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ReCommon - Contro le ingiustizie per natura

Clima, Greenpeace Italia e ReCommon: «Soddisfatti che Eni abbia cambiato idea, ora si entri subito nel merito della Giusta Causa»
ROMA, 31.07.25 – «Siamo soddisfatti nel constatare che ENI, a seguito del recente pronunciamento delle Sezioni Unite della Cassazione in fatto di cause climatiche, abbia improvvisamente cambiato idea sulla Giusta Causa. Il ricorso in Cassazione, che fino a pochi giorni fa ENI bollava come “una scelta effettuata per perseguire una campagna di disinformazione”, ora viene accolto in maniera positiva dalla stessa azienda». Così Greenpeace Italia e ReCommon commentano l’annuncio fatto da ENI di aver chiesto la riattivazione del giudizio nell’ambito del contenzioso climatico lanciato nei confronti dell’azienda dalle due organizzazioni e da 12 cittadine e cittadini nel maggio 2023. «Se l’azienda avesse voluto entrare davvero nel merito della causa fin da subito, avrebbe dovuto evitare di sollevare il “difetto assoluto di giurisdizione”, come invece ha fatto, costringendo Greenpeace Italia e ReCommon a chiedere un pronunciamento alla Corte suprema di Cassazione», ricordano le due organizzazioni. A differenza di ENI, Greenpeace Italia e ReCommon auspicano da sempre e con convinzione che si apra un dibattito nel merito. Per le due organizzazioni la Giusta Causa è infatti un’occasione storica per portare alla luce le responsabilità del colosso italiano del gas e del petrolio nel riscaldamento del pianeta e ottenere finalmente giustizia climatica per tutte le persone.
“L’idrogeno non è una soluzione, ma l’ennesimo piacere alle multinazionali come Snam”. Il nuovo rapporto di ReCommon critica con forza la strategia sull’idrogeno del governo italiano
Roma, 30 luglio 2025 – ReCommon lancia oggi la pubblicazione “La strategia sull’idrogeno è solo un favore a Snam?”, redatta con il supporto tecnico e analitico degli esponenti del mondo accademico Leonardo Setti e Federico De Robbio. Il rapporto dimostra come i due obiettivi della strategia sull’idrogeno dell’attuale governo, la decarbonizzazione e la sicurezza energetica, non possano essere raggiunti ma che le linee guida molto generiche del governo vadano quasi a esclusivo beneficio di Snam, una delle società capofila mondiali della costruzione e gestione delle reti di trasporto del gas. Per la multinazionale italiana l’idrogeno diventa un “utile strumento” per allungare la vita di vecchie infrastrutture per il gas e posare nuove tubazioni, così da alimentare il suo business as usual. Download La strategia sull'idrogeno è solo un favore a Snam? REPORT PDF | 994.19 KB scarica il report La Strategia Idrogeno ipotizza vari contesti futuri di diffusione dell’idrogeno nell’economia, con proiezioni fino al 2050, che cambiano in base a due variabili principali: la domanda nazionale e la composizione del mix dell’idrogeno disponibile sul mercato, tra produzione interna e importazioni. La prima può semplicemente essere più elevata o meno elevata. Il secondo è l’elemento dirimente per comprendere appieno la valenza della strategia governativa, perché basato su precise scelte politiche, tenendo sempre a mente che l’idrogeno può essere più o meno pulito, perché prodotto da rinnovabili (verde), gas (blu) o cattura e stoccaggio della CO2 (grigio). La “diffusione” è indicatore del rapporto tra domanda e offerta: ossia per “diffondersi” l’idrogeno ha bisogno di essere sia prodotto che domandato. Dalla ricerca emerge che qualora la produzione di idrogeno si dovesse concentrare nel nostro Paese, il solo impiego delle rinnovabili non basterebbe, come dimostrano le cifre. Per ottenere idrogeno verde puntando su fonti come idroelettrico, biomasse o geotermico, complessivamente 44,5 TWh di produzione annuale, si impiegherebbe infatti più energia di quanta se ne vorrebbe ottenere. Se invece per realizzare idrogeno verde si destinassero tutti gli oltre 58 TWh di energia da fotovoltaico ed eolico registrati in un anno in Italia, si produrrebbero solo 1,1 milioni di tonnellate di idrogeno verde in forma gassosa, o 0,9 milioni di tonnellate di idrogeno verde in forma liquida. Una quantità davvero bassa, che permetterebbe di coprire poco più della soglia minima di produzione interna dello scenario a penetrazione alta (0,7 milioni di tonnellate l’anno), utilizzando però l’intera capacità eolica e da fotovoltaico attualmente installata in Italia. Per dare sostenibilità a questo scenario, l’Italia dovrebbe raddoppiare dall’oggi al domani la sua capacità di produzione energetica da fonti rinnovabili e destinarla in toto alla produzione di idrogeno. Un’ipotesi irrealizzabile. È per questo che si ipotizza l’uso della cattura e dello stoccaggio della CO₂ per aumentare la produzione di idrogeno, che però non sarebbe più “verde” ma derivato dalla filiera fossile, aumentando quindi la dipendenza da petrolio e gas. Ma se l’idrogeno prodotto in Italia fosse grigio (da filiera fossile) invece che verde, le emissioni climalteranti potrebbero addirittura aumentare. Nel caso dello scenario “Base”, nell’ipotesi di una produzione di idrogeno principalmente grigio, le emissioni di CO₂ potrebbero aumentare di 26 milioni di tonnellate, ovvero +6,7% rispetto alle emissioni italiane attuali. Nello scenario ad “Alta” penetrazione di idrogeno, le emissioni di CO₂ equivalente potrebbero salire di ben 52 milioni di tonnellate, ovvero +13,3% rispetto alle emissioni italiane attuali. Passando allo scenario improntato sull’import, una delle assunzioni della strategia italiana è che produrre idrogeno nel Nord Africa, in particolare in Tunisia e Algeria, potrebbe risultare conveniente in quanto il costo di realizzazione in questi paesi sarebbe molto più basso che in Italia. Un’altra precondizione riguarda i vantaggi futuri, sempre in termini di riduzioni dei costi, che dovrebbero derivare dall’innovazione tecnologica degli elettrolizzatori. Peccato che la strategia non approfondisca nessuno di questi aspetti, né si preoccupi di fornire dati di riferimento, lasciandoci in questo limbo di fiducia cieca per le strutture di potere esistenti, il mercato e l’innovazione tecnologica. E senza contare i diversi costi nascosti che la strategia tralascia. Per esempio quelli del trasporto di idrogeno su lunga distanza, che necessita di tre volte l’energia necessaria a trasportare gas. Nello specifico, servirebbero almeno 20TWh di potenza rinnovabile dedicata solamente per il trasporto e la distribuzione dell’idrogeno importato dal Nord Africa. L’ipotesi di importare 0,7 milioni di tonnellate di idrogeno verde, come previsto nello scenario di “diffusione base” della strategia, significherebbe usare 20TWh per ricavare l’equivalente di 19TWh di energia elettrica utile. Un paradosso di inefficienza, ancora di più se parliamo di energia rinnovabile che potrebbe essere utilizzata direttamente sia in Italia che in Tunisia e Algeria, garantendo maggiori benefici alla popolazione residente e al tessuto produttivo locale. Eppure l’ipotesi di importare l’idrogeno verde dalla Tunisia è tra quelle con maggiore sostegno politico, proprio perché strettamente collegata alla costruzione del SouthH2Corridor, progetto cardine sia del Piano Mattei che della EU Global Gateway, il gran plan infrastrutturale della Commissione europea, oltre che del piano decennale di sviluppo delle infrastrutture di Snam. «La strategia italiana sull’idrogeno va in due possibili direzioni, entrambe sbagliate» ha dichiarato Elena Gerebizza, autrice del rapporto. «In un caso punta forte su una falsa soluzione fallimentare e dispendiosa come il CCS, nell’altro ‘abbraccia’ la continuazione di un modello coloniale in chiave green che avrebbe ripercussioni negative in particolare per la Tunisia. Comunque vada, a beneficiare delle vaghe e immaginifiche linee guida del governo è la Snam, multinazionale che sta contribuendo a perpetuare un sistema fossile con tutte le ingiustizie sociali, ecologiche e climatiche che lo hanno fino ad oggi caratterizzato, facendosi scudo dietro narrazioni sulla sostenibilità radicate in soluzioni insostenibili e fallimentari come l’idrogeno» ha concluso Gerebizza.
