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Una critica radicale al cuore del capitalismo verde
Articolo di Jacob Nitschke, Marisol Manfredi A 3.500 metri di altitudine, il vento attraversa le montagne e le nuvole si dissolvono su una superficie che sembra infinita. Il tempo diventa denso. Le ore passano più lentamente, l’aria si respira in modo diverso, come se la vita avesse un altro ritmo. Nelle Salinas Grandes, a nord della provincia argentina di Jujuy, il vento disegna vortici su una pianura bianca che sembra non finire mai. In quel paesaggio sospeso, dove il silenzio risuona più forte di qualsiasi motore, il presente si muove al ritmo della terra e il silenzio, improvvisamente, acquista spessore: è il suono di un territorio che resiste. Lì vive Flavia Lamas, presidente dell’Assemblea del Bacino di Salinas Grandes e Laguna de Guayatayoc. Dal 2009, insieme ad altre 38 comunità kolla-casabinda, affronta l’avanzata delle compagnie minerarie che cercano di estrarre litio dalla salina, situata nel famoso e strategico Triangolo del Litio. In un mondo che celebra la «transizione verde» e le auto elettriche come soluzione al cambiamento climatico, Flavia ricorda che ogni batteria ha un prezzo che non si misura in euro o in dollari: si misura in acqua, in comunità, in vita. «Ci dicono che siamo il triangolo del litio e che per questo diventeremo ricchi. Ma senza acqua non c’è vita. Noi non mangiamo batterie», ci racconta Flavia quando la intervistiamo nel rifugio Santuario dei Tre pozzi, all’ingresso delle Salinas, dove per pochi soldi (2 euro) offrono un servizio di guida turistica che ci spiega come funziona la salina e come le comunità utilizzano il suo sale. Quando nel 2009 sono arrivate le prime trivelle nella zona, le comunità non sapevano cosa fosse il litio. «Abbiamo visto che la salina cominciava ad affondare, che l’acqua dolce usciva mescolata alla salamoia. È stato allora che ci siamo resi conto che qualcosa non andava», racconta Flavia. Da allora, si sono organizzati. In Argentina, fortunatamente e in risposta a tante crisi, la popolazione sa come opporre resistenza. È nata così l’Assemblea del bacino di Salinas Grandes e Laguna de Guayatayoc, dove hanno redatto il proprio protocollo di consultazione (Kachi Yupi o Huellas de Sal) e hanno chiesto che qualsiasi progetto rispettasse il diritto di decidere sui propri territori. La lotta non è stata facile. Nel 2023, dopo la riforma costituzionale promossa dal governatore di Jujuy, i diritti delle popolazioni indigene sono stati indeboliti. Le proteste sono state represse e molte comunità si sono divise. Alcune, spinte dalla necessità o dalla promessa di posti di lavoro, hanno accettato di dialogare con le compagnie minerarie. Altre, come quella di Flavia, hanno resistito. «Ci dicono che il progresso arriva con i camion e le macchine, ma quello che portano è disuguaglianza. Prima nessuno aveva più di nessun altro. Ora alcuni comprano automobili, altri niente. E questo distrugge la comunità», spiega. Flavia racconta di Susques, una comunità a circa 66 km più in alto rispetto a dove ci troviamo, uno dei primi villaggi della Puna dove è stata avviata l’estrazione del litio. Lì, ci racconta Flavia, «non c’è più acqua potabile durante il giorno e gli animali nascono deformi». Le comunità di Susques hanno detto loro: «Voi siete ancora in tempo, noi abbiamo già perso tutto». Questa frase riassume l’orizzonte temuto nelle Salinas: un territorio esaurito, una vita circondata dalla polvere e dalla sete. A Susques, la promessa di sviluppo si è trasformata in dipendenza. L’acqua che prima sgorgava dagli occhi della terra (ojos de la tierra ) ora arriva in bottiglie di plastica: privatizzazione, proprietà privata e individualismo sono alcune delle conseguenze che l’estrazione mineraria ha portato a Susques. Il racconto di Flavia rivela qualcosa di