si tratta di misure impiegate per esercitare un potere su un altro soggetto, in modo che questo cambi comportamento politico o ci rinunci; nell’Art.42 della Carta delle Nazioni Unite le sanzioni vengono descritte come “misure che non implicano l’utilizzo della forza armata e che hanno scopo di dare effetto alle decisioni del Consiglio di Sicurezza”. Ad un primo sguardo, possono sembrare delle ottime alternative ad un’ipotetica Terza Guerra Mondiale. Però, oltre ad interrogarci sulla loro efficacia, dovremmo chiederci se si tratta di misure legittime e se sono veramente strumenti nonviolenti. Abbiamo discusso proprio di questo insieme a Pasquale Pugliese del Movimento Nonviolento durante un incontro al Centro Pace di Forlì. COSA SONO? Se dopo aver visto i costi umani ed economici della Grande Guerra, la Società delle Nazioni poneva le sanzioni economiche come alternativa ad un nuovo conflitto armato (Art. 16), oggi queste vengono utilizzate come mezzo per garantire i cosiddetti valori comuni elencati nell’Art. 2 TUE e negli Art. 1 e 2 della Carta delle Nazioni Unite: dignità umana, democrazia, libertà, uguaglianza, stato di diritto e diritti umani, compresi quelli delle minoranze. Dunque, qualsiasi soggetto internazionale che violi questi valori è punibile attraverso sanzioni economiche, in accordo con l’Art. 7 TUE e l’Art. 42 della Carta delle Nazioni Unite. In più, la PESC e l’Art. 21 TUE stabiliscono l’utilizzo delle sanzioni economiche per la protezione dei diritti umani e la pace internazionale da parte della UE, non solo al suo interno, ma nel mondo. FUNZIONANO? Sulla loro efficacia, i pareri degli esperti e delle esperte sono, però, discordanti. Infatti, secondo uno studio degli anni ’90 condotto da Hufbauer, Schott e Elliott, le sanzioni economiche sono efficaci solamente nel 34% dei casi, anche se questa percentuale può variare a seconda degli scopi principali delle misure adottate. Al contrario, uno studio del Center for Economic Policy Research afferma che la maggior parte delle sanzioni economiche funziona, in quanto queste riescono ad intaccare il welfare del paese target. Il caso della Russia potrebbe confermare questa affermazione: il PIL è sceso del 2%, la sua crescita fino al 2024 è stata minore di come sarebbe stata senza sanzioni (FMI) e le entrate derivate dai combustibili fossili sono diminuite del 40% nel 2023. Nonostante ciò, questo non permette di prevedere una risoluzione del conflitto nel breve termine. QUALI SONO LE CONSEGUENZE? Beyers, professore di Scienze Politiche all’Università di Antwerp critica in primis la teoria economica delle sanzioni economiche: i paesi target non cambiano atteggiamento solo per interessi economici, ma anche per convinzioni e credenze; questo spiegherebbe perché, pur funzionando dal lato economico, spesso queste misure non raggiungono il loro obiettivo. In più, secondo Beyers, le sanzioni economiche a lungo termine spesso portano ad effetti controproducenti, permettendo ai governi target di rafforzare il nazionalismo economico e politico. Anche Dursun Peksen, politologo americano, esprime preoccupazione riguardo alle conseguenze delle sanzioni economiche a lungo termine, multilaterali e ad ampio raggio che contribuiscono al deterioramento dei diritti umani. Due esempi calzanti sono le sanzioni attuate dall’ONU sull’Iraq di Saddam Hussein e dagli Stati Uniti sulla Cuba di Castro: in entrambi i casi queste misure hanno favorito alleanze strategiche, il sistema di repressione del dissenso e il loro consenso popolare, con conseguenze disastrose sulla popolazione. Il caso dell’Iraq segnò un punto di svolta per l’UE, che passò dalle prime sanzioni economiche attuate autonomamente negli anni ’80 ad ampio raggio, a misure più mirate contro individui e settori strategici. Ad esempio, anche se molto severe, le sanzioni contro la Russia colpiscono oltre 2300 