
Cura e giustizia sociale
Jacobin Italia - Saturday, June 21, 2025
In Care and Capitalism (Cura e Capitalismo), Kathleen Lynch analizza le profonde contraddizioni del capitalismo neoliberista: un sistema che prospera sull’individualismo, il profitto e la produttività, ma che svaluta sistematicamente il lavoro relazionale che sostiene la vita umana. Attingendo alla sociologia, alle teorie femministe e all’etica della cura, Lynch mostra come l’amore, la cura e la solidarietà, ciò che lei definisce «eguaglianza affettiva», siano marginalizzati in nome dell’efficienza di mercato. In un’epoca in cui le lavoratrici e i lavoratori della cura sono sovraccarichi, sottopagati e resi invisibili, la sua critica fa eco alle lotte crescenti di chi sostiene, con il proprio lavoro, sia le famiglie che le economie. La sua proposta di un paradigma fondato sulla cura rappresenta una radicale riformulazione della giustizia e del benessere collettivo in un mondo dominato dalla mercificazione e l’indifferenza.
Il suo libro introduce il concetto di eguaglianza affettiva, una critica profonda al modo in cui il capitalismo neoliberista svaluta sistematicamente il lavoro emotivo e relazionale, spesso svolto da donne e gruppi marginalizzati. Questo concetto si distingue sia per la sua portata teorica che politica, sfidando le narrazioni individualistiche delle economie moderne e mettendo in luce il lavoro invisibile ma essenziale della cura. Come si è formato questo concetto nel suo percorso e perché è centrale nella sua critica al capitalismo?
Si è formato in tre modi diversi: attraverso l’esperienza, la ricerca empirica e la teoria. Partiamo dall’esperienza. Nei primi anni Duemila, ho co-curato un libro con alcune colleghe, Equality: From Theory to Action. Credevamo nella ricerca emancipatoria, dialogica. In quel periodo organizzammo una grande conferenza con oltre 300 persone, accademici e rappresentanti della società civile, dove presentammo diverse idee su giustizia ed eguaglianza sociale. Ci fu una forte critica alle teorie convenzionali della giustizia.
Mi colpì profondamente quanto molte persone, anche attive nelle politiche di classe, genere, sessualità e disabilità, sentissero che le teorie esistenti non rappresentavano pienamente le loro vite, soprattutto nelle relazioni di cura. Fu un momento decisivo. Ricordo di aver detto durante un incontro: «La dimensione affettiva è trascurata; dobbiamo sviluppare un concetto che renda conto della vita relazionale». Da lì prese forma il concetto di eguaglianza affettiva.
Sul piano empirico, ho condotto numerosi studi, in particolare tra il 2000 e il 2005. Uno di questi ha portato alla pubblicazione di Affective Equality: Love, Care and Injustice. Abbiamo analizzato vari ruoli di cura: persone che si prendevano cura di bambini, persone con disabilità, giovani. Questi studi confermarono che un’enorme parte della vita umana era ignorata sia dalla sociologia che dal discorso pubblico.
Sul piano teorico, ho dialogato criticamente con la teoria tridimensionale della giustizia di Nancy Fraser, redistribuzione, riconoscimento e rappresentazione. Sebbene utile, questo schema continua a immaginare il cittadino come un soggetto pubblico, capace di stipulare contratti, radicato nella teoria politica liberale. Ma questa tradizione non considera appieno la dimensione relazionale dell’esistenza: la vita nelle famiglie, nelle comunità, negli spazi intimi.
Le persone si co-producono attraverso le relazioni. Le nostre vite emotive e relazionali plasmano chi siamo e chi diventiamo. Quando le persone sono private della cura, intimamente, socialmente o politicamente, subiscono un’ingiustizia. L’eguaglianza affettiva riguarda non solo chi svolge lavoro di cura (spesso donne e gruppi marginalizzati), ma anche chi riceve cura, amore e solidarietà, e chi viene privato di questo diritto. Penso, per esempio, alle carceri: ci assicuriamo che le madri vedano i loro figli, ma raramente ci chiediamo se anche gli uomini abbiano bisogno di relazioni di cura. È una negazione della loro umanità emotiva.