più profondo di un conflitto ambientale: è una lotta ontologica, una differenza su cosa significhi questo mondo e come viverci (bene). Per Flavia, il Buen Vivir non è una teoria, né solo una cosmologia che si studia, ma una pratica quotidiana. «Non si tratta di vivere bene, ma di vivere bene tutti. Se il mio vicino soffre, io non posso stare tranquilla». Il legame che Flavia ha con le Salinas è anche intimo e spirituale. «Sento una connessione con le Salinas… Quando nella mia famiglia siamo tristi, angosciati o malati, l’unica cosa che facciamo è connetterci con la natura. E così troviamo la tranquillità che un medico non può darci. Le saline fanno parte della famiglia, ed è per questo che diciamo che toccarle è come toccare una madre». Nella sua cosmovisione, la salina non è una risorsa, è una madre; un essere che vive, respira, soffre. Le parole di Flavia racchiudono una critica radicale al cuore del capitalismo verde: l’idea che la natura possa essere separata dalla vita umana e ridotta a una materia prima, a una risorsa, a un oggetto sfruttabile. Quell’idea moderna per cui l’essere umano è una cosa e la natura un’altra. Come se anche noi non fossimo natura. Il progetto del nord del mondo di «transizione ecologica» viene spesso presentato come un percorso inevitabile e benigno verso la sostenibilità. Tuttavia, il litio che alimenta la mobilità elettrica viene estratto da territori come questo, dove l’acqua è scarsa e la democrazia è fragile. In nome della decarbonizzazione, si ripropongono vecchi modelli coloniali: il Nord pianifica il suo futuro «pulito» (misurato in termini di energia e coscienza) mentre il Sud offre nuovamente la sua terra e il suo corpo (le teorie femministe sudamericane sul corpo-territorio hanno molto da offrirci su questo, se qualche lettore fosse interessato ad approfondire). Flavia lo sa. Ecco perché la sua richiesta non è rivolta a Buenos Aires e tanto meno alle istituzioni locali di Jujuy. «Andare dal governo provinciale non serve. L’aiuto deve venire dall’Europa, dove si prendono le decisioni sul litio. Lì ci sono organizzazioni per i diritti umani che possono ascoltarci». La richiesta di Flavia rompe lo schema semplicistico di un Sud vittima e di un Nord oppressore. Lei non parla a nome di un confine, ma da una molteplice interdipendenza: ecologica, politica, epistemica, ontologica. La sua voce mira a tessere alleanze con coloro che, in Europa, mettono in discussione la finzione di un progresso verde fondato sulla disuguaglianza. Nel nostro progetto accademico chiamiamo questo fenomeno «dipendenze intersezionali»: comprendere che la dipendenza non è distribuita solo tra paesi e geografie, ma anche tra modi di vita, conoscenze e ontologie. Dalle montagne andine alle istituzioni europee, le stesse gerarchie (tra natura e società, ragione e spiritualità, uomo e donna, centro e periferia, ecc.) sostengono il modello estrattivista. Romperle implica immaginare transizioni non solo energetiche, ma anche ontologiche, in cui diverse forme di sapere e di esistenza possano coesistere in modo paritario. O almeno, rompere con il modello in cui un’alternativa (presumibilmente superiore, il mainstream imposto dal Nord globale) diminuisce, irrompe, sposta e/o elimina altre forme alternative di comprendere il mondo e, di conseguenza, di relazionarsi con la natura (cioè con noi stessi). La voce di Flavia viaggia attraverso percorsi di sale e vento, ma punta al cuore del dibattito globale sulla transizione ecologica. Ci ricorda che non c’è giustizia climatica senza una giustizia più profonda: quella ontologica. Che cambiare energia non basta se continuiamo a pensare al mondo con la stessa logica. Dobbiamo aprirci a nuovi modi di pensare e comprendere il mondo: solo così arriveranno nuove soluzioni. E la transizione «verde», con la sua finzione di venderci la soluzione ai nostri