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Il pallone discriminato
Articolo di Andrea Ponticelli, Gabriele Granato In Svizzera sta andando in scena l’Europeo di calcio femminile, un torneo decisamente in crescita rispetto all’edizione del 2022 che vide trionfare l’Inghilterra, e che ci parla di un calcio femminile in continua espansione sotto ogni punto di vista. Non a caso, già prima dell’inizio della competizione i numeri erano da record: 600.000 biglietti venduti su una disponibilità totale di circa 720.000; 22 partite già sold-out in prevendita (tutte quelle della fase finale più diversi match della fase a gironi) e circa 500.000.000 potenziali telespettatori da tutto il mondo. Numeri che assumono un valore ancora più importante se messi a confronto con il recente Mondiale per Club, fortemente voluto da Infantino, che ha fatto registrare stadi semivuoti e una media spettatori di 39.500 nonostante la Fifa abbia ribassato il costo dei biglietti o li abbia addirittura regalati. Le partite delle azzurre sono state guardate da milioni di persone, con il record di 2,3 milioni di telespettatori e telespettatrici in occasione dei quarti di finale giocati – e vinti – contro la Norvegia. Numeri da capogiro che assumono un valore ancora maggiore se si considera che il calcio femminile, nonostante tutto, continua a scontrarsi con un ostacolo tanto antico quanto radicato nella nostra società: il patriarcato. Nonostante l’aumento della popolarità, la qualità del gioco e l’impegno delle atlete, il gender gap nel mondo del pallone rimane sconcertante. Ed è ora di dirlo chiaramente: questo gap non è frutto di minore talento o minore spettacolarità, ma del sistema patriarcale che ha storicamente marginalizzato lo sport femminile. UN SISTEMA COSTRUITO SUL MASCHILE Il calcio, da sempre, è stato concepito come terreno di espressione della virilità, dell’agonismo maschile, dell’identità patriarcale. Come sottolineato da un’analisi pubblicata su Jacobin già nel 2015, la Fifa stessa, per decenni, ha trattato il calcio femminile con aperto disinteresse, quando non con disprezzo. Per esempio, nel 2004, Sepp Blatter suggeriva che le calciatrici dovessero indossare «shorts più attillati» per attrarre più pubblico. Una dichiarazione che riassume perfettamente la visione sessista dell’establishment calcistico che perdura ancora oggi e che si riflette in un atteggiamento che ha avuto conseguenze devastanti dal punto di vista della parità di genere in ogni sua sfaccettatura.  Le atlete professioniste, pur dedicando le stesse ore di allenamento e affrontando gli stessi rischi fisici dei colleghi uomini, guadagnano una frazione dei loro stipendi. Secondo Social Media Soccer, durante la Coppa del Mondo femminile 2023, le giocatrici hanno ricevuto premi pari a circa un quarto di quelli maschili nel torneo del 2022. L’intero montepremi è passato dai 28 milioni di dollari del 2019 ai 105 del 2023, un aumento, sì, ma ancora lontano dai 440 milioni riservati agli uomini in Qatar.  Durante la Coppa del Mondo femminile 2023 in Australia e Nuova Zelanda, i dati di ascolto sono stati da record. In Australia, la semifinale tra le padrone di casa e le Lioness inglesi è stata, ad esempio, seguita da 11,5 milioni di persone. La finalissima tra Spagna e Inghilterra è stata, invece, vista da oltre 13 milioni di persone nel solo Stato Spagnolo; da circa 6 milioni in Inghilterra e da circa 500 mila persone in Italia, nonostante qui sia stata trasmessa su Rai Sport e non su una rete generalista come fatto dai principali paesi europei (e comunque gli ascolti della partita hanno superato quelli delle reti generaliste Rai2 e Rai3). Si è trattato di uno degli eventi sportivi più visti dell’anno. Eppure, anche davanti a questi risultati, le differenze salariali e contrattuali permangono. Secondo alcuni studi, le Federazioni nazionali mostrano resistenze sistemiche all’equiparazione salariale, legandola ancora alla «sostenibilità economica». Discorso simile per i presidenti delle società come dimostrato di recente da Aurelio De Laurentiis, presidente del Napoli, che nel corso di un talk al Giffoni Film Festival ha candidamente