In definitiva, come diceva un vecchio slogan femminista: abbiamo bisogno sia del pane che delle rose. Le persone possono sopravvivere senza cura, ma non possono fiorire. Non si può sopravvivere emotivamente senza essere sostenuti, riconosciuti, senza dare e ricevere cure a livello personale, comunitario e politico. Senza amore, cura e solidarietà, si può forse sopravvivere, ma non vivere pienamente.
Lei sostiene che il neoliberismo svaluta sistematicamente la cura, rappresentandola come un onere piuttosto che come un bene sociale. Questa critica va oltre il sistema sanitario e riguarda il modo in cui le società danno priorità alla produttività e al profitto a scapito del benessere relazionale e comunitario. La precarietà e l’invisibilizzazione del lavoro nei settori essenziali riflettono questa svalutazione. Quali trasformazioni strutturali sono necessarie per contrastare questa disumanizzazione e promuovere un modello più incentrato sulla cura?
Le trasformazioni necessarie sono molte, ma la più cruciale è un cambiamento epistemologico e ontologico. Inizierei però con un esempio concreto e politico: ogni partito politico dovrebbe avere una politica della cura coerente con la giustizia sociale, che riconosca l’internazionalità delle ingiustizie, inclusa quella ecologica. Se la cura fosse presa sul serio come principio guida, cambierebbe radicalmente il nostro modo di pensare la società, le altre specie e la Terra.
Il modello dominante di coscienza è ancora radicato nel razionalismo cartesiano: la ragione è esaltata, l’emozione è largamente ignorata. Agiamo come se le persone fossero esseri puramente razionali, quando in realtà siamo profondamente emotivi, relazionali e vulnerabili. Per cambiare il nostro modo di vivere, dobbiamo cambiare il modo in cui educhiamo e comprendiamo la condizione umana.
Ciò è particolarmente difficile nelle tradizioni accademiche segnate da retaggi antifemministi, che ignorano in gran parte la relazionalità, l’interdipendenza e la vulnerabilità della condizione umana. La cura è svolta principalmente da donne, a cui viene socialmente assegnata. Gli uomini, soprattutto quelli in posizioni di potere, ne sono spesso esonerati. Riconoscerlo mette in discussione strutture di potere radicate. Ma dobbiamo partire dal riconoscimento che gli esseri umani sono relazionali. Non siamo solo razionali o cerebrali: siamo emotivi, interdipendenti, vulnerabili. La nostra vita emotiva è legata all’etica: impariamo a prenderci cura attraverso la connessione.
Cambiare questo richiede una riforma educativa profonda. Tutto ciò che facciamo ha conseguenze relazionali. Comprare vestiti a basso costo implica lo sfruttamento altrui; il consumo eccessivo distrugge la Terra. Un’ontologia relazionale, che riconosca l’interconnessione, offre un modo radicalmente diverso di essere.
Dobbiamo anche modificare il discorso pubblico. Occorre superare il capitalocentrismo, la tendenza a ricondurre ogni problema sociale alla logica di mercato. Il neoliberismo ha reso la ricerca dell’interesse personale una norma. L’ambizione, la ricerca del potere e l’individualismo sono celebrati, ma erodono la solidarietà. Audre Lorde disse: «Gli strumenti del padrone non smantelleranno mai la casa del padrone». Dobbiamo uscire dal paradigma della mercificazione, del possesso, dell’individualizzazione. Questa logica è ormai stata santificata nella formula della «auto-responsabilizzazione»: prenditi cura solo di te stesso e ignora gli altri. È dunque una questione epistemologica e ontologica, ma anche politica. E non vedo come si possa averne una senza l’altra. È l’unica strada possibile.
Una parte del suo lavoro che mi ha colpito particolarmente è la critica all’ossessione neoliberista per le metriche, la meritocrazia e la competitività. Questa ossessione riflette un impegno ideologico più profondo verso la mercificazione e la quantificazione: anche il lavoro relazionale ed emotivo viene ridotto a numeri e prestazioni. Come vede l’impatto di questa logica sulla cura? Crede che ci sia un modo per riconoscere il lavoro di cura senza ridurlo a metriche di mercato, o l’homo curans, contrapposto all’homo economicus, è per sua natura non quantificabile?
Hai perfettamente ragione a preoccuparti delle metriche. I numeri portano con sé un apparente oggettività che spesso le persone temono di contestare. Ma la cura non può essere ridotta a misurazioni, perché non è lineare. Non ha un inizio, un centro o una fine. La sua potenzialità è infinita, e all’estremo opposto ci sono la trascuratezza, l’abuso e la violenza.
La quantificazione della vita è pericolosa perché non si possono introdurre metriche senza classificare le persone, e la classificazione genera inevitabilmente un malcontento diffuso. Michael Sandel lo ha scritto in modo brillante nel suo libro La tirannia del merito. Negli Stati uniti, il mito della meritocrazia, «lavora duro, sii intelligente, e avrai successo», ha prodotto una diffusa disillusione. Persino l’idea di «intelligenza» è un’eredità dell’eugenetica.
La maggior parte delle persone non è in cima alla classifica. La maggioranza si trova nel mezzo o in fondo. Questo alimenta quello che io chiamo «risentimento latente», soprattutto in relazione al fallimento scolastico, una condizione diffusa in quasi tutte le culture, che ha forti implicazioni politiche e sociologiche. Politicamente è rilevante. Chi vota Trump, la Brexit o movimenti di destra spesso si sente escluso e tradito dai sistemi cosiddetti meritocratici.
Ma è possibile valutare la competenza senza classificare le persone. Per oltre dieci anni, noi [in Equality Studies, alla University College Dublin] abbiamo gestito un master che non prevedeva classifiche tra gli studenti. Questo ha cambiato tutto. Le persone collaboravano invece di competere. Non essendo in competizione, cooperavano. Anche i sindacati degli insegnanti in Irlanda si sono battuti per impedire la graduatoria del personale scolastico proprio per questo motivo.
La cura non dovrebbe essere misurata, perché ciò ne mina il carattere volontario, spontaneo, non transazionale. E poi la riconosciamo anche nella sua assenza: la mancanza di investimenti nell’istruzione, nella sanità, nei servizi sociali è una forma di incuria. L’abbiamo vista nello smantellamento dello stato sociale del dopoguerra, che ha indebolito la solidarietà. Se iniziamo a misurare la cura, le persone diventano calcolatrici, e ciò snatura la cura stessa, che in gran parte è volontaria e spontanea. Non abbiamo bisogno di metriche per sapere che la cura è importante. La cura segue una logica diversa: relazionale, radicata nel corpo ed etica. Non è regolativa né strumentale.
Il suo libro affronta anche le dimensioni ecologiche della cura, incluse le relazioni con gli animali non umani e l’ambiente. Perché ha ritenuto importante includere questi aspetti in un libro sulla cura?
Perché non riuscivo a credere quanto poco il movimento ecologista parlasse di cura. Hai mai coltivato qualcosa? Non si può coltivare senza cura. Devi proteggere, nutrire, prenderti cura. Custodire la Terra significa prendersene cura: non inquinarla, non sfruttarla.
Mio padre era un agricoltore tradizionale. Quando l’Irlanda è entrata nell’Ue, gli agricoltori sono stati incentivati a intensificare la produzione. Ciò ha danneggiato non solo gli animali, ma anche la terra. La Terra non può sostenere una pressione estrattiva di quel tipo. Essere buoni antenati significa lasciare intatto ciò che ci è stato affidato, rifiutando l’accumulazione predatoria che svuota foreste, suolo e acque.
Mi preoccupo molto anche degli animali non umani. Sono esseri senzienti. Soffrono. Ma siamo stati educati a non provare empatia, siamo stati desensibilizzati, soprattutto dal capitalismo. Oggi le persone sono disconnesse dalla terra, dalla natura. Non sempre per scelta, ma per costrizione sistemica. Ecco perché ho incluso questa dimensione: perché per me è evidente. Non ci si può prendere cura della Terra senza un’etica della cura.
La pandemia di Covid-19 ha esposto profonde disuguaglianze nei sistemi di cura a livello globale. Ha ulteriormente evidenziato la trascuratezza sistemica nei confronti delle categorie di lavoratrici e lavoratori sociosanitari. Lei ha scritto del concetto di «ignoranza privilegiata». Potrebbe spiegare cosa intende con questo termine, come si manifesta e quali strategie potrebbero contrastarla?
Viviamo in paesi, come l’Irlanda, che beneficiano dei rapporti commerciali diseguali del capitalismo globale. Questa è un’esistenza privilegiata. Le persone consumano troppo, viaggiano senza considerare i costi ambientali, e restano inconsapevoli del fatto che le loro vite agiate si reggono sulla privazione di altre.
Nel mondo accademico questa ignoranza è particolarmente acuta. Quando ero giovane, ho vissuto in un ostello per adolescenti senzatetto. Mi ha insegnato più di qualsiasi laurea. Ho capito quanto poco sapessi. Troppo spesso, gli accademici della classe media costruiscono carriere scrivendo sulla povertà senza mai impegnarsi politicamente. È questo che ci ha portato a fondare Equality Studies: per formare attivisti e attiviste. Io non conoscevo la povertà in prima persona. Ho capito che la conoscenza esperienziale deve essere unita a quella teorica, non estratta e convertita in capitale accademico.
Nel Nord globale, le nostre abitudini quotidiane influenzano il nostro pensiero. Se vivi nel comfort, è difficile immaginare la privazione. Se non la senti, non la conosci davvero. È un enorme ostacolo alla giustizia globale. Oggi parlo di «provincialismo del pensiero intellettuale europeo». A un forum globale in India sull’Umanizzazione dell’Educazione, nel febbraio 2025, ho capito quanto poco sappiamo davvero. Abbiamo perso la gentilezza, l’etica, l’umiltà. L’ignoranza privilegiata ci fa credere di essere informati, ci fa pensare che i saperi del Nord siano superiori a quelli indigeni o del Sud globale. Ma non è così. Ci rende intellettualmente arroganti, quando dovremmo essere umili. Abbiamo bisogno di alleanze, non di estrazione.
In un contesto socioeconomico come quello europeo, dove i governi investono sempre più in militarizzazione e sempre meno in welfare, cosa la fa sperare che un paradigma fondato sulla cura possa affermarsi in un mondo dominato dalla logica del mercato?
Abbiamo bisogno di più politica femminista. Non perché le donne siano moralmente superiori, ma perché sono loro, in maniera sproporzionata, a convivere e rispondere alle ingiustizie. La militarizzazione oggi è terrificante! Persino il Labour Party in Gran Bretagna si vanta della spesa in armamenti. Eppure, io continuo a credere nel potere delle idee. In India ho incontrato persone da ventisette paesi che non vogliono questo mondo ingiusto e militarizzato. Vogliono un altro mondo.
Penso che lei si riferisca alla crisi della democrazia occidentale. Le persone si aspettavano che la democrazia portasse giustizia, ma così non è stato. In Irlanda, ad esempio, il 70% della popolazione è contraria agli aiuti militari a Israele, ma non siamo riusciti nemmeno ad approvare la legge sui Territori occupati (Occupied Territories Bill); continuiamo ad avere ampi scambi commerciali con Israele. È in corso un genocidio contro il popolo palestinese. Tuttavia, il cambiamento può nascere da luoghi inaspettati. Studiose e educatrici dei cinque continenti hanno lanciato un Forum Globale sull’Umanizzazione dell’Educazione, e tutti i partecipanti sono impegnati a immaginare un nuovo ordine mondiale, non fondato sulla guerra. Vogliamo promuovere questo forum soprattutto nel Sud globale, dove il desiderio di trasformazione è più forte.
Il cambiamento è lento. Ma il linguaggio conta! Le narrazioni contano! Il neoliberismo fornisce non solo una cornice analitica ma anche normativa per comprendere il mondo, spiegarlo e prescrivere come dovrebbe essere. Ha un potere ideologico profondamente radicato, culturalmente e politicamente. Ciò che conferisce al capitalismo neoliberista tanto potere politico e credibilità è la sua capacità di colonizzare i discorsi pubblici sulla morale, facendo sembrare virtuosa la logica secondo cui «chi vince prende tutto». Come scriveva Gramsci, questa è una «guerra di posizione». Dobbiamo combatterla sul piano delle idee. E questo significa resistere, educare, parlare, ovunque e in ogni momento possibile.
*Kathleen Lynch è professoressa emerita di studi sull’uguaglianza all’University College di Dublino, fa parte della Commissione irlandese per i diritti umani e l’uguaglianza. Rodolfo Pezzi è dottorando presso il Dipartimento di Sociologia del Trinity College di Dublino. Si occupa di sociologia dell’educazione e disuguaglianze sociali.
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