Perché abbiamo definito storica la sentenza della Cassazione?
CE LO SPIEGA MATTEO CERUTI, AVVOCATO DELLA GIUSTA CAUSA Matteo Ceruti è l’avvocato di ReCommon per la “Giusta Causa”. Può vantare un’esperienza ormai trentennale, in particolare in materia di diritto ambientale. Nel corso del tempo ha seguito importanti cause ambientali come quelle relative al petrolchimico di Porto Marghera, alla centrale Enel di Porto Tolle, all’estrazione di gas in Alto Adriatico e all’impianto a carbone delle Tirreno Power di Vado Ligure. Fin da subito ha accolto la sfida di portare avanti una causa climatica in Italia, in particolare contro la più importante multinazionale fossile del nostro Paese, ENI. Abbiamo avuto modo di incontrarlo a Roma dopo la fondamentale ordinanza della Corte di Cassazione proprio sulla Giusta Causa. Perché questo passaggio presso la Corte di Cassazione è così importante? L’aver superato il vaglio del difetto di giurisdizione fa sì che la Giusta Causa sia la più importante causa in materia climatica avviata in Italia. Siamo stati ambiziosi, abbiamo proposto un regolamento per difetto di giurisdizione interrogando le Sezioni Unite della Cassazione affinché dirimessero la questione se in materia di cause climatiche strategiche in Italia c’è un giudice. La nostra causa è analoga a quella promossa dalle Klima Seniorinnen in Svizzera, a cui la Corte europea dei diritti dell’uomo ha dato ragione nell’aprile del 2024, stabilendo che alla giurisdizione spetta un sindacato sulle decisioni politiche. In quel caso un gruppo di donne anziane aveva intentato una causa contro la Svizzera, sostenendo che la mancata adozione di misure efficaci per il clima viola i loro diritti fondamentali, come il diritto alla vita e alla salute, sanciti dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, in particolare all’articolo 8. La Cassazione si è inserita in questo filone importante della giurisprudenza europea internazionale, che comprende anche il caso Urgenda presso la Corte Suprema olandese del 2020 e quello del Tribunale Costituzionale tedesco del 2021. Ribadisco, è di fondamentale importanza che ora anche la Cassazione italiana sancisca un controllo giurisdizionale in materia di clima. L’avvocato Matteo Ceruti. Foto ©Carlo Dojmi di Delupis/ReCommon Quindi se la Cassazione avesse dato torto a Greenpeace Italia e ReCommon ci sarebbe stata una sorta di anomalia tutta italiana. Sì e di sicuro ci sarebbe stato davvero poco spazio per la giustizia climatica in Italia. Saremmo stati la nota stonata rispetto al panorama giurisprudenziale europeo, soprattutto in relazione alla sentenza della CEDU. Sulla scorta della tua esperienza professionale, proviamo a fare un bilancio dell’evoluzione del diritto ambientale in Italia negli ultimi decenni? Indiscutibilmente sono stati compiuti dei progressi rilevanti in termini di normativa ambientale, vedi la legge sugli eco reati del 2015, che ha introdotto la fattispecie del disastro ambientale e dell’inquinamento ambientale. Altri passi avanti si devono al recepimento di normative europee, per esempio in materia di valutazioni di impatto ambientale. La nuova frontiera del diritto ambientale è proprio quella del contenzioso climatico, materia su cui la normativa italiana è immobile, perché manca una legge sul clima, cosa che rappresenta una lacuna enorme del nostro sistema giuridico. La sentenza della Cassazione può essere uno stimolo nei confronti del legislatore, spero. Passando invece ai casi di inquinamento ambientale, tu hai seguito il processo sui PFAS in Veneto, anche quella una grande vittoria. La vicenda dei PFAS è uno dei più grandi inquinamenti idrici della storia. L’area contaminata vede la presenza di 350mila residenti perché la contaminazione da parte della fabbrica della Miteni ha contaminato la seconda falda idrica più grande d’Europa, che si trova nella provincia di Vicenza ma interessa anche le province di Verona e Padova. L’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro ha dichiarato i PFAS sicuramente cancerogeni e purtroppo una grande quantità di persone è stata contaminata nel corso degli anni. La sostanza è presente nel sangue, ma poi si diffonde in altri organi. Insieme ad alcuni miei colleghi, siamo stati incaricati da circa 150 residenti, che fanno capo al gruppo delle “Mamme No PFAS”, di procedere con la costituzione di parte civile. Dopo 4 anni e circa 140 udienze, il processo di primo grado si è concluso con la condanna di 14 manager e amministratori della Miteni e delle società controllanti, tra cui la giapponese Mitsubishi. Le condanne sono pesanti perché i reati contestati sono davvero rilevanti: avvelenamento delle acque destinate a consumo umano e disastro ambientale.  
La causa contro Trump per il supporto alla “bomba” Mozambique LNG. Il ruolo dell’Italia.