affermato che, se non ci sono i soldi neanche per la serie A, B e C maschile, figuriamoci come si possano trovare per quella femminile, dimostrando che si continua a ignorare l’impatto del capitale culturale e simbolico che il calcio femminile sta accumulando. È la riproduzione ideologica del patriarcato nel linguaggio manageriale. IL CASO DEL CALCIO ITALIANO In Italia, il calcio femminile ha fatto passi avanti importanti, soprattutto negli ultimi anni e in particolar modo dal 2022 quando è stato introdotto il professionismo per la Serie A. Ma il gender gap permane, come si può immediatamente notare mettendo a confronto gli stipendi delle calciatrici e quelli dei calciatori.  Secondo i dati più recenti, gli stipendi delle calciatrici italiane oscillano tra i 14.400 euro lordi annui per le più giovani e un massimo di circa 30.000-40.000 euro lordi per le giocatrici più esperte e di vertice, con qualche eccezione di top player che arriva a 200.000 euro. Cifre irrisorie se pensiamo che un calciatore medio della Serie A maschile guadagna diverse centinaia di migliaia di euro all’anno, con i top player che guadagnano milioni e milioni di euro l’anno. Un gap enorme ma soprattutto inaccettabile. La visione patriarcale della società e dello sport, però, non ha ripercussioni solo in termini di gap salariale ma anche in tantissimi altri aspetti come sottolineato, ad esempio, dall’ex campionessa della nazionale femminile Patrizia Panico: «penso che nel calcio sia radicata una grave forma di maschilismo tale da escludere le donne, non soltanto per quanto concerne il ruolo di allenatore, ma da tantissime altre figure professionali quali: preparatore atletico, medico, direttore sportivo, team manager, direttore generale, addetto stampa e molti altri ruoli. Nelle squadre professionistiche ma anche, purtroppo, nelle dilettantistiche raramente si trovano figure femminili, è questione di mentalità, di una cultura retrograda. Personalmente conosco moltissime donne molto più competenti dei loro colleghi uomini». A rendere ancora più evidente la disparità tra calcio maschile e femminile, è la sproporzione negli investimenti strutturali. I club maschili, soprattutto nelle serie maggiori, possono contare su centri sportivi all’avanguardia, staff tecnici multidisciplinari, strutture mediche e logistiche di altissimo livello. Al contrario, molte squadre femminili, anche in Serie A, faticano a trovare campi in buone condizioni per allenarsi. Mentre i diritti televisivi del campionato maschile fruttano centinaia di milioni di euro l’anno – basti pensare che la Serie A maschile ha sottoscritto contratti da oltre 900 milioni per il triennio 2024-2027 – il calcio femminile italiano ha visto solo di recente una timida apertura in questo senso, con i primi accordi televisivi arrivati nel 2022 e con cifre estremamente contenute. Secondo un’indagine dell’osservatorio Figc, oltre il 70% dei club femminili non dispone di un centro sportivo proprio e deve affittare spazi a ore. E non è un caso se più di recente due delle stelle della Nazionale, Cantore e Caruso, hanno parlato proprio della necessità di portare avanti una battaglia per la parità di genere che non si traduce solo in uguaglianza di stipendi: «dobbiamo lavorare tutte insieme per ottenere le stesse opportunità – non gli stipendi – dei colleghi. La parità è avere accesso alle loro stesse strutture e a determinati diritti che non ci vengono ancora riconosciuti». Perché la discriminazione di genere non si manifesta solo in un divario economico ma anche in uno simbolico: investire significa riconoscere valore e in Italia – come altrove – il valore viene ancora assegnato secondo logiche patriarcali che mettono al centro il maschile, e relegano il femminile ai margini, considerandolo meno importante, meno «meritevole» di infrastrutture e risorse. NON È QUESTIONE DI QUALITÀ, MA DI POTERE Il discorso che giustifica le enormi differenze tra calcio maschile e femminile appellandosi ai «numeri del mercato» – come audience televisiva, introiti da sponsor o vendite dei biglietti – è profondamente fuorviante e ideologico. Questi numeri non sono neutri, ma il risultato di decenni di disinvestimento strutturale, culturale e mediatico nel calcio femminile. Non sono il segnale di uno scarso interesse «naturale», bensì le conseguenze concrete di precise scelte politiche e culturali, dettate da un sistema patriarcale che ha deciso chi merita la visibilità, il denaro e l’accesso ialle risorse, e chi invece deve accontentarsi di briciole.  