individui, tra cui Putin e vari suoi supporter. Ad ogni modo, pur mantenendo l’obiettivo di minimizzare l’impatto contro la popolazione, queste hanno causato un aumento esponenziale della povertà e della disoccupazione, incidendo in modo negativo sulla popolazione, in aggiunta alla forte repressione del dissenso. SONO DAVVERO MISURE NONVIOLENTE? Come ha sottolineato Pugliese, “pacifico” non significa necessariamente “nonviolento”, ovvero nonviolenza non significa mera assenza di violenza. Questo tipo di misure, sebbene si possano definire misure pacifiche, che non implicano l’utilizzo della forza militare, non sono nonviolente, viste le conseguenze negative sui diritti umani e le popolazioni innocenti. Per Francois Villant, esponente del Movimento Nonviolento Internazionale, potrebbero essere misure nonviolente se incluse in una strategia politica efficace, moralmente accettabile e con degli obiettivi precisi e praticabili, ma questo non è mai stato fatto. Inoltre, Robert J. Burrowesvdella rete Transcend (TRANSCEND International) sostiene che le sanzioni dovrebbero avere uno scopo riabilitativo, non punitivo, dovrebbero essere mirate e con conseguenze minime sulla popolazione. Purtroppo, siamo ancora molto lontani/e da questa condizione. Pasquale Pugliese ha evidenziato che, oltre a doverne eliminare gli effetti controproducenti, come l’indebolimento delle opposizioni, ci sono tre fondamenti della nonviolenza che dovrebbero essere applicati quando si attuano sanzioni economiche: – L’aderenza alla verità (Satyagraha); – L’aumento graduale dell’intensità delle azioni; – Il non nuocere (Ahimsa). Dunque, il paese attuatore dovrebbe iniziare con misure più leggere e aumentarne la gravità gradualmente e queste dovrebbero danneggiare il regime target senza nuocere alle persone come succede oggi. Il primo punto, invece, implicherebbe l’eliminazione di fake news e la trasparenza. Ad oggi, purtroppo, niente di tutto questo sembra realizzabile nel prossimo futuro. L’EFFICACIA DEL BOICOTTAGGIO DAL BASSO Pugliese ha poi enfatizzato l’importanza dei boicottaggi dal basso, i cui meccanismi sono simili alle sanzioni economiche, in quanto essi si basano sul far diminuire le entrate di un’entità, così da portare ad un cambiamento di atteggiamento da parte di quest’ultima. La differenza è che, in questo caso, la trasparenza, la gradualità delle azioni e il non nuocere possono essere rispettati più facilmente. Pugliese ha portato tre esempi di boicottaggi che hanno ottenuto grandi risultati: lo sciopero del sale e del cotone organizzato da Gandhi per ottenere l’indipendenza; lo sciopero degli autobus partito da Rosa Parks negli Stati Uniti; le sanzioni contro il Sudafrica che hanno funzionato perché intensificate da un grande boicottaggio dal basso. UN FUTURO CON SANZIONI ECONOMICHE PIU’ GIUSTE E AZIONI NONVIOLENTE DAL BASSO Nel contesto internazionale attuale, dove il livello medio globale di pace è diminuito per il tredicesimo anno su diciassette nel 2025 e la militarizzazione è aumentata in 106 paesi negli ultimi due anni, è cruciale valutare le conseguenze delle sanzioni economiche. Visto il loro potenziale si auspica l’inclusione di questo tipo di sanzioni in strategie internazionali nonviolente per tentare di disinnescare future escalation in modo più efficace e meno dannoso per le persone innocenti. Oltre a ciò, anche la popolazione può e dovrebbe attivarsi sia per rendere le sanzioni più efficaci, sia per agire quando le istituzioni non fanno abbastanza per garantire i diritti umani, così nel nostro paese come al di fuori. Esistono già movimenti nonviolenti che si adoperano per varie cause e abbiamo il dovere di supportarli e farli conoscere. Pasquale Pugliese ci ha parlato proprio di due iniziative di boicottaggio attive, partite dal basso, a cui poter partecipare e da diffondere: la campagna del Movimento Nonviolento