problemi, basata sul cosiddetto «tecno-fix-ottimismo» – la fede cieca nella tecnologia come utopia che ci salverà da tutti i nostri problemi – in realtà sta eliminando una delle alternative in cui cercare risposte, ampliare i nostri modi di vedere, comprendere e pensare il mondo. Non potremo affrontare la crisi ecologica globale ricorrendo alle stesse logiche di estrazione, separazione e dominio che l’hanno generata. Come scrisse Audre Lorde nel 1979, «gli strumenti del padrone non smantelleranno mai la casa del padrone»: non potremo risolvere i problemi della nostra epoca con gli stessi strumenti della nostra epoca, poiché sono stati proprio questi ultimi, in primo luogo, a creare i problemi. È quindi necessario smascherare il lato nascosto della tanto agognata e apparentemente innocua «transizione verde», poiché ancora una volta essa sposta ed elimina possibili futuri, ma anche possibili modi di comprendere il presente. Dobbiamo cambiare la cassetta degli attrezzi con cui non solo «riparare» la nostra società frammentata e divisa, ma anche ripensarla: la voce di Flavia Lamas è un invito a farlo. Non è facile, ricorda Flavia. Nell’intervista racconta come, delle 33 comunità che facevano parte della lotta, molte abbiano iniziato ad allontanarsi. «Ci sono comunità che hanno detto che non c’è più niente da fare perché abbiamo tutto contro». E spiega che, in alcuni casi, non è l’intera comunità, ma «un gruppetto di famiglie che stanno dando l’ok, ma ora basta… una volta frammentate le opinioni nella comunità, questa non è più abbastanza forte, quindi l’industria mineraria penetra». Cosa penetra e perché succede? Non è solo la transizione verde del Nord che sa vendersi molto bene, ma anche le logiche aziendali delle società minerarie. I loro sofisticati strumenti di marketing sanno come penetrare nelle comunità. Anche se con una connettività e una connessione Internet limitate – poiché solo in alcune parti del percorso è possibile accedere al 4G – le comunità ricevono (soprattutto da quando viviamo in questa era digitale) i concetti di progresso, lavoro, ascesa sociale, successo. È comprensibile: in territori dove lo Stato è assente e dove dalla colonizzazione a oggi sono stati reclusi, esclusi e ignorati (non dimentichiamo che anche le loro lingue sono state eliminate nell’omogeneizzazione colonizzatrice della lingua spagnola), la promessa mineraria appare come l’unica alternativa per unirsi al cosiddetto sistema, dove quel progresso, quell’ascesa sociale e quel successo che vengono venduti sugli schermi potrebbero finalmente fiorire. Il lavoro minerario non offre solo uno stipendio: offre simboli. Un’auto, una casa in muratura, vestiti nuovi, gioielli, un cellulare migliore. Oggetti che nella logica del capitalismo coloniale rappresentano l’«essere arrivati». E in territori impoveriti da politiche nazionali storicamente estrattive, questi segnali possono pesare più del discorso ambientale. È chiaro, quindi, riflettiamo con Flavia, che non tutte le comunità si oppongono, rimangono fedeli ai loro antenati e ai messaggi che il tata wayra (vento) e il tata inti (sole) trasmettono loro attraverso suoni impercettibili all’orecchio occidentale. Quella stessa promessa fatta dalle aziende distrugge il tessuto sociale delle comunità. Il documentario The Hidden Cost: The Other Side of the Green Transition, prodotto dalle colleghe dell’Osservatorio sul Debito Globale, mostra chiaramente ciò che Flavia sintetizza in una frase: «La comunità si rompe». Appaiono pratiche che prima non esistevano, in particolare, da una prospettiva di genere, l’alcolismo e la prostituzione. Per questo motivo, le colleghe nel loro documentario cercano di mostrare la prospettiva di genere, molto necessaria nell’estrazione del litio, perché porta cambiamenti molto forti. Per quanto riguarda la prima problematica, le donne di Susques – che, come