Come ha spesso ribadito la filosofa e attivista Silvia Federici, la svalutazione del lavoro femminile – sia esso retribuito o domestico, professionale o sportivo – è una strategia precisa attraverso cui il patriarcato mantiene il controllo del potere economico e simbolico. Questa logica si ripropone con forza anche nel mondo del calcio: quando una calciatrice professionista guadagna 20.000 euro all’anno, mentre un calciatore di Serie B può arrivare tranquillamente a cifre dieci volte superiori, non si tratta di una differenza basata sul «merito» o sulla «resa economica». Si tratta di una gerarchia imposta, in cui il valore delle donne viene sistematicamente svalutato e reso invisibile.  Il patriarcato non ha solo impedito alle donne di accedere al calcio ai massimi livelli; ha anche costruito una narrazione secondo cui lo sport femminile sarebbe «meno competitivo», «meno attraente» e, dunque, meno degno di essere visto, seguito, pagato. È una forma di controllo sociale mascherata da analisi economica, una giustificazione moderna per una disparità antica. E questa logica non riguarda solo il calcio: la stessa struttura si ripete nel mondo del lavoro, nell’arte, nella scienza, nella politica, ovunque le donne osino reclamare spazio, voce e dignità. Il punto non è cosa producono o quanto «rendono»: il punto è che, in un sistema di potere maschile, alle donne viene ancora negato il diritto di valere quanto gli uomini. QUALE VIA D’USCITA? La lotta per l’equiparazione salariale e di trattamento nel calcio femminile non può limitarsi ai soli confini dello sport. Il calcio è riflesso fedele della società in cui viviamo, che resta profondamente patriarcale e maschilista. Per cambiare il calcio, bisogna cambiare la società, e viceversa. Il patriarcato si manifesta in modo sistemico in molteplici aspetti della vita quotidiana: dalle discriminazioni salariali nel mondo del lavoro alle difficoltà di accesso ai ruoli apicali, dalla violenza di genere alle norme sociali che ancora relegano le donne al ruolo di caregiver primarie, limitando la loro libertà e autonomia economica. In Italia, ad esempio, la differenza salariale di genere supera ancora il 20% e soltanto il 35% delle posizioni manageriali è occupato da donne. Questo svantaggio strutturale si ripercuote anche nello sport, dove il riconoscimento economico e mediatico delle atlete resta minimo. Angela Davis, filosofa e attivista afroamericana, sottolineava come la discriminazione di genere non sia un fenomeno isolato, ma una struttura di potere che intreccia razza, classe e genere in modo indissolubile. Per Davis, la lotta delle donne contro il patriarcato dev’essere necessariamente una lotta contro tutte le forme di oppressione, e la conquista di pari diritti economici e sociali rappresenta un passaggio fondamentale verso una società più giusta. Nel calcio, questo significa che la battaglia per salari equi, investimenti strutturali e visibilità non può essere una rivendicazione esclusivamente sportiva: è parte di una più ampia lotta contro quei sistemi che definiscono il valore delle donne come inferiore a quello degli uomini. Bisogna combattere dentro lo spogliatoio come nelle federazioni, ma anche sui posti di lavoro, nelle scuole, nelle redazioni giornalistiche così come nel mondo della politica e dell’attivismo. Il patriarcato si manifesta, infatti, in maniera tangibile e quotidiana: le donne vengono discriminate a livello di salario e spesso costrette ad accettare contratti precari o part-time, anche quando possiedono le stesse qualifiche e competenze degli uomini; sono quasi sempre le donne a sobbarcarsi il lavoro di cura dei figli e degli anziani, un impegno che limita le possibilità di carriera e la piena autonomia economica; la loro rappresentanza politica ed economica è insufficiente, con pochi accessi ai ruoli decisionali. Si pensi che su 18 membri del Consiglio Federale della Figc, ad esempio, solo tre sono donne. In ambito sportivo, poi, persistono forti stereotipi di genere che dipingono le donne come meno competitive o meno interessate allo sport, rafforzando così l’idea che il calcio femminile sia un prodotto di serie B.  