Aborto e biopolitiche nazionaliste
Articolo di Elisa Virgili
Il 5 giugno scorso la Regione Sicilia ha approvato la legge 23/2025, volta a
garantire la presenza di reparti e personale medico non obiettore negli ospedali
pubblici, in un contesto in cui circa l’85% dei ginecologi si dichiara
obiettore, con punte drammatiche come quella di Messina (35 su 36). La legge in
questione prevede bandi specifici per personale medico disponibile a praticare
l’interruzione volontaria di gravidanza (Ivg), meccanismi di rotazione o
sostituzione del personale per colmare le carenze, e obblighi di monitoraggio e
trasparenza da parte delle aziende sanitarie. In questo modo si tenta di rendere
effettiva una normativa già esistente, la 194, che, pur con tutte le sue
criticità, sancisce il diritto all’aborto.
Prima della legge siciliana, anche altre regioni avevano tentato – senza
successo – di intervenire per garantire l’accesso all’aborto, come in Puglia nel
2018, dove una proposta per assumere medici non obiettori fu bocciata
trasversalmente in Consiglio regionale. O in Toscana, dove si erano sollevate
discussioni simili, mai concretizzate, mentre in Umbria si è invece agito in
senso opposto, restringendo l’accesso alla RU486 e rafforzando le politiche
nataliste.
Nello specifico, in Sicilia, questa situazione si intreccia con condizioni di
marginalità sociale e strutturale, soprattutto per donne migranti e precarie. La
sanità territoriale è carente, i consultori sono pochi e mal distribuiti, e le
donne migranti si trovano ad affrontare viaggi lunghi, ostacoli burocratici e
discriminazioni linguistiche. Per loro, l’accesso a un aborto sicuro e gratuito
non è un diritto così immediato.
La battaglia per l’accesso libero, gratuito e dignitoso all’aborto non può
essere dissociata dalle condizioni materiali di vita, è anche una questione di
classe. Chi può permetterselo – per reddito, cittadinanza, vicinanza geografica
ai centri, conoscenza delle procedure – riesce a interrompere una gravidanza
anche in un contesto ostile. Chi non può, viene lasciata indietro. In questo
squilibrio, l’aborto si trasforma da diritto a privilegio.
La pandemia da Covid-19 ha evidenziato poi come l’accesso all’aborto e ai
servizi sanitari essenziali possa essere ulteriormente negato quando non si
riconosce la loro centralità nel modello di cura, rivelando un paradigma
patriarcale e biopolitico che considera alcuni corpi sacrificabili. Durante il
Covid l’accesso all’aborto (come a qualsiasi altro servizio sanitario non
considerato «essenziale» da uno sguardo patriarcale) è stato reso ancora più
difficile: non solo per motivi tecnici o organizzativi, ma perché non
prioritario nel modello di cura imposto.
Davanti a tutto questo, poco meno di due mesi dopo l’approvazione della legge
siciliana, il 4 agosto, il Consiglio dei Ministri l’ha impugnata davanti alla
Corte Costituzionale, motivando la decisione con la tutela del principio di
uguaglianza, del diritto all’obiezione di coscienza e del libero accesso ai
concorsi pubblici. La destra, da Fratelli d’Italia in là, ha espresso il proprio
consenso all’impugnazione sostenendo che la legge limitasse libertà personali,
religiose e morali, mentre sindacati come la Cgil hanno denunciato il grave
attacco ai diritti delle donne e alla salute pubblica rappresentato da questa
impugnazione, in palese contraddizione con le condanne europee sul difficile
accesso alle Ivg.
Questo scontro non è un episodio isolato né una mera boutade estiva: si
inserisce in un più ampio discorso di biopolitiche nazionaliste e patriarcali,
che disciplinano e normano corpi e identità sessuali. Nel contempo, infatti, si
registrano leggi e provvedimenti che limitano i diritti delle persone trans,
come il Ddl «Disposizioni per l’appropriatezza prescrittiva e il corretto
utilizzo dei farmaci per la disforia di genere» (chiamato anche Ddl disforia)
che impone controlli e medicalizzazioni burocratiche sul percorso di
affermazione di genere per i minori, attraverso diagnosi obbligatorie,
autorizzazioni centralizzate e la creazione di un registro nazionale gestito da
Aifa, l’Agenzia italiana del farmaco, con il pretesto della tutela ma in realtà
per instaurare un regime di sorveglianza e controllo. Questo Ddl nasce da un
fronte reazionario, da figure e movimenti che riflettono una visione
patriarcale, come RadFem, Generazione D, ProVita & Famiglia, e altri. Essi
patologizzano la soggettività trans, negano la libertà e l’autodeterminazione, e
propongono una visione della famiglia e della riproduzione come unica via
legittima di esistenza, in linea con una politica nazionalista e patriarcale.
Non sono leggi e azioni scollegate tra loro ma è in atto un processo di
«normativizzazione» dei corpi e delle identità sessuali funzionale alla
costruzione di un «popolo» nazional-religioso esclusivo. A queste si aggiungono
poi le politiche migratorie e securitarie. Questi dispositivi biopolitici – nel
senso foucaultiano del termine – sono strumenti di governo della vita che
operano selettivamente, imponendo una gerarchia di legittimità e visibilità. Il
corpo femminile e le soggettività dissidenti (trans, migranti, povere) vengono
controllati, disciplinati, marginalizzati.