abbiamo già detto, subiscono le conseguenze dell’attività mineraria penetrata già da 10 anni – affermano, ci racconta Flavia, che non è più sicuro uscire di notte, perché ci sono molti uomini ubriachi e violenti che vagano per le strade. Per quanto riguarda la seconda, sebbene rimandi a un dibattito molto più ampio che non possiamo affrontare in questa sede, costringe le donne a cercare altri modi per guadagnare denaro e mantenersi economicamente, soddisfacendo una domanda che, evidentemente, emerge dalla stessa logica estrattivista e individualista che l’estrazione mineraria instaura (in modo irreversibile). Questi fenomeni sono gli effetti sociali di una logica estrattivista che instaura disuguaglianza all’interno della comunità e ne altera l’universo morale, relazionale e affettivo. Dal bacino, molte voci convergono nello stesso giudizio, ci racconta Flavia: «Non vogliamo essere una zona di sacrificio». L’urgenza climatica non può legittimare transizioni energetiche che aggravano le disuguaglianze sociali, etniche e ambientali, che destabilizzano le comunità, che generano malessere e violenza. La richiesta è chiara: ascoltare i territori, difendere l’acqua, rispettare i diritti collettivi, lasciarli essere e decidere, riconoscere la loro esistenza, il loro modo di vivere e di pensare e, soprattutto, capire che con le batterie al litio ci potranno essere auto e cellulari, ma senza acqua non ci sarà nessuno che li userà o li guiderà. Flavia ci chiede di diffondere il suo messaggio in Europa. Eccoci qui, a cercare di far risuonare la sua voce in tutti gli spazi possibili. Se ti stai chiedendo come puoi aiutare, la prima risposta di Flavia è semplice e urgente: fai eco. Condividi. Mantieni viva la conversazione. Seguili su Instagram all’indirizzo @cuencadesalinasgrandes e sul loro sito web, perché ogni diffusione apre una fessura da cui entra aria. E perché diffondere è un atto politico. Alla fine della giornata, la domanda non è chi sarà il proprietario del litio, ma quale mondo continuiamo ad alimentare quando crediamo che la tecnologia da sola ci salverà. La domanda che questo articolo lascia è scomoda, ma inevitabile: a cosa serve decarbonizzare l’Europa se le montagne andine del Sud del mondo si desertificano? A cosa serve una transizione verde che richiede il sacrificio di interi territori in nome di un futuro a cui quelle popolazioni non potranno nemmeno accedere? Che tipo di giustizia climatica è quella che ha bisogno di «zone di sacrificio» (le stesse del passato, ovviamente)? Mentre le potenze del Nord parlano e celebrano l’«innovazione verde», nelle Salinas Grandes le comunità continuano a difendere qualcosa di più elementare e vero di un’auto elettrica o di un terzo cellulare in due anni: difendono l’acqua, difendono la vita. Nelle parole di Flavia, parole che l’Europa ha bisogno di ascoltare: «Senza acqua non c’è vita. Noi non mangiamo batterie». Forse questo è il messaggio più profondo che le Salinas ci restituiscono: che la transizione ecologica non sarà giusta se costruita su territori assetati; che se la transizione verde ha bisogno di territori vuoti, comunità frammentate e saline senza acqua, allora non è né transizione né verde, è semplicemente un’altra forma di estrattivismo, questa volta in nome del clima; che non ci sarà un mondo possibile se continuiamo a zittire le voci che potrebbero aiutarci a immaginarne altri; e che la Pachamama, quando parla in silenzio, ci sta dicendo che siamo ancora in tempo, ma che non ne rimane molto. *Marisol Manfredi è un’economista eterodossa argentina formatasi a Mar del Plata, Parigi e Pisa. Jakob Nitschke è un ricercatore in Economia Geografica con particolare attenzione ai temi della decolonizzazione, dei conflitti eco-sociali e dell’estrattivismo.  L'articolo Una critica radicale al cuore del capitalismo verde proviene da Jacobin Italia.