contro le banche armate  e quella guidata da un movimento palestinese che mira a boicottare, disinvestire e chiedere sanzioni (BDS) contro Israele. Fonti e approfondimenti: “Le sanzioni economiche e la strategia nonviolenta”, Comitato scientifico per la difesa popolare nonviolenta, 1996 Ghironi, Kim, Ozhan, International trade and macroeconomic dynamics with sanctions | CEPR Center for Economic Policy Research, 2024 “Principi di base per il ricorso alle misure restrittive (sanzioni)”, Consiglio Unione Europea, 2024 GEN D. Peksen, “Better or Worse? The Effect of Economic Sanctions on Human Rights”, 2009 Sanzioni dell’UE contro la Russia – Consilium Consiglio Unione Europea Le sanzioni contro la Russia funzionano | EEAS , Delegation of the European Union to Ukraine, 2022 Impact of sanctions on the Russian economy – Consilium Consiglio Unione Europea, 2023 Global Peace Index 2025, Istitute for Economics and Peace, 2025 What are the sanctions on Russia and have they affected its economy? BBC, 2024 Redazione Romagna
Omar Barghouti: “Sta arrivando il nostro ‘momento Sudafrica’”
“Prima di esporre la bandiera palestinese smettete di sostenere le società che contribuiscono a distruggere il nostro popolo”: intervista al co-fondatore del movimento Boicottaggio, disinvestimento e sanzioni, che accusa la maggioranza dei governi occidentali di “camuffare” la complicità con Israele attraverso il riconoscimento dello Stato di Palestina. Ai sindacati chiede di essere uniti nel chiedere l’embargo militare. “Quando pianti semi non sai quando raccoglierai le olive. Ma i palestinesi sono molto pazienti”: così l’intellettuale palestinese Omar Barghouti, parla del movimento Bds (Boicottaggio, disinvestimento e sanzioni) che ha contribuito a fondare 20 anni fa per fermare l’occupazione illegale e l’apartheid in Israele ed è immensamente cresciuto “al costo indescrivibile” del genocidio in diretta streaming a Gaza -dalle università a Hollywood- grazie a un metodo basato sulla collaborazione con altre organizzazioni, da quelle ambientaliste a quelle antirazziste e per l’uguaglianza di genere. Per sicurezza, l’organizzazione non vuole diffondere l’indirizzo dove alloggia, quindi lo incontriamo in un locale vicino alla stazione Termini il 22 settembre, giorno in cui Roma è bloccata dallo sciopero generale per Gaza e in cui diversi Stati hanno dichiarato all’Onu di riconoscere la nazione palestinese. Barghouti, che cosa significa oggi riconoscere la Palestina? OB Qualcuno chiama questo gesto “solidarietà performativa” per il suo valore simbolico. Ma ritengo che non meriti neanche questo nome: è un camuffamento della complicità. Regno Unito, Canada, Portogallo e Australia stanno continuando a mandare beni anche militari a Israele. Stanno riconoscendo qualcosa di assolutamente teorico, come una torta nel cielo, mentre continuano ad aiutare Israele a distruggere i palestinesi. Kafka si rivolterebbe nella tomba. La Convenzione sul genocidio prevede che questi rapporti di collaborazione economica e militare si fermino anche nel caso questo sia solo una possibilità, per poterlo prevenire: dopo che una commissione indipendente dell’Onu ha affermato che si tratta effettivamente di genocidio, il dovere è ancora maggiore. Ma anche la società civile ha responsabilità: se un sindacato ha accordi con aziende che producono e trasportano armi verso Israele, è complice. Il Comune di Roma ha esposto nei giorni scorsi una bandiera palestinese in Campidoglio. OB Prima del tuo atto simbolico devi smettere di essere complice. Se il Comune di Roma espone una bandiera palestinese è una cosa carina ma non necessaria. Piuttosto, che cosa fa il Comune con il memorandum firmato nel 2003 con la società israeliana dell’acqua Mekorot e con le farmacie comunali che acquistano i farmaci Teva? Sono soldi dei contribuenti usati per sostenere aziende che, anche prima