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Flumen Festival VII edizione: un fiume di speranza per la pace e la nonviolenza
Dal 29 al 30 agosto 2025 il Salsedine Spazio Eventi di Fiumicino ha ospitato la settima edizione del Flumen Festival, un appuntamento dedicato alla nonviolenza, all’ecologia, alle migrazioni e all’obiezione alla guerra. La rassegna è stata promossa da Io, Noi OdV, Biblioteca per la Nonviolenza e Movimento Nonviolento, con la main partnership di CSV Lazio (https://www.flumenfestival.eu/edizione-2025/ ). Ideato per coltivare un cambiamento culturale e sociale profondo, il festival porta nel suo nome latino un doppio significato: “Flumen”, fiume, contiene anche “lumen”, la luce, “quella fiammella di speranza che vogliamo tenere accesa e far scorrere tra la gente” – come ha ricordato il direttore artistico Daniele Taurino. L’atmosfera che si respirava era quella di una comunità che si ritrova: un intreccio di associazioni, volontari, studenti, artisti e cittadini accomunati dalla stessa ricerca di senso e da riflessioni sulla pace. Uno dei momenti più significativi è stato l’incontro “Ma i giovani partecipano?”, con Daniele Taurino (Movimento Nonviolento), Gabriella Falcicchio (Università di Bari, Movimento Nonviolento) e Francesco Marchionni (vicepresidente Consiglio Nazionale Giovani). Dal confronto è emersa l’immagine di una generazione in cerca di nuovi spazi, non solo virtuali, dove esprimersi e sentirsi parte di una comunità. Parma, che nel 2027 sarà Capitale Europea dei Giovani, è stata citata come esempio e come occasione per ripensare la partecipazione non più come gesto individuale, ma come pratica collettiva. Allo stesso tempo è emersa la necessità di superare una società ancora gerarchizzata e compartimentata, dove – come è stato detto – “le generazioni precedenti non hanno lasciato e non lasciano niente alle generazioni attuali”, per arrivare a un modello interculturale e intergenerazionale. Anche l’incontro “Il ritorno della guerra, il bisogno della pace” ha richiamato grande attenzione. Le riflessioni di Gabriella Falcicchio, Mao Valpiana (presidente del Movimento Nonviolento) e Paolo Ciani (deputato Demos) hanno messo al centro la nonviolenza come scelta concreta e quotidiana. Il tono, collaborativo e propositivo, ha aperto la strada a possibili soluzioni comuni: dalla difesa civile non armata alla creazione di istituzioni dedicate alla risoluzione pacifica dei conflitti. “La guerra non è la compagna naturale dell’umanità – è stato sottolineato – iniziare a praticare la pace è una scelta individuale ma anche politica, capace di rompere il paradigma dell’impotenza”. Altri contributi, come quelli di Claudio Tosi (CSV Lazio) e Marco Cavedon, hanno arricchito il festival con riflessioni sul valore delle relazioni. “Sono le relazioni che generano i sistemi e non viceversa. Bisogna viverne la complessità, non la complicazione”, ha ricordato Cavedon, offrendo un’immagine chiara e condivisa di come costruire comunità più solide. La dimensione collettiva è stata rafforzata dalla presenza di numerose realtà del territorio: dall’Associazione Abbraccio al Sindacato Unione Inquilini, fino a Greenpeace. La consegna del Premio Matumaini e del Premio Anna Cau ha valorizzato chi, con il proprio impegno quotidiano, porta avanti speranza e solidarietà. Tra letture, concerti e momenti conviviali, il Flumen Festival ha intrecciato leggerezza e profondità, lasciando a chi vi ha preso parte la percezione di un percorso condiviso. Anche durante le esibizioni live di Anna Carol e de Il Muro del Canto, il dialogo e lo scambio tra le persone non si sono interrotti. Più che un evento, il Flumen si è confermato come un fluire di relazioni e visioni: una corrente luminosa che ha attraversato il pubblico, trasmettendo la convinzione che insieme sia ancora possibile costruire un futuro fondato sulla pace, sulla cura e sulla giustizia sociale. Redazione Roma
Spagna in fiamme: quale narrazione?