QUALITA’ DELLA VITA: BRESCIA PERDE POSIZIONI NELLA CLASSIFICA DEL “SOLE 24 ORE”. INTERVISTA A MARINO RUZZENENTI
Trento, Bolzano e Udine sono in cima alla classifica annuale “Qualità della Vita” del Sole 24 Ore, il quotidiano di Confindustria. Bologna quarta e Milano ottava; in mezzo Bergamo (quinta), Treviso (sesta), Verona (settima), Padova (nona) e Parma (decima). Firenze 36/a, Genova 43/a, Roma è 46/a, Torino 57/a. Guardando il dato locale, Brescia – città da cui trasmette Radio Onda d’Urto – peggiora: nella classifica finale perde otto posizioni rispetto al 2024 piazzandosi al 28esimo posto. Male in particolare demografia e società, cultura e tempo libero e giustizia e sicurezza. Stride, in uno dei territori più inquinati d’Italia, il primo posto assoluto nella categoria ambiente e servizi; un dato quantitativo, quello del Sole 24 Ore, basato soprattutto su fotovoltaico, trasporti e illuminazione pubblica, e non invece su qualità di aria, acqua e cementificazione. Come leggere questi dati? E’ la domanda che Radio Onda d’Urto ha posto a Marino Ruzzenenti, storico dell’ambiente e consulente del tavolo Basta Veleni Brescia. Ascolta o scarica
Giù le mani dalla città. Conoscere per resistere
Negli ultimi anni Firenze ha subito un “sacco” di spazi ed edifici pubblici. Fondi finanziari hanno speculato e investito in residence di superlusso e strutture per un turismo d’élite, fino a stravolgere la città. La speculazione edilizia fuori controllo ha … Leggi tutto L'articolo Giù le mani dalla città. Conoscere per resistere sembra essere il primo su La Città invisibile | perUnaltracittà | Firenze.
Ponte sullo Stretto: viola l’ambiente e persino le direttive europee
La Corte dei Conti ha depositato le motivazioni con le quali ha negato la legittimità alla registrazione della delibera CIPESS sulla quale poggiava l’avvio del progetto del Ponte sullo Stretto di Messina. La Corte si è presa in sostanza tutto il tempo disponibile per rendere note le motivazioni del pronunciamento […] L'articolo Ponte sullo Stretto: viola l’ambiente e persino le direttive europee su Contropiano.
Rischio idrogeologico, il caso Genova
Articolo di Claudio Marciano L’Italia è una repubblica fondata sul rischio idrogeologico. Sette milioni di persone vivono in zone esondabili, e circa due terzi delle frane censite a livello europeo si trovano nel nostro paese. Nelle sole città con più di 50.000 abitanti, Legambiente ha censito negli ultimi dodici anni 336 alluvioni, 1.346 allagamenti urbani e un numero imprecisato di frane non sistematicamente registrate. In questo quadro già fosco, c’è un caso che spicca per il suo lugubre primato: Genova. Qui, eventi estremi che altrove si manifestano sporadicamente avvengono con cadenza quasi annuale da almeno trent’anni. Questi eventi non hanno prodotto solo vittime e devastazioni, ma hanno accelerato il declino di leader politici locali, stimolato innovazioni organizzative e tecnologiche nella protezione civile, ispirato la nascita di associazioni e movimenti civici, e trasformato il modo in cui gli abitanti percepiscono il territorio. Genova, esposta ripetutamente allo stesso tipo di shock, è diventata – suo malgrado – un campo di osservazione privilegiato delle tensioni politiche e sociali che modellano la gestione del rischio naturale. Il caso genovese parla non solo di perché le alluvioni accadono spesso e causano danni rilevanti, ma anche di perché si prendono (o non si prendono) decisioni per affrontarne le cause. Inoltre, l’approfondimento del caso genovese è significativo perché mostra come la governance del rischio naturale sia un campo dove si manifestano i conflitti politici e sociali dell’adattamento ai cambiamenti climatici. Questo concetto, veicolato nell’arena delle policy come se fosse neutro, descrive, all’atto pratico, visioni politiche e interessi materiali divergenti che attengono le scelte su cosa finanziare, dove intervenire, come e chi includere nei processi decisionali.  