Articolo pubblicato su Altreconomia, 22 luglio 2025 Diverse organizzazioni internazionali hanno promosso un ricorso negli Usa contro l’amministrazione statunitense per aver concesso garanzie da 4,7 miliardi di dollari al contestato progetto fossile della multinazionale TotalEnergies, coinvolta nella vicenda del “massacro dei container”. Anche l’Italia ha un ruolo chiave nel supporto pubblico del sito estrattivo di gas con SACE e Cassa depositi e prestiti. Le organizzazioni Friends of the Earth Stati Uniti e Justiça Ambiental/Friends of the Earth Mozambico, rappresentate da EarthRights International, il 15 luglio scorso hanno intentato dinanzi al tribunale federale per il Distretto di Columbia, Washington D.C., una causa per contestare l’illegittima approvazione da parte dell’agenzia di credito all’esportazione statunitense Export-Import Bank (Exim) di un finanziamento di 4,7 miliardi di dollari per il progetto Mozambique LNG, in capo alla multinazionale francese TotalEnergies. Il progetto ha causato lo sfollamento di migliaia di persone dalla penisola di Afungi, a Cabo Delgado, nel Nord del Paese africano, ed è stato teatro di presunte violazioni dei diritti umani, consumatesi in un contesto segnato da un ormai annoso conflitto che causato più di 4mila vittime, e avrà gravi ripercussioni sull’ambiente e il clima. Eppure, come si legge nel ricorso, Exim ha confermato in fretta e furia lo stanziamento della somma senza condurre le necessarie analisi socio-ambientali né la valutazione economica, così come non c’è stato nessun controllo da parte del Congresso degli Stati Uniti. L’agenzia di credito Usa non ha poi rispettato la sua stessa carta fondante e le leggi federali, creando così un pericoloso precedente per le decisioni future. Nel febbraio 2025 il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha nominato il consiglio di amministrazione di Exim senza il consenso del Senato. Solo poche settimane dopo, a marzo, il Cda “ad interim” dell’agenzia, costituito in modo improprio, ha annunciato l’approvazione finale dell’ingente prestito, in fase di stand-by dal 2021. Lo ha fatto nonostante il conflitto armato in corso e la connessa crisi umanitaria, e a dispetto del fatto che TotalEnergies avesse invocato la forza maggiore più di quattro anni fa, interrompendo le operazioni di costruzione del mega-progetto. L’impianto per l’estrazione e la liquefazione di gas della multinazionale francese è stato oggetto di un’inchiesta giornalistica pubblicata a settembre del 2024 da Politico, in cui è emerso che tra giugno e luglio del 2021 un gruppo di militari dell’esercito mozambicano -all’epoca supportato finanziariamente e materialmente da TotalEnergies- avrebbe commesso violenze configurabili come crimini di guerra proprio mentre difendeva il sito di Mozambique LNG: è il cossiddetto “massacro dei container”. Nell’indagine giornalistica si evidenziava come TotalEnergies potesse essere a conoscenza di questi possibili crimini di guerra e, secondo un’inchiesta pubblicata successivamente da Le Monde e Source Material, fosse anche a conoscenza della condotta violenta dell’esercito mozambicano nei confronti della popolazione civile ben prima dei fatti di giugno e luglio 2021, grazie ad alcuni documenti ottenuti da ReCommon tramite una richiesta di accesso agli atti rivolta a Cassa depositi e prestiti. I lavori per la costruzione del progetto sono stati interrotti per causa di forza maggiore ad aprile 2021 e sono tuttora inattivi. Proprio per fare luce sulle violazioni dei diritti umani configurabili come potenziali crimini di guerra, il 17 luglio 2025 i capi locali -leader tradizionali- di Palma, Cabo Delgado e di 15 villaggi circostanti, con il supporto di 66 organizzazioni internazionali tra cui ReCommon, hanno formalmente richiesto all’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani (Ohchr) di avviare un’indagine indipendente su quanto accaduto tra giugno e luglio del 2021 in prossimità del sito di Mozambique LNG. In merito all’accennato coinvolgimento italiano, vale la pena ricordare che lo scorso gennaio, in risposta all’interpellanza urgente sulla questione presentata dal deputato Angelo Bonelli e firmata da altri nove deputate e deputati di Alleanza verdi e sinistra, il Governo Meloni aveva confermato che l’agenzia di credito all’esportazione italiana SACE e Cassa depositi e prestiti (Cdp), due istituzioni finanziarie dello Stato, sosterranno finanziariamente Mozambique LNG. Una decisione presa nel silenzio più totale già a gennaio del 2024, senza aver svolto ulteriori valutazioni di natura ambientale e, soprattutto, sociale, dopo quelle del giugno 2017. I punti in comune con il caso di Exim sono tanti ma in questo caso è stata l’Italia a fare da apripista, gettando le basi per un soccorso “da destra” a TotalEnergies. Ecco dunque i frutti della “relazione privilegiata” tra la presidente del Consiglio Giorgia Meloni e Donald Trump: finanziamenti a bombe sociali e climatiche, maggiore import di gas liquefatto in sprezzo alla povertà economica ed energetica di milioni di cittadini italiani, aumento della spesa a favore degli armamenti e tagli al welfare. Luca Manes, ReCommon
Storica vittoria per il clima, le Sezioni Unite della Cassazione danno ragione a Greenpeace Italia, ReCommon e dodici cittadini contro ENI: «Da oggi in Italia è finalmente possibile ottenere giustizia climatica»
ROMA, 22.07.25 – Con una fondamentale decisione pubblicata nel pomeriggio di ieri, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, riunitesi lo scorso 18 febbraio, hanno dato ragione a Greenpeace Italia, ReCommon e 12 cittadine e cittadini che nei mesi scorsi avevano fatto ricorso alla Suprema Corte, chiedendo se in Italia fosse possibile o meno avere giustizia climatica. Download Ordinanza della Cassazione REPORT PDF | 207.47 KB Scarica il verdetto «Questa sentenza storica dice chiaramente che anche in Italia si può avere giustizia climatica», commentano Greenpeace Italia e ReCommon. «Nessuno, nemmeno un colosso come ENI, può più sottrarsi alle proprie responsabilità. I giudici potranno finalmente esaminare il merito della nostra causa: chi inquina e contribuisce alla crisi climatica deve rispondere delle proprie azioni». L’importantissimo verdetto avrà infatti impatto su tutte le cause climatiche in corso o future in Italia, rafforzando la protezione dei diritti umani legati alla crisi climatica, già riconosciuti dalla Corte Europea dei Diritti Umani (CEDU). Non solo potrà essere decisa nel merito la causa contro ENI, Cassa Depositi e Prestiti S.p.A. (CDP) e Ministero dell’Economia e delle Finanze (MEF), avviata da Greenpeace Italia, ReCommon e 12 cittadine e cittadini davanti al Tribunale di Roma perché sia imposto alla società di rispettare l’Accordo di Parigi, ma la decisione indica la strada per tutte le future azioni giudiziarie nel nostro Paese. Questa pronuncia si inserisce nel quadro delle più importanti decisioni giudiziarie europee ed internazionali di climate change litigation. Nel maggio 2023, Greenpeace Italia, ReCommon e i 12 cittadine e cittadini italiani avevano presentato una causa civile nei confronti di ENI, di CDP e del MEF – questi ultimi due enti in qualità di azionisti che esercitano un’influenza dominante su ENI – per i danni subiti e futuri, in sede patrimoniale e non, derivanti dai cambiamenti climatici a cui il colosso italiano del gas e del petrolio ha significativamente contribuito con la sua condotta negli ultimi decenni, pur essendone pienamente consapevole. ENI, CDP e MEF avevano eccepito “il difetto assoluto di giurisdizione del giudice ordinario adito”, ritenendo che nel nostro Paese una causa climatica non fosse procedibile. Greenpeace Italia, ReCommon e le cittadine e cittadini che hanno promosso la “Giusta Causa” hanno dunque fatto ricorso per regolamento di giurisdizione alla Suprema Corte, a cui hanno chiesto un pronunciamento in via definitiva. Il verdetto delle Sezioni Unite della Cassazione, pubblicato nel pomeriggio di ieri, ha infine dato ragione a cittadine, cittadini e organizzazioni. Il responso della Suprema Corte sancisce senza ombra di dubbio che i giudici italiani si possono pronunciare sui danni derivanti dal cambiamento climatico sulla scorta tanto della normativa nazionale, quanto delle normative sovranazionali e che, dunque, le cause climatiche nel nostro Paese sono lecite e ammissibili anche in termini di condanna delle aziende fossili a limitare i volumi delle emissioni climalteranti in atmosfera. La Cassazione ribadisce anche che un contenzioso climatico come quello intentato da Greenpeace Italia e ReCommon non è affatto un’invasione nelle competenze politiche del legislatore o delle aziende, quali Eni. La tutela dei diritti umani fondamentali di cittadine e cittadini minacciati dall’emergenza climatica è superiore a ogni altra prerogativa e da oggi sarà possibile avere giustizia climatica anche nei tribunali italiani. Inoltre le Sezioni Unite chiariscono che i giudici italiani sono competenti anche in relazione alle emissioni climalteranti emesse dalle società di ENI presenti in Stati esteri, sia perché i danni sono stati provocati in Italia, sia perché le decisioni strategiche sono state assunte dalla società capogruppo che ha sede in Italia. A questo punto il giudice a cui è stato assegnato il contenzioso climatico lanciato nel 2023 da Greenpeace Italia, ReCommon e 12 cittadine e cittadini italiani dovrà entrare nel merito dei danni che ENI ha contribuito ad arrecare agli attori ricorrenti, ma non c’è più alcun dubbio sul diritto ad agire per la tutela dei loro diritti di fronte a un giudice italiano quando gli effetti del cambiamento climatico si verifichino in Italia e quando le decisioni che hanno contribuito al cambiamento climatico siano state prese in Italia. Grazie alla presente azione e alla decisione della Suprema Corte a Sezioni Unite l’Italia si allinea agli altri paesi più evoluti in cui il clima e i diritti umani trovano una tutela giurisdizionale. Greenpeace Italia e ReCommon attendono ora che il giudice ordinario a cui spetta tornare a decidere su “La Giusta Causa”  superi ogni altra eccezione preliminare ed entri finalmente nel merito, come già avvenuto nei tribunali dei più importanti paesi europei. Le due organizzazioni e i 12 cittadine e cittadini chiedono che la giustizia faccia il suo corso, come già avviene nei più avanzati ordinamenti giuridici europei.