del genocidio, erano nella lista delle Nazioni Unite perché sostengono l’occupazione illegale. L’unico dovere delle istituzioni italiane è porre fine a questa complicità. Il resto è volontario (il 18 settembre una mozione del Consiglio comunale ha invitato l’amministrazione guidata da Roberto Gualtieri a rompere i rapporti con Mekorot ma non ha menzionato quelli con Teva, ndr). Perché oggi è prioritario il boicottaggio accademico? OB La collaborazione accademica con Israele si attua soprattutto nell’area della Difesa e nei progetti “dual use”, con scopi sia civili sia militari. I media israeliani parlano spesso del boicottaggio accademico perché le élite ne sono terrorizzate. Ad esempio, Israele è il Paese con la più alta percentuale di progetti approvati dal programma europeo di ricerca Horizon fino al 2024. Ma nei primi sei mesi del 2025 la percentuale di fondi ricevuti si è ridotta, rispetto al 2022, del 68%. Ciò non è certo avvenuto perché l’Unione europea abbia escluso Tel Aviv ma perché gli accademici si sono rifiutati di presentare progetti con le università israeliane. Abbiamo bisogno che gli accademici italiani facciano questo. Se non possiamo obbligare l’Università Sapienza a tagliare i legami con le università israeliane, i singoli ricercatori e docenti possono agire rompendo questi legami da soli. Il primo ministro israeliano Netanyahu ha recentemente detto che Israele diventerà una “super Sparta”, prospettando un’economia autarchica. OB È un momento storico. Il governo più fascista che Israele abbia mai avuto non dice che Bds funzionerà ma che sta funzionando. Molti nel mondo stanno tagliando i legami anche se silenziosamente, perché in Occidente è ancora un tabù dire “ci stiamo staccando da Israele”. C’è inoltre una “fuga di cervelli” senza precedenti. Netanyahu ammette l’isolamento ma invece di fermare il genocidio rilancia: “Diventeremo più aggressivi e autonomi nell’industria delle armi”, perché Israele ha la tecnologia militare ma la maggior parte delle armi vengono prodotte da Stati Uniti e Germania (anche se ci sono pure il Regno Unito e l’Italia). Ma come potrebbe Israele produrre autonomamente un F-35 o un F-16? Neanche l’Unione europea da sola riesce a farlo. Netanyahu è delirante, come Hitler nell’ultimo periodo. Sempre di più centinaia di migliaia di persone in tutto il mondo manifestano in solidarietà con Gaza. Quanto impatto avranno sulle decisioni dei governi? OB Da ragazzo quando studiavo a New York facevo parte dell’occupazione della Columbia e ci facevamo la stessa domanda: gli Stati Uniti sanzioneranno mai il Sudafrica? Io credevo che fosse impossibile ma partecipavo alla lotta per dovere morale. Poi ho visto il collasso dell’apartheid sudafricana. Le misure richieste dal Bds nel 2005 vengono oggi adottate da Spagna, Slovenia, Colombia, Malesia, Turchia e altri Paesi. Tra le aziende indicate da Bds come complici di occupazione illegale e genocidio, McDonald’s e Coca-Cola hanno subito danni pesanti. Carrefour ha chiuso in Giordania, Oman, Bahrain e Kuwait. Intel, azienda americana produttrice di chip che pianificava di investire 25 miliardi di dollari in Israele non l’ha più fatto: il Bds ha avuto un ruolo importante nel far ritirare l’investimento. La Malesia durante il genocidio è stato il primo Paese ad annunciare che le navi dirette a Israele non sarebbero più passate dai suoi porti, soprattutto quelle con carichi militari. Negli Stati Uniti i portuali non possono agire attraverso lo sciopero ma la comunità li supporta bloccando i porti per non farli lavorare. Sta avvenendo nonostante la repressione di Trump. L’Olanda, nonostante riceva la più alta quota di investimenti israeliani in Ue, è favorevole a sanzioni commerciali. Come mai? OB Perché negli ultimi sei mesi il cambiamento dell’opinione pubblica è stato drastico. All’Aia hanno manifestato 150mila persone, in un Paese