Lo scorso 15 novembre la città è stata investita da una perturbazione particolarmente violenta: si sono registrati 62 allagamenti urbani, 14 frane e l’esondazione di un torrente. Dal mare è arrivata anche una tromba d’aria che ha sradicato dodici alberi e sollevato il tetto di un’officina del gestore dei rifiuti, causando danni a edifici e arredi pubblici. Questo episodio è stato il più grave, finora, del 2025, ma risulta di entità moderata rispetto a quelli che l’hanno preceduto. Dopo la tragica alluvione del 1970, in cui persero la vita 44 persone, le alluvioni hanno colpito nuovamente nel 1992 e nel 1993 i quartieri di Sturla e Prà, causando complessivamente sette vittime. Nel 2010 alcuni torrenti del Ponente hanno trascinato in mare un operaio, provocando danni per decine di milioni di euro. Nel 2011 l’esondazione del rio Fereggiano ha causato sei vittime, tra cui due bambine e la loro madre. Nel 2014 si è registrata una sola vittima, ma i danni provocati dall’esondazione del Bisagno sono stati nuovamente devastanti. La maggior parte di questi eventi ha determinato la dichiarazione dello stato di emergenza nazionale. Dal 2010, nella sola Genova, sono stati censiti danni ad abitazioni e imprese per oltre 240 milioni di euro, dei quali solo circa il 20% ha ricevuto ristori statali. La maggior parte di questi eventi ha cause simili. Le precipitazioni intense non sono solo episodi di «mal tempo», ma l’effetto più visibile e distruttivo dell’aumento delle temperature medie. Un’atmosfera più calda trattiene più vapore acqueo e, quando questa massa d’aria calda e umida incontra correnti più fredde, scatena fenomeni convettivi di violenza inaudita. Questi nubifragi si abbattono su un territorio reso vulnerabile dall’urbanizzazione: i numerosi corsi d’acqua che attraversano il Comune di Genova – oltre 150 – sono stati in gran parte tombati per far spazio a edifici, impianti produttivi e infrastrutture. Nelle aree collinari, l’abbandono dei terrazzamenti agricoli ha favorito la ricolonizzazione spontanea da parte del bosco, che non sempre garantisce stabilità sui versanti più ripidi. L’interazione di questi fattori riduce drasticamente il tempo di corrivazione dei bacini, ovvero l’intervallo tra l’inizio della pioggia e il raggiungimento della piena. Sociologi e psicologi dell’organizzazione sostengono che le strutture apprendono, quando riconoscono di aver fallito. Per anni, a Genova la risposta politica ai disastri è stata di naturalizzare le cause, negando o minimizzando le responsabilità antropiche, e di tecnicizzare le soluzioni, presentandole come dati di fatto derivanti da un sapere scientifico neutro. Quest’approccio ha iniziato a cambiare dopo l’alluvione del 2011, quando il 4 novembre persero la vita due bambine con la madre, una ragazza di 19 anni e altre due persone nello stesso tratto di via Fereggiano, strada che corre sopra il torrente tombato omonimo. La tragedia, la quarta in meno di dieci anni, ha profondamente scosso la città. Agli «angeli del fango», sono seguite manifestazioni e contestazioni. In una sentenza che ha fatto molto discutere ma anche creato un pesante precedente, la magistratura ha inquisito e poi condannato in sede penale l’allora sindaca Marta Vincenzi per non aver adottato provvedimenti adeguati malgrado l’allerta diramata. Il conflitto si è esteso anche sulle azioni di mitigazione. Nel 2012, associazioni e comitati della Val Bisagno hanno contestato la demolizione di un ponte settecentesco ritenuto un fattore di rischio idrogeologico, mettendo in evidenza l’assurdità di tale provvedimento quando, al contempo, il Comune autorizzava la costruzione di un centro commerciale nei pressi del torrente. In modo più o meno coercitivo, questi eventi hanno prodotto un apprendimento nel sistema locale di protezione civile, che ha portato all’introduzione di routine orientate a ridurre esposizione e vulnerabilità agli impatti delle alluvioni. Il Piano comunale e le mappe delle zone esondabili sono state aggiornate; sono stati potenziati mezzi e personale dedicato alle emergenze; è stato organizzato un presidio territoriale sui torrenti più a rischio; sono state censite le abitazioni al piano terra o interrate in aree esondabili ed è stato attivato un servizio di chiamata a chi vi risiede in caso di allerte rosse; sono stati elaborati piani di evacuazione nelle scuole e organizzate campagne di sensibilizzazione.  