SACE “Vogliamo lavorare in pace!”
Per un’istituzione che non era mai stata “colpita” da scioperi nella sua storia, doverne registrare ben due nello spazio di poco più di un mese è quanto meno significativo. È successo alla SACE, l’assicuratore di Stato controllato dal ministero dell’Economia e delle Finanze (MEF). Venerdì 27 giugno, più di 30 lavoratrici e lavoratori di SACE in sciopero si sono dati appuntamento in via XX Settembre, sede del MEF, per un presidio rumoroso e colorato, a fare da contraltare al contenuto grave delle denunce rivolte al top management di quella che, in questo momento, è l’agenzia pubblica più importante in Italia. Denunce riportate negli stessi cartelli branditi verso il cielo della canicola romana: “SACE, vogliamo lavorare in pace”; “Rispetto degli accordi, basta violazioni”; “SACE: più trasparenza, meno propaganda”. ReCommon era presente per esprimere solidarietà alle lavoratrici e ai lavoratori, perché la connessione tra il nostro lavoro e le motivazioni che gli hanno spinti a scioperare è più forte di quanto si possa immaginare. Manifestanti di fronte al MEF – 27 giugno 2025 L’operatività di SACE è portata avanti per lo più attraverso le “classiche” garanzie sui prestiti e, più recente, con il programma Push Strategy, che permette a SACE di garantire finanziamenti a controparti estere che si impegnano ad aumentare gli acquisti di beni e servizi dall’Italia. Tuttavia al momento non si riscontra alcun ritorno certo per l’economia italiana, anzi. Già un mese fa il quotidiano La Verità lasciava intendere che alcune operazioni fossero già andate in default. Come riportato da Domani e Il Manifesto in occasione dello sciopero del 22 maggio scorso, la Push Strategy è allo stesso tempo punta dell’iceberg ed elemento tangibile delle gravi vicende che stanno accadendo dentro SACE. Poco più di un mese fa, infatti, Fisac CGIL e First CISL hanno indetto il primo sciopero di sempre per le e i dipendenti dell’assicuratore pubblico. Alla base c’è anche quello che i sindacati chiamano “problema della autonomia delle funzioni di controllo interno”, nonché di un’approssimazione degli stessi controlli interni che viene presentata come semplificazione: con lavoratori e lavoratrici costantemente sotto pressione, senza un organigramma chiaro o che accorpa ai vertici funzioni cardine, la due diligence sulle operazioni viene meno. Un problema, quest’ultimo, che ReCommon denuncia da anni. Nel 2023 era pronta un’operazione di Push Strategy in favore di Petroperù, società petrolifera peruviana costantemente sull’orlo del default, poi ritrattata solo grazie alla pressione esercitata da varie organizzazioni della società civile italiana e internazionale, nonché dalle comunità impattate dall’operato di Petroperù. Un esemplificativo di una vigilanza economica, sociale e ambientale scarsa. Tra le operazioni garantite da SACE – in questo caso non afferente al programma Push Strategy – dove rileva una scarsa due diligence, c’è il progetto di estrazione e liquefazione di gas Mozambique LNG di TotalEnergies in Mozambico, su cui aleggia la pesante ombra di crimini di guerra, trovandosi per di più in una zona di conflitto armato attivo. Si è venuto a sapere di recente che SACE ha confermato la sua partecipazione finanziaria al progetto nel più totale silenzio già a gennaio del 2024, e senza aver condotto ulteriori valutazioni rispetto a quelle del 2017. Inoltre, secondo un’inchiesta condotta da Le Monde e SourceMaterial, molte istituzioni finanziarie – tra cui SACE – erano a conoscenza della condotta violenta dell’esercito mozambicano ben prima dei fatti ascrivibili come potenziali crimini di guerra. Per tutti questi casi, non stiamo parlando quindi solo di rischi ambientali e sociali, ma anche di credito. SACE espone quindi le casse pubbliche italiane al rischio di sborsare centinaia di milioni di euro in un periodo storico dove le crisi economiche si susseguono, e questi soldi potrebbero essere impiegati per attività a favore della collettività, e non per quelle a favore degli interessi delle multinazionali, che si traducono in profitti miliardari. Un vero e proprio gioco d’azzardo con soldi pubblici, motivo per cui è quanto mai necessario che le forze politiche presenti in Parlamento puntino i riflettori su SACE e istituiscano una Commissione parlamentare di vigilanza sull’agenzia, nonché chiedano l’implementazione di una consultazione pubblica per arrivare a una seria politica sul clima e l’ambiente, e per aumentare gli standard di trasparenza dell’ente.