Tra i dispositivi simbolici più potenti messi in campo dall’estrema destra e dai
movimenti no gender vi è la figura del bambino, rappresentato come innocente da
salvare, fragile da difendere, ma soprattutto come garante ideologico di un
futuro conforme all’ordine patriarcale ed eteronormativo. Quest’immaginario,
come ha teorizzato Lee Edelman in No Future (2004), non riguarda i bambini
reali, ma una costruzione politica: «il fascismo del volto del bambino […] ci
sottopone alla sua sovrana autorità come figura stessa della politica, nella sua
forma radicale di futurismo riproduttivo». In questo quadro, ogni discorso che
mette al centro il «diritto alla nascita» o «la protezione dell’infanzia» è meno
interessato al benessere dei soggetti viventi e più impegnato a rafforzare la
riproduzione dell’ordine sociale esistente.
L’antiabortismo si inserisce perfettamente in questa logica. Il feto diventa
figura sacralizzata del futuro, mentre le vite presenti – in particolare quelle
delle donne, delle persone trans, migranti o precarie – vengono oscurate,
marginalizzate, talvolta esplicitamente sacrificate. In questo quadro, l’aborto
non è più un diritto, ma un «privilegio sospetto», disciplinato da un
nazionalismo che vede nelle «donne riproduttrici» il fulcro della nazione,
mentre le altre soggettività vengono marginalizzate o espulse dallo spazio
pubblico e politico.
L’impugnazione della legge siciliana mostra come il nazionalismo agisca come
dispositivo disciplinante dei corpi. La libertà riproduttiva diventa così
negoziabile in base al consenso ideologico dominante, e il diritto all’obiezione
di coscienza si estende a comprimere le libertà individuali e collettive. Questa
strategia di controllo dei diritti riproduttivi, ormai da anni portata avanti da
destre reazionarie europee, si inscrive in un ordine patriarcale, eteronormato e
nazionalista. Come mostrano i casi di Polonia, Ungheria e Spagna, i governi
conservatori utilizzano l’aborto come terreno di scontro simbolico e politico,
promuovendo politiche nataliste e restrizioni che colpiscono in modo
sproporzionato le donne e le soggettività marginalizzate. In Polonia, il governo
ultraconservatore guidato da Diritto e Giustizia (PiS) ha spinto nel 2020 per
una sentenza della Corte costituzionale che ha reso illegale l’aborto anche in
caso di gravi malformazioni fetali, lasciandolo consentito solo in casi estremi
(stupro, incesto, pericolo di vita). In Ungheria, il governo di Orbán promuove
politiche nataliste che incentivano la maternità come dovere patriottico, mentre
ostacola sistematicamente i diritti riproduttivi e Lgbtq+. In Spagna, l’estrema
destra di Vox ha tentato di limitare l’accesso all’aborto in diverse comunità
autonome, proponendo ecografie obbligatorie e tempi di riflessione forzati.
In Italia, pur senza un attacco frontale alla legge 194, la destra al governo
opera per svuotarne il contenuto attraverso l’amplificazione dell’obiezione di
coscienza, la promozione di associazioni antiabortiste e l’impugnazione di leggi
regionali come quella siciliana. Ne risulta un aborto formalmente legale ma
sostanzialmente inaccessibile per molte. Si tratta di un autoritarismo soft che
però riafferma il controllo sui corpi delle donne* e delle soggettività
dissidenti, in nome della nazione, della famiglia e dell’ordine sociale.
Rivendicare il diritto all’aborto oggi è, fondamentalmente, un atto
antifascista. Lo è perché si oppone a ogni progetto politico che mira al
controllo dei corpi, alla normazione della sessualità e alla subordinazione
delle donne e delle soggettività dissidenti. Durante il regime fascista, il
corpo femminile era considerato un bene pubblico, destinato alla riproduzione
della nazione: l’aborto era criminalizzato, la maternità imposta, la famiglia
patriarcale eretta a fondamento dello Stato. In questo senso, l’aborto non è
solo una questione sanitaria o di privacy individuale: è una pratica di libertà
collettiva che si scontra frontalmente con ogni ideologia autoritaria.
Le battaglie femministe che hanno portato alla legge 194 hanno intrecciato, fin
dall’inizio, il rifiuto della maternità obbligatoria con la critica radicale ai
fondamenti sessisti e nazionalisti del potere. Oggi, di fronte alla rinascita
dei discorsi sovranisti e alla retorica reazionaria sulla «natalità italiana»,
il diritto all’interruzione volontaria di gravidanza torna a essere una
questione politica centrale della lotta antifascista. Perché chi nega l’aborto,
nega la possibilità stessa di decidere su di sé – e questo è, da sempre, il
primo passo di ogni regime autoritario.
*Elisa Virgili è ricercatrice indipendente. Si occupa di studi di genere, teorie
queer e filosofia politica. Fa parte del Centro di ricerca Politesse e della
rete Gifts. Ha curato e tradotto Gaga Feminism (Asterisco edizioni, 2021).
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