così piccolo. Due anni fa sarebbe stato impossibile: l’Olanda non è la Spagna o la Slovenia, era molto pro-Israele, oggi invece il Bds è molto popolare nelle università, nella cultura e nei media mainstream. Che cosa direbbe agli italiani che vogliono fermare il genocidio? OB L’azienda produttrice di armamenti Leonardo appartiene per un terzo allo Stato italiano, quindi ai cittadini. Come le inchieste di Altreconomia hanno mostrato, ci sono molte armi italiane che ancora continuano a essere inviate in Israele, tra cui quelle a duplice uso. Dovete fare pressione sul vostro governo perché la complicità cessi. Altrimenti dov’è la democrazia? Tutti i sindacalisti dovrebbero essere uniti nel chiedere l’embargo militare totale -compresi i beni dual use– come chiedono le norme internazionali. Invece gli slogan ora chiedono solo lo stop al genocidio. Dovete capire che fermare la complicità non è un atto di carità ma un profondo dovere etico e legale.   altreconomia
Le economie di prossimità e il boicottaggio delle complicità con l’apartheid israeliano
GLI SPLAI PROMOSSI DA BDS: UNO STRUMENTO CONTRO L’OCCUPAZIONE ILLEGALE E IL GENOCIDIO, CON EFFETTI DIRETTI SULLE CITTÀ TURISTICHE Abbiamo già parlato su queste pagine del BDS, del movimento globale che promuove campagne di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni contro l’apartheid e il colonialismo d’insediamento israeliano e che sostiene il semplice principio che i palestinesi hanno gli stessi diritti del resto dell’umanità. Una delle campagne di boicottaggio più incisive del BDS, partita nel 2019, è la campagna che promuove il protagonismo delle piccole economie locali presenti nelle città e nei territori: librerie, associazioni culturali, artigiani, artisti, aziende agricole, circoli ARCI, affittacamere, gruppi di acquisto, bar, ristoranti possono aderire al movimento sottoscrivendo un manifesto di adesione, con cui prendere posizione contro l’occupazione militare e l’apartheid israeliani, impegnandosi a non partecipare in alcun modo alle gravi israeliane dei diritti umani e delle libertà fondamentali del popolo palestinese. Ad oggi, in Italia, vi sono oltre 500 SPLAI ufficialmente registrati sul sito del movimento. La campagna agisce su due livelli. Il primo riguarda l’organizzazione dei rapporti con i propri fornitori, in quanto aderendo all’iniziativa lo spazio accetta di non acquistare prodotti e servizi di imprese – israeliane e internazionali – implica nelle violazioni dei diritti dei palestinesi, come ad esempio la Coca-Cola oppure i servizi di AXA Assicurazioni. Il secondo livello è quello diretto all’accoglienza e al consumo: lo spazio si impegna a rompere ogni complicità con la politica sionista anche nel momento in cui si rapporta con i propri avventori, soci, partner. Ad esempio, uno spazio culturale che si dichiara SPLAI non ospiterà né parteciperà a eventi culturali, accademici e sportivi finanziati o sponsorizzati da Israele o che ne coinvolgano i suoi rappresentanti ufficiali, nel rispetto delle linee guida sul boicottaggio culturale. Un terzo livello, non esplicitamente dichiarato nei contenuti della campagna, è quello della rete che si può venire a creare quando più realtà di una stessa area cittadina sottoscrive tale impegno. Questa può essere, infatti, una conseguenza piuttosto che un presupposto della campagna, ma in alcune situazioni può rappresentare davvero uno strumento formidabile di boicottaggio e agire da moltiplicatore nella condanna delle complicità: intere porzioni di territorio possono, infatti, diventare spazi di libertà. Si pensa, in particolare, all’effetto che questa forma di “zonizzazione” degli SPLAI può avere nelle città e nelle aree turistiche. Nel mese di maggio scorso, Bari e Napoli sono state teatro di due eclatanti vicende: l’aggressione alle “Donne in nero”, che hanno subito intimidazioni in pubblica