Il pallone discriminato

Jacobin Italia - Tuesday, July 22, 2025
Articolo di Andrea Ponticelli, Gabriele Granato

In Svizzera sta andando in scena l’Europeo di calcio femminile, un torneo decisamente in crescita rispetto all’edizione del 2022 che vide trionfare l’Inghilterra, e che ci parla di un calcio femminile in continua espansione sotto ogni punto di vista. Non a caso, già prima dell’inizio della competizione i numeri erano da record: 600.000 biglietti venduti su una disponibilità totale di circa 720.000; 22 partite già sold-out in prevendita (tutte quelle della fase finale più diversi match della fase a gironi) e circa 500.000.000 potenziali telespettatori da tutto il mondo. Numeri che assumono un valore ancora più importante se messi a confronto con il recente Mondiale per Club, fortemente voluto da Infantino, che ha fatto registrare stadi semivuoti e una media spettatori di 39.500 nonostante la Fifa abbia ribassato il costo dei biglietti o li abbia addirittura regalati.

Le partite delle azzurre sono state guardate da milioni di persone, con il record di 2,3 milioni di telespettatori e telespettatrici in occasione dei quarti di finale giocati – e vinti – contro la Norvegia. Numeri da capogiro che assumono un valore ancora maggiore se si considera che il calcio femminile, nonostante tutto, continua a scontrarsi con un ostacolo tanto antico quanto radicato nella nostra società: il patriarcato. Nonostante l’aumento della popolarità, la qualità del gioco e l’impegno delle atlete, il gender gap nel mondo del pallone rimane sconcertante. Ed è ora di dirlo chiaramente: questo gap non è frutto di minore talento o minore spettacolarità, ma del sistema patriarcale che ha storicamente marginalizzato lo sport femminile.

Un sistema costruito sul maschile

Il calcio, da sempre, è stato concepito come terreno di espressione della virilità, dell’agonismo maschile, dell’identità patriarcale. Come sottolineato da un’analisi pubblicata su Jacobin già nel 2015, la Fifa stessa, per decenni, ha trattato il calcio femminile con aperto disinteresse, quando non con disprezzo. Per esempio, nel 2004, Sepp Blatter suggeriva che le calciatrici dovessero indossare «shorts più attillati» per attrarre più pubblico. Una dichiarazione che riassume perfettamente la visione sessista dell’establishment calcistico che perdura ancora oggi e che si riflette in un atteggiamento che ha avuto conseguenze devastanti dal punto di vista della parità di genere in ogni sua sfaccettatura. 

Le atlete professioniste, pur dedicando le stesse ore di allenamento e affrontando gli stessi rischi fisici dei colleghi uomini, guadagnano una frazione dei loro stipendi. Secondo Social Media Soccer, durante la Coppa del Mondo femminile 2023, le giocatrici hanno ricevuto premi pari a circa un quarto di quelli maschili nel torneo del 2022. L’intero montepremi è passato dai 28 milioni di dollari del 2019 ai 105 del 2023, un aumento, sì, ma ancora lontano dai 440 milioni riservati agli uomini in Qatar. 

Durante la Coppa del Mondo femminile 2023 in Australia e Nuova Zelanda, i dati di ascolto sono stati da record. In Australia, la semifinale tra le padrone di casa e le Lioness inglesi è stata, ad esempio, seguita da 11,5 milioni di persone. La finalissima tra Spagna e Inghilterra è stata, invece, vista da oltre 13 milioni di persone nel solo Stato Spagnolo; da circa 6 milioni in Inghilterra e da circa 500 mila persone in Italia, nonostante qui sia stata trasmessa su Rai Sport e non su una rete generalista come fatto dai principali paesi europei (e comunque gli ascolti della partita hanno superato quelli delle reti generaliste Rai2 e Rai3). Si è trattato di uno degli eventi sportivi più visti dell’anno. Eppure, anche davanti a questi risultati, le differenze salariali e contrattuali permangono. Secondo alcuni studi, le Federazioni nazionali mostrano resistenze sistemiche all’equiparazione salariale, legandola ancora alla «sostenibilità economica». Discorso simile per i presidenti delle società come dimostrato di recente da Aurelio De Laurentiis, presidente del Napoli, che nel corso di un talk al Giffoni Film Festival ha candidamente affermato che, se non ci sono i soldi neanche per la serie A, B e C maschile, figuriamoci come si possano trovare per quella femminile, dimostrando che si continua a ignorare l’impatto del capitale culturale e simbolico che il calcio femminile sta accumulando. È la riproduzione ideologica del patriarcato nel linguaggio manageriale.

Il caso del calcio italiano

In Italia, il calcio femminile ha fatto passi avanti importanti, soprattutto negli ultimi anni e in particolar modo dal 2022 quando è stato introdotto il professionismo per la Serie A. Ma il gender gap permane, come si può immediatamente notare mettendo a confronto gli stipendi delle calciatrici e quelli dei calciatori. 