L’ombra del gas sulla Sardegna
di Paola Matova – ReCommon Con una sentenza definitiva emessa lo scorso maggio, il Consiglio di Stato ha messo la parola fine al ricorso della Regione Sardegna contro il cosiddetto “DPCM Draghi” del 2022. Ovvero il decreto del Presidente del Consiglio, in sé un atto amministrativo, che aveva come scopo quello di individuare le infrastrutture necessarie per la sicurezza energetica e per il superamento del carbone sull’isola. La Regione Sardegna aveva presentato un ricorso contro il decreto, lamentando l’assenza di un vero confronto con il territorio e chiedendo maggiori garanzie su perequazione tariffaria e centralità nelle scelte energetiche. Tuttavia, I giudici hanno stabilito che non serve alcun accordo con le Regioni per decidere opere di questo tipo, persino quando impattano direttamente sul territorio e sulle comunità locali. Un pronunciamento atteso oramai da tempo, che sblocca formalmente l’iter per un nuovo DPCM, ma che di fatto conferma una linea politica ed energetica che ha ben poco a che vedere con la decarbonizzazione.   La nuova bozza in circolazione non mostra alcun cambio di rotta: sparisce solo una delle tre navi rigassificatrici previste (quella di Portovesme), mentre restano intatti gli altri impianti: una FSRU a Porto Torres, un’altra a Oristano e la cosiddetta “mini dorsale”, una rete di metanodotti che collegherebbe Oristano con il Sulcis. A gestire tutto sarà Snam, con pieni poteri su progettazione, realizzazione e gestione delle opere. Durante l’assemblea degli azionisti a maggio Snam ha dichiarato apertamente di non essere promotrice della metanizzazione in Sardegna, ma semplice esecutrice su richiesta di governo, Regione e industrie. Una presa di distanza che suona tanto come una clausola di non responsabilità. Un atteggiamento che appare ancora più problematico se si considera che l’azienda trae profitti garantiti grazie al meccanismo del “ricavo remunerato” sugli investimenti nelle infrastrutture, che gli assicura guadagni anche se l’infrastruttura dovesse rivelarsi inutile.  Centrale di Fiume Santo, Sardegna, 2020. Foto ©Carlo Dojmi di Delupis/ReCommon Il tassello mancante per ricostruire la fotografia attuale è Fiume Santo. Al centro del piano gas nel nord Sardegna c’è la centrale di Fiume Santo a Porto Torres, impianto a carbone oggi attivo solo al 50% della propria capacità, di proprietà di EP Produzione, società del gruppo EPH controllato dall’oligarca ceco Daniel Křetínský. Già nel 2021 EP aveva proposto la riconversione a gas della centrale, poi messa in stand-by con lo scoppio della crisi energetica e costi elevatissimi del gas. Oggi il progetto è tornato in pista ed è stata riaperta la valutazione d’impatto ambientale. Qui emerge la grande contraddizione: si parla di rigassificatori e gasdotti prima ancora di sapere se e quando la centrale verrà riconvertita. Se Fiume Santo non diventerà una centrale a gas, l’intera infrastruttura a nord dell’isola rischia di restare un’opera vuota e doppiamente insensata.   Le motivazioni avanzate per giustificare la costruzione di queste infrastrutture, ovvero la sicurezza energetica, l’indipendenza dal gas estero e il rilancio dell’industria sarda, non reggono. La centrale di Fiume Santo, per esempio, non è nemmeno considerata strategica dal piano europeo RepowerEU per la sicurezza energetica, mentre l’Italia dispone già di una sovrabbondante capacità installata a gas e continua paradossalmente a investirci nonostante la domanda nazionale sia in costante calo. Il ricavo remunerato è il guadagno che un operatore come Snam ottiene dalle sue attività regolamentate, come il trasporto, lo stoccaggio e la rigassificazione del gas. Questo ricavo viene stabilito dall’autorità di regolazione, che in Italia è denominata ARERA, e serve a coprire i costi operativi degli investimenti e a garantire rendimento.  Non a caso, Snam ha chiaramente ammesso di non aver mai prodotto una propria stima sulla domanda di gas in Sardegna. Si è limitata a citare vecchi e oramai obsoleti studi della società di consulenza RSE, che già nel 2022 prediligevano l’elettrificazione dell’isola piuttosto che il gas. Snam si defila, ma in ogni caso incassa e nessuno ci sa dire a cosa servirà quel gas. In questo contesto, approvare oggi nuove infrastrutture fossili in Sardegna significa incatenare l’isola a una dipendenza strutturale dal gas, proprio mentre il mercato globale, guidato anche da dinamiche geopolitiche come la politica energetica degli Stati Uniti guidata dal presidente Trump, si fa sempre più instabile. Altro che indipendenza e autonomia, si rischia di consegnare la Sardegna a una vulnerabilità energetica ancora maggiore, basata su importazioni di GNL la cui filiera è inquinante costosa e incerta. I costi non saranno solo economici, ma anche sociali e ambientali.
Neve e ghiaccio spariscono per la crisi climatica, ma ENI sponsorizza Milano-Cortina 2026
Utilizzando il legame scientifico consolidato tra emissioni di gas serra e aumento della perdita di neve e ghiaccio, il nuovo rapporto di New Weather Sweden e della campagna Badvertising calcola che la produzione di combustibili fossili di ENI comporta la perdita annuale di quasi 1.000 km² di neve e lo scioglimento di 6,2 miliardi di tonnellate di ghiaccio glaciale. È il dato principale che emerge dal rapporto “Melting The Winter Olympics”, realizzato utilizzando il legame scientifico consolidato tra emissioni di gas serra e aumento della perdita di neve e ghiaccio. Immagine dalla copertina del report “Melting the winter olympics” La perdita di neve sta accelerando a causa del cambiamento climatico. Dal 1970, la copertura nevosa nel mese di maggio nell’emisfero settentrionale è scesa da 21,4 milioni a 16,5 milioni di km² – una perdita netta di 4,8 milioni di km², equivalente all’area dell’India. I ghiacciai nel mondo hanno perso oltre 8.000 gigatonnellate di ghiaccio dal 1976, contribuendo all’innalzamento del livello del mare e a eventi meteorologici estremi. Il rapporto sostiene che la grande entità della perdita di neve e ghiaccio legata alla produzione fossile di ENI, e le ulteriori emissioni derivanti dalla promozione e dal greenwashing come sponsor olimpico, rendano l’accordo autolesionistico e una minaccia diretta per il movimento olimpico invernale. La ricerca mostra inoltre che, per ogni euro speso in sponsorizzazione, le “emissioni sponsorizzate” di Eni ammontano a 63,5 kg di CO₂e. Ciò significa che un tipico accordo di sponsorizzazione olimpica da 15 milioni di euro potrebbe generare quasi un milione di tonnellate di emissioni — equivalente alla combustione di oltre 2 milioni di barili di petrolio. Gli attivisti climatici hanno criticato il Comitato Olimpico Internazionale (CIO) per aver accettato il colosso italiano ENI come “Premium Partner” delle Olimpiadi Invernali Milano Cortina 2026, paragonandolo a “Big Tobacco che sponsorizza un vertice sulla salute”. Si stima che il contratto di sponsorizzazione ammonti a non meno di 15 milioni di euro. Gli stessi attivisti invitano il CIO a imparare dal passato e dalla propria storia, adottando quindi misure analoghe a quando furono vietate le sponsorizzazioni da parte dell’industria del tabacco. Nel 1988, a seguito di crescenti prove dei danni alla salute pubblica, il Comitato Olimpico Canadese pose fine la pubblicità del tabacco ai Giochi Invernali di Calgary. Con la scienza che oggi dimostra chiaramente i danni dei combustibili fossili sia per la salute umana che per il clima, gli attivisti chiedono al CIO di mostrare la stessa chiarezza morale.
