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Neve e ghiaccio spariscono per la crisi climatica, ma ENI sponsorizza Milano-Cortina 2026
Utilizzando il legame scientifico consolidato tra emissioni di gas serra e aumento della perdita di neve e ghiaccio, il nuovo rapporto di New Weather Sweden e della campagna Badvertising calcola che la produzione di combustibili fossili di ENI comporta la perdita annuale di quasi 1.000 km² di neve e lo scioglimento di 6,2 miliardi di tonnellate di ghiaccio glaciale. È il dato principale che emerge dal rapporto “Melting The Winter Olympics”, realizzato utilizzando il legame scientifico consolidato tra emissioni di gas serra e aumento della perdita di neve e ghiaccio. Immagine dalla copertina del report “Melting the winter olympics” La perdita di neve sta accelerando a causa del cambiamento climatico. Dal 1970, la copertura nevosa nel mese di maggio nell’emisfero settentrionale è scesa da 21,4 milioni a 16,5 milioni di km² – una perdita netta di 4,8 milioni di km², equivalente all’area dell’India. I ghiacciai nel mondo hanno perso oltre 8.000 gigatonnellate di ghiaccio dal 1976, contribuendo all’innalzamento del livello del mare e a eventi meteorologici estremi. Il rapporto sostiene che la grande entità della perdita di neve e ghiaccio legata alla produzione fossile di ENI, e le ulteriori emissioni derivanti dalla promozione e dal greenwashing come sponsor olimpico, rendano l’accordo autolesionistico e una minaccia diretta per il movimento olimpico invernale. La ricerca mostra inoltre che, per ogni euro speso in sponsorizzazione, le “emissioni sponsorizzate” di Eni ammontano a 63,5 kg di CO₂e. Ciò significa che un tipico accordo di sponsorizzazione olimpica da 15 milioni di euro potrebbe generare quasi un milione di tonnellate di emissioni — equivalente alla combustione di oltre 2 milioni di barili di petrolio. Gli attivisti climatici hanno criticato il Comitato Olimpico Internazionale (CIO) per aver accettato il colosso italiano ENI come “Premium Partner” delle Olimpiadi Invernali Milano Cortina 2026, paragonandolo a “Big Tobacco che sponsorizza un vertice sulla salute”. Si stima che il contratto di sponsorizzazione ammonti a non meno di 15 milioni di euro. Gli stessi attivisti invitano il CIO a imparare dal passato e dalla propria storia, adottando quindi misure analoghe a quando furono vietate le sponsorizzazioni da parte dell’industria del tabacco. Nel 1988, a seguito di crescenti prove dei danni alla salute pubblica, il Comitato Olimpico Canadese pose fine la pubblicità del tabacco ai Giochi Invernali di Calgary. Con la scienza che oggi dimostra chiaramente i danni dei combustibili fossili sia per la salute umana che per il clima, gli attivisti chiedono al CIO di mostrare la stessa chiarezza morale.
Perché gli istituti finanziari dovrebbero lasciar perdere il progetto Coral North FLNG di ENI
Aggiornamento da ReCommon e Justiça Ambiental! 30 maggio 2025 La multinazionale italiana ENI aveva annunciato già a gennaio di essere pronta per la Decisione Finale di Investimento per il suo progetto Coral North FLNG, mentre adesso afferma che sta ancora negoziando con le banche private per il finanziamento e sembra attribuire la responsabilità del ritardo alle autorità mozambicane. Nel frattempo, la compagnia di Stato coreana KOGAS è stata denunciata per i suoi investimenti nel progetto e quattro banche private hanno già escluso nuovi finanziamenti. Coral North FLNG, una piattaforma galleggiante progettata per l’estrazione e la liquefazione del gas al largo delle coste del Mozambico, è ancora alla ricerca di finanziatori. Sebbene Eni abbia dichiarato a gennaio 2025 di essere pronta per la Decisione Finale di Investimento sul progetto, a metà maggio, nel contesto della sua assemblea generale annuale, ha ammesso che non c’è ancora un piano per finanziarlo, dichiarando che “sono in corso trattative con istituzioni finanziarie private”. Alla domanda sui motivi del ritardo nella conclusione dell’accordo, ENI ha risposto solo che il piano di sviluppo è stato approvato dalle autorità mozambicane ad aprile 2025, suggerendo così che la responsabilità fosse loro. ENI è anche a capo di Coral South FLNG, l’unico progetto operativo nel bacino di Rovuma, in Mozambico. Si tratta di una piattaforma galleggiante ancorata in acque profonde che esporta GNL dal novembre 2022. Il nuovo Coral North FLNG sarebbe una replica, un impianto di estrazione di gas dalle riserve che si trovano sotto il fondale marino a soli 10 chilometri di distanza dal primo, con gravi impatti sull’ecologia della zona. In risposta alle domande