Contrastare tutte queste dinamiche significa smontare i meccanismi di potere che mantengono tali disuguaglianze. Come affermava Bell Hooks, la liberazione delle donne è inseparabile dalla trasformazione delle strutture sociali in cui vivono. Nel calcio femminile, questo si traduce nella necessità di investimenti seri e duraturi, che non si limitino a campagne di facciata utili più alla Federazione per mostrarsi al passo con i tempi che a una reale lotta alle disparità di genere; nella realizzazione di politiche federali capaci di eliminare i tetti salariali ingiusti e favorire la parità; nella creazione di un racconto mediatico che presenti il calcio femminile come uno sport di alto livello, non come un prodotto «minore»; e infine in un’educazione di genere diffusa, capace di cambiare mentalità fin dalla giovane età ed evitare, ad esempio, che si ripetano episodi come quello occorso qualche giorno fa a Pedro Rodríguez, calciatore della Lazio, inondato di insulti sessisti e omofobi sotto al post della foto con la moglie e il figlio che per festeggiare il suo ottavo compleanno ha indossato una tiara e un vestitino con le spalline. Superfluo aggiungere che nessun rappresentante della Figc né tanto meno della Lega Calcio ha espresso solidarietà al calciatore o condannato gli insulti. Solo in questo modo la battaglia per eliminare il gap salariale e le discriminazioni di genere nella loro totalità potrà essere veramente efficace e duratura. Il calcio femminile può allora diventare non solo un simbolo di emancipazione, ma anche un motore di trasformazione culturale in una società ancora troppo dominata da logiche patriarcali. * Andrea Ponticelli, attivista da più di dieci anni nelle lotte di Napoli e provincia, è tra i principali promotori del progetto Calcio&Rivoluzione. Gabriele Granato, attivista sociale, frequentatore di stadi e collezionista di t-shirt da gioco, è appassionato di sport e politica ed è tra i fondatori di Calcio&Rivoluzione. L'articolo Il pallone discriminato proviene da Jacobin Italia.
Cura e giustizia sociale
Articolo di Kathleen Lynch, Rodolfo Pezzi In Care and Capitalism (Cura e Capitalismo), Kathleen Lynch analizza le profonde contraddizioni del capitalismo neoliberista: un sistema che prospera sull’individualismo, il profitto e la produttività, ma che svaluta sistematicamente il lavoro relazionale che sostiene la vita umana. Attingendo alla sociologia, alle teorie femministe e all’etica della cura, Lynch mostra come l’amore, la cura e la solidarietà, ciò che lei definisce «eguaglianza affettiva», siano marginalizzati in nome dell’efficienza di mercato. In un’epoca in cui le lavoratrici e i lavoratori della cura sono sovraccarichi, sottopagati e resi invisibili, la sua critica fa eco alle lotte crescenti di chi sostiene, con il proprio lavoro, sia le famiglie che le economie. La sua proposta di un paradigma fondato sulla cura rappresenta una radicale riformulazione della giustizia e del benessere collettivo in un mondo dominato dalla mercificazione e l’indifferenza.  Il suo libro introduce il concetto di eguaglianza affettiva, una critica profonda al modo in cui il capitalismo neoliberista svaluta sistematicamente il lavoro emotivo e relazionale, spesso svolto da donne e gruppi marginalizzati. Questo concetto si distingue sia per la sua portata teorica che politica, sfidando le narrazioni individualistiche delle economie moderne e mettendo in luce il lavoro invisibile ma essenziale della cura. Come si è formato questo concetto nel suo percorso e perché è centrale nella sua critica al capitalismo? Si è formato in tre modi diversi: attraverso l’esperienza, la ricerca empirica e la teoria. Partiamo dall’esperienza. Nei primi anni Duemila, ho co-curato un libro con alcune colleghe, Equality: From Theory to Action. Credevamo nella ricerca emancipatoria, dialogica. In quel periodo organizzammo una grande conferenza con oltre 300 persone, accademici e rappresentanti della società civile, dove presentammo diverse idee su giustizia ed eguaglianza sociale. Ci fu una forte critica alle teorie convenzionali della giustizia. Mi colpì profondamente quanto molte persone, anche attive nelle politiche di classe, genere, sessualità e disabilità, sentissero che le teorie esistenti non rappresentavano pienamente le loro vite, soprattutto nelle relazioni di cura. Fu un momento decisivo. Ricordo di aver detto durante un incontro: «La dimensione affettiva è trascurata; dobbiamo sviluppare un concetto che renda conto della vita relazionale». Da lì prese forma il concetto di eguaglianza affettiva. Sul piano empirico, ho condotto numerosi studi, in particolare tra il 2000 e il 2005. Uno di questi ha portato alla pubblicazione di Affective Equality: Love, Care and Injustice. Abbiamo analizzato vari ruoli di cura: persone che si prendevano cura di bambini, persone con disabilità, giovani. Questi studi confermarono che un’enorme parte della vita umana era ignorata sia dalla sociologia che dal discorso pubblico. Sul piano teorico, ho dialogato criticamente con la teoria tridimensionale della giustizia di Nancy Fraser, redistribuzione, riconoscimento e rappresentazione. Sebbene utile, questo schema continua a immaginare il cittadino come un soggetto pubblico, capace di stipulare contratti, radicato nella teoria politica liberale. Ma questa tradizione non considera appieno la dimensione relazionale dell’esistenza: la vita nelle famiglie, nelle comunità, negli spazi intimi. Le persone si co-producono attraverso le relazioni. Le nostre vite emotive e relazionali plasmano chi siamo e chi diventiamo. Quando le persone sono private della cura, intimamente, socialmente o politicamente, subiscono un’ingiustizia. L’eguaglianza affettiva riguarda non solo chi svolge lavoro di cura (spesso donne e gruppi marginalizzati), ma anche chi riceve cura, amore e solidarietà, e chi viene privato di questo diritto. Penso, per esempio, alle carceri: ci assicuriamo che le madri vedano i loro figli, ma raramente ci chiediamo se anche gli uomini abbiano bisogno di relazioni di cura. È una negazione della loro umanità emotiva. In definitiva, come diceva un vecchio slogan femminista: abbiamo bisogno sia del pane che delle rose. Le persone possono sopravvivere senza cura, ma non possono fiorire. Non si può sopravvivere emotivamente senza essere sostenuti, riconosciuti, senza dare e ricevere cure a livello personale, comunitario e politico. Senza amore, cura e solidarietà, si può forse sopravvivere, ma non vivere pienamente. Lei sostiene che il neoliberismo svaluta sistematicamente la cura, rappresentandola come un onere piuttosto che come un bene sociale. Questa critica va oltre il sistema sanitario e riguarda il modo in cui le società danno priorità alla produttività e al profitto a scapito del benessere relazionale e comunitario. La precarietà e l’invisibilizzazione del lavoro nei settori essenziali riflettono questa svalutazione. Quali trasformazioni strutturali sono necessarie per contrastare questa disumanizzazione e promuovere un modello più incentrato sulla cura? Le trasformazioni necessarie sono molte, ma la più cruciale è un cambiamento epistemologico e ontologico. Inizierei però con un esempio concreto e politico: ogni partito politico dovrebbe avere una politica della cura coerente con la giustizia sociale, che riconosca l’internazionalità delle ingiustizie, inclusa quella ecologica. Se la cura fosse presa sul serio come principio guida, cambierebbe radicalmente il nostro modo di pensare la società, le altre specie e la Terra. Il modello dominante di coscienza è ancora radicato nel razionalismo cartesiano: la ragione è esaltata, l’emozione è largamente ignorata. Agiamo come se le persone fossero esseri puramente razionali, quando in realtà siamo profondamente emotivi, relazionali e vulnerabili. Per cambiare il nostro modo di vivere, dobbiamo cambiare il modo in cui educhiamo e comprendiamo la condizione