Secondo i dati più recenti, gli stipendi delle calciatrici italiane oscillano tra i 14.400 euro lordi annui per le più giovani e un massimo di circa 30.000-40.000 euro lordi per le giocatrici più esperte e di vertice, con qualche eccezione di top player che arriva a 200.000 euro. Cifre irrisorie se pensiamo che un calciatore medio della Serie A maschile guadagna diverse centinaia di migliaia di euro all’anno, con i top player che guadagnano milioni e milioni di euro l’anno. Un gap enorme ma soprattutto inaccettabile. La visione patriarcale della società e dello sport, però, non ha ripercussioni solo in termini di gap salariale ma anche in tantissimi altri aspetti come sottolineato, ad esempio, dall’ex campionessa della nazionale femminile Patrizia Panico: «penso che nel calcio sia radicata una grave forma di maschilismo tale da escludere le donne, non soltanto per quanto concerne il ruolo di allenatore, ma da tantissime altre figure professionali quali: preparatore atletico, medico, direttore sportivo, team manager, direttore generale, addetto stampa e molti altri ruoli. Nelle squadre professionistiche ma anche, purtroppo, nelle dilettantistiche raramente si trovano figure femminili, è questione di mentalità, di una cultura retrograda. Personalmente conosco moltissime donne molto più competenti dei loro colleghi uomini».

A rendere ancora più evidente la disparità tra calcio maschile e femminile, è la sproporzione negli investimenti strutturali. I club maschili, soprattutto nelle serie maggiori, possono contare su centri sportivi all’avanguardia, staff tecnici multidisciplinari, strutture mediche e logistiche di altissimo livello. Al contrario, molte squadre femminili, anche in Serie A, faticano a trovare campi in buone condizioni per allenarsi. Mentre i diritti televisivi del campionato maschile fruttano centinaia di milioni di euro l’anno – basti pensare che la Serie A maschile ha sottoscritto contratti da oltre 900 milioni per il triennio 2024-2027 – il calcio femminile italiano ha visto solo di recente una timida apertura in questo senso, con i primi accordi televisivi arrivati nel 2022 e con cifre estremamente contenute. Secondo un’indagine dell’osservatorio Figc, oltre il 70% dei club femminili non dispone di un centro sportivo proprio e deve affittare spazi a ore. E non è un caso se più di recente due delle stelle della Nazionale, Cantore e Caruso, hanno parlato proprio della necessità di portare avanti una battaglia per la parità di genere che non si traduce solo in uguaglianza di stipendi: «dobbiamo lavorare tutte insieme per ottenere le stesse opportunità – non gli stipendi – dei colleghi. La parità è avere accesso alle loro stesse strutture e a determinati diritti che non ci vengono ancora riconosciuti».

Perché la discriminazione di genere non si manifesta solo in un divario economico ma anche in uno simbolico: investire significa riconoscere valore e in Italia – come altrove – il valore viene ancora assegnato secondo logiche patriarcali che mettono al centro il maschile, e relegano il femminile ai margini, considerandolo meno importante, meno «meritevole» di infrastrutture e risorse.

Non è questione di qualità, ma di potere

Il discorso che giustifica le enormi differenze tra calcio maschile e femminile appellandosi ai «numeri del mercato» – come audience televisiva, introiti da sponsor o vendite dei biglietti – è profondamente fuorviante e ideologico. Questi numeri non sono neutri, ma il risultato di decenni di disinvestimento strutturale, culturale e mediatico nel calcio femminile. Non sono il segnale di uno scarso interesse «naturale», bensì le conseguenze concrete di precise scelte politiche e culturali, dettate da un sistema patriarcale che ha deciso chi merita la visibilità, il denaro e l’accesso ialle risorse, e chi invece deve accontentarsi di briciole. 

Come ha spesso ribadito la filosofa e attivista Silvia Federici, la svalutazione del lavoro femminile – sia esso retribuito o domestico, professionale o sportivo – è una strategia precisa attraverso cui il patriarcato mantiene il controllo del potere economico e simbolico. Questa logica si ripropone con forza anche nel mondo del calcio: quando una calciatrice professionista guadagna 20.000 euro all’anno, mentre un calciatore di Serie B può arrivare tranquillamente a cifre dieci volte superiori, non si tratta di una differenza basata sul «merito» o sulla «resa economica». Si tratta di una gerarchia imposta, in cui il valore delle donne viene sistematicamente svalutato e reso invisibile. 

Il patriarcato non ha solo impedito alle donne di accedere al calcio ai massimi livelli; ha anche costruito una narrazione secondo cui lo sport femminile sarebbe «meno competitivo», «meno attraente» e, dunque, meno degno di essere visto, seguito, pagato. È una forma di controllo sociale mascherata da analisi economica, una giustificazione moderna per una disparità antica. E questa logica non riguarda solo il calcio: la stessa struttura si ripete nel mondo del lavoro, nell’arte, nella scienza, nella politica, ovunque le donne osino reclamare spazio, voce e dignità. Il punto non è cosa producono o quanto «rendono»: il punto è che, in un sistema di potere maschile, alle donne viene ancora negato il diritto di valere quanto gli uomini.