dell’assemblea generale annuale, ENI ha anche confermato che “si prevede di finanziare una parte dei fabbisogni di progetto tramite debito” e con “il supporto di alcune ECAs (Export Credit Agencies)” come già fatto per Coral South FLNG. Tuttavia, diversi attori finanziari privati si stanno ritirando dal settore dell’upstream non convenzionale di gas e petrolio in vista degli obiettivi di zero emissioni entro il 2050. Almeno quattro delle banche che hanno sostenuto il primo progetto – BNP Paribas, Credit Agricole, UniCredit e ABN Amro – affermano oggi di non essere interessate a finanziare la replica perché non è più in linea con la loro policy aggiornata in materia di cambiamenti climatici. A poco più di tre anni dall’arrivo di Coral South FLNG nella regione di Cabo Delgado, la gigantesca piattaforma ha registrato numerosi casi di flaring, ovvero la combustione del gas estratto in eccesso, che comporta significative emissioni di carbonio. Essendo una replica, Coral North sarebbe probabilmente soggetta a problemi simili. Un’indagine di ReCommon pubblicata ad aprile ha rivelato che le emissioni totali di Coral South sono state sette volte superiori a quelle dichiarate nella valutazione di impatto ambientale del progetto. Solo tra giugno e dicembre 2022, le emissioni di flaring di Coral South hanno rappresentato l’11,2% delle emissioni annuali dell’intero Mozambico, con un aumento dell’11,68% rispetto al 2021. Estrarre gas nel bacino di Rovuma significa inoltre ignorare i risultati dell’International Institute for Sustainable Development (IISD), secondo cui lo sviluppo di ulteriori infrastrutture per il gas è incompatibile con l’obiettivo di limitare il riscaldamento globale a 1,5 °C. Anche l’analisi dell’International Energy Agency rivela che, in uno scenario in cui si limita l’aumento di temperatura a 1,5 °C, l’attuale capacità di esportazione di GNL sarebbe già sufficiente a soddisfare la domanda attuale e futura. Con il calo della domanda di gas a livello mondiale, costruire Coral North FLNG comporterebbe anche un elevato rischio finanziario, per questo l’organizzazione della società civile sudcoreana Solutions for Our Climate (SFOC) sta cercando di fermare gli investimenti statali nel progetto. A febbraio infatti, la Korean Gas Corporation (KOGAS) ha annunciato la decisione di sostenere Coral North con 562 milioni di dollari attraverso una partecipazione azionaria e un prestito alla sua controllata KG Mozambique. A marzo, SFOC ha fatto causa a KOGAS, sostenendo che l’investimento è economicamente rischioso per la Corea del Sud e che il progetto contribuirebbe in modo significativo agli effetti dei cambiamenti climatici, violando quindi il diritto delle generazioni future a un ambiente sano. Tra il 2008 e l’aprile 2024, KOGAS aveva già investito circa 1 miliardo di dollari nello sviluppo del gas in Mozambico, e si è rifiutata di divulgare lo studio di fattibilità preliminare (PFS) per Coral North. SFOC ha avviato una causa contro KOGAS anche per ottenere la divulgazione del PFS. Nel bacino di Rovuma sono inoltre presenti altri due progetti che prevedono impianti onshore significativamente più grandi per la lavorazione del gas estratto da pozzi situati a circa 50 km al largo della costa: sono Mozambique LNG e Rovuma LNG. L’impatto ambientale dei quattro progetti nel loro complesso, considerato per l’intero periodo di attività, potrebbe essere devastante per il bacino di Rovuma e per l’Oceano Indiano occidentale. La valutazione di impatto ambientale per il progetto Coral North è stata criticata da diverse ONG per non aver soddisfatto gli standard legali e scientifici nella valutazione dei rischi ambientali e climatici. Il progetto Mozambique LNG, guidato dal gigante fossile francese TotalEnergies, resta sotto osservazione internazionale. Il progetto è stato fermato per ragioni di force majeure nell’aprile 2021, a seguito di un violento attacco armato. È ora sotto indagine per accuse di un massacro di civili che sarebbe stato commesso a metà del 2021 dalle forze di sicurezza pubblica vicino all’area del progetto, nella penisola di Afungi. Mozambique LNG condivide i diritti di utilizzo del suolo e alcune infrastrutture con il progetto Rovuma LNG, guidato da ExxonMobil, con ENI e China National Petroleum Corporation come partner principali. Anche questo progetto non ha ancora raggiunto una Decisione Finale di Investimento. La produzione di GNL in Mozambico suscita anche gravi preoccupazioni circa l’erosione della sovranità del Paese, poiché gli accordi commerciali con le grandi comagnie a carico dei progetti limitano la capacità del governo di regolamentarli e di ottenere ingressi equi per lo sfruttamento delle risorse nazionali. Dagli inizi dell’estrazione del gas intorno al 2010, attorno a questa industria si è generato un significativo debito causato dalla corruzione, e la partecipazione della compagnia petrolifera nazionale ai progetti crea un rischio fiscale senza rendimenti garantiti. Le comunità locali hanno già perso terreni agricoli e l’accesso al mare a causa dello sviluppo delle infrastrutture, e centinaia di famiglie sono state sfollate per fare posto agli impianti estrattivi. I ricavi provenienti dal gas per il Mozambico ammontano finora a poco più di 200 milioni di dollari, di cui il 40% è destinato al Fondo sovrano, istituito per garantire stabilità e risparmi alle generazioni future. A metà maggio il Tribunale amministrativo del Mozambico ha segnalato numerose irregolarità nel conto finanziario dello Stato per il 2023 che rappresentano una presunta “appropriazione indebita” di 33 milioni di dollari dai ricavi del gas di Rovuma.  Lo sviluppo dell’industria del GNL in Mozambico promette distruzione ecologica e impatto sui cambiamenti climatici, distruzione dei mezzi di sussistenza delle persone e aumento della privazione dei diritti e della disuguaglianza. Si tratta senza dubbio di un’attività rischiosa anche per gli investitori finanziari pubblici e privati.
Assemblea degli azionisti di ENI: il gas mozambicano non serve per la sicurezza energetica italiana
L’8 aprile scorso ENI ha celebrato il 100esimo cargo di gas naturale liquefatto (GNL) proveniente dalla piattaforma di estrazione e liquefazione di gas fossile Coral South FLNG, al largo delle coste del Mozambico. La notizia, che ha avuto una buona eco sui media italiani, descrive il progetto come un caposaldo dell’impegno della principale multinazionale italiana «nella crescita economica e nella sicurezza energetica», senza però specificare per chi. Dal 13 novembre 2022 – data di partenza del primo carico di GNL, diretto al porto di Bilbao – a oggi, sono 124 le navi gasiere ad aver mollato gli ormeggi da Coral South FLNG. Come conseguenza di un accordo firmato il 4 ottobre 2016, il gas di Coral è acquistato dalla compagnia britannica BP, che poi lo rivende sul mercato al miglior offerente. In risposta alle domande poste da ReCommon a ENI in vista della sua assemblea degli azionisti, tenutasi a porte chiuse il 14 maggio, la multinazionale afferma che «i carichi hanno contribuito alla sicurezza degli approvvigionamenti europei ed alcuni sono arrivati in Italia», in risposta a un «momento di grande scarsità di gas». Ma è davvero così? Consultando i dati di KPLER, rinomato database sul commercio di materie prime utilizzato anche da ENI, emerge che solo 6 dei 124 cargo di GNL partiti da Coral South siano arrivati in Europa: 3 in Croazia, 1 in Spagna e, infine, 2 in Italia. Tutto il resto è andato al Continente asiatico. I carichi di GNL destinati all’Italia risalgono ai mesi di gennaio e febbraio del 2023, ciò significa che negli ultimi due anni non è approdato un solo metro cubo di gas sulle coste italiane. Numeri alla mano, è evidente che per il Mozambico le cose vadano anche peggio. Ma c’è di più. Dall’analisi dei dati pubblici e delle immagini satellitari esaminati da ReCommon e dai suoi consulenti, solo fra giugno e dicembre 2022, le operazioni di flaring (la pratica di bruciare in torcia il gas in eccesso estratto insieme ad altri idrocarburi) avrebbero comportato lo spreco di 435mila metri cubi di gas, equivalente a circa il 40% del fabbisogno annuo del Mozambico. Oltre il danno di non ricevere un solo metro cubo di gas, la beffa. Sì, perché il flaring ha impatti rilevanti sul clima, l’ambiente e – in prossimità di centri abitati – sulle persone. Coral South FLNG, Mozambico. Foto ©Alamy C’è chi festeggia in vista della realizzazione del progetto gemello di Coral South FLNG, Coral North FLNG, senza però tenere in debita considerazione gli impatti associati proprio al sottostimato – e, in alcuni casi, omesso – flaring di Coral South FLNG. Senza contare che, in mercati ormai saturi di GNL, il rischio di credito per progetti come Coral North FLNG cresce esponenzialmente. E ci sono istituzioni finanziarie come SACE e Intesa Sanpaolo che sembrano disposte a finanziarlo comunque. Rinnoviamo la domanda: crescita economica e sicurezza economica per chi? La storia dei carichi di GNL e del flaring di Coral South FLNG è un piccolo “bignami” dell’estrattivismo: privatizzare gli utili, socializzare le perdite. Di qualsiasi tipo. In ballo c’è il futuro del Mozambico, che rischia di andare letteralmente in fumo.
Londra chiama ENI per stoccare CO2, ma sui carbonodotti restano molti dubbi
di Eva Pastorelli e Antonio Tricarico – pubblicato su Domani E alla fine i sussidi arriveranno, e anche abbondanti. Il Liverpool Bay CCS, il primo progetto su larga scala di Eni per la cattura e lo stoccaggio del carbonio ha strappato il sostegno finanziario del governo inglese per la realizzazione del carbonodotto che dovrà raccogliere l’anidride carbonica catturata su una ventina di siti industriali della Baia di Liverpool nell’ambito dello schema HyNet North-West. Una volta catturata e trasformata per il trasporto, la CO2 arriverà al terminal di Point of Ayr, sulla costa del Nord del Galles, per poi andare sotto il mare e raggiungere tre giacimenti di gas quasi esauriti operati da Eni, giacimenti che saranno riempiti con il gas killer del clima. Piattaforma a largo di Liverpool, foto Hynot/Archivio ReCommon. Nuovi tubi per la CO2 saranno posati per 35 km, mentre altri 149 km di gasdotti esistenti saranno riadattati. L’obiettivo di Eni è arrivare a stoccare 4,5 milioni di tonnellate di anidride carbonica l’anno in una prima fase del progetto, per poi raggiungere fino a 10 milioni a pieno regime. Liverpool Bay CCS è uno dei due progetti prioritari del governo inglese per far avanzare la tecnologia della cattura e dello stoccaggio del carbonio. Il secondo schema nel nord-est del paese, noto come Teesside e promosso da BP, Equinor e Total, ha già raggiunto un accordo per ottenere sussidi pubblici. In entrambi è prevista anche la produzione di idrogeno dal gas fossile, anch’essa sussidiata. Il governo precedente dei Tories aveva messo in cantiere ben 4 progetti prioritari, tra cui anche quello di Bacton, nel sud-est del paese, sempre operato da Eni. Tuttavia il governo laburista, viste le ristrettezze di bilancio in seguito alle nuove priorità internazionali, ha di fatto puntato solo sui due che erano in fase più avanzata. UNA SOLUZIONE DISCUTIBILE La benedizione finanziaria del governo di Keir Starmer per il colosso energetico italiano arriva in un momento importante per l’azienda, sempre più attiva sul mercato del Regno Unito. Dopo l’accordo siglato l’anno scorso cone l’azienda britannica Ithaca Energy, controllata dalla oil major israeliana Delek e partecipata per il 38,7 per cento da Eni, il gruppo italiano è diventato il secondo produttore di petrolio e gas nel mare del Nord e mira a superare il consorzio Shell-Equinor nei prossimi anni. Una mossa ampiamente contestata da chi si oppone all’ulteriore sviluppo di combustibili fossili nei paesi rivieraschi, con una campagna per prevenire lo sfruttamento del grande giacimento di Rosebank, anche da parte della già citata Ithaca. Proprio Ithaca è accusata di complicità con il genocidio del popolo palestinese, poiché la Delek ha un accordo preferenziale di fornitura di combustibili all’esercito israeliano e a diverse colonie illegali nei territori palestinesi, da cui deriva il suo inserimento nella lista nera dell’Onu. Lo schema del progetto di HyNet è molto articolato e ha richiesto numerose autorizzazioni. Parliamo di un’area industriale molto energivora, che assorbe fino al 5 per cento della domanda del paese. Vi sarà la produzione di idrogeno nella raffineria di Stanlow, ex proprietà di Shell, quindi filtri per la cattura della CO2 saranno installati in numerose imprese, da cementifici, a centrali elettriche, industrie del vetro e del riciclo. L’idrogeno dovrebbe avere delle sue condutture per alimentare alcune delle stesse industrie. Nonostante sia presentato come a basso impatto climatico, in realtà sarà prodotto da gas fossile e non necessariamente farà diminuire le emissioni climalteranti. Il piano di portarlo addirittura nelle caldaie delle famiglie nel villaggio di Whitby è fallito sul nascere, di fronte alle proteste dei locali per le preoccupazioni sulla sicurezza di bruciare l’idrogeno – il potente combustibile dei razzi spaziali – nelle case. Qualcosa che, per altro, energeticamente non ha proprio senso ed è sconsigliato dai più grandi esperti a livello internazionale. Poi ci sono le condutture della CO2, quelle che gestirà Eni. Anche sulla sicurezza di queste non mancano le preoccupazioni. Nel 2023 un carbonodotto è esploso a Satartia in Mississipi con decine di feriti e negli ultimi 15 anni sono state documentate ben 76 fuoriuscite della CO2 negli Usa. Per altro l’iniezione della CO2 in campi quasi esauriti è una tecnica usata da decenni per favorire la fuoriuscita della rimanenza di idrocarburi da sfruttare, più che per ridurre le emissioni climalteranti in atmosfera, e non è affatto provato che i giacimenti terranno ben imprigionate queste nei secoli a venire. L’OPPOSIZIONE AL PROGETTO La fase autorizzativa per HyNet è quasi completa, anche se manca ancora a livello locale il via libera sui tracciati da alcune delle contee. Ed il tema della CO2 trasportata verso il mare ha destato alcune proteste nel Nord del Galles, a partire dalla parlamentare gallese Carolyn Thomas, la quale nel suo buon italiano ci ha raccontato che il tema è stato anche sollevato alla Seneed, il parlamento di Cardiff. Nel caso di Teesside si è già passati alle carte bollate, e un ricorso amministrativo è pendente in tribunale. La coalizione “HyNot” che racchiudere attivisti in tutta la regione metropolitana di Liverpool è sul piede di guerra e la strada per Eni, tra i rischi tecnologici di quello che molti definiscono il bluff della cattura della CO2 e possibili ricorsi legali, non sarà così facile come viene invece spiegato dal management agli investitori internazionali, il tutto con il fine di quotare sul mercato una società satellite che in prospettiva si occuperebbe del solo business del carbonio. I sussidi previsti per la cattura, il trasporto e lo stoccaggio della CO2 di HyNet possono arrivare fino a 6 miliardi di sterline nella vita del progetto. Un bell’aiuto per Eni, che a seguito del calo del prezzo del petrolio e di ricavi minori nel primo trimestre dell’anno ha deciso qualche giorno fa di, ridurre i suoi investimenti per il 2025 da 9 a 8,5 miliardi, mentre il flusso di cassa operativo è ora previsto in calo quest’anno da 13 a 11 miliardi.
Greenpeace Italia e ReCommon presentano “Il prezzo che paghiamo”, documentario che racconta le storie delle vittime italiane della crisi climatica e ambientale
ROMA, 06.05.25 – Quali sono le conseguenze su tutte e tutti noi dell’inazione climatica dei governi e dell’avidità delle compagnie fossili che, pur conoscendo da decenni la pericolosità delle loro attività per il clima del pianeta, continuano a ignorare le indicazioni della comunità scientifica? È la domanda che si pone “Il prezzo che paghiamo”, documentario prodotto da Greenpeace Italia e Recommon e realizzato da FADA Collective, che verrà presentato in diverse città italiane a partire dal 23 maggio. Attraverso interviste a Milena Gabanelli (autrice e giornalista del Corriere della Sera), Stella Levantesi (giornalista freelance e autrice del saggio “I bugiardi del clima”) e Davide Faranda (Direttore di ricerca in climatologia del Centro Nazionale per la Ricerca Scientifica francese – CNRS), “Il prezzo che paghiamo” racconta quanto sia pervasivo il potere delle grandi aziende fossili nella nostra società – dai media all’università – attraverso le testimonianze di chi già oggi in Italia è costretto a subire gli impatti della crisi climatica e ambientale.  In Emilia-Romagna, Maria Gordini, un’agricoltrice, ha perso la casa e la propria azienda a causa delle gravi alluvioni che hanno colpito la Regione nel 2023 e 2024. In Basilicata, Camilla Nigro, Isabella Abate e Giorgio Santoriello vivono le pesanti conseguenze delle attività estrattiva di gas e petrolio, portata avanti nei loro territori dalla più importante multinazionale italiana, ENI. Nei territori in cui abitano, segnati da decenni di trivellazioni, si trova il più grande giacimento a terra di petrolio dell’Europa occidentale. Il racconto delle vicende personali di Maria, Camilla, Isabella e Giorgio, alternato alle testimonianze, alle analisi di ricercatori, giornalisti e attivisti e ai documenti storici e scientifici mette in luce le connessioni tra l’estrazione del petrolio e le devastanti ricadute sociali, ambientali ed economiche, dalla contaminazione delle terre e delle acque, fino alle alluvioni e ai fenomeni climatici estremi. Realizzato da Sara Manisera, con musiche di Gianni Maroccolo (Litfiba, CCCP, Marlene Kuntz) e Ala Bianca Group Edizioni Musicali, il documentario sarà presentato in anteprima a Roma il 23 maggio nell’ambito del Festival delle Terre organizzato dal Centro Internazionale Crocevia. “Il prezzo che paghiamo” inizierà poi il suo viaggio in diverse città italiane,  con proiezioni 27 maggio a Le Serre di Bologna, il 28 maggio nella fabbrica Ex-Gkn di Campi Bisenzio (Firenze) e il 29 maggio a Roma a Spin Time. Per informazioni e richieste di proiezione: info@ilprezzochepaghiamo.it
#africa - Roma fa affari di #guerra in #Mozambico dove l’#ENI festeggia il centesimo carico di gas #gnl Dall’8 al 12 aprile il porto di #Maputo ha ospitato la fregata “Luigi Rizzo” della @ItalianNavy specializzata nella guerra anti-sottomarini https://antoniomazzeoblog.blogspot.com/2025/04/roma-fa-affari-di-guerra-in-mozambico.html
#africa Roma fa affari di #guerra in #Mozambico dove l’#ENI festeggia il centesimo carico di gas #gnl Dall’8 al 12 aprile 2025 il porto di Maputo ha ospitato la fregata Luigi Rizzo della @ItalianNavy unità specializzata nella guerra anti-sottomarini. https://www.africa-express.info/2025/04/27/roma-fa-affari-di-guerra-in-mozambico-dove-leni-festeggia-il-centesimo-carico-di-gas/
ENI non ha rivelato la reale portata delle emissioni di gas climalteranti in Mozambico, lo rivela il nuovo rapporto di ReCommon “Fiamme Nascoste”
Roma, 26 marzo 2025 – ReCommon lancia oggi il rapporto “Fiamme Nascoste” sugli impatti sul clima dell’impianto di ENI Coral South FLNG al largo delle coste mozambicane. Dall’analisi dei dati pubblici e delle immagini satellitari esaminati dall’associazione e dai suoi consulenti, si può evincere che l’impianto per l’estrazione e liquefazione di gas del cane a sei zampe è stato protagonista di numerosi fenomeni di flaring dall’inizio della sua attività nel 2022, non adeguatamente riportati dall’azienda petrolifera. Il flaring consiste nella pratica di bruciare in torcia il gas in eccesso estratto insieme ad altri idrocarburi, che ha impatti rilevanti sul clima, l’ambiente e – in prossimità di centri abitati – sulle persone. Download FIAMME NASCOSTE REPORT PDF | 3.11 MB scarica il report Solo fra giugno e dicembre 2022, le operazioni di flaring avrebbero comportato lo spreco di 435.000 metri cubi di gas, equivalente a circa il 40% del fabbisogno annuo del Mozambico. Ma gli episodi si sono ripetuti anche in numerose altre giornate negli anni successivi. Per esempio il 13 gennaio 2024, quando, secondo le stime di ReCommon basate su dati NASA, per ogni ora di flaring avvenuto in quella giornata ENI avrebbe mandato in fumo tanto gas quanto una famiglia media italiana consuma in 8 anni e mezzo. Eppure la multinazionale italiana ha assicurato su documenti pubblici che «gli investimenti sono stati compiuti garantendo la piena compliance con gli standard della International Finance Corporation (IFC) e gli Equatorial Principles (sic)». Tuttavia, la “piena compliance” ostentata da ENI si traduce in emissioni totali di Coral South FLNG sottostimate di ben sette volte. Nello studio d’impatto ambientale, che ha dato poca rilevanza al flaring, le emissioni complessive della piattaforma erano state valutate come “trascurabili”, stimate a soli 150.000 tonnellate di CO2e all’anno. Partendo però dai dati della Banca Mondiale, solo quelle associate al flaring avvenuto fra giugno e dicembre 2022 ammontano a 1.098.188 tCO2e. Considerato che le emissioni totali del Mozambico per il 2022 sono state di 10.028.180 tCO2e, in sei mesi le sole emissioni da flaring della piattaforma hanno rappresentato l’11,2% delle emissioni annuali del Mozambico, in crescita dell’11,68% rispetto al 2021. In generale, le emissioni totali associate all’intera catena del valore di Coral South FLNG e del progetto gemello Coral North FLNG non ancora realizzato e per cui ENI si accinge a trovare capitali sul mercato – durante i previsti 25 anni di operatività sarebbero pari a 1 miliardo di tonnellate di CO2e, cioè più di tre volte le emissioni dell’Italia nel solo 2023. In occasione dell’assemblea degli azionisti di ENI del 2024, a una domanda posta da ReCommon su possibili episodi di flaring relativi a Coral South FLNG, la società aveva così risposto: «Sono stati limitati alla fase di collaudo iniziale e agli sporadici casi di riavvio dell’impianto». Un’affermazione in netta contraddizione rispetto a quanto rilevato a settembre 2023 da GALP, l’omologa portoghese di ENI, che all’epoca deteneva una quota azionaria del progetto Coral South. In un documento redatto per Climate Disclosure Project (CDP), organizzazione con base nel Regno Unito e tra le voci internazionali più accreditate in materia di rendicontazione degli impatti ambientali e sociali  anche nel mondo corporate, GALP riporta l’impatto sull’ambiente delle proprie operazioni usando toni diversi da quelli di ENI: «La fase di messa in servizio di Coral FLNG, in Mozambico, ha comportato flaring intenso con conseguente aumento temporaneo delle emissioni di livello 1 durante il secondo semestre del 2022». Ovvero il lasso di tempo già menzionato quale uno dei più caratterizati dal fenomeno del flaring. «La principale multinazionale italiana si appresta a bussare alla porta di finanziatori pubblici e privati per la realizzazione di Coral North FLNG, con gli italiani SACE e Intesa Sanpaolo in prima fila, a cui si aggiungono KEXIM e K-Sure in Corea del Sud. Ci chiediamo come queste istituzioni, dopo aver finanziato Coral South FLNG a seguito di una scarsa due diligence ambientale, possano fare altrettanto con il progetto gemello Coral North FLNG noncuranti anche degli impatti associati al flaring»,ha dichiarato Simone Ogno di ReCommon. «Il tanto declamato “fiore all’occhiello” della cooperazione tra Italia e Mozambico non è mai stato tale: ENI ha provato a dissimulare le difficoltà operative e sottostimato gli effetti del flaring di Coral South FLNG, un progetto che non porta alcuna sicurezza energetica né all’Italia né tanto meno al Mozambico. In un paese in cui violenze sistemiche e impatti ambientali sono legati anche alle attività dell’industria estrattiva, il contributo di ENI arriva in larga parte sotto forma di emissioni climalteranti. Uno scenario che rischia di deteriorarsi con il nuovo progetto Coral North FLNG», ha aggiunto Eva Pastorelli di ReCommon.
Le emissioni invisibili di ENI in Basilicata
ENI ha una parte non trascurabile del suo business nel nostro Paese. In particolare in Basilicata, dove è impegnata a sfruttare da una trentina d’anni il più grande giacimento su terra ferma dell’Europa Occidentale. Le licenze concesse a ENI autorizzano l’estrazione di 104mila barili di petrolio al giorno – sebbene negli ultimi anni la produzione non superi le 40mila unità. Il fulcro delle attività è l’impianto di lavorazione del petrolio estratto in quasi 30 pozzi, il Centro Olio in Val d’Agri (COVA) Download Le emissioni invisibili di ENI in Basilicata REPORT PDF | 1.31 MB scarica il report Nel 2021, ReCommon ha reso pubblico uno studio condotto dall’organizzazione indipendente Source International in cui emergeva che le concentrazioni dei composti organici volatili totali (COVT) intorno al Centro Olio  erano molto alte, oltre i 250 μg/m³ come media giornaliera, valori che possono essere paragonati a quelli del centro di Pechino e Nuova Delhi, tra le città più inquinate del pianeta. La scorsa primavera ReCommon ha dato seguito al lavoro fatto con Source, collaborando con l’associazione locale Cova Contro in un monitoraggio eseguito mediante l’uso incrociato di una termocamera di ultima generazione incrociate alle segnalazioni di cittadini residenti nell’area. Sono stati coinvolti 6 volontari nelle misurazioni e nelle riprese incluse le fasi di allestimento e trasporto dell’attrezzatura, oltre a tre famiglie della zona che hanno comunicato gli orari di maggior intensità dei miasmi. Come spiegato nel rapporto redatto da Cova Contro e ReCommon “Le emissioni invisibili di ENI in Basilicata”, la termocamera è in grado anche di quantificare il flusso di emissione in grammi/ora e la concentrazione in ppm (parti per milione)/minuto: durante la campagna di misurazione si sono riscontrate numerose anomalie, tanto che in quasi tutte le giornate di acquisizione dei dati la torcia di terra mostrava emissioni importanti di idrocarburi, notevoli per portata e costanza. I tenori di composti organici volatili registrati in alcuni casi sono stati molto alti, soprattutto per il benzene, ma degni di nota sono stati anche l’etilene ed il metano. Valori che in zona sono parzialmente misurati dalle controparti: per ARPAB, l’agenzia regionale per l’ambiente, i tenori di benzene nella zona sono nella norma (non misurando però tutti gli altri parametri rilevati con la termocamera) ma mentre la termocamera ha ripreso un dato puntuale sulla base di pochi secondi di misurazione, ARPAB raccoglie dati diluiti nel tempo. Tuttavia, in quello stesso periodo, ARPAB ha misurato dei picchi molto elevati di benzene, per i quali ad oggi l’agenzia non ha reso note delle motivazioni ufficiali, mentre ENI, secondo quanto riportato dal suo sito web, non monitora questi parametri. Nonostante non sia possibile un raffronto diretto tra i dati raccolti da questa analisi e quelli di ARPAB, potrebbero essere utili i dati dei camini SME (sistema di monitoraggio in continuo delle emissioni ai camini) che ENI, però, non ha mai pubblicato. Insomma, sul monitoraggio dell’aria, pubblico e privato, e quindi della qualità della vita nel “Texas d’Italia” c’è ancora tantissimo da fare.
Ong coreana fa causa a una società partner di ENI nel nuovo progetto di gas in Mozambico
Coral North FLNG potrebbe essere un nuovo mega-progetto per l’estrazione e la liquefazione di gas al largo delle coste mozambicane. Capofila è ENI, alla guida anche di Coral South FLNG, piattaforma già attiva e di fatto “gemella” di Coral North. Come spesso accade per questi grandi progetti, non c’è un’unica multinazionale coinvolta. Insieme a ENI, infatti c’è anche l’azienda fossile di stato coreana KOGAS, che oggi è stata denunciata dall’Ong locale SFOC proprio per i possibili impatti di Coral North FLNG. Alla base della denuncia dell’organizzazione di Seul ci sono due forti motivazioni. In primis, la domanda di gas è in calo in tutto il mondo e KOGAS registra già scarsi ritorni sugli investimenti per i suoi progetti attivi all’estero. Il rifiuto della società di rivelare lo studio di redditività del nuovo progetto viola i diritti degli azionisti – la SFOC ha già fatto causa a KOGAS per questo nel 2024. “Un finanziatore pubblico che si lasci coinvolgere in un simile rischio senza un’adeguata due diligence sarebbe irresponsabile”, si legge nel comunicato lanciato oggi da SFOC. Ma c’è un altro punto di fondamentale importanza: si stima che Coral North, nel corso del suo ciclo di vita, emetterà 489 milioni di tonnellate di CO₂, oltre due terzi delle emissioni annuali della Corea del Sud e pari alle emissioni dell’Italia nel 2023. Il finanziamento di questo progetto porterebbe la Corea del Sud ad allontanarsi ulteriormente dal raggiungimento dei suoi obiettivi climatici, violando così il diritto delle generazioni future a un ambiente sano. L’economia della Corea del Sud è profondamente intrecciata con i combustibili fossili. È il secondo più grande finanziatore pubblico di combustibili fossili all’estero e il più grande costruttore al mondo di navi metaniere, atte a facilitare consentono il commercio globale di gas. Nonostante ciò, la Corea del Sud ha recentemente cancellato o ritardato progetti di GNL su larga scala a causa del calo della domanda interna e dell’aumento dei costi di costruzione. Nel 2024, in Corea del Sud una storica sentenza ha stabilito che è in capo allo Stato la responsabilità di proteggere i suoi cittadini dagli effetti nefasti del cambiamento climatico. Lo sviluppo del gas in Mozambico è già sotto esame a livello internazionale. La francese TotalEnergies ha sospeso a tempo indeterminato il proprio progetto Mozambique LNG nel 2021 ed è stata oggetto di un’inchiesta giornalistica pubblicata nell’ottobre del 2024 su Politico dagli effetti dirompenti. Nell’inchiesta condotta dal giornalista indipendente Alex Perry si adombrava la possibilità che la multinazionale transalpina fosse stata a conoscenza delle atrocità commesse dai militari mozambicani in occasione del cosiddetto “massacro dei container” dell’estate del 2021, che potrebbero configurarsi come crimini di guerra. Dal 2017, nella provincia settentrionale di Cabo Delgado, si sono registrate oltre 4mila morti e circa un milione di sfollati a causa di una violenta insurrezione armata, alimentata anche dalla presenza delle multinazionali energetiche.