piazza solo perché manifestavano pacificamente e silenziosamente, recando striscioni con scritte come “stop genocidio”, “no al riarmo” e, dopo pochi giorni, la provocazione ai danni dei titolari de La Taverna a Santa Chiara, accusati e denunciati per antisemitismo a causa della loro adesione alla campagna SPLAI. Piccola digressione: a tal proposito, torna molto utile un chiarimento pubblicato sulla pagina di BDS Italia, leggiamo: “Il 19 luglio 2024 la Corte Internazionale di Giustizia ha confermato la discriminazione sistemica e sistematica che differenzia i palestinesi dagli ebrei israeliani. Ha dichiarato Israele colpevole di apartheid e la sua occupazione militare illegale, ordinando a Israele di porre fine all’occupazione militare della Striscia di Gaza e della Cisgiordania, inclusa Gerusalemme Est. Quindi dichiararsi spazio libero dall’apartheid non ha nulla a che vedere con l’antisemitismo. Ne è la prova anche il fatto che molti ebrei in tutto il mondo hanno fatto propria la denuncia dei crimini dell’apartheid e del colonialismo israeliano e sono solidali con i pieni diritti dei palestinesi. Tornando al nostro argomento, va evidenziato che Bari e Napoli, quali mete turistiche, sono scalo aereo per molte persone provenienti da tante città del mondo e quindi anche da Tel Aviv: direttamente, come nel caso di Napoli, o con scalo, nel caso di Bari. In particolare, un Capodichino atterra tre voli al giorno provenienti dalla città israeliana. Fermo restando il principio – che è doveroso ribadire – che non tutti gli israeliani sono complici del genocidio o coinvolti nelle occupazioni illegali, è evidente, però, che nemmeno si può negare che vi sia un grande flusso di viaggiatori in transito su questa tratta e che, pertanto, massima deve essere l’allerta rispetto al rischio di trovarsi a passeggiare nelle strade delle nostre città accanto a criminali e assassini che si aggirano tra noi tranquillamente. Può sembrare un’affermazione forte ma questa è, purtroppo, la triste verità: sono ormai alla ribalta della cronaca le notizie circa flussi di transito di militari, politici e funzionari del governo israeliano, implicati direttamente nei crimini di guerra che si stanno commettendo nella Striscia di Gaza, e che vengono a riposarsi in Sardegna, nelle Marche e, appunto, in Puglia e Campania. Di questo e tanto altro, in materia di boicottaggio ma anche di sanzioni che devono essere operate dai governi del mondo in attuazione delle sentenze della Corte Internazionale di Giustizia, si è discusso il 20 settembre scorso con Omar Barghouti, co-fondatore del BDS, nel corso di un’iniziativa che si è tenuta a Zero 81, organizzata da un gruppo di attivisti e attiviste napoletane su impulso di BDS Italia, alla quale hanno partecipato oltre 120 persone. Si è evidenziato che la vigilanza sulla nostra sicurezza, come l’accertamento delle violazioni del diritto internazionale, spettano ovviamente alle istituzioni preposte; né bisogna favorire la nascita di situazioni in cui si possa verificare il fenomeno della “caccia all’uomo”. La creazione di una rete di SPLAI nelle città turistiche può essere, però, un modo non violento e del tutto legittimo per agire dal basso, come forma di cittadinanza attiva, contro le violazioni dei diritti umani. Le economie di prossimità, quando sono sane, fanno parte integrante delle comunità locali e agiscono in modo non predatorio nei confronti della città e dello spazio pubblico. Possono rappresentare un anticorpo di legalità, un presidio che si integra con i diritti degli abitanti, anche contro i fenomeni di espulsione dovuti alla turistificazione. Se tale comportamento viene mutato nel boicottaggio, le piccole attività, diventando SPLAI, connettono il piano territoriale con quello globale nella lotta per l’affermazione dei diritti del popolo palestinese e per la sua autodeterminazione. Nives Monda