umana. Ciò è particolarmente difficile nelle tradizioni accademiche segnate da retaggi antifemministi, che ignorano in gran parte la relazionalità, l’interdipendenza e la vulnerabilità della condizione umana. La cura è svolta principalmente da donne, a cui viene socialmente assegnata. Gli uomini, soprattutto quelli in posizioni di potere, ne sono spesso esonerati. Riconoscerlo mette in discussione strutture di potere radicate. Ma dobbiamo partire dal riconoscimento che gli esseri umani sono relazionali. Non siamo solo razionali o cerebrali: siamo emotivi, interdipendenti, vulnerabili. La nostra vita emotiva è legata all’etica: impariamo a prenderci cura attraverso la connessione. Cambiare questo richiede una riforma educativa profonda. Tutto ciò che facciamo ha conseguenze relazionali. Comprare vestiti a basso costo implica lo sfruttamento altrui; il consumo eccessivo distrugge la Terra. Un’ontologia relazionale, che riconosca l’interconnessione, offre un modo radicalmente diverso di essere. Dobbiamo anche modificare il discorso pubblico. Occorre superare il capitalocentrismo, la tendenza a ricondurre ogni problema sociale alla logica di mercato. Il neoliberismo ha reso la ricerca dell’interesse personale una norma. L’ambizione, la ricerca del potere e l’individualismo sono celebrati, ma erodono la solidarietà. Audre Lorde disse: «Gli strumenti del padrone non smantelleranno mai la casa del padrone». Dobbiamo uscire dal paradigma della mercificazione, del possesso, dell’individualizzazione. Questa logica è ormai stata santificata nella formula della «auto-responsabilizzazione»: prenditi cura solo di te stesso e ignora gli altri. È dunque una questione epistemologica e ontologica, ma anche politica. E non vedo come si possa averne una senza l’altra. È l’unica strada possibile. Una parte del suo lavoro che mi ha colpito particolarmente è la critica all’ossessione neoliberista per le metriche, la meritocrazia e la competitività. Questa ossessione riflette un impegno ideologico più profondo verso la mercificazione e la quantificazione: anche il lavoro relazionale ed emotivo viene ridotto a numeri e prestazioni. Come vede l’impatto di questa logica sulla cura? Crede che ci sia un modo per riconoscere il lavoro di cura senza ridurlo a metriche di mercato, o l’homo curans, contrapposto all’homo economicus, è per sua natura non quantificabile? Hai perfettamente ragione a preoccuparti delle metriche. I numeri portano con sé un apparente oggettività che spesso le persone temono di contestare. Ma la cura non può essere ridotta a misurazioni, perché non è lineare. Non ha un inizio, un centro o una fine. La sua potenzialità è infinita, e all’estremo opposto ci sono la trascuratezza, l’abuso e la violenza. La quantificazione della vita è pericolosa perché non si possono introdurre metriche senza classificare le persone, e la classificazione genera inevitabilmente un malcontento diffuso. Michael Sandel lo ha scritto in modo brillante nel suo libro La tirannia del merito. Negli Stati uniti, il mito della meritocrazia, «lavora duro, sii intelligente, e avrai successo», ha prodotto una diffusa disillusione. Persino l’idea di «intelligenza» è un’eredità dell’eugenetica. La maggior parte delle persone non è in cima alla classifica. La maggioranza si trova nel mezzo o in fondo. Questo alimenta quello che io chiamo «risentimento latente», soprattutto in relazione al fallimento scolastico, una condizione diffusa in quasi tutte le culture, che ha forti implicazioni politiche e sociologiche. Politicamente è rilevante. Chi vota Trump, la Brexit o movimenti di destra spesso si sente escluso e tradito dai sistemi cosiddetti meritocratici. Ma è possibile valutare la competenza senza classificare le persone. Per oltre dieci anni, noi [in Equality Studies, alla University College Dublin] abbiamo gestito un master che non prevedeva classifiche tra gli studenti. Questo ha cambiato tutto. Le persone collaboravano invece di competere. Non essendo in competizione, cooperavano. Anche i sindacati degli insegnanti in Irlanda si sono battuti per impedire la graduatoria del personale scolastico proprio per questo