Perché gli istituti finanziari dovrebbero lasciar perdere il progetto Coral North FLNG di ENI
Aggiornamento da ReCommon e Justiça Ambiental! 30 maggio 2025 La multinazionale italiana ENI aveva annunciato già a gennaio di essere pronta per la Decisione Finale di Investimento per il suo progetto Coral North FLNG, mentre adesso afferma che sta ancora negoziando con le banche private per il finanziamento e sembra attribuire la responsabilità del ritardo alle autorità mozambicane. Nel frattempo, la compagnia di Stato coreana KOGAS è stata denunciata per i suoi investimenti nel progetto e quattro banche private hanno già escluso nuovi finanziamenti. Coral North FLNG, una piattaforma galleggiante progettata per l’estrazione e la liquefazione del gas al largo delle coste del Mozambico, è ancora alla ricerca di finanziatori. Sebbene Eni abbia dichiarato a gennaio 2025 di essere pronta per la Decisione Finale di Investimento sul progetto, a metà maggio, nel contesto della sua assemblea generale annuale, ha ammesso che non c’è ancora un piano per finanziarlo, dichiarando che “sono in corso trattative con istituzioni finanziarie private”. Alla domanda sui motivi del ritardo nella conclusione dell’accordo, ENI ha risposto solo che il piano di sviluppo è stato approvato dalle autorità mozambicane ad aprile 2025, suggerendo così che la responsabilità fosse loro. ENI è anche a capo di Coral South FLNG, l’unico progetto operativo nel bacino di Rovuma, in Mozambico. Si tratta di una piattaforma galleggiante ancorata in acque profonde che esporta GNL dal novembre 2022. Il nuovo Coral North FLNG sarebbe una replica, un impianto di estrazione di gas dalle riserve che si trovano sotto il fondale marino a soli 10 chilometri di distanza dal primo, con gravi impatti sull’ecologia della zona. In risposta alle domande dell’assemblea generale annuale, ENI ha anche confermato che “si prevede di finanziare una parte dei fabbisogni di progetto tramite debito” e con “il supporto di alcune ECAs (Export Credit Agencies)” come già fatto per Coral South FLNG. Tuttavia, diversi attori finanziari privati si stanno ritirando dal settore dell’upstream non convenzionale di gas e petrolio in vista degli obiettivi di zero emissioni entro il 2050. Almeno quattro delle banche che hanno sostenuto il primo progetto – BNP Paribas, Credit Agricole, UniCredit e ABN Amro – affermano oggi di non essere interessate a finanziare la replica perché non è più in linea con la loro policy aggiornata in materia di cambiamenti climatici. A poco più di tre anni dall’arrivo di Coral South FLNG nella regione di Cabo Delgado, la gigantesca piattaforma ha registrato numerosi casi di flaring, ovvero la combustione del gas estratto in eccesso, che comporta significative emissioni di carbonio. Essendo una replica, Coral North sarebbe probabilmente soggetta a problemi simili. Un’indagine di ReCommon pubblicata ad aprile ha rivelato che le emissioni totali di Coral South sono state sette volte superiori a quelle dichiarate nella valutazione di impatto ambientale del progetto. Solo tra giugno e dicembre 2022, le emissioni di flaring di Coral South hanno rappresentato l’11,2% delle emissioni annuali dell’intero Mozambico, con un aumento dell’11,68% rispetto al 2021. Estrarre gas nel bacino di Rovuma significa inoltre ignorare i risultati dell’International Institute for Sustainable Development (IISD), secondo cui lo sviluppo di ulteriori infrastrutture per il gas è incompatibile con l’obiettivo di limitare il riscaldamento globale a 1,5 °C. Anche l’analisi dell’International Energy Agency rivela che, in uno scenario in cui si limita l’aumento di temperatura a 1,5 °C, l’attuale capacità di esportazione di GNL sarebbe già sufficiente a soddisfare la domanda attuale e futura. Con il calo della domanda di gas a livello mondiale, costruire Coral North FLNG comporterebbe anche un elevato rischio finanziario, per questo l’organizzazione della società civile sudcoreana Solutions for Our Climate (SFOC) sta cercando di fermare gli investimenti statali nel progetto. A febbraio infatti, la Korean Gas Corporation (KOGAS) ha annunciato la decisione di sostenere Coral North con 562 milioni di dollari attraverso una partecipazione azionaria e un prestito alla sua controllata KG Mozambique. A marzo, SFOC ha fatto causa a KOGAS, sostenendo che l’investimento è economicamente rischioso per la Corea del Sud e che il progetto contribuirebbe in modo significativo agli effetti dei cambiamenti climatici, violando quindi il diritto delle generazioni future a un ambiente sano. Tra il 2008 e l’aprile 2024, KOGAS aveva già investito circa 1 miliardo di dollari nello sviluppo del gas in Mozambico, e si è rifiutata di divulgare lo studio di fattibilità preliminare (PFS) per Coral North. SFOC ha avviato una causa contro KOGAS anche per ottenere la divulgazione del PFS. Nel bacino di Rovuma sono inoltre presenti altri due progetti che prevedono impianti onshore significativamente più grandi per la lavorazione del gas estratto da pozzi situati a circa 50 km al largo della costa: sono Mozambique LNG e Rovuma LNG. L’impatto ambientale dei quattro progetti nel loro complesso, considerato per l’intero periodo di attività, potrebbe essere devastante per il bacino di Rovuma e per l’Oceano Indiano occidentale. La valutazione di impatto ambientale per il progetto Coral North è stata criticata da diverse ONG per non aver soddisfatto gli standard legali e scientifici nella valutazione dei rischi ambientali e climatici. Il progetto Mozambique LNG, guidato dal gigante fossile francese TotalEnergies, resta sotto osservazione internazionale. Il progetto è stato fermato per ragioni di force majeure nell’aprile 2021, a seguito di un violento attacco armato. È ora sotto indagine per accuse di un massacro di civili che sarebbe stato commesso a metà del 2021 dalle forze di sicurezza pubblica vicino all’area del progetto, nella penisola di Afungi. Mozambique LNG condivide i diritti di utilizzo del suolo e alcune infrastrutture con il progetto Rovuma LNG, guidato da ExxonMobil, con ENI e China National Petroleum Corporation come partner principali. Anche questo progetto non ha ancora raggiunto una Decisione Finale di Investimento. La produzione di GNL in Mozambico suscita anche gravi preoccupazioni circa l’erosione della sovranità del Paese, poiché gli accordi commerciali con le grandi comagnie a carico dei progetti limitano la capacità del governo di regolamentarli e di ottenere ingressi equi per lo sfruttamento delle risorse nazionali. Dagli inizi dell’estrazione del gas intorno al 2010, attorno a questa industria si è generato un significativo debito causato dalla corruzione, e la partecipazione della compagnia petrolifera nazionale ai progetti crea un rischio fiscale senza rendimenti garantiti. Le comunità locali hanno già perso terreni agricoli e l’accesso al mare a causa dello sviluppo delle infrastrutture, e centinaia di famiglie sono state sfollate per fare posto agli impianti estrattivi. I ricavi provenienti dal gas per il Mozambico ammontano finora a poco più di 200 milioni di dollari, di cui il 40% è destinato al Fondo sovrano, istituito per garantire stabilità e risparmi alle generazioni future. A metà maggio il Tribunale amministrativo del Mozambico ha segnalato numerose irregolarità nel conto finanziario dello Stato per il 2023 che rappresentano una presunta “appropriazione indebita” di 33 milioni di dollari dai ricavi del gas di Rovuma.  Lo sviluppo dell’industria del GNL in Mozambico promette distruzione ecologica e impatto sui cambiamenti climatici, distruzione dei mezzi di sussistenza delle persone e aumento della privazione dei diritti e della disuguaglianza. Si tratta senza dubbio di un’attività rischiosa anche per gli investitori finanziari pubblici e privati.
