
Aborto e biopolitiche nazionaliste
Jacobin Italia - Friday, August 29, 2025
Il 5 giugno scorso la Regione Sicilia ha approvato la legge 23/2025, volta a garantire la presenza di reparti e personale medico non obiettore negli ospedali pubblici, in un contesto in cui circa l’85% dei ginecologi si dichiara obiettore, con punte drammatiche come quella di Messina (35 su 36). La legge in questione prevede bandi specifici per personale medico disponibile a praticare l’interruzione volontaria di gravidanza (Ivg), meccanismi di rotazione o sostituzione del personale per colmare le carenze, e obblighi di monitoraggio e trasparenza da parte delle aziende sanitarie. In questo modo si tenta di rendere effettiva una normativa già esistente, la 194, che, pur con tutte le sue criticità, sancisce il diritto all’aborto.
Prima della legge siciliana, anche altre regioni avevano tentato – senza successo – di intervenire per garantire l’accesso all’aborto, come in Puglia nel 2018, dove una proposta per assumere medici non obiettori fu bocciata trasversalmente in Consiglio regionale. O in Toscana, dove si erano sollevate discussioni simili, mai concretizzate, mentre in Umbria si è invece agito in senso opposto, restringendo l’accesso alla RU486 e rafforzando le politiche nataliste.
Nello specifico, in Sicilia, questa situazione si intreccia con condizioni di marginalità sociale e strutturale, soprattutto per donne migranti e precarie. La sanità territoriale è carente, i consultori sono pochi e mal distribuiti, e le donne migranti si trovano ad affrontare viaggi lunghi, ostacoli burocratici e discriminazioni linguistiche. Per loro, l’accesso a un aborto sicuro e gratuito non è un diritto così immediato.
La battaglia per l’accesso libero, gratuito e dignitoso all’aborto non può essere dissociata dalle condizioni materiali di vita, è anche una questione di classe. Chi può permetterselo – per reddito, cittadinanza, vicinanza geografica ai centri, conoscenza delle procedure – riesce a interrompere una gravidanza anche in un contesto ostile. Chi non può, viene lasciata indietro. In questo squilibrio, l’aborto si trasforma da diritto a privilegio.
La pandemia da Covid-19 ha evidenziato poi come l’accesso all’aborto e ai servizi sanitari essenziali possa essere ulteriormente negato quando non si riconosce la loro centralità nel modello di cura, rivelando un paradigma patriarcale e biopolitico che considera alcuni corpi sacrificabili. Durante il Covid l’accesso all’aborto (come a qualsiasi altro servizio sanitario non considerato «essenziale» da uno sguardo patriarcale) è stato reso ancora più difficile: non solo per motivi tecnici o organizzativi, ma perché non prioritario nel modello di cura imposto.
Davanti a tutto questo, poco meno di due mesi dopo l’approvazione della legge siciliana, il 4 agosto, il Consiglio dei Ministri l’ha impugnata davanti alla Corte Costituzionale, motivando la decisione con la tutela del principio di uguaglianza, del diritto all’obiezione di coscienza e del libero accesso ai concorsi pubblici. La destra, da Fratelli d’Italia in là, ha espresso il proprio consenso all’impugnazione sostenendo che la legge limitasse libertà personali, religiose e morali, mentre sindacati come la Cgil hanno denunciato il grave attacco ai diritti delle donne e alla salute pubblica rappresentato da questa impugnazione, in palese contraddizione con le condanne europee sul difficile accesso alle Ivg.
Questo scontro non è un episodio isolato né una mera boutade estiva: si inserisce in un più ampio discorso di biopolitiche nazionaliste e patriarcali, che disciplinano e normano corpi e identità sessuali. Nel contempo, infatti, si registrano leggi e provvedimenti che limitano i diritti delle persone trans, come il Ddl «Disposizioni per l’appropriatezza prescrittiva e il corretto utilizzo dei farmaci per la disforia di genere» (chiamato anche Ddl disforia) che impone controlli e medicalizzazioni burocratiche sul percorso di affermazione di genere per i minori, attraverso diagnosi obbligatorie, autorizzazioni centralizzate e la creazione di un registro nazionale gestito da Aifa, l’Agenzia italiana del farmaco, con il pretesto della tutela ma in realtà per instaurare un regime di sorveglianza e controllo. Questo Ddl nasce da un fronte reazionario, da figure e movimenti che riflettono una visione patriarcale, come RadFem, Generazione D, ProVita & Famiglia, e altri. Essi patologizzano la soggettività trans, negano la libertà e l’autodeterminazione, e propongono una visione della famiglia e della riproduzione come unica via legittima di esistenza, in linea con una politica nazionalista e patriarcale.
Non sono leggi e azioni scollegate tra loro ma è in atto un processo di «normativizzazione» dei corpi e delle identità sessuali funzionale alla costruzione di un «popolo» nazional-religioso esclusivo. A queste si aggiungono poi le politiche migratorie e securitarie. Questi dispositivi biopolitici – nel senso foucaultiano del termine – sono strumenti di governo della vita che operano selettivamente, imponendo una gerarchia di legittimità e visibilità. Il corpo femminile e le soggettività dissidenti (trans, migranti, povere) vengono controllati, disciplinati, marginalizzati.