Le alluvioni di Genova sono state un fatto nazionale e hanno prodotto un apprendimento più ampio rispetto a quello locale. Dopo il 2011, il Dipartimento di Protezione Civile ha accelerato sull’attuazione del metodo Augustus per l’organizzazione dei Centri Operativi Comunali (Coc), e dopo il 2014 ha introdotto i sistemi di allerta a colori. Qualcosa avvenne anche sul finanziamento del rischio idrogeologico: dopo il 2011, il governo Monti stanziò 25 milioni di euro per la realizzazione dello scolmatore del Fereggiano, anche se per completare l’opera il Comune dovette aggiungere altri 15 milioni. Solo dopo l’alluvione del 2014, il governo Renzi creò Italia Sicura, che destinò a Genova circa 400 milioni di euro per la messa in sicurezza del Bisagno e la realizzazione dello scolmatore. La filosofia che ha ispirato quest’intervento, e più in generale il programma di Italia Sicura, è quella delle grandi opere idrauliche che agiscono sugli effetti a valle delle alluvioni (ovvero l’esondazione), anziché sulle cause a monte (abbandono dei terreni e restringimento degli argini). Il rifacimento della copertura del Bisagno alla Foce e l’abbassamento di due metri del torrente in quella sezione hanno aumentato i litri al secondo che il bacino può reggere. Tuttavia, i corsi d’acqua che richiederebbero interventi simili sono molti, e la trasferibilità di opere di questa scala è finanziariamente impossibile. Lo scolmatore del Bisagno, progettato a metà anni Duemila e finanziato nel 2015, è ancora lontano dall’essere completato, e le tempistiche più ottimistiche datano la fine lavori a dicembre 2027. Perché si investe a valle invece che a monte, pur essendo quest’ultimo l’intervento più efficace? A questa domanda decine di tecnici e amministratori rispondono essenzialmente in due modi: l’orizzonte breve dei cicli politici, che spinge verso soluzioni visibili rapidamente; e il diverso valore economico dell’esposto. Alla prima risposta si può credere fino a un certo punto: oltre a offrire un’interpretazione cinica della politica locale, è poco accurata, poiché queste opere risaputamente richiedono decenni per essere realizzate. La seconda risposta sembra cogliere degli aspetti più profondi. Il rischio idrogeologico non fa franare solo i versanti, ma anche i valori immobiliari. Per decenni, la principale linea di disuguaglianza della città è stata quella orizzontale, Levante/Ponente. Negli ultimi anni, la forbice più evidente si è aperta in senso verticale, tra centro e alture, tra costa e versanti interni. Il rischio idrogeologico colpisce entrambi, ma la gran parte degli interventi ha finora protetto soprattutto il valore delle aree costiere, lasciando più vulnerabili e svalutate le zone collinari. La governance del rischio naturale è attraversata da questa e altre fratture in cui interessi e valori si spingono in direzioni contrapposte, generando ritardi, timidezze e conflitti. Un’altra frattura è quella tra applicazione rigorosa delle misure di prevenzione e sostenibilità sociale. È un discorso simile a quello della Just Transition: l’auto-protezione è virtuosa, ma chi paga? In caso di allerta rossa, chi tiene i bambini a casa se le scuole chiudono? Chi sostiene lavoratrici e lavoratori precari che perdono lo stipendio? Quale credibilità hanno le istituzioni che chiedono ai cittadini di assicurare le proprie attività e abitazioni, ma al tempo stesso autorizzano interventi edilizi controversi vicino agli argini dei fiumi o alleggeriscono vincoli urbanistici per opere private? Su questo versante