Webinar | Resistere al colonialismo verde – Storie dalle prime linee della resistenza all’idrogeno
– Orario: 23 giugno, online su Zoom, 18-19.30 CET  Link per la registrazione: https://zoom.us/webinar/register/WN_9Oc8lwJ1RJ-CdiwslSH2JA L’idrogeno verde continua a essere presentato come una delle soluzioni migliori per “decarbonizzare” l’economia europea. Ma le infrastrutture di trasporto su lunga distanza e i progetti di produzione di idrogeno verde su larga scala e orientati all’esportazione contribuiranno davvero a realizzare la tanto necessaria trasformazione basata sulla giustizia nelle nostre società? Oppure fanno parte di una nuova fase di colonialismo “verde” dell’energia e delle risorse? Vi invitiamo a partecipare a questo webinar di ReCommon e WeSmellGas per conoscere, grazie ai nostri straordinari relatori, gli attuali progetti sull’idrogeno verde in Namibia, Tunisia e Spagna, i motivi per cui sono un esempio di colonialismo verde e come resistervi. Ascolteremo le esperienze di: 1. Decolonial Center Il Decolonial Center (“Centro Decoloniale”) è un progetto del Pluto Educational Trust. È una piattaforma di educazione politica impegnata a diffondere prospettive anticoloniali e decoloniali sulla storia, la teoria sociale e l’attualità. Il centro si propone di rendere accessibile il pensiero anticoloniale e decoloniale attraverso vari mezzi, tra cui contenuti di breve e lunga durata, bobine, saggi video e interviste in podcast. Lavoriamo anche per infondere le prospettive anticoloniali nei movimenti sociali e collaboriamo con un’ampia varietà di partner nei settori femminista, della giustizia climatica, della giustizia di genere, della giustizia razziale, della giustizia fiscale, della giustizia riparatoria e della giustizia dei migranti. Teniamo conferenze, workshop e agiamo come braccio di educazione politica per i movimenti interessati al pensiero e alla pratica anticoloniale e decoloniale. 2. Sima Luipert Sima Luipert è una sopravvissuta di quarta generazione al genocidio dei Nama e degli Ovaherero commesso dalla Germania nell’allora colonia dell’Africa tedesca del Sud-Ovest. Con un master post-laurea in Studi sullo sviluppo e avendo lavorato nel settore dello sviluppo per più di 30 anni, ha compreso le radici più profonde della natura strutturale e istituzionale della povertà tra i Nama. Questo viaggio l’ha portata a conoscere il primo genocidio del XX secolo, avvenuto nell’allora Africa tedesca del Sud-Ovest, attualmente conosciuta come Namibia. È stata coinvolta nella campagna per il risarcimento dei crimini coloniali commessi dalla Germania durante il periodo coloniale. Attualmente è patrocinatrice delle relazioni internazionali del Comitato tecnico sul genocidio dell’Associazione dei leader tradizionali Nama e persona di riferimento per gli strumenti legali volti a richiedere un risarcimento alla Germania. È anche membro del Consiglio internazionale del Minority Rights Group International, un’organizzazione non governativa internazionale che si batte in tutto il mondo con quasi 300 partner in 60 Paesi per garantire che le minoranze svantaggiate e le popolazioni indigene possano far sentire la propria voce. Luipert vive e lavora come direttrice della pianificazione dello sviluppo presso il Consiglio regionale di Hardap, nel sud della Namibia. 3. Aïda Delpuech Aïda Delpuech è una giornalista e autrice indipendente. Si occupa di questioni ambientali e sociali, soprattutto nel Mediterraneo. I suoi lavori sono stati pubblicati, tra gli altri, su Le Monde Diplomatique, Le Monde, Médiapart, El Pais, BBC Future, Forbidden Stories, Inkyfada, New Lines Magazine, Reporterre. È autrice di un rapporto del 2022 sulla strategia tunisina dell’idrogeno verde, pubblicato da Arab Reform Initiative e Heinrich Böll Stiftung. 4. Josep Nualart Corpas Josep Nualart Corpas, ricercatore presso l’Osservatorio del debito della globalizzazione (ODG). Si occupa di geopolitica e analisi finanziaria delle infrastrutture europee per il gas fossile. Negli ultimi anni sta analizzando la transizione energetica attraverso prospettive di giustizia sociale, territoriale e globale e lo sviluppo dell’idrogeno nello Stato spagnolo, concentrandosi sugli aspetti geopolitici e finanziari.
Il greenwashing di Intesa Sanpaolo
Nel 2024, la Great Green Investment Investigation, inchiesta giornalistica guidata dalle piattaforme olandesi Follow the Money e Investico, ha preso in esame 1.277 fondi di investimento che utilizzavano la sigla “ESG” nel proprio nome e li ha confrontati con i database sull’industria fossile messi a disposizione dalla ong tedesca Urgewald. Oltre il 40% di questi fondi “sostenibili” erano in realtà investiti in compagnie di combustibili fossili. Un dato che denuncia, in termini concreti, il problema del greenwashing nel settore finanziario, evidenziando come una quota rilevante di fondi “ESG” possa includere attività contraddittorie rispetto agli obiettivi dichiarati. Avendo notato il problema significativo del greenwashing nei fondi finanziari sotto la sua supervisione, l’ESMA (European Securities and Markets Authority) ha introdotto nel maggio 2024 delle nuove linee guida volte a combattere pratiche ingannevoli di finta sostenibilità, garantire maggiore trasparenza e responsabilità nelle valutazioni ambientali, uniformare e rafforzare l’integrazione dei criteri ESG nei processi di investimento e reporting all’interno del mercato finanziario europeo. Nello specifico, tra i diversi criteri di esclusione presenti nella nuova normativa ESMA, i fondi di investimento allocati nel mercato europeo e che presentano nel proprio nome termini relativi ad “ambiente”, “impatto”, “sostenibilità” devono escludere quelle corporation che derivano una parte significativa dei ricavi da: * Estrazione di carbone fossile e lignite * Estrazione, raffinazione o distribuzione di petrolio e gas * Produzione di energia elettrica con un’intensità di emissioni di gas serra superiore a 100g CO₂e/kWh Un impatto diretto? Nel mercato europeo, industrie del comparto fossile come Eni e Snam non dovrebbero più rientrare in fondi di investimento che utilizzano termini legati a ESG. Questo è quello che ha portato Eurizon, asset manager della prima banca italiana Intesa Sanpaolo, a dover togliere il riferimento ESG da alcuni dei propri fondi tra cui il fondo “Eurizon Bond Corporate Smart ESG”, di circa 246 milioni di euro, che è diventato “Eurizon Bond Corporate EUR LTE”. Una scelta di comodo: togliere il riferimento all’ESG invece di fare pulizia e disinvestire finalmente dalle compagnie di combustibili fossili presenti nel fondo tra cui Eni, Snam, Exxon, Shell, TotalEnergies. Fino a pochi giorni fa, un fondo di investimento pieno delle major del settore oil&gas veniva venduto come “sostenibile”. Nonostante le nuove linee guida dell’ESMA rappresentino un importante passo avanti per sopperire alla discrepanza sostanziale tra le dichiarazioni di sostenibilità e le reali esposizioni agli asset considerati non sostenibili, i criteri dell’autorità europea non escludono esplicitamente quelle compagnie che stanno espandendo il proprio business nel settore del carbone, petrolio e gas e che quindi non sono allineate con gli obiettivi degli Accordi di Parigi. È necessario quindi un urgente intervento regolatorio più ambizioso ed incisivo per porre fine all’abuso del termine ESG che maschera un greenwashing sistemico. Nel frattempo, il 20 Maggio, Snam ha emesso un nuovo Sustainability-Linked Bond di due miliardi di dollari, destinato principalmente al mercato statunitense. Si tratta del più grande Sustainability-Linked bond in dollari mai emesso da una corporation europea e segna il debutto di Snam sul mercato USA. È il segnale di una fuga dai vincoli UE? Una strategia per mantenere accesso a funding “green” in mercati meno normati? 