Tra i dispositivi simbolici più potenti messi in campo dall’estrema destra e dai movimenti no gender vi è la figura del bambino, rappresentato come innocente da salvare, fragile da difendere, ma soprattutto come garante ideologico di un futuro conforme all’ordine patriarcale ed eteronormativo. Quest’immaginario, come ha teorizzato Lee Edelman in No Future (2004), non riguarda i bambini reali, ma una costruzione politica: «il fascismo del volto del bambino […] ci sottopone alla sua sovrana autorità come figura stessa della politica, nella sua forma radicale di futurismo riproduttivo». In questo quadro, ogni discorso che mette al centro il «diritto alla nascita» o «la protezione dell’infanzia» è meno interessato al benessere dei soggetti viventi e più impegnato a rafforzare la riproduzione dell’ordine sociale esistente.
L’antiabortismo si inserisce perfettamente in questa logica. Il feto diventa figura sacralizzata del futuro, mentre le vite presenti – in particolare quelle delle donne, delle persone trans, migranti o precarie – vengono oscurate, marginalizzate, talvolta esplicitamente sacrificate. In questo quadro, l’aborto non è più un diritto, ma un «privilegio sospetto», disciplinato da un nazionalismo che vede nelle «donne riproduttrici» il fulcro della nazione, mentre le altre soggettività vengono marginalizzate o espulse dallo spazio pubblico e politico.
L’impugnazione della legge siciliana mostra come il nazionalismo agisca come dispositivo disciplinante dei corpi. La libertà riproduttiva diventa così negoziabile in base al consenso ideologico dominante, e il diritto all’obiezione di coscienza si estende a comprimere le libertà individuali e collettive. Questa strategia di controllo dei diritti riproduttivi, ormai da anni portata avanti da destre reazionarie europee, si inscrive in un ordine patriarcale, eteronormato e nazionalista. Come mostrano i casi di Polonia, Ungheria e Spagna, i governi conservatori utilizzano l’aborto come terreno di scontro simbolico e politico, promuovendo politiche nataliste e restrizioni che colpiscono in modo sproporzionato le donne e le soggettività marginalizzate. In Polonia, il governo ultraconservatore guidato da Diritto e Giustizia (PiS) ha spinto nel 2020 per una sentenza della Corte costituzionale che ha reso illegale l’aborto anche in caso di gravi malformazioni fetali, lasciandolo consentito solo in casi estremi (stupro, incesto, pericolo di vita). In Ungheria, il governo di Orbán promuove politiche nataliste che incentivano la maternità come dovere patriottico, mentre ostacola sistematicamente i diritti riproduttivi e Lgbtq+. In Spagna, l’estrema destra di Vox ha tentato di limitare l’accesso all’aborto in diverse comunità autonome, proponendo ecografie obbligatorie e tempi di riflessione forzati.
In Italia, pur senza un attacco frontale alla legge 194, la destra al governo opera per svuotarne il contenuto attraverso l’amplificazione dell’obiezione di coscienza, la promozione di associazioni antiabortiste e l’impugnazione di leggi regionali come quella siciliana. Ne risulta un aborto formalmente legale ma sostanzialmente inaccessibile per molte. Si tratta di un autoritarismo soft che però riafferma il controllo sui corpi delle donne* e delle soggettività dissidenti, in nome della nazione, della famiglia e dell’ordine sociale.
Rivendicare il diritto all’aborto oggi è, fondamentalmente, un atto antifascista. Lo è perché si oppone a ogni progetto politico che mira al controllo dei corpi, alla normazione della sessualità e alla subordinazione delle donne e delle soggettività dissidenti. Durante il regime fascista, il corpo femminile era considerato un bene pubblico, destinato alla riproduzione della nazione: l’aborto era criminalizzato, la maternità imposta, la famiglia patriarcale eretta a fondamento dello Stato. In questo senso, l’aborto non è solo una questione sanitaria o di privacy individuale: è una pratica di libertà collettiva che si scontra frontalmente con ogni ideologia autoritaria.
Le battaglie femministe che hanno portato alla legge 194 hanno intrecciato, fin dall’inizio, il rifiuto della maternità obbligatoria con la critica radicale ai fondamenti sessisti e nazionalisti del potere. Oggi, di fronte alla rinascita dei discorsi sovranisti e alla retorica reazionaria sulla «natalità italiana», il diritto all’interruzione volontaria di gravidanza torna a essere una questione politica centrale della lotta antifascista. Perché chi nega l’aborto, nega la possibilità stessa di decidere su di sé – e questo è, da sempre, il primo passo di ogni regime autoritario.
*Elisa Virgili è ricercatrice indipendente. Si occupa di studi di genere, teorie queer e filosofia politica. Fa parte del Centro di ricerca Politesse e della rete Gifts. Ha curato e tradotto Gaga Feminism (Asterisco edizioni, 2021).
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