La Spagna è in ginocchio per gli incendi. Il fuoco dilaga in vari punti del paese, da nord a sud, colpendo soprattutto la Galizia e la zona di León. Mentre scrivo, sono già stati bruciati oltre 340.000 ettari, una superficie superiore a quella della Valle d’Aosta. Migliaia di persone sono state evacuate e diverse hanno perso la vita: un panorama che ha spinto il governo a dichiarare lo stato di pre-emergenza e le autorità a chiedere sostegno materiale all’Europa. In questo quadro, le destre sbandierano una retorica giustizialista basata sulla caccia al piromane, e sull’indurimento di pene contro un presunto “terrorismo del fuoco”. Tuttavia, un’analisi più approfondita punta il dito verso ben altri fattori. IL FENOMENO A cosa ci riferiamo quando parliamo di “incendi”? Qui è necessario fare una precisazione, distinguendo tra “incendi” in senso generale e GIF: Grandi Incendi Forestiali. Un GIF è un incendio la cui estensione supera i 500 ettari forestali. Si tratta di una frazione estremamente ridotta del totale degli incendi, ma responsabile di quasi la metà (40%) della superficie bruciata ogni anno. Sorprendentemente, il numero totale di incendi è in diminuzione, mentre i GIF sono in aumento: quest’anno già c’è ne sono stati 31, mentre l’anno scorso solo 16. Per questo, più che l’innesco in sé, il problema risiede in ciò che rende l’incendio incontrollabile, con una propagazione rapida, che permette in poco tempo di devastare grandi estensioni di terra. IL CAMBIAMENTO CLIMATICO La radice del problema va cercata nel cambiamento climatico. L’aumento delle temperature rende la vegetazione più secca e infiammabile, mentre le ondate di calore prolungate e le siccità riducono ulteriormente l’umidità del suolo. I venti caldi e l’instabilità atmosferica contribuiscono poi a propagare i fronti di fuoco a velocità inaudita, dando luogo a roghi intensissimi, imprevedibili e praticamente impossibili da fermare. Il caso spagnolo del 2025 mostra bene questo meccanismo. La primavera è stata insolitamente piovosa, con precipitazioni abbondanti che hanno favorito una crescita sorprendente della vegetazione. Ma a partire da luglio e soprattutto nelle prime due settimane di agosto è arrivata un’ondata di calore storica. La vegetazione, rigogliosa pochi mesi prima, si è trasformata in combustibile secco pronto a bruciare al minimo innesco. SPOPOLAMENTO RURALE Un altro fattore strutturale che contribuisce alla diffusione dei GIF è lo spopolamento delle aree rurali. Fino a pochi decenni fa, le campagne spagnole erano percorse da pratiche quotidiane che garantivano una gestione diffusa del territorio: il pascolo riduceva la biomassa secca, mentre la raccolta della legna e la piccola agricoltura mantenevano puliti i margini dei boschi. Con la scomparsa progressiva di queste attività –legato a un modello economico che sposta popolazione e risorse verso le grandi città– i territori rurali sono divenuti più vulnerabili. Senza la presenza costante delle comunità locali, le foreste accumulano materia vegetale che, nelle estati torride, diventa carburante per incendi devastanti. Il fenomeno è particolarmente evidente nelle province interne della Castiglia e León, tra le più colpite dal fuoco, dove il calo demografico e la mancanza di investimenti pubblici si è tradotto in uno stato d’abbandono che ha trasformato il paesaggio in una polveriera naturale. LE PESSIME CONDIZIONI LAVORATIVE DEI POMPIERI Infine, non si possono trascurare le condizioni in cui operano i pompieri forestali. Molti lavorano con contratti stagionali e salari bassi e senza continuità formativa. In diverse comunità autonome la gestione del personale è affidata a decine di aziende subappaltatrici, con turni che arrivano a oltre venti ore consecutive e bonus di rischio ridicoli, appena due euro l’ora. La precarietà non riguarda solo il salario, ma l’intero sistema: mancano piani di formazione, equipaggiamenti adeguati e stabilità contrattuale. La conseguenza è che ogni estate, al momento di affrontare gli incendi più devastanti, ci si trova con squadre composte in parte da lavoratori senza esperienza, sottopagati e spinti all’estremo. Si tratta dunque di un modello fragile che affida la sicurezza pubblica a logiche di appalto al ribasso. QUALI NARRAZIONI? La crisi che sta colpendo la Spagna è di proporzioni inedite e segnerà con buona probabilità il dibattito pubblico dei prossimi mesi. Le immagini dei fronti di fuoco, delle evacuazioni di massa e delle comunità devastate hanno imposto il tema degli incendi come questione nazionale. Le destre non hanno esitato a intervenire con una retorica giustizialista che insiste ossessivamente sulla figura del piromane. Questa prospettiva, in un contesto mediatico di polarizzazione, si traduce in discorsi di odio, spesso supportati da notizie false. La figura del “terrorista del fuoco” funziona da capro espiatorio utile a un’agenda politica che nulla ha a che vedere con la protezione del territorio e delle comunità colpite. Certo, i roghi dolosi esistono, e nessuno lo nega. Ma il modo in cui vengono agitati nello spazio mediatico serve a distorcere la narrazione in modo opportunista: parlare solo di piromani significa occultare le cause strutturali del problema, sfuggendo al princincipio di realtà per cui l’emergenza climatica richiede fondi, gestione comunitaria del territorio e investimenti pubblici. Immagine di copertina di Oscar Sánchez, da Pexels.com SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress si può donare sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo Spagna in fiamme: quale narrazione? proviene da DINAMOpress.