SACE promuove “polizze climatiche” mentre finanzia i combustibili fossili
Pubblicato su Altreconomia 281 – maggio 2025 A dicembre 2024, chiunque fosse in procinto di prendere un treno poteva imbattersi in un totem digitale con la scritta in sovrimpressione “Rischi climatici: quanto vale il futuro della tua impresa?”. La campagna pubblicitaria, presente in quattordici stazioni ferroviarie italiane, promuoveva “Protezione rischio clima”, un nuovo prodotto assicurativo di SACE rivolto alle aziende. SACE è l’agenzia di credito all’esportazione italiana, controllata dal ministero dell’Economia e delle Finanze. Queste agenzie emettono polizze assicurative “classiche” o garanzie sui prestiti, cioè assicurazioni a beneficio di una banca. Se qualcosa va male, SACE rimborsa le aziende oppure le banche che hanno prestato capitali per i loro progetti, in entrambi i casi con soldi pubblici. Enti come SACE nascono per favorire l’export delle aziende di un determinato Paese, ma negli ultimi anni – a causa delle crisi economiche innescate prima dalla pandemia e poi dall’invasione russa dell’Ucraina – la loro operatività è cresciuta fortemente anche a livello domestico. Il presidente della Turchia Recep Tayyip Erdoğan annuncia la scoperta di un nuovo giacimento di gas fossile nel Mar Nero a giugno del 2021 © www.tccb.gov.tr Negli stessi giorni che SACE promuove “Protezione rischio clima”, l’agenzia emette una garanzia del valore di circa 660 milioni di euro per il progetto “Sakarya Fase II”, che riguarda la «realizzazione di 10 pozzi aggiuntivi per l’estrazione di gas naturale dal giacimento offshore dell’omonimo campo […] nella zona esclusiva economica turca del Mar Nero». A maggio 2023 SACE aveva già supportato finanziariamente la prima fase del progetto estrattivo con una garanzia di 243 milioni di euro, un’opera che contribuirà all’emissione in atmosfera di 140 milioni di tonnellate di CO2 equivalenti: circa quelle prodotte dal Qatar nel 2023. La seconda fase potrebbe contribuire al doppio delle emissioni. Non c’è però da stupirsi: nonostante i tentativi di presentarsi al servizio dell’ambiente e del clima, è l’operatività di SACE a fare dell’Italia il primo finanziatore pubblico di combustibili fossili in Europa e il quinto a livello globale. La recente garanzia emessa per “Sakarya Fase II” si inserisce quindi in un ruolino di marcia di lungo corso. Alcuni analisti definiscono Sakarya come «la più grande scoperta nel Mar Nero», con riserve pari a 710 miliardi di metri cubi di gas. Dai pozzi nel Mar Nero, entrati in funzione nell’autunno del 2023, il gas arriva all’impianto di Filyos (Zonguldak) attraverso un gasdotto di circa 170 chilometri posato a 2200 metri di profondità, e da lì alla rete di distribuzione nazionale. Nell’aprile del 2023, un mese prima delle elezioni presidenziali in Turchia, Erdoğan in persona inaugura l’arrivo dei primi metri cubi di gas all’impianto di Filyos. Un progetto che incarna l’ambizione turca di liberarsi dalla dipendenza del gas russo e, addirittura, presentarsi sul mercato come esportatore. Ankara afferma che la prima fase – che dovrebbe concludersi in questi giorni – è destinata a raggiungere una produzione giornaliera di 10 milioni di metri cubi di gas. Tuttavia, secondo i dati aggiornati a gennaio 2025 dell’Autorità di regolazione per il mercato energetico, questa si attesta ancora a 6,5. L’obiettivo di raggiungere 40 milioni di metri cubi di gas al giorno nella seconda fase e 60 entro il 2028 sembra più un auspicio che un dato fondato su analisi puntuali, ridimensionando le velleità per cui Sakarya dovrebbe sopperire al consumo domestico, mentre l’export verso l’Europa non viene mai menzionato nella narrazione ufficiale. Difatti i dati ufficiali mostrano come l’Italia non abbia ricevuto in maniera diretta un solo metro cubo di gas prodotto in Turchia, elemento che stride fortemente con alcune clausole contenute nella politica sul clima di SACE. Anche a causa di queste clausole, SACE ha la politica sul clima più debole tra le agenzie di credito all’esportazione, potendo garantire progetti fossili con soldi pubblici praticamente per sempre. E non si tratta solo di una questione legata al clima, ma anche di un utilizzo problematico di risorse pubbliche. Secondo un recente studio di Carbon Tracker, la transizione energetica porterà alla sostituzione più o meno rapida del petrolio e del gas, e il conseguente calo della domanda contribuirà a un minor prezzo delle materie prime. Ne consegue che i progetti di produzione, trasporto e stoccaggio di idrocaburi rischiano di generare profitti al di sotto del tasso di rendimento minimo, aumentando il rischio di insolvenza da parte delle società proponenti. Un problema non da poco quando i progetti sono garantiti da enti come SACE, sempre più esposti al rischio di dover sborsare denaro pubblico per tutelare banche commerciali o aziende fossili. L’unica maniera affinché questi progetti siano remunerativi è che la transizione ecologica proceda in maniera ancora più lenta rispetto al ritmo attuale, condannando il Pianeta e le persone che lo abitano a conseguenze terrificanti, nonché sempre più tangibili. Un vero e proprio gioco d’azzardo, in qualsiasi maniera la si guardi. Dei 10 progetti analizzati da Carbon Tracker, ben 7 vedono la presenza di SACE, con un moderato rischio di credito in capo all’ente. Tra questi c’è anche Mozambique LNG di TotalEnergies, per cui il governo italiano ha di recente confermato il sostegno finanziario di SACE. Un sostegno che arriva nonostante si stagliano lunghe le ombre di violazioni dei diritti umani configurabili come potenziali crimini di guerra, portate avanti dall’esercito mozambicano per proteggere il sito. Se indagini indipendenti dovessero confermare queste vicende, le conseguenze ricadrebbero anche sulle istituzioni finanziarie. L’operatività di agenzie come SACE non riguarda quindi solamente la salute del Pianeta, ma anche la tutela dei diritti umani e la sostenibilità delle casse pubbliche italiane. È arrivato il momento la politica istituzionale si attivi, prima che le ripercussioni siano irreparabili.