Quale via d’uscita?

La lotta per l’equiparazione salariale e di trattamento nel calcio femminile non può limitarsi ai soli confini dello sport. Il calcio è riflesso fedele della società in cui viviamo, che resta profondamente patriarcale e maschilista. Per cambiare il calcio, bisogna cambiare la società, e viceversa. Il patriarcato si manifesta in modo sistemico in molteplici aspetti della vita quotidiana: dalle discriminazioni salariali nel mondo del lavoro alle difficoltà di accesso ai ruoli apicali, dalla violenza di genere alle norme sociali che ancora relegano le donne al ruolo di caregiver primarie, limitando la loro libertà e autonomia economica. In Italia, ad esempio, la differenza salariale di genere supera ancora il 20% e soltanto il 35% delle posizioni manageriali è occupato da donne. Questo svantaggio strutturale si ripercuote anche nello sport, dove il riconoscimento economico e mediatico delle atlete resta minimo. Angela Davis, filosofa e attivista afroamericana, sottolineava come la discriminazione di genere non sia un fenomeno isolato, ma una struttura di potere che intreccia razza, classe e genere in modo indissolubile. Per Davis, la lotta delle donne contro il patriarcato dev’essere necessariamente una lotta contro tutte le forme di oppressione, e la conquista di pari diritti economici e sociali rappresenta un passaggio fondamentale verso una società più giusta.

Nel calcio, questo significa che la battaglia per salari equi, investimenti strutturali e visibilità non può essere una rivendicazione esclusivamente sportiva: è parte di una più ampia lotta contro quei sistemi che definiscono il valore delle donne come inferiore a quello degli uomini. Bisogna combattere dentro lo spogliatoio come nelle federazioni, ma anche sui posti di lavoro, nelle scuole, nelle redazioni giornalistiche così come nel mondo della politica e dell’attivismo. Il patriarcato si manifesta, infatti, in maniera tangibile e quotidiana: le donne vengono discriminate a livello di salario e spesso costrette ad accettare contratti precari o part-time, anche quando possiedono le stesse qualifiche e competenze degli uomini; sono quasi sempre le donne a sobbarcarsi il lavoro di cura dei figli e degli anziani, un impegno che limita le possibilità di carriera e la piena autonomia economica; la loro rappresentanza politica ed economica è insufficiente, con pochi accessi ai ruoli decisionali. Si pensi che su 18 membri del Consiglio Federale della Figc, ad esempio, solo tre sono donne.

In ambito sportivo, poi, persistono forti stereotipi di genere che dipingono le donne come meno competitive o meno interessate allo sport, rafforzando così l’idea che il calcio femminile sia un prodotto di serie B. 

Contrastare tutte queste dinamiche significa smontare i meccanismi di potere che mantengono tali disuguaglianze. Come affermava Bell Hooks, la liberazione delle donne è inseparabile dalla trasformazione delle strutture sociali in cui vivono. Nel calcio femminile, questo si traduce nella necessità di investimenti seri e duraturi, che non si limitino a campagne di facciata utili più alla Federazione per mostrarsi al passo con i tempi che a una reale lotta alle disparità di genere; nella realizzazione di politiche federali capaci di eliminare i tetti salariali ingiusti e favorire la parità; nella creazione di un racconto mediatico che presenti il calcio femminile come uno sport di alto livello, non come un prodotto «minore»; e infine in un’educazione di genere diffusa, capace di cambiare mentalità fin dalla giovane età ed evitare, ad esempio, che si ripetano episodi come quello occorso qualche giorno fa a Pedro Rodríguez, calciatore della Lazio, inondato di insulti sessisti e omofobi sotto al post della foto con la moglie e il figlio che per festeggiare il suo ottavo compleanno ha indossato una tiara e un vestitino con le spalline. Superfluo aggiungere che nessun rappresentante della Figc né tanto meno della Lega Calcio ha espresso solidarietà al calciatore o condannato gli insulti.

Solo in questo modo la battaglia per eliminare il gap salariale e le discriminazioni di genere nella loro totalità potrà essere veramente efficace e duratura. Il calcio femminile può allora diventare non solo un simbolo di emancipazione, ma anche un motore di trasformazione culturale in una società ancora troppo dominata da logiche patriarcali.

* Andrea Ponticelli, attivista da più di dieci anni nelle lotte di Napoli e provincia, è tra i principali promotori del progetto Calcio&Rivoluzione. Gabriele Granato, attivista sociale, frequentatore di stadi e collezionista di t-shirt da gioco, è appassionato di sport e politica ed è tra i fondatori di Calcio&Rivoluzione.

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