Ancora Taranto. Per un programma di ecologia popolare e partecipata
Stretti in una morsa, forza, diamo fine a questa farsa Forse ci meritiamo una fine diversa Kid Yugi, Fido Guido, Ilva (Fume scure rmx) La storia di quello che è successo il 28 luglio 2025 – e sta seguendo in questi giorni – merita di essere raccontata con la dignità politica che le corrisponde, e merita di essere inserita nell’archivio di resistenza della comunità tarantina. È stata una grande giornata di lotta, e di questo bisogna prendersi i meriti. Nonostante i principali giornali locali e nazionali abbiano ridotto l’evento a un caso di “tensione” e “minacce” verso il sindaco, ignorando le ragioni profonde della contestazione, la realtà è che quella piazza ha rappresentato un rifiuto deciso della violenza strutturale conservata dalle istituzioni. Ancora una volta, la stampa di stato ha dimostrato la sua incapacità nel pensare il conflitto politico: questo non si dà esclusivamente nelle forme e nei costumi dettati dalla classe politica dirigente, cosa che lo ridurrebbe alla difficile digestione di un boccone amaro. Mobilitazione significa frizione, e dobbiamo tornare a riconoscerlo. Normalizziamo genocidio, razzismo, sessismo, classismo e chiamiamo “violenta” la forza che libera da queste catene. Accettiamo come neutrale l’esercizio delle funzioni istituzionali, mentre ignoriamo che la violenza può essere distillata lentamente, firma dopo firma, come l’inquinamento che ci ammala poco a poco. > Quella giornata – e quella piazza – vanno ricordate perché testimoniano la > forza di una comunità capace di unirsi sotto una stessa lotta: quella della > liberazione dalla condanna ad una morte prematura, contro la subalternità > politica per l’autoderminazione del proprio futuro. Liberazione e > autodeterminazione: la Palestina ci insegna e ci mostra la via. La piazza del 28 luglio non era solo un “no” all’ex-Ilva. C’erano i comitati per il fiume Tara, minacciato dal dissalatore; l3 cittadin3 di Paolo VI contro la nuova discarica e quell3 di Statte contro la precedente; le mamme e i genitori del quartiere Tamburi contro l’avvelenamento e l’abbandono; l3 emigrat3 tornati a casa per sostenere la lotta; le collettive femministe e queer a rivendicare l’autodeterminazione sui propri corpi e sul proprio territorio, oltre il ricatto salute-lavoro. Mamme, bambin3, operai, casalinghe, disoccupati, persone queer, giovani e anziane, ammalat3, “disabil3”, “pazz3”: una comunità che resiste, oltre le frontiere fisiche e immaginarie, perché la questione Taranto non è esclusivamente operaia, non è esclusivamente climatica. Taranto fa scuola perché il problema è complesso, e la resistenza è instancabile, di generazione in generazione. Tramandiamo questa storia di lotta, non lasciamo che trovi posto nell’androne di una scala, raccontata di fretta, per passaparola. Celebriamola. ANNI ’60-’20: UNA STORIA DI LOTTA E DI RESISTENZA È ormai noto che la fabbrica, costruita negli anni ’60 a seguito dell’espianto di centinaia di ulivi, abbia inquinato, ammalato e ucciso l’ecosistema e la società tarantina. Dopo le crisi dell’acciaio degli anni ’70-’80, negli anni ’90 viene venduta alla famiglia Riva: così si inaugura non solo un periodo di aggravamento dell’inquinamento, ma in generale delle condizioni di morte prematura dell’ecosistema tarantino. È stato inquinato il suolo, l’aria, gli alimenti, gli animali, e le persone, con danni sulla salute dell’ecosistema e dei quartieri: l’aumento di malattie, tumori ha significato un aumento e un peggioramento delle condizioni del lavoro di cura non retribuito di donne, madri, badanti, figli e famiglie che hanno preso in carico questa situazione a fronte dell’assenza di adeguate infrastrutture sanitarie. Non solo, con la privatizzazione Riva, è stata legittimata la stagione della pesante repressione del dissenso operaio, del mobbing, dell’interruzione degli scioperi e della creazione di quelli falsi, della complicità dei sindacati confederati, dell’insabbiamento delle morti sul lavoro. La comunità tarantina non si è mai arresa, e ha dimostrato un’incredibile capacità di resistenza. È del 2012 la storica sentenza della magistratura per il sequestro di sei impianti della fabbrica: la proprietà dei Riva viene imputata di disastro ambientale, avvelenamento di sostanze alimentari, e omissione dolosa di cautele sui luoghi di lavoro. Per questo, i Riva vengono condannati, e la gestione della fabbrica finisce prima allo stato – per amministrazione straordinaria – e poi torna ai privati, questa volta partener internazionali (la società franco-indiana ArcelorMittal). Del 2022, invece, è la dichiarazione ONU di Taranto come zona di sacrificio dei diritti umani. Nonostante ciò, la fabbrica continuerà a produrre – sotto sequestro con facoltà d’uso – grazie ad una gestione emergenziale del suo regime produttivo: 18 decreti cosiddetti “salva ILVA” saranno votati dalle maggioranze di qualsiasi colore, del cui l’ultimo è del 9 giugno 2025. Questa gestione emergenziale dell’economia e dei problemi sociali è tipica della storia dei nostri territori meridionali e insulari, integrati a forza dentro un regime produttivo capitalistico e coloniale proprio grazie a soluzioni eccezionali calate dall’alto. 2025: L’AMMINISTRAZIONE STRAORDINARIA, I REQUISITI PER LA VENDITA La nostra storia comincia nel febbraio 2025, quando la fabbrica torna in amministrazione straordinaria da parte dello stato. Come mai? A seguito dell’insostenibilità finanziaria della produzione di acciaio – il regime produttivo