si collocano anche le «buone ragioni» di chi ha micro-interessi contrapposti alle opere di mitigazione del rischio. La geografa Sara Bonati ha mostrato come lavori finanziati da Italia Sicura – strade chiuse, cantieri di escavo, movimentazione di terre – abbiano generato conflitti anche tra i presunti beneficiari delle opere. Qui si posiziona una frattura che è ben nota a chi si occupa di DRM, quella tra i cittadini che contestano e le autorità che impongono. È la tragedia della non partecipazione. Politiche pubbliche efficaci solo sulla carta,  ma mai concordate e concertate con chi dovrebbe attuarle o esserne oggetto, innestano conflitti laceranti. Agli estremi, si coagulano due schieramenti: cittadini incazzati che arrivano a negare le ragioni degli interventi, amministratori e tecnici indignati, che rifiutano di confrontarsi con «gli ignoranti». L’apprendimento organizzativo è spesso legato all’esperienza diretta, ma può avvenire anche attraverso l’osservazione delle esperienze altrui. Nel campo del rischio naturale questo «apprendimento indiretto» sarebbe quanto mai auspicabile, ma si verifica raramente. La storia di Genova, e quella di tanti altri luoghi esposti al rischio naturale, dimostra infatti che l’apprendimento segue quasi sempre le catastrofi, e che spesso non ne basta una, ma devono ripetersi, perché qualcosa cambi. Questo deficit di apprendimento indiretto non riguarda solo il rischio idrogeologico. Nel 1995 a Chicago – come ha raccontato magistralmente il sociologo Eric Klinenberg – in cinque giorni morirono oltre 700 persone per una grave ondata di calore. Nel 2003, a Genova (e in tutta Italia) si è verificato qualcosa di molto simile: la combinazione di caldo e umidità per tre settimane di fila ha aumentato il tasso di mortalità (ad Agosto 2003 a Genova morirono 1.020 persone, rispetto alle 650 della media annuale), in particolare fra gli anziani poveri e socialmente isolati, e il tutto è emerso solo quando i servizi funerari sono entrati in crisi per l’assenza di bare. Vent’anni dopo, malgrado le ondate di calore costituiscano ormai una norma delle estati mediterranee, una policy strutturata contro il rischio da caldo non esiste ancora: le misure per proteggere i lavoratori più esposti sono recentissime, dipendono da ordinanze contingenti e rimangono labili; la cura delle vulnerabilità continua a essere delegata all’«auto-protezione». Ci sono però eccezioni, che mostrano come si possa apprendere anche senza pagare il prezzo di perdite e danni. Ad esempio, il sistema di presidio territoriale implementato a Genova dopo le alluvioni, basato su monitoraggio in tempo reale dei torrenti tramite sensori, telecamere e squadre di volontari, ha ispirato una direttiva nazionale della Protezione Civile ed è stata replicata da altri Comuni. Dopo le tremende alluvioni dell’Emilia-Romagna del 2024, alcuni dirigenti del Comune di Bologna hanno cercato attivamente scambi di esperienza con Genova. Probabilmente, osservando da vicino la vita quotidiana dei sistemi locali di protezione civile, si scoprirebbe un certo «sperimentalismo» in azione. Ciò che manca è, forse, una cornice strutturale: non un semplice osservatorio di buone pratiche, ma una governance sperimentalista – sul modello teorizzato da Charles Sabel per la transizione energetica – in cui un’autorità sovralocale, come il Dipartimento di Protezione Civile Nazionale, fissi obiettivi vincolanti e ambiziosi, lasciando agli attori locali la libertà di trovare le soluzioni migliori, ma imponendo momenti pubblici di revisione e l’obbligo di adottare i metodi più efficaci.  *Claudio Marciano è ricercatore in sociologia dell’ambiente e del territorio presso il Dipartimento di Scienze politiche e internazionali dell’Università di Genova. Una parte delle riflessioni proposte in questo articolo sono il frutto di un lavoro di ricerca collettivo, tuttora in corso, condiviso con le colleghe Cecilia Paradiso, Giusy Imbrogno, Margherita Rago, Sergio Lagