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ReCommon - Contro le ingiustizie per natura

Le fondazioni Compagnia di Sanpaolo e Cariplo voltano le spalle ai territori, alle persone e al Pianeta
Rappresentanti di 11 comunità che vivono sulle coste del Texas e della Louisiana, insieme a 14 organizzazioni della società civile internazionale, tra cui ReCommon, hanno inviato una lettera alle fondazioni Compagnia di San Paolo e Cariplo – due influenti azionisti della banca – chiedendo di spingere Intesa Sanpaolo a interrompere il finanziamento alle compagnie e ai progetti di produzione del GNL, a disinvestire dal gas fossile e a rafforzare la propria policy Oil & Gas escludendo esplicitamente l’espansione del GNL tra i criteri di finanziamento. Non è arrivata alcuna risposta. Intesa Sanpaolo è conosciuta in Italia come la “banca dei territori”. Negli Stati Uniti, però, finanzia pesantemente l’espansione del GNL, che ha un impatto devastante sulle comunità che vivono vicino ai nuovi gasdotti e terminal per l’export. Un silenzio particolarmente grave, considerando che entrambe le fondazioni dichiarano di operare in favore dello sviluppo sociale, della cultura e della sostenibilità. In quanto azionisti di riferimento, hanno infatti un dovere morale e fiduciario a garantire che la banca sia allineata con questi principi. Flaring dalle torce dell’impianto di Sabine Pass, in Texas, gestito da Cheniere Energy, il più grande degli Stati Uniti. Da qui prende il via la maggior parte del gas “naturale” liquefatto (Gnl) diretto in Europa. Foto © Carlo Dojmi di Delupis/ReCommon Accade invece il contrario. Intesa Sanpaolo è tra le prime 20 istituzioni finanziarie globali nel sostegno all’espansione del GNL e tra le 5 più grandi in Europa. A marzo 2024 la banca ha contribuito a organizzare l’emissione di un’obbligazione da 1.5 miliardi di dollari per Cheniere Energy. A luglio 2025, ha partecipato a una nuova emissione da 1 miliardo per l’espansione del terminal Sabine Pass LNG in Louisiana. Nel 2023 ha sostenuto Next Decade con 278,75 milioni di dollari in un’obbligazione e 1.08 miliardi di dollari di finanziamento per il terminal Rio Grande LNG. Da anni la prima banca italiana finanzia alcune delle più dannose compagnie di GNL e le loro infrastrutture sulle coste del golfo del Messico negli Stati Uniti, tra cui Sabine Pass, Corpus Christi, Golden Pass, Lake Charles, Freeport LNG e Cameron LNG. Il costo umano e ambientale di questi progetti è allarmante. La concentrazione di terminal di GNL, raffinerie e impianti petrolchimici tra Texas e Louisiana sta aggravando una lunga eredità di razzismo ambientale e ingiustizia, esponendo le comunità a rischi sanitari gravissimi, inquinamento dell’aria e dell’acqua e tassi elevati di malattie. Ai sei impianti attualmente operativi si aggiungono oltre 20 nuovi progetti di GNL in fase di proposta. Nell’agosto 2025, un grave incidente di dragaggio al terminal Calcasieu Pass di Venture Global ha sversato tonnellate di fango tossico nei bayou, contaminando pesci, ostriche e gamberi e devastando la pesca locale, già colpita dalle industrie della zona. Nonostante tutte queste evidenze, l’ultima policy Oil & Gas di Intesa Sanpaolo non include nessuna restrizione per il finanziamento al GNL, e resta tra le più deboli d’Europa. “Le organizzazioni della società civile e i rappresentanti delle comunità locali hanno cercato il dialogo con la banca in numerose occasioni, attraverso lettere, appelli pubblici e domande dirette, senza mai ricevere risposta” commenta Susanna De Guio di ReCommon. “Ora i maggiori azionisti della banca – due fondazioni che si definiscono impegnate nel sostegno delle persone e del Pianeta, si stanno comportando nello stesso modo. Il loro silenzio di fronte alla nostra lettera è una chiara presa di posizione contro i territori statunitensi e le loro comunità, che evita le responsabilità della banca nel frenare il cambio climatico”.
Le agenzie di credito all’export di Regno Unito e Olanda escono dal controverso progetto di TotalEnergiesMozambique LNG. L’italiana SACE invece rimane.
Roma, 2 dicembre 2025 – Con decisioni che hanno pochi precedenti, i governi della Gran Bretagna e dei Paesi Bassi hanno scelto di interrompere il sostegno finanziario al progetto Mozambique LNG, gestito dalla multinazionale francese TotalEnergies. Un’opera che vede un considerevole coinvolgimento italiano, dal momento che l’agenzia  di credito all’esportazione SACE dovrebbe rilasciare una garanzia di 950 milioni di euro, con cui  coprire i prestiti per le operazioni di  Saipem, tra cui quello di Cassa Depositi e Prestiti (CDP) del valore di  650 milioni di euro. Come riportato dal quotidiano Politico, lunedì scorso il ministro britannico per gli Affari economici Peter Kyle ha comunicato l’annullamento dell’operazione da oltre 1 miliardo di dollari a sostegno del progetto di gas naturale liquefatto del colosso fossile transalpino, poiché metterebbe a rischio i soldi dei contribuenti alla luce delle gravi vicende riguardanti l’infrastruttura. Nella stessa giornata, il ministro delle Finanze olandese Eelco Heinen ha confermato al Parlamento nazionale che «i Paesi Bassi non saranno più coinvolti nel finanziamento del progetto in Mozambico». Sito di costruzione del progetto Mozambique LNG. foto JA! Lo scorso novembre, l’European Center for Constitutional and Human Rights (ECCHR), una delle più importanti Ong europee per la difesa dei diritti umani, ha presentato in Francia una denuncia penale contro TotalEnergies per complicità in crimini di guerra, tortura e sparizioni forzate. La multinazionale del petrolio e del gas è accusata di aver finanziato direttamente e sostenuto materialmente la Joint Task Force, composta dalle forze armate mozambicane, che tra luglio e settembre 2021 avrebbe arrestato, torturato e ucciso decine di civili sul perimetro del sito estrattivo in quello che è stato definito “il massacro dei container”. Una vicenda ripresa nel settembre 2024 sempre da Politico in un’inchiesta curata dal giornalista indipendente Alex Perry e, successivamente, da Le Monde e Source Material, e in cui si segnalava, grazie anche a una richiesta di accesso agli atti inoltrata da ReCommon a CDP, come TotalEnergies avesse tutti gli elementi a disposizione per essere a conoscenza degli abusi commessi dai militari mozambicani già prima dell’estate del 2021. A seguito di un attacco alla città di Palma da parte del gruppo armato Ahl al-Sunnah wa al Jamma’ah nel marzo e nell’aprile 2021, l’esercito mozambicano – compresi i membri della Joint Task Force sostenuta da TotalEnergies – avrebbe arbitrariamente detenuto decine di civili in container metallici situati all’ingresso dello stabilimento tra luglio e settembre 2021. I civili stavano fuggendo dai loro villaggi a causa degli attacchi degli insorti quando sono stati intercettati dall’esercito. Secondo le ricostruzioni, i detenuti sono stati torturati, sottoposti a sparizioni forzate e alcuni di loro sono stati uccisi sommariamente. Nel settembre 2021, gli ultimi 26 detenuti sono stati rilasciati. La Joint Task Force è stata istituita con un memorandum del 2020 tra la filiale mozambicana di TotalEnergies e il governo mozambicano come unità di sicurezza dedicata alla protezione delle operazioni del progetto Mozambique LNG. «Chiediamo che il governo italiano prenda posizione su questa vicenda così drammatica e obblighi SACE e CDP a ritirarsi finanziariamente da Mozambique LNG. Dopo l’uscita delle agenzie di credito all’export di Regno Unito e Paesi Bassi, sarebbe scandaloso se centinaia di milioni dei contribuenti italiani continuassero a essere destinati per un progetto così rischioso e macchiato da possibili gravi violazioni dei diritti umani» ha dichiarato Simone Ogno di ReCommon. Il sostegno finanziario britannico e olandese, sotto forma di prestiti e garanzie pubblici per gli esportatori e le banche che sostengono il progetto, era stato sospeso dopo che TotalEnergies aveva invocato la forza maggiore – una clausola contrattuale che consente alle aziende di sospendere gli obblighi in caso di calamità – a seguito del deterioramento della situazione della sicurezza nella regione. SACE ha già supportato finanziariamente un altro progetto in Mozambico, con una  garanzia di 700 milioni di euro: si tratta di Coral South FLNG, progetto offshore di ENI, la multinazionale energetica occidentale più attiva in Mozambico insieme proprio a TotalEnergies. Nella penisola di Afungi, dove è in fase di costruzione Mozambique LNG, dovrebbe sorgere anche l’impianto Rovuma LNG di ExxonMobil ed ENI.
La trappola di Fiume Santo
La centrale a carbone di Fiume Santo, già foriera di gravi impatti sull’ambiente e sulla salute delle persone, potrebbe continuare a funzionare per bruciare gas. L’impianto diventerebbe così uno dei principali tasselli del processo di metanizzazione della Sardegna. Le istituzioni locali e nazionali, ma anche la potente multinazionale Snam, provano così a perpetuare l’uso dei combustibili fossili sull’isola, nascondendosi dietro la falsa immagine della transizione energetica. Download La trappola di Fiume Santo REPORT PDF | 1.22 MB Download
TotalEnergies denunciata in Francia per presunti crimini di guerra nel progetto in Mozambico in cui è coinvolta anche SACE. ReCommon: «Se SACE sapeva, adesso rischia un’incriminazione?»
Roma, 18 novembre 2025 – L’European Center for Constitutional and Human Rights (ECCHR), una delle più importanti Ong europee per la difesa dei diritti umani, oggi ha presentato in Francia una denuncia penale contro TotalEnergies per complicità in crimini di guerra, tortura e sparizioni forzate. La multinazionale del petrolio e del gas è accusata di aver finanziato direttamente e sostenuto materialmente la Joint Task Force, composta dalle forze armate mozambicane, che tra luglio e settembre 2021 avrebbe arrestato, torturato e ucciso decine di civili nel sito di estrazione del gas di TotalEnergies denominato Mozambique LNG. Il progetto vede un considerevole coinvolgimento italiano, dal momento che l’agenzia di credito all’esportazione SACE dovrebbe rilasciare una garanzia di 950 milioni di euro, con cui  coprire i prestiti per le operazioni di Saipem, tra cui quello di Cassa Depositi e Prestiti (CDP) del valore di 650 milioni di euro. Il supporto finanziario di SACE e CDP in Mozambique LNG era stato confermato dal governo nella risposta all’interpellanza urgente sulla questione presentata dall’onorevole Angelo Bonelli lo scorso 24 gennaio. Sulla base della risposta del governo, già a gennaio 2024 SACE aveva giudicato favorevolmente l’emissione di una garanzia sui prestiti, senza aver svolto ulteriori valutazioni di natura ambientale e, soprattutto, sociale, dopo quelle di giugno 2017. SACE ha già supportato finanziariamente un altro progetto in Mozambico, con una  garanzia di 700 milioni di euro: si tratta di Coral South FLNG, progetto offshore di ENI, la multinazionale energetica occidentale più attiva in Mozambico insieme proprio a TotalEnergies. Sul sito di Mozambique LNG dovrebbe sorgere anche l’impianto Rovuma LNG di ExxonMobil ed ENI. La denuncia nei confronti della multinazionale transalpina è stata presentata al Procuratore nazionale antiterrorismo francese (PNAT), che ha anche il mandato di indagare sui crimini internazionali. La denuncia arriva proprio mentre TotalEnergies ha appena annunciato la revoca della forza maggiore dichiarata nell’aprile 2021 per Mozambique LNG, nonostante il persistere del conflitto, l’intensificarsi degli attacchi e una grave crisi umanitaria. Il riavvio definitivo del progetto dipende tuttavia dall’accordo con il governo mozambicano sulla copertura dei costi aggiuntivi del progetto, pari a 4,5 miliardi di dollari. La denuncia verte sul cosiddetto “massacro dei container”, avvenuto sul perimetro del sito che ospiterebbe l’infrastruttura. Queste accuse sono state riportate per la prima volta dal quotidiano Politico nel settembre 2024. Come segnalato anche nell’inchiesta curata dal giornalista indipendente Alex Perry e, successivamente, da Le Monde e Source Material, proprio grazie a una richiesta di accesso agli atti inoltrata da ReCommon a CDP, si è appreso che TotalEnergies avesse tutti gli elementi a disposizione per essere a conoscenza degli abusi commessi dai militari mozambicani già prima dell’estate del 2021. A seguito di un attacco alla città di Palma da parte del gruppo armato Ahl al-Sunnah wa al Jamma’ah nel marzo e nell’aprile 2021, l’esercito mozambicano – compresi i membri della Joint Task Force sostenuta da TotalEnergies – avrebbe arbitrariamente detenuto decine di civili in container metallici situati all’ingresso dello stabilimento tra luglio e settembre 2021. I civili stavano fuggendo dai loro villaggi a causa degli attacchi egli insorti quando sono stati intercettati dall’esercito. Secondo le accuse riportate, i detenuti sono stati torturati, sottoposti a sparizioni forzate e alcuni di loro sono stati giustiziati. Nel settembre 2021, gli ultimi 26 detenuti sono stati rilasciati. La Joint Task Force è stata istituita con un memorandum del 2020 tra la filiale mozambicana di TotalEnergies e il governo mozambicano come unità di sicurezza dedicata alla protezione delle operazioni del progetto Mozambique LNG. «TotalEnergies sapeva che le forze armate mozambicane erano state accusate di sistematiche violazioni dei diritti umani, ma ha continuato a sostenerle con l’unico obiettivo di proteggere i propri impianti» ha dichiarato Clara Gonzales dell’ECCHR. «I documenti che abbiamo ottenuto riguardanti questa vicenda ci portano a pensare che SACE e CDP sapessero della criticità della situazione, ma hanno preferito rimanere tra gli sponsor finaziari del progetto, aggravando così la loro posizione» ha affermato Simone Ogno di ReCommon. «Riteniamo che, qualora TotalEnergies dovesse essere perseguita penalmente, anche le due istituzioni finanziarie pubbliche rischino concretamente un’incriminazione, e chiediamo che le forze politiche si attivino per fare luce sulla vicenda e che il supporto finanziario venga sospeso».
HyNet, l’inchiesta di ReCommon sul mega progetto green di Eni
Il governo britannico ha destinato fino a 21,7 miliardi di sterline per la realizzazione di due mega progetti per la cattura e lo stoccaggio di CO2 . Quello in fase più avanzata è HyNet North West, che quindi beneficerà di ingenti sussidi per la realizzazione delle infrastrutture del gasdotto che dovranno raccogliere l’anidride carbonica catturata da su una ventina di siti industriali della Baia di Liverpool. Una volta catturata e trasformata per il trasporto, la CO2 arriverà al terminal di Point of Ayr, sulla costa del Nord del Galles, per poi andare sotto il mare e raggiungere tre dei giacimenti di gas quasi esauriti operati da Eni, giacimenti che saranno riempiti con il gas killer del clima. Un’inchiesta dell’associazione ReCommon fa luce sul progetto HyNet North West ascoltando chi si oppone alla sua costruzione e dando voce alle tante preoccupazioni di chi vive nell’area sui possibili rischi. Nuovi tubi per la Co2 saranno posati per 35 chilometri, mentre altri 149 chilometri di gasdotti esistenti saranno riadattati. L’obiettivo di Eni è arrivare a stoccare 4,5 milioni di tonnellate di anidride carbonica l’anno in una prima fase del progetto, per poi raggiungere fino a 10 milioni a pieno regime. Ma i dubbi, dice Recommon, sull’efficacia di questa tipologia di progetti rimangono, sia sul versante della sicurezza che su quello dell’efficacia. Nel 2023, un carbonodotto è esploso a Satartia in Mississipi con decine di feriti e negli ultimi 15 anni sono state documentate ben 76 fuoriuscite della CO2 negli Usa. Uno studio dell’Imperial College di Londra, pubblicato a inizio settembre sul sito della rivista Nature, evidenzia come il rischio di terremoti, problemi tecnici o dispute territoriali renda possibile immagazzinare in modo sicuro e su scala globale solo 1.500 gigatonnellate di CO2, un numero ben inferiore alle 40mila gigatonnellate precedentemente stimate. Uno rapporto di ReCommon e Greenpeace Italia ha rilevato come, dal 2009, i governi di tutto il mondo abbiano stanziato 8,5 miliardi di dollari per progetti di CCS, ma solo il 30% di questi finanziamenti sia stato speso. Questo perché alcuni progetti non sono riusciti a partire, mentre molti altri sono in ritardo o hanno ottenuto risultati così deludenti da essere già stati abbandonati per insostenibilità economica o problemi tecnici.
La lobby fossile fa il record di presenze alla COP30 in Brasile. ReCommon: “Belém assediata dai giganti dell’oil&gas”
Roma, 14 novembre 2025 –  Come membro della coalizione internazionale Kick Big Polluters Out (KBPO), che chiede di escludere i lobbisti fossili dalle Conferenze per il clima, ReCommon ha avuto accesso a documenti confidenziali della COP30. Dall’analisi delle carte,  emerge che in totale i lobbisti fossili presenti al vertice di Belém sono 1.602, di gran lunga il numero più alto dei rappresentanti di quasi tutte le delegazioni nazionali presenti, superati solo dal Brasile (3805), Paese ospitante. Uno ogni 25 delegati presenti, in termini percentuali un aumento del 12% rispetto ai negoziati sul clima dello scorso anno a Baku, in Azerbaigian e la più grande concentrazione di lobbisti dei combustibili fossili alla COP da quando KBPO ha iniziato ad analizzare i partecipanti alla conferenza. Tra i dati che spiccano maggiormente, va segnalato che i lobbisti fossili hanno ricevuto il 66% in più di pass per la COP30 rispetto a tutti i delegati dei 10 paesi più vulnerabili al cambiamento climatico messi insieme (1061). Una sproporzione che dimostra, ancora una volta, come chi è responsabile dell’aggravarsi della crisi climatica continui a godere di un accesso privilegiato ai tavoli multilaterali dove si decide il futuro del pianeta. I lobbisti italiani sono complessivamente 17, con 3 esponenti della Fondazione Enrico Mattei, collegata al campione nazionale del fossile ENI, 2 di Confindustria, 4 di ACEA, società che sta puntando con decisione su progetti per lo sfruttamento del gas, 6 di Enel, che conferma di essere particolarmente attiva in America Latina, uno di Edison, tra le società più attive nell’import di GNL nel nostro paese, e uno della Venice Sustainability Foundation, fondazione con governance a guida fossile presente alla COP con il direttore generale Alessandro Costa, dipendente del leader europeo e italiano delle infrastrutture gasiere Snam. Massiccio il contingente di esponenti di organizzazioni di lobbying che promuovono una considerevole fetta del greenwashing del settore fossile, ovvero i bio-carburanti e la cattura e lo stoccaggio della CO2 (CCS) anche collegata alla produzione di idrogeno e ammoniaca da fonti fossili. Queste organizzazioni annoverano tra i loro membri anche ENI e Snam, che a Ravenna, sono impegnate nel primo progetto di CCS italiano. Una tecnologia, quest’ultima, che ReCommon denuncia come estremamente costosa, poco sicura e non efficace, che necessita di ingenti sussidi pubblici. Il progetto di Eni e Snam, al momento in fase sperimentale, ha potuto beneficiare di una legislazione a maglie larghe che le stesse corporation hanno contribuito a definire, in pieno conflitto di interessi, come spiegato in un recente report dell’associazione. . La presenza record di lobbisti fossili alla COP30 rafforza l’urgenza di introdurre un quadro vincolante di trasparenza e prevenzione dei conflitti di interesse all’interno dell’ambito ONU. Senza tali garanzie, i negoziati continueranno ad essere vulnerabili all’influenza delle stesse corporation che stanno alimentando la crisi climatica «A 10 anni dall’Accordo di Parigi, la presenza dei lobbisti fossili nelle COP, dove non dovrebbero trovarsi, continua a crescere» ha dichiarato Elena Gerebizza di ReCommon. «Stanno promuovendo “soluzioni” che vanno bene per i loro affari, ma non per le persone e il clima come il CCS, l’idrogeno e il biogas, che dovrebbero essere etichettati come greenwashing per l’espansione dell’estrazione di petrolio e gas che continua ad avvenire. Le compagnie fossili, invece, dovrebbero pagare per l’impatto globale delle loro attività» ha concluso Gerebizza.    «L’ennesima “invasione” di una COP da parte di manager fossili è intollerabile. L’obiettivo di questi “personaggi” è di garantirsi altri decenni di petrolio, gas e mega infrastrutture LNG spacciate come transizione. Per questo o si caccia l’industria fossile dalle COP o la crisi climatica continuerà a essere scritta da chi ne trae profitto» ha dichiarato Daniela Finamore di ReCommon.
Le promesse impossibili sul gas e cosa rischiamo
Quando lo scorso luglio Donald Trump e Ursula von der Leyen hanno annunciato un nuovo “patto energetico” tra Stati Uniti e Unione Europea, il messaggio era semplice e politicamente potente: più gas americano in Europa e un obiettivo ambizioso di 750 miliardi di dollari di scambi energetici entro il 2028. È un numero che fa effetto, ma non corrisponde a contratti vincolanti. Di fatto è un impegno politico, non un obbligo di acquisto. Donald Trump e Ursula Von der Leyen © European Union, 2025, CC BY 4.0, via Wikimedia Commons Un impegno politico, però, che si scontra con la realtà: l’Europa consuma meno gas, sta costruendo troppa capacità infrastrutturale e sta introducendo regole, seppure non perfette, che rendono difficile impegnarsi a lungo su combustibili fossili. Diverse analisi dell’’Institute for Energy Economics and Financial Analysis (IEEFA), stimato think tank statunitense, confermano queste false promesse. Dopo la crisi del 2022 e la corsa a sostituire il gas russo, l’UE ha visto un calo dei consumi di circa il 20% fra il 2021 e il 2024, mentre l’import LNG, dopo il boom iniziale, nel 2024 è sceso del 19% rispetto all’anno precedente. Nel 2024, i terminal LNG europei hanno lavorato con un utilizzo medio del 42%, già in calo rispetto al 58% del 2023. Nel frattempo, però, si è costruita capacità infrastrutturale a ritmi record. Entro il 2030 la capacità europea può superare 400 miliardi di metri cubi (bcm) l’anno, mentre la domanda prevista si attesta attorno ai 127 bcm. Questo significa che fino a metà della capacità potrebbe rimanere inutilizzata: oltre il 50% delle infrastrutture LNG dell’Unione Europea può diventare economicamente inutile entro il 2030 qualora la domanda continuasse a scendere. Come è molto probabile che accada. L’Italia è tra i Paesi più esposti, perché sta vivendo una rapida fase di espansione delle infrastrutture GNL. Snam ha un ruolo centrale nello sviluppo e nella gestione della filiera. Sul fronte operativo, il rigassificatore di Piombino può trattare 5 bcm/anno ma nei primi nove mesi del 2024 ha rigassificato solo 2,45 bcm, circa metà della capacità. Il rigassificatore di Ravenna aggiunge altri 5 bcm l’anno: è entrato in servizio a maggio 2025, dopo l’ormeggio avvenuto il 28 febbraio, e ha ricevuto il primo cargo commerciale dagli USA l’11 giugno 2025. La capacità quindi cresce velocemente ed è destinata quasi a triplicarsi, passando da 16,1 miliardi di metri cubi nel 2022 a 47,5 miliardi previsti entro il 2026. Intanto, però, la domanda nazionale di gas continua a scendere in modo netto di anno in anno. Qui, allora, entra in gioco il concetto di stranded assets: infrastrutture costose che non ripagano l’investimento perché sottoutilizzate, terminal che lavorano sotto la piena capacità e ricavi regolati che non sempre coprono il costo del capitale senza ricorrere a meccanismi tariffari. Nella filiera del gas, il “bene” che rischia di arenarsi non è solo l’infrastruttura. Lo sono anche i contratti di fornitura: se un’impresa ha preso impegni pluriennali su volumi che poi non riesce a collocare, può finire per pagare penali o rivendere i carichi in perdita. A livello di sistema, questo si traduce in costi finanziari e opportunità mancate che non compaiono subito nelle bollette, ma prima o poi emergono. Quando un’infrastruttura resta mezza vuota, i costi fissi non spariscono. Nelle reti regolate tendono a essere spalmati sulle tariffe, quindi su famiglie e imprese. Se gli asset sono detenuti (direttamente o indirettamente) da soggetti a controllo pubblico, una parte del rischio grava anche sui conti dello Stato. In aggiunta, il settore bancario vede salire il rischio di credito se i flussi di cassa attesi non si materializzano.  La promessa fatta nell’acquisto del gas statunitense rischia quindi essere molto problematica: capacità in più, domanda in meno, e un sistema che per restare in piedi spalma i costi fissi sui consumatori. Miliardi che potevano essere destinati a promuovere una transizione vera e giusta in Europa e in Italia resteranno inchiodati a infrastrutture che non rendono come promesso. Gli stranded assets non “esplodono” in un giorno: si sedimentano. E quando diventano evidenti è perché il conto è già maturato. Ecco perché aumentare ancora la capacità o blindare acquisti pluriennali rischia di trasformare gli impegni politici di oggi in un costo duraturo per domani.
Dieci anni perduti
COME I PROTAGONISTI DELL’ESTRATTIVISMO FOSSILE ITALIANO HANNO MINATO L’ACCORDO DI PARIGI Download Dieci anni perduti REPORT PDF | 2.26 MB scarica il report “Dieci anni perduti – Come i protagonisti dell’estrattivismo fossile italiano hanno minato l’Accordo di Parigi” è lo studio di ReCommon lanciato alla vigilia della COP30 in Brasile che analizza le attività dei protagonisti del comparto fossile e finanziario pubblico e privato oggetto delle campagne dell’associazione: ENI, Snam, SACE e Intesa Sanpaolo. Di fatto tutti soggetti impegnati a sabotare l’Accordo di Parigi. Alla COP21, tenutasi nel 2015 nella capitale francese, i paesi firmatari dell’accordo, compresa l’Italia, avevano promesso di «tenere le temperature ben al di sotto di 2 gradi rispetto ai livelli pre-industriali, e proseguire l’azione volta a limitare l’aumento di temperatura a 1,5 gradi rispetto ai livelli pre-industriali».
Le corporation fossili e la finanza pubblica e privata italiana hanno affossato l’Accordo di Parigi, lo rivela il nuovo rapporto di ReCommon “Dieci anni perduti”
Roma, 6 novembre 2025 – A pochi giorni dall’inizio della COP30 di Belém, in Brasile, ReCommon lancia oggi il rapporto “Dieci anni perduti – Come i protagonisti dell’estrattivismo fossile italiano hanno minato l’Accordo di Parigi”. Download Dieci anni perduti REPORT PDF | 2.26 MB scarica il report Lo studio si concentra sulle attività dei protagonisti del comparto fossile e finanziario pubblico e privato oggetto delle campagne dell’associazione: ENI, Snam, SACE e Intesa Sanpaolo, di fatto tutti impegnati a sabotare l’Accordo di Parigi. Alla COP21 tenutasi nel 2015 nella capitale francese, val la pena ricordarlo, i paesi firmatari dell’accordo, compresa l’Italia, avevano promesso di «tenere le temperature ben al di sotto di 2 gradi rispetto ai livelli pre-industriali, e proseguire l’azione volta a limitare l’aumento di temperatura a 1,5 gradi rispetto ai livelli pre-industriali». Dalla COP21 di Parigi, in Italia si sono succeduti cinque governi ed ENI ha prodotto in totale circa 6,39 miliardi di barili equivalenti di petrolio e gas, dichiarando ogni anno la propria volontà di aumentare la produzione di combustibili fossili almeno fino al 2030. Così la più importante multinazionale italiana potrebbe sforare del 73% (2024) e dell’89% (2025) i parametri previsti dagli scenari di zero emissioni nette (NZE) dell’Agenzia Internazionale dell’Energia per raggiungere l’obiettivo di limitare l’aumento di temperatura entro 1,5 gradi.    Nello stesso lasso di tempo, Snam e le altre grandi società di trasporto del gas hanno speso fino a 900mila euro in attività di lobbying a Bruxelles, riuscendo a ottenere quasi 50 incontri con i massimi funzionari politici della Commissione europea per discutere i loro progetti di gasdotti da costruire o acquisire. La società di San Donato Milanese è divenuta in pochi anni il più grande operatore della rete di trasporto del gas in Europa per infrastrutture controllate, corrispondenti a oggi a una rete di oltre 40mila chilometri di gasdotti, terminal di rigassificazione per 28 miliardi di metri cubi di capacità annua gestita, depositi di stoccaggio per 16,9 miliardi di metri cubi. Piani di investimento incentrati su petrolio e gas che non sarebbero possibili senza la mediazione e il supporto delle istituzioni finanziarie, a partire da quelle pubbliche. Controllata dal ministero dell’Economia e delle Finanze, SACE è l’agenzia di credito all’esportazione italiana. Il suo ruolo è quello di rilasciare garanzie – cioè un’assicurazione pubblica – sia alle aziende, i cui progetti all’estero possono essere assicurati, sia alle banche commerciali, per garantire i prestiti ai progetti esteri delle aziende. Negli ultimi 10 anni, SACE ha rilasciato garanzie per il settore dell’energia fossile pari a 22,18 miliardi di euro. È l’operatività di SACE a fare dell’Italia il primo finanziatore pubblico dell’industria fossile in Europa e il quarto a livello globale. C’è, infine, il più grande gruppo bancario privato italiano: Intesa Sanpaolo. Secondo gli ultimi dati disponibili, nel solo 2024 i finanziamenti a carbone, petrolio e gas da parte della banca di Corso Inghilterra sono aumentati del 18% rispetto all’anno precedente, raggiungendo la cifra di 11 miliardi di dollari, mentre gli investimenti sono saliti del 16% (10 miliardi a inizio 2025). ENI si conferma come la corporation fossile più finanziata da Intesa Sanpaolo; forte è anche la crescita del sostegno a Snam (+60% negli investimenti e +96% di finanziamenti nel 2024).  «Quando si parla di crisi climatica c’è chi ha maggiori, incomparabili, responsabilità rispetto al singolo individuo: i gruppi industriali e finanziari, che sono parte strutturale di un sistema improntato sull’energia fossile. L’Italia non fa eccezione», commenta Simone Ogno di ReCommon. «Per troppo tempo questa crisi è stata raccontata come un fenomeno astratto,  nascondendo così il fatto che ne stiamo già pagando, letteralmente, le conseguenze sul piano materiale. Crisi climatica significa infatti impatti sociali, economici e ambientali. È arrivato il momento che i responsabili siano in prima fila a pagare i costi di questa crisi», conclude Ogno.
Parte la campagna “Account 0% fossile”
ReCommon lancia oggi sui suoi canali social “Account 0% fossile”, un’azione condivisa per contrastare la propaganda fossile e riconoscere chi crea contenuti liberi, senza il contributo dell’ormai onnipresente settore dell’oil & gas. L’iniziativa dell’associazione è una risposta a quanto portato avanti dalla più potente multinazionale italiana, ENI, a cavallo dei mesi di settembre e ottobre, allorché tramite la sua divisione “verde” ha lanciato in pompa magna “Be a PleniDUDE”. La campagna del Cane a sei zampe ha la finalità di “formare i creator dell’energia”. E così 15 influencer sono stati “convocati” per un bootcamp di 5 giorni, alla cui fine in 6 si sono ritrovati a firmare dei contratti annuali per promuovere i contenuti della multinazionale, come ha riportato anche il sito di informazione Valori.   Insomma, dietro la facciata di un’accademia per volenterosi giovani talenti c’è una strategia chiara: trasformare i social in un’estensione del marketing fossile. Quella che vista da fuori sembra un’operazione di comunicazione green, di fatto certifica che non sempre chi parla di clima e sostenibilità è indipendente. Anzi. Ha detto bene il giornalista esperto di ambiente Ferdinando Cotugno nella sua newsletter Areale dello scorso 27 settembre: «La nostra mente è un terreno di conquista. È IL terreno di conquista. La nostra mente è un asset geopolitico». Per questo è importante che aderire ad “Account 0% fossile”, un’azione collettiva per dire no al greenwashing e difendere la reputazione della community dei creator, che ReCommon invita a pubblicare un contenuto con il badge “0% FOSSILE” e a taggare l’associaizone usando l’hashtag della campagna, #ZeroFossile.
Mozambico: gas ed ENI, tutte le incognite di Coral North FLNG
pubblicato su Nigrizia.it Il progetto di ENI in Mozambico denominato Coral North FLNG sembra essere infine a una svolta: il Cane a sei zampe e i suoi quattro partner sono arrivati alla Final investment decision (FID) o decisione finale di investimento, in pratica lo schema finanziario per la costruzione dell’infrastruttura e il passaggio che segna l’avvio dell’iniziativa. Coral North FLNG consiste in una piattaforma galleggiante progettata per l’estrazione e la liquefazione del gas al largo delle coste di Cabo Delgado, la provincia più settentrionale del Mozambico. La zona è teatro da ormai otto anni di un conflitto fra l’esercito di Maputo e milizie che si dichiarano affiliate allo Stato islamico.  È di fatto la copia di Coral South FLNG, che è invece attiva ed esporta gas fossile (GNL) da fine 2022. Le due piattaforme, qualora anche la seconda vedesse la luce, finirebbero per distare solo 10 chilometri. CRONACA DI UN RITARDO  È dallo scorso gennaio che si parla della realizzazione della FID per Coral North FLNG, che a inizio di quest’anno sembrava cosa fatta. E invece fino a questo momento c’era stata solo una litania di rinvii e smentite.  