della fabbrica è infatti calato con solo 1 altoforno su 5 in attività – lo stato ha iniziato a cercare un nuovo partner commerciale internazionale che possa acquistare la fabbrica. Le trattative al momento sono con l’azienda azera Baku Steel, ma la fabbrica ha diversi problemi: l’inquinamento è il primo, ma anche l’obsolescenza degli altoforni, e i conseguenti costi di messa a norma che l’acquirente dovrà sostenere; la quantità di lavoratori (8.000) decisamente in esubero rispetto alle esigenze produttive, il che significherà licenziamenti e conflitti interni; la restituzione del credito promesso ai lavoratori dell’indotto a causa dell’amministrazione straordinaria. Ma il problema più consistente è quello relativo alle autorizzazioni di produzione, nello specifico l’Autorizzazione Integrata Ambientale, che autorizza il funzionamento degli impianti industriali. A Taranto è scaduta nel 2023, ma la fabbrica ha continuato a produrre indisturbata sino al 2025, quando – qualche giorno fa – è stata rinnovata. Ad annunciarlo è stato il Ministro Urso nella sede della CISL.Tuttavia, l’AIA approvata non recepisce quanto stabilito dalla Corte di Giustizia UE in fase di consultazione da parte del tribunale di Milano, a cui si erano rivolti alcuni genitori tarantini: ossia che non si può autorizzare un impianto potenzialmente dannoso per la salute senza una preventiva valutazione del danno sanitario, che non si possono omettere sostanze dalla valutazione delle emissioni ambientali, e che non è lecito differire l’adeguamento dell’AIA. L’AIA emessa impone di presentare in sede di riesame da parte dell’acquirente una valutazione di impatto sanitario basata su danni inerenti ai cicli produttivi successivi, e non precedenti: in altre parole, su dati presunti e non reali. Che libertà stiamo lasciando al futuro gestore della fabbrica? A quali condizioni si continuerà a produrre? LA “DECARBONIZZAZIONE”: IL GAS, L’ENERGIA, LA COLONIALITÀ Qui si apre un capitolo che riguarda non solo il rispetto della salute ecologica ma anche il piano energetico di produzione: la cosiddetta “decarbonizzazione”, ossia la transizione ad un modello produttivo sostenibile. Un discorso non semplice, ma non dobbiamo lasciarci intimorire; la responsabilità di una adeguata formazione climatica non ricade solo sulle nostre spalle, ma soprattutto su quelle di chi ha il potere di fornircela e non lo fa.   > Dobbiamo smontare l’idea di una tecnicità della scienza climatica e chiedere > saperi popolari ecologisti: uno dei limiti del movimento ambientalista bianco, > in Europa e negli USA – e quindi una delle sue debolezze – è stata la sua > ricerca di legittimità attraverso il costante riferimento alla scienza > accademica e liberale. Ciò ha significato classismo, esclusione e infantilizzazione di coloro che non avessero il privilegio di accedere alle stesse risorse formative, nonché svalutazione dei saperi popolari . Affrontiamo quindi il problema della decarbonizzazione con scrupolosità. La proposta del presidente della Regione Puglia, Emiliano, e del suo partito, il PD, avvallata dai sindacati confederati – CGIL, CISL, UIL, storicamente collusi con il progetto di una fabbrica inquinante – è quella di decarbonizzare l’impianto. Questo significa una trasformazione della qualità energetica delle fonti produttive, ossia di passare dal carbone al gas, e dal gas all’elettrico. In altre parole, la fabbrica, dichiarata di interesse strategico per la nazione, non può essere semplicemente chiusa: le sue fonti vanno trasformate in fonti elettriche, passando per il gas. I problemi però sono tanti, e non di natura leggera. Il primo è che i tempi sono molto lunghi per arrivare all’elettrico. Il secondo, è che un processo chiamato “decarbonizzazione” che preveda un ritorno ad un regime produttivo maggiore dell’attuale, con la riapertura degli altiforni, e che si basi proprio sul carbone, è una contraddizione in termini, o meglio una forma di greenwashing, cioè di presa per il culo. Il terzo è che il gas non è affatto una fonte energetica migliore del carbone, e ha effetti inquinanti analoghi.Inoltre, attingere al gas significherebbe o ricorrere al TAP – storico sito di contestazione pugliese – e potenziare il gasdotto, ma questo richiederebbe troppo tempo; oppure far arrivare una nave rigassificatrice nel porto di Taranto, ma ciò contrasta – secondo il sindaco di Taranto – con la “vocazione turistica e commerciale del porto di Taranto”. Una impasse bella e buona. Ma anche se fosse possibile far arrivare il gas a Taranto, da dove proverrebbe questo gas? La cosa che possiamo sperare è che non venga dai progetti di approvvigionamento del gas che il governo Meloni ha messo in piedi con il Piano Mattei: uno di questi, il cosiddetto Corridoio Sud dell’Idrogeno, un gasdotto lungo 3.300km, dovrebbe portare il gas prodotto in Tunisia verso l’Italia sino alla Germania. Se il gas che arriva a Taranto dovesse arrivare grazie ad uno di questi progetti la produzione tarantina diverrebbe complice di un flusso di beni di natura estrattiva e neocoloniale, di cui SNAM, principale promotrice del piano, sarebbe pienamente responsabile. D’altronde, né il governo italiano né ENI sembrano prendere sul serio le proprie responsabilità coloniali, continuando in pieno genocidio palestinese con l’esplorazione di giacimenti di gas nelle acque gazawi, e stringendo accordi con Ithaca Energy, società inglese partecipata all’89% – e quindi, di fatto, di proprietà – dalla israeliana Delek Group, denunciata dall’ONU per le operazioni nei Territori Occupati palestinesi e ora complice del genocidio. Rimane quindi in gioco la questione di come effettuare questa transizione senza macchiarsi le mani di sangue. VERSO UN COINVOLGIMENTO ECOLOGISTA POPOLARE Torniamo così al nostro 28 luglio. Il 28 luglio 2025 la comunità tarantina si riunisce sotto il palazzo del Comune. Il motivo è un confronto tra l’amministrazione comunale e i movimenti, le associazioni, l3 cittadin3 in generale rispetto al cosiddetto accordo di programma, ossia il documento che disegna il programma della transizione energetica dell’ex-Ilva. L’accordo deve essere firmato da governo, regione, comune, e sindacati. Pensata per ascoltare l3 cittadin3 prima dell’incontro ufficiale con le istituzioni del 31 luglio – ora rinviato al 12 agosto – quella giornata è diventata marea: da anni chiediamo la chiusura degli altiforni, la bonifica dei terreni contaminati, e la fine di modelli produttivi nocivi. Come avremmo potuto reagire, dopo anni di indifferenza, ad un’occasione di confronto? E non è nemmeno successo nulla, solo qualche lucculo (grida, nda). Se le istituzioni si chiedono come si sfiata una pentola a pressione, la risposta è semplice: rimuovendo la pressione. Quello che ci serve è la proliferazione di spazi democratici reali di confronto, che le istituzioni aprano realmente tavoli di trattativa con i movimenti e le associazioni, e non scappino dalle responsabilità politiche. > Serve un coinvolgimento della cittadinanza permanente: tavoli, assemblee, > audizioni, che costruiscano collettivamente un immaginario e un piano di > trasformazione non solo produttiva e climatica, ma ecologica, complessiva, > mettendo in primo piano i bisogni realmente espressi dalle persone. Non più solo verità e giustizia, ma alternativa: al ricatto salute-lavoro, alla produzione inquinante, al lavoro di cura invisibilizzato, alla complicità con il sistema coloniale, alla subalternità politica. Un’alternativa capace di riparare al danno commesso in decenni di sacrificio, all’altezza della dignità politica di una lotta che continua a resistere. Un piano di trasformazione popolare, sociale, che cambi completamente i rapporti di produzione e di riproduzione con il territorio. Il cuore ora ci batte a mille, lasciamo che si alzi ancora nel cielo il coro più minaccioso di quella giornata di luglio: “Vogliamo vivere”. L’immagine di copertina è di Le Benevole (flickr) SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress si può donare sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo Ancora Taranto. Per un programma di ecologia popolare e partecipata proviene da DINAMOpress.
Salviamo il fratino: un cammino di protesta e di consapevolezza
Manifestazione a Rimini sabato 2 agosto ore 18.30   I minuscoli Fratini, creature che si muovono quasi impercettibili tra la sabbia e il cielo, hanno bisogno di tutti noi. E tutti noi abbiamo bisogno dei Fratini. Può sembrare una battaglia di corto respiro, non lo è. E’ una battaglia culturale di ampia portata, che ha a che fare con la difesa della biodiversità, ma anche con quello che vogliamo per la nostra spiaggia, con il nostro futuro, e, cosa più importante: questa battaglia ha a che fare con il modo in cui relazionarci, come comunità umana, con la fragilità di un’esistenza a grave rischio di estinzione.  Una esistenza ignorata e calpestata da scelte politiche prive di una visione lungimirante.  I Fratini sono anche indicatori ecologici per lo stato di salute degli ambienti costieri. La loro assenza ora parla chiaro: preannuncia il degrado dell’ecosistema dovuto alle attività umane.  Al loro posto un enorme palco che svetta violento tra la sabbia e il cielo, privando i fruitori della spiaggia libera- già risicata- di gran parte dello spazio. Quella porzione di spiaggia, inoltre, presenta dune embrionali e una ricca biodiversità vegetale: tutto questo andrebbe a beneficio anche della comunità umana, soprattutto in questo preciso momento storico, con un cambiamento climatico dalle conseguenze sempre più estreme e frequenti. Senza contare che da una scelta di tutela di quella porzione di spiaggia ne trarrebbe giovamento anche un tipo di turismo legato alla naturalità della spiaggia, un turismo che potrebbe benissimo convivere con l’altro modello, che diventa sempre più insostenibile. Quello di sabato sarà un cammino di protesta e di consapevolezza: un’occasione per VEDERE, INSIEME, quanta natura chiede attenzione e ascolto.  Venire sabato è importante, perché importante è non arrendersi, importante è continuare a mandare un segnale forte al Comune di Rimini. Cosa chiediamo? Custodire- non sfruttare, parafrasando l’Enciclica Laudato Sì. Tutelare la natura e il bene comune- non il profitto di pochi, a danno dell’ambiente in cui tutti viviamo. Iniziare a vedere e udire è già il primo passo. L’amore è contagioso. Arianna Lanci (Delegata Lipu Provincia di Rimini) Redazione Romagna
Oltre l’“imbroglio” della transizione energetica green. Comunicato della Società dei territorialisti/e
Fin dal suo avvio, la cosiddetta transizione ecologica si fonda soprattutto sulla sua declinazione energetica. Proprio la transizione energetica, tuttavia, oltre a subire continue battute d’arresto, presenta aspetti profondamente contraddittori rispetto allo scopo di affrontare realmente la grave questione ambientale … Leggi tutto L'articolo Oltre l’“imbroglio” della transizione energetica green. Comunicato della Società dei territorialisti/e sembra essere il primo su La Città invisibile | perUnaltracittà | Firenze.
Vicenza: «Difendiamo i boschi contro una idea falsa di sviluppo»
L’8 luglio una grande mobilitazione ecologista ha impedito l’accesso a un’area boschiva che si vuole abbattere per fare spazio alla TAV tra Padova e Verona. Abbiamo intervistato attivist3 della rete “Boschi che resistono” per comprendere le origini e le prospettive della loro lotta. Potete raccontare cosa è il bosco di Ca’ Alte e come è nata l’azione della rete “Boschi che resistono” a Vicenza? È una area boschiva di 14mila metri quadrati nel cuore della città di Vicenza. Vogliono abbatterla per fare spazio a un’area di cantiere del progetto TAV. Inoltre è prevista la costruzione di una strada, un viadotto che scavalcherà la ferrovia. Siamo entrat3 in questo bosco e in un’altra area boschiva a 200 metri di distanza un anno fa, nel maggio 2024 per scongiurare l’abbattimento, che abbiamo fatto ritardare fino a oggi. In un anno si sono avvicinati molti gruppi a questa realtà, anche gruppi che hanno compreso la lezione di Luzerath in Germania e praticano forme di resistenza e disobbedienza civile che consistono nel presidiare l’area attrezzata con casette sugli alberi che ci aiuteranno a difendere questa meraviglia che una città inquinata come Vicenza non si può permettere di perdere. Il bosco di Ca’ Alte grazie allo studio svolto da agronomi forestali di fama nazionale è stato dichiarato un valore ecosistemico da preservare. I boschi sono riserve di carbonio che catturano la CO2 in atmosfera, ci aiutano a respirare perché producono ossigeno, abbattono le polveri sottili perché le assorbono, oltre a trattenere la pioggia nel caso di eventi piovosi, e in una città a rischio idrogeologico elevato ha notevole importanza. Inoltre hanno un ruolo nella diminuzione delle temperature vista la tendenza mondiale all’innalzamento. I boschi maturi come quello di Ca’ Alte, sviluppati nel corso di decenni, vanno assolutamente tutelati. Ci dicono che una volta finite le opere – si stima una decina di anni – ripristineranno l’area e pianteranno “piantine” di 1 o 2 anni di vita cresciute in serre in nord Europa, ma che sono molto fragili e muoiono facilmente. Inoltre la loro capacità di influire negli effetti di mitigazione sopra descritti non è comparabile a boschi che hanno decine di anni. Questo bosco è un avamposto di resistenza a questa assurda opera che è il TAV dentro la città. Cerchiamo di difendere questi meravigliosi esseri viventi, cioè questi boschi che resistono a una idea di sviluppo tanto falsa quanto folle. Mobilitazione a difesa del bosco dell’8 luglio 2025 L’8 luglio avete subito un forte tentativo di sgombero da parte delle forze dell’ordine, cosa è successo e quale è ora la situazione nel Bosco di Ca’ Alte? È stata una giornata molto intensa per l’assemblea dei Boschi e per la città di Vicenza, abbiamo coinvolto circa 250 persone per impedire lo sgombero. Dalle 5 del mattino eravamo pront3, le forze dell’ordine sono arrivate molto presto per convincerci ad abbandonare l’area e permettere ai lavori di Iricav – il general contractor per la TAV – di proseguire. Molte di noi erano sedute fuori dal cancello, persone di età differenti. Erano incatenati tra di loro e sono stati portati via a forza. Poi hanno iniziato a tirare giù il cancello e le barricate costruite. Alcune signore dell’assemblea dei boschi erano sopra alla barricata e sono state portate giù con il macchinario dei pompieri. In seguito alla seconda barricata si è resistito agli idranti con gli scudi. Nessun albero è stato abbattuto e questo era il nostro obiettivo. In questi giorni hanno iniziato a mettere colate di cemento all’ingresso. Stiamo dormendo nei boschi da un po’ per controllare cosa fanno ogni giorno operai e forze dell’ordine. Continueremo a vivere i boschi e a lottare contro il progetto TAV. Pensiamo che sia un progetto obsoleto che distrugge l’ambiente, la città e la salute. Siamo persone lavoratrici, pensionate, che studiano, alcune hanno preso le ferie per difendere il bosco. Tutto questo è un simbolo della nostra determinazione e crea molta gioia nello stare assieme, perché si sta creando una forte collettività. Immagine di “Boschi che resistono” Nell’opposizione alla distruzione di questo bosco contestate l’inutilità dell’opera TAV ma proponete anche alternative. Ci puoi spiegare perché ritenete quel tracciato ferroviario inutile e quali potrebbero essere altre opzioni? Chiediamo l’opzione zero, che significa l’ammodernamento della linea con le tecnologie più recenti ed efficienti, che permettono di aumentare la capacità della linea senza dover devastare la città. La valutazione della opzione zero è prevista dalla norma, e Rfi non l’ha fatto. L’Europa, quando parla di TAV, precisa di costruire linee nuove dove questo è possibile, ma dove ci sono dei vincoli territoriali/tipografici anche dovuti ai nuclei urbani prescrive l’ammodernamento e non linee nuove. Infatti nella vicina regione Friuli Venezia Giulia, per tutta la tratta di 140 km, da Venezia a Trieste, è stata adottata l’opzione zero. Questo dimostra che dove c’è la volontà politica, l’opzione zero è possibile. Noi lo chiediamo per i 10 km del tratto di Vicenza. La soluzione eviterebbe anche la costruzione dell’impattante salto de montone, un cavalcaferrovia alto 7 metri, in una zona rurale la cui vocazione è rimanere verde. L’opzione zero eviterebbe le opere complementari e compensative che di fatto sono tutte opere di cemento e asfalto, si eviterebbero 30 km di nuove strade a fronte di 10 km di ferrovie. Possiamo parlare di un progetto ferroviario con questi numeri? Le Conseguenze dei cambiamenti climatici che stiamo vivendo ci dovrebbero indurre a ragionare su altri tipi di infrastrutture, opere verdi che mettano in sicurezza il territorio, che riducano le emissioni di CO2, che rendano le città più vivibili aumentando il verde non il cemento. Come continuerà durante l’estate la vostra lotta a Vicenza? Per il momento l’idea è continuare a proporre eventi culturali, sociali per far vivere i boschi a quante più persone possibili, di Vicenza ma non solo. È importante che la città sia consapevole di quello che vogliono dire questi boschi per chi vive in questi luoghi. Il presidio permanente continuerà al bosco di Ca’ Alte, quello più a rischio dove stanno facendo i lavori all’entrata. Continueremo a presidiare e continueremo a vivere i boschi e a resistere assieme a loro. Vedremo se le istituzioni nel frattempo si renderanno conto di quanto grave sia quello che sta accadendo. Immagini di copertina e nell’articolo di “Boschi che resistono” SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress si può donare sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo Vicenza: «Difendiamo i boschi contro una idea falsa di sviluppo» proviene da DINAMOpress.
Un lago che chiede aiuto
Chi osserva il Sebino dalla riva, potrebbe restare incantato dalla sua bellezza. Ma sotto il velo d’acqua, il lago racconta un’altra verità: quella di un ecosistema fragile, minacciato e ormai in disequilibrio. A lanciare l’allarme, da anni, è un gruppo di subacquei tecnici volontari: i North Central Divers (NCD). Ventidue membri, uniti da una passione per le immersioni ma guidati da una missione molto più ampia: proteggere e monitorare scientificamente le acque interne, a partire proprio dal Lago d’Iseo. I rilievi trimestrali sulla salute dell’acqua si svolgono alle stazioni della Galleria del Corno di Predore, in provincia di Bergamo, e da lì parte ogni immersione sul Nautilus, la barca laboratorio. Caricano bombole, scooter subacquei, sensori ambientali e datalogger. Ma più che un’avventura sportiva, il loro è un lavoro scientifico sistematico, con una struttura metodica che ricorda quella dei ricercatori universitari. Project Baseline: scienza nei fondali I North Central Divers sono affiliati a Project Baseline, un programma internazionale di Global Underwater Explorers (GUE) che mira a documentare nel tempo lo stato di salute degli ambienti acquatici. Ogni immersione è una raccolta di dati: temperatura, visibilità, presenza di ossigeno disciolto, che rappresenta il vero indicatore vitale del lago. Un esempio? A 34 metri di profondità, i sub hanno registrato 6,94 mg/l di ossigeno disciolto, contro i 9 mg/l di appena 18 metri più in alto. Un dato inquietante: il lago, in profondità, fatica a respirare. Da quasi vent’anni, inoltre, il Sebino non registra più una completa inversione termica stagionale, un processo naturale che permetteva l’ossigenazione anche degli strati profondi. «È come se il lago si fosse fermato», raccontano i NCD. «L’acqua stagnante resta intrappolata sul fondo, con tutto il suo carico di sedimenti e inquinanti. E così la vita fatica a sopravvivere». Oltre il monitoraggio: reti fantasma e rifiuti sommersi Ma il lavoro dei North Central Divers non si ferma alla ricerca scientifica. L’altra loro grande missione è la rimozione dei cosiddetti “ghost gear”, le reti da pesca abbandonate che continuano a imprigionare pesci e rilasciare microplastiche per anni. Con il progetto Ghost Diving, i sub hanno recuperato 28 reti killer nei fondali del Sebino e del Garda. Nel 2025, l’impegno si è ampliato con la nascita di Ghost Diving Lombardy Lakes, un’iniziativa che estende ufficialmente le operazioni a tutti i laghi lombardi. «Le reti fantasma non sono solo trappole invisibili per la fauna», spiega il team. «Si degradano lentamente e rilasciano micro e nanoplastiche, che entrano nella catena alimentare anche delle acque dolci. È un problema che non possiamo più ignorare». A questa attività si affianca il progetto Fondali Puliti, che si occupa del recupero di rifiuti sommersi: copertoni, bottiglie, oggetti metallici. E anche in questo caso, l’impegno è totale: dalla bonifica dei fondali alla sensibilizzazione nelle scuole, fino alle “Giornate del Lago”, veri e propri laboratori educativi per i più giovani. Dietro ogni immersione, una missione Cosa spinge un gruppo di subacquei a operare in condizioni spesso difficili, in acque torbide, con visibilità ridotta e carichi di lavoro pesanti? La risposta non è l’adrenalina, ma la responsabilità scientifica e ambientale. Dietro ogni immersione c’è un metodo rigoroso: un sub gestisce i sensori e le riprese video, un altro raccoglie campioni, un terzo garantisce la sicurezza. Tutto è documentato, tutto è misurato. Ogni dato raccolto racconta una verità scomoda sullo stato di salute del lago. Ora i NCD guardano avanti: vogliono mappare l’ossigeno disciolto fino a 100 metri di profondità, una sfida tecnica complessa ma indispensabile per avere un quadro realistico delle condizioni del Sebino. Un modello per l’Italia (e non solo) In un’epoca in cui il cambiamento climatico e l’inquinamento mettono sotto pressione gli ecosistemi, il lavoro dei North Central Divers rappresenta un modello replicabile. Non solo come esempio di citizen science – scienza partecipata – ma come integrazione virtuosa tra passione sportiva, impegno civile e rigore scientifico. Non sono eroi solitari, né ambientalisti improvvisati. Sono tecnici formati, subacquei esperti, operatori