motivo. La cura non dovrebbe essere misurata, perché ciò ne mina il carattere volontario, spontaneo, non transazionale. E poi la riconosciamo anche nella sua assenza: la mancanza di investimenti nell’istruzione, nella sanità, nei servizi sociali è una forma di incuria. L’abbiamo vista nello smantellamento dello stato sociale del dopoguerra, che ha indebolito la solidarietà. Se iniziamo a misurare la cura, le persone diventano calcolatrici, e ciò snatura la cura stessa, che in gran parte è volontaria e spontanea. Non abbiamo bisogno di metriche per sapere che la cura è importante. La cura segue una logica diversa: relazionale, radicata nel corpo ed etica. Non è regolativa né strumentale. Il suo libro affronta anche le dimensioni ecologiche della cura, incluse le relazioni con gli animali non umani e l’ambiente. Perché ha ritenuto importante includere questi aspetti in un libro sulla cura? Perché non riuscivo a credere quanto poco il movimento ecologista parlasse di cura. Hai mai coltivato qualcosa? Non si può coltivare senza cura. Devi proteggere, nutrire, prenderti cura. Custodire la Terra significa prendersene cura: non inquinarla, non sfruttarla. Mio padre era un agricoltore tradizionale. Quando l’Irlanda è entrata nell’Ue, gli agricoltori sono stati incentivati a intensificare la produzione. Ciò ha danneggiato non solo gli animali, ma anche la terra. La Terra non può sostenere una pressione estrattiva di quel tipo. Essere buoni antenati significa lasciare intatto ciò che ci è stato affidato, rifiutando l’accumulazione predatoria che svuota foreste, suolo e acque. Mi preoccupo molto anche degli animali non umani. Sono esseri senzienti. Soffrono. Ma siamo stati educati a non provare empatia, siamo stati desensibilizzati, soprattutto dal capitalismo. Oggi le persone sono disconnesse dalla terra, dalla natura. Non sempre per scelta, ma per costrizione sistemica. Ecco perché ho incluso questa dimensione: perché per me è evidente. Non ci si può prendere cura della Terra senza un’etica della cura. La pandemia di Covid-19 ha esposto profonde disuguaglianze nei sistemi di cura a livello globale. Ha ulteriormente evidenziato la trascuratezza sistemica nei confronti delle categorie di lavoratrici e lavoratori sociosanitari. Lei ha scritto del concetto di «ignoranza privilegiata». Potrebbe spiegare cosa intende con questo termine, come si manifesta e quali strategie potrebbero contrastarla? Viviamo in paesi, come l’Irlanda, che beneficiano dei rapporti commerciali diseguali del capitalismo globale. Questa è un’esistenza privilegiata. Le persone consumano troppo, viaggiano senza considerare i costi ambientali, e restano inconsapevoli del fatto che le loro vite agiate si reggono sulla privazione di altre. Nel mondo accademico questa ignoranza è particolarmente acuta. Quando ero giovane, ho vissuto in un ostello per adolescenti senzatetto. Mi ha insegnato più di qualsiasi laurea. Ho capito quanto poco sapessi. Troppo spesso, gli accademici della classe media costruiscono carriere scrivendo sulla povertà senza mai impegnarsi politicamente. È questo che ci ha portato a fondare Equality Studies: per formare attivisti e attiviste. Io non conoscevo la povertà in prima persona. Ho capito che la conoscenza esperienziale deve essere unita a quella teorica, non estratta e convertita in capitale accademico. Nel Nord globale, le nostre abitudini quotidiane influenzano il nostro pensiero. Se vivi nel comfort, è difficile immaginare la privazione. Se non la senti, non la conosci davvero. È un enorme ostacolo alla giustizia globale. Oggi parlo di «provincialismo del pensiero intellettuale europeo». A un forum globale in India sull’Umanizzazione dell’Educazione, nel febbraio 2025, ho capito quanto poco sappiamo davvero. Abbiamo perso la gentilezza, l’etica, l’umiltà. L’ignoranza privilegiata ci fa credere di essere informati, ci fa pensare che i saperi del Nord siano superiori a quelli indigeni o del Sud globale. Ma non è così. Ci rende intellettualmente arroganti, quando dovremmo essere umili. Abbiamo bisogno di alleanze, non di estrazione. In un contesto socioeconomico come quello europeo, dove i governi