Senza la FID, banche e agenzie di credito all’export come l’italiana SACE non possono di fatto valutare se sostenere o meno con i loro soldi un grande progetto infrastrutturale. Questo ritardo di circa dieci mesi aveva spinto gli esperti del settore a dubitare del fatto che lo schema finanziario potesse vedere la luce entro il 2025.  Le ragioni alla base del ritardo accumulato sono molteplici, a partire dall’instabilità socio-politica del Mozambico. Tra il 9 ottobre 2024 e la primavera del 2025, il paese ha attraversato la fase più complessa degli ultimi anni. La crisi istituzionale innescatasi dopo le elezioni presidenziali di ottobre – che hanno visto la vittoria di Daniel Chapo, candidato del partito FRELIMO che guida il Mozambico da 50 anni – sembra rientrata, ma le tensioni con le forze di opposizione rischiano di sfociare in nuovi episodi di repressione da parte delle forze armate, dopo che i precedenti sono costati la vita a centinaia di persone.  Un elemento dirimente – ma rimasto fin troppo sotto traccia a queste latitudini – riguarda poi il potenziale contributo dell’industria fossile al tessuto economico del Paese africano. Già a dicembre dello scorso anno l’organizzazione della società civile mozambicana Centro de Integridade Publica (CIP) denunciava presunte pressioni che ENI avrebbe esercitato sul governo uscente d Filipe Nyusi per eliminare due clausole rilevanti per l’economia mozambicana dal contratto di sfruttamento del gas di Coral North FLNG: il versamento dell’imposta sulla produzione sotto forma di risorse naturali come il gas, anziché in denaro; il maggiore impiego di manodopera, beni e servizi locali per la realizzazione del progetto. Se il Cane a sei zampe ha respinto con forza queste accuse, sia la Confederazione delle associazioni economiche del Mozambico (CTA) che lo stesso governo Chapo ne hanno fatto terreno di scontro: segno che, se non di pressioni, si trattasse comunque di forti divergenze. Uno scontro da cui il CTA e il governo mozambicano sembrano uscire momentaneamente vittoriosi. LA QUESTIONE DEL FLARING Ci sono poi i potenziali impatti ambientali e climatici associati a Coral North FLNG. Dall’analisi dei dati pubblici e delle immagini satellitari esaminati da ReCommon e dai suoi consulenti a marzo 2025, il progetto gemello Coral South FLNG si è reso protagonista di numerosi fenomeni di flaring dall’inizio della sua attività nel 2022, non adeguatamente riportati da ENI. Il flaring consiste nella pratica di bruciare in torcia il gas in eccesso estratto insieme ad altri idrocarburi, che ha impatti rilevanti sul clima, l’ambiente e – in prossimità di centri abitati – sulle persone.  Durante l’assemblea degli azionisti del 14 maggio 2025, ENI ha affermato che nel periodo «dal 24 gennaio 2024 al 4 maggio 2025, sono avvenuti solo 9 episodi di riavvio dell’impianto (decisamente migliore rispetto al benchmark per impianti similari). In questi episodi è stata bruciata solo la quantità strettamente necessaria a garantire la sicurezza delle persone e degli impianti, come previsto progettualmente». Nove riavvii degli impianti non sono pochi, e non è chiaro quali siano i parametri utilizzati da ENI. Quello che è certo è che, secondo i dati della Banca Mondiale, nel 2024 Coral South FLNG ha bruciato in torcia 71 milioni di metri cubi di gas, che si traducono in 184.600 tonnellate di CO2e (anidrida carbonica equivalente). In generale, le emissioni totali associate all’intera catena del valore dei due progetti durante i previsti 25 anni di operatività sarebbero pari a 1 miliardo di tonnellate di CO2e, cioè più di tre volte le emissioni dell’Italia nel solo 2023.  Se Coral North FLNG è il progetto gemello di Coral South FLNG, ciò significa che replicherà anche gli episodi di flaring o saranno apportati interventi correttivi? I potenziali sponsor finanziari del progetto – agenzie di credito all’esportazione e banche commerciali – sono al corrente di questa situazione? La FID per Coral North FLNG è stata annunciata ufficialmente solo il 2 ottobre 2025. Tuttavia la costruzione delle componenti della piattaforma galleggiante procede spedita da mesi, anche senza uno schema finanziario di riferimento. Ciò significa che, rispetto a Coral South FLNG, ENI aumenterà la quota di capitale sborsata di tasca propria e cercherà meno soldi a debito sul mercato? Una mossa, questa, alquanto inusuale e che si porterebbe dietro potenziali rischi economico-finanziari. Il progressivo sfilarsi dal progetto di diverse banche europee che avevano invece finanziato Coral South FLNG, sicuramente non aiuta. L’INCOGNITA SACE Sul fronte italiano bisogna considerare anche un altro fattore. Se, come probabile, ENI richiedesse il supporto finanziario dell’assicuratore pubblico SACE, ci si troverebbe dinanzi a un potenziale conflitto di interessi, dal momento che le due società “condividono” un membro all’interno dei rispettivi consigli di amministrazione. Come si muoverà SACE, che ha appena passato un turbolento periodo di riassetto interno? Quali saranno le reazioni della politica e degli organi di controllo della contabilità pubblica? Di sicuro, per quanto la FID sia stata firmata, non risulta ancora alcun coinvolgimento diretto né di agenzie di credito all’esportazione né di banche commerciali. Ne consegue che il finanziamento vero e proprio dell’opera non avverrà prima di novembre 2025, a essere generosi. Solo una rigorosa due diligence sociale, ambientale ed economica può fare in modo che il gas fossile di ENI non arrivi di soppiatto a divorare l’ennesimo boccone del Mozambico.
Ci serve davvero il gas di Trump?
Il gas naturale liquefatto (GNL) è stato uno dei temi caldi dell’ultima campagna elettorale per le presidenziali statunitensi, dal momento che l’ex presidente Joe Biden aveva introdotto una moratoria sulle nuove approvazioni per la costruzione di terminal per l’export, mentre Donald Trump prometteva di promuovere una rapida espansione del settore. Sappiamo tutti come è andata a finire e anche come la complessa partita dei dazi, intavolata dall’inquilino della Casa Bianca, abbia compreso un passaggio molto rilevante sul GNL a stelle e strisce e sulla sua invasione dei mercati europei. Il governo Meloni, notoriamente molto amico dell’amministrazione Trump, non si è fatto trovare impreparato, potendo contare sull’entusiasta sostegno del campione nazionale. ENI, infatti, lo scorso luglio si è prodigata per firmare un contratto con la società americana Venture Global per l’acquisto di 2 milioni di tonnellate di gas l’anno per i prossimi 20 anni. Trump visita il terminal GNL di Cameron, 14 maggio, 2019 (Foto di Shealah Craighead, Official White House ), Pubblico Dominio. A partire dal 2022 l’Italia ha incrementato le proprie importazioni di GNL, utilizzando i terminali esistenti di Panigaglia, Adriatic LNG e OLT Toscana, e ampliando la capacità con l’entrata in funzione del nuovo FSRU di Piombino (maggio 2023) e, più recentemente, di Ravenna. Secondo ARERA, nel 2024 l’Italia ha importato circa 14,7 miliardi di metri cubi di GNL, pari a circa il 25 % delle importazioni complessive di gas. Le principali provenienze del GNL sono Qatar, Stati Uniti e Algeria, che insieme coprono circa il 95 % del totale. In questo contesto, le forniture statunitensi hanno assunto un ruolo crescente, fino a rappresentare oltre un terzo del GNL importato dall’Italia nel 2024. Prima di ENI, quindi, c’era già Snam, che gestisce gli impianti qui sopra citati ed agisce come ponte logistico e infrastrutturale che permette all’Italia di ricevere il GNL dagli USA. Non poteva mancare il sostegno finanziario a questo nuovo patto transatlantico basato sul gas: la più importante banca del nostro Paese, Intesa Sanpaolo, ha fiutato da qualche anno l’appetibilità economica del business del GNL, con finanziamenti e investimenti direttamente nelle principali compagnie sviluppatrici ed in mega terminal di esportazione. La banca ha sostenuto colossi come Cheniere Energy, Woodside, Venture Global e NextDecade, quest’ultima promotrice del terminal Rio Grande LNG in Texas, un progetto duramente criticato da comunità locali e ambientalisti per l’impatto su clima, salute e biodiversità. Ma tutto questo gas serve davvero? La capacità di esportazione di GNL esistente è già sufficiente per soddisfare la domanda futura con i terminali di esportazione in funzione. Con lo spropositato numero di proposte di espansione sul tavolo, gli esperti dell’Institute of Energy, Economics and Financial Analysis (IEEFA) prevedono un eccesso di offerta di GNL nei prossimi due anni, prima di quanto inizialmente stimato. IEEFA ritiene che i principali Paesi importatori di GNL ridurranno la domanda entro il 2030. Le importazioni di GNL in Europa sono diminuite del 20% dal 2021 e tre quarti dei terminal di importazione potrebbero essere inutilizzati entro il 2030. Ciò significa che gran parte delle infrastrutture rischierebbe di restare largamente sottoutilizzata. Eppure il ministro dell’Ambiente e della Sicurezza energetica Gilberto Pichetto Fratin ha recentemente firmato a Roma una dichiarazione congiunta con gli Stati Uniti per rafforzare la cooperazione energetica e incentivare l’import di GNL americano. Nell’accordo si parla esplicitamente di “favorire investimenti nelle infrastrutture di importazione e rigassificazione in Italia, nonché nelle infrastrutture di esportazione statunitensi”. Così facendo, il governo non solo ignora le analisi indipendenti sul rischio di forniture eccessive, ma espone il Paese a un doppio fallimento: da un lato l’aumento della dipendenza da combustibili fossili in contrasto con gli obiettivi climatici, dall’altro la possibilità concreta che le nuove infrastrutture diventino stranded assets, cioè investimenti inutilizzati che finiscono per gravare sui cittadini attraverso tariffe e sussidi. La gran parte dei terminal per l’esportazione di GNL, che negli Stati Uniti si sono moltiplicati rapidamente negli ultimi anni, sono concentrati nel Golfo del Messico, tra gli stati della Louisiana e del Texas, in zone che sono già state siti di industrie petrolchimiche e sono vulnerabili agli eventi estremi e che sono abitate prevalentemente da comunità afro-americane e a basso reddito. Delle sei mega infrastrutture già operative, 3 sono già in fase di ampliazione, altre 4 sono in costruzione, e nella regione sono state presentate oltre 20 proposte per nuovi terminal o espansioni di quelli presenti. Il ritorno di Trump, con la sua agenda pro-gas e pro-fossili, trasforma il GNL in un’arma geopolitica al servizio delle corporation industriali e finanziarie. Il governo della Meloni si accoda senza battere ciglio, firmando accordi con Washington proprio mentre la domanda europea crolla e gli analisti parlano apertamente di una bolla. Si ignorano i dati, si ignorano le comunità e si ignora la scienza, pur di rafforzare un sistema basato sui combustibili fossili che ci condanna a costi inutili e a infrastrutture destinate a restare vuote. E il prezzo non è solo finanziario: ogni nuovo terminale significa più emissioni climalteranti, più impatti devastanti sulle comunità locali e sugli ecosistemi già sotto pressione. Altro che sicurezza energetica: questa è una scommessa miope che rischia di lasciare solo macerie finanziarie, sociali ed ecologiche. Sei dei nuovi progetti sarebbero concentrati intorno ai due distretti di Calcasieu Parish e Cameron Parish. L’organizzazione statunitense RAN ha stimato che, fossero costruiti tutti, in un anno di operazioni potrebbero causare la morte prematura di 77 persone per la contaminazione locale prodotta. Aggraverebbero inoltre i danni alla salute per le persone residenti, la discriminazione ambientale, perdita delle economie locali, oltre a contribuire al cambio climatico. Preoccupazioni più che legittime, come conferma un grave incidente accaduto lo scorso agosto, presso il terminal Calcasieu Pass della Venture Global, il già menzionato partner del Cane a sei zampe. Durante un’operazione di dragaggio tonnellate di fanghi si sono riversati nei bayou, gli specchi d’acqua tipici dell’ecosistema del delta del fiume Mississippi, e nel lago Big Lake, danneggiando enormemente le attività di pesca, molto diffuse nell’area, con tossine sconosciute. Solo a inizio settembre, Venture Global e le autorità locali hanno ammesso che gli sversamenti avevano compromesso, tra le altre, le coltivazioni di ostriche.