ambientali, che scelgono di spendere tempo e risorse per proteggere un bene comune. E, soprattutto, per dare voce a un lago che non può parlare, ma che ha urgente bisogno di essere ascoltato. L’urgenza dell’invisibile Il Lago d’Iseo è un ecosistema delicato, come tanti altri bacini alpini e prealpini italiani. La sua salute non è solo una questione ambientale: è una questione culturale, sociale ed economica. E i North Central Divers lo sanno bene. Ogni immersione è una testimonianza. Ogni dato, un segnale d’allarme. E ogni rete recuperata o rifiuto rimosso è un passo in più verso una nuova consapevolezza collettiva: quella che ciò che non si vede, non è meno importante. Anzi, è proprio lì che spesso si gioca il destino di un intero territorio. Per maggiori informazioni sulle attività di North Central Divers: https://www.ncdivers.it/ https://projectbaseline.org/currently-active-teams/ https://www.ncdivers.it/fondali-puliti/   Simona Duci
RACCOLTA SOLIDALE PER SPESE LEGALI MAXI PROCESSO NO TAV
Nel 2011 la popolazione valsusina fu in grado di costruire una mobilitazione territoriale e nazionale contro l’apertura del cantiere dell’alta velocità a Chiomonte. In quei mesi nacque la Libera Repubblica […] The post RACCOLTA SOLIDALE PER SPESE LEGALI MAXI PROCESSO NO TAV first appeared on notav.info.
VICENZA: “IL BOSCO RESISTE”. SABATO 12 LUGLIO MANIFESTAZIONE DALLE 16 IN PIAZZALE MERCATO NUOVO
“Il bosco resiste” è il titolo della manifestazione cittadina “per i boschi, la salute, la giustizia ambientale” che si terra’ sabato 12 luglio alle ore 16 a Vicenza. Partenza da Piazzale Mercato Nuovo. “Lunedì 8 luglio abbiamo vissuto qualcosa che non dimenticheremo: 200 persone hanno difeso il bosco di Ca’ Alte dal TAV, fronteggiando ruspe, polizia, idranti. Ma il bosco è ancora lì. Nessun albero è caduto” scrivono i promotori in un comunicato. “La resistenza è stata forte, collettiva, coraggiosa. Donne e uomini incatenati ai cancelli, seduti sull’erba, arrampicati per proteggere la natura con i loro corpi.Ora tocca a tutta la città. Sabato scendiamo in piazza perché Vicenza merita un futuro diverso, fatto di aria pulita, boschi vivi, salute e giustizia. Non grandi opere inutili, ma cura del territorio. Chi devasta l’ambiente distrugge il futuro. Noi siamo la natura che resiste. Unisciti a noi. Vicenza ha bisogno anche di te”. La presentazione con Angela dell’Assemblea dei Boschi di Vicenza Ascolta o scarica
CLIMA: TRIPLICATI I DECESSI IN EUROPA A CAUSA DELLE ONDATE DI CALORE. MILANO LA CITTA’ PIU’ COLPITA
Le ondate di calore hanno triplicato i morti in Europa in questo periodo. Secondo un nuovo studio europeo il numero di decessi registrati in dodici città del Continente tra il 23 giugno e il 2 luglio riconducibili al caldo sono circa 1.500 delle 2.300 morti registrate in quei giorni, pari al 65% del totale. Concentrandosi sui dieci giorni di calore compresi tra il 23 giugno e il 2 luglio, i ricercatori hanno stimato il bilancio delle vittime utilizzando metodi di peer-review e hanno scoperto che il cambiamento climatico ha triplicato il numero di decessi legati al calore, con l’uso di combustibili fossili che ha aumentato le temperature dell’ondata fino a 4°C in tutte le città. Dall’indagine emerge che il cambiamento climatico si fa sentire in modo più pesante sulla nostra popolazione, rispetto a quelle di altre nazioni europee: in base allo studio, il riscaldamento globale è stato responsabile di 317 decessi in eccesso stimati a Milano, 286 a Barcellona, 235 a Parigi, 171 a Londra, 164 a Roma, 108 a Madrid, 96 ad Atene, 47 a Budapest, 31 a Zagabria, 21 a Francoforte, 21 a Lisbona e 6 a Sassari. Le persone di 65 anni e più sono state le più colpite, rappresentando l’88% dei decessi in eccesso legati ai cambiamenti climatici, a causa di tassi più elevati di condizioni di salute esistenti. I risultati evidenziano che le persone anziane in Europa corrono un rischio crescente di morte prematura, poiché la combustione di combustibili fossili provoca ondate di calore più calde, più lunghe e più frequenti. Tuttavia, i ricercatori avvertono che il caldo può essere pericoloso per tutte le fasce d’età, con una stima di 183 decessi tra le persone di età compresa tra i 20 e i 64 anni. Luca Aterini, caporedattore Greenreport Ascolta o scarica