investono sempre più in militarizzazione e sempre meno in welfare, cosa la fa sperare che un paradigma fondato sulla cura possa affermarsi in un mondo dominato dalla logica del mercato? Abbiamo bisogno di più politica femminista. Non perché le donne siano moralmente superiori, ma perché sono loro, in maniera sproporzionata, a convivere e rispondere alle ingiustizie. La militarizzazione oggi è terrificante! Persino il Labour Party in Gran Bretagna si vanta della spesa in armamenti. Eppure, io continuo a credere nel potere delle idee. In India ho incontrato persone da ventisette paesi che non vogliono questo mondo ingiusto e militarizzato. Vogliono un altro mondo. Penso che lei si riferisca alla crisi della democrazia occidentale. Le persone si aspettavano che la democrazia portasse giustizia, ma così non è stato. In Irlanda, ad esempio, il 70% della popolazione è contraria agli aiuti militari a Israele, ma non siamo riusciti nemmeno ad approvare la legge sui Territori occupati (Occupied Territories Bill); continuiamo ad avere ampi scambi commerciali con Israele. È in corso un genocidio contro il popolo palestinese. Tuttavia, il cambiamento può nascere da luoghi inaspettati. Studiose e educatrici dei cinque continenti hanno lanciato un Forum Globale sull’Umanizzazione dell’Educazione, e tutti i partecipanti sono impegnati a immaginare un nuovo ordine mondiale, non fondato sulla guerra. Vogliamo promuovere questo forum soprattutto nel Sud globale, dove il desiderio di trasformazione è più forte. Il cambiamento è lento. Ma il linguaggio conta! Le narrazioni contano! Il neoliberismo fornisce non solo una cornice analitica ma anche normativa per comprendere il mondo, spiegarlo e prescrivere come dovrebbe essere. Ha un potere ideologico profondamente radicato, culturalmente e politicamente. Ciò che conferisce al capitalismo neoliberista tanto potere politico e credibilità è la sua capacità di colonizzare i discorsi pubblici sulla morale, facendo sembrare virtuosa la logica secondo cui «chi vince prende tutto». Come scriveva Gramsci, questa è una «guerra di posizione». Dobbiamo combatterla sul piano delle idee. E questo significa resistere, educare, parlare, ovunque e in ogni momento possibile. *Kathleen Lynch è professoressa emerita di studi sull’uguaglianza all’University College di Dublino, fa parte della Commissione irlandese per i diritti umani e l’uguaglianza. Rodolfo Pezzi è dottorando presso il Dipartimento di Sociologia del Trinity College di Dublino. Si occupa di sociologia dell’educazione e disuguaglianze sociali. L'articolo Cura e giustizia sociale proviene da Jacobin Italia.
ARGENTINA: NI UNA MENOS COMPIE DIECI ANNI E SCENDE IN PIAZZA CONTRO IL GOVERNO MILEI
Il movimento transfemminista argentino Ni una menos compie dieci anni. Tutto iniziò il 3 giugno 2015, quando centinaia di migliaia di donne si ritrovarono nelle piazze di tutto il Paese per dire basta ai femminicidi e alla violenza maschile sulle donne e di genere. Nasceva, quel giorno, il movimento che ha poi ispirato i movimenti femministi e transfemministi di mezzo mondo, Italia in primis, e dato il via a un nuovo ciclo di lotte. In tutti questi anni il movimento Ni una menos ha sempre portato avanti  in Argentina una politica femminista e transfemminista fortemente intrecciata con quella per i diritti sociali. Dieci anni dopo – con il neoliberista di estrema destra Javier Milei al governo – il movimento femminista argentino salda la propria lotta con quelle di lavoratrici e lavoratori, di  pensionate e pensionati che, da quando il governo liberista ha tagliato le pensioni, scendono nelle strade di Buenos Aires ogni mercoledì contro le politiche ultraliberiste del governo, tra tagli e privatizzazioni. Nel caso di mercoledì 4 giugno 2015, dunque, le manifestazioni celebrano anche l’anniversario della nascita di Ni una menos. In occasione di questo importante anniversario, Radio Onda d’Urto ha raggiunto telefonicamente, a Buenos Aires, Alberta Bottini, docente del dipartimento di Economia e amministrazione all’Università di Quilmes, dove si occupa di cura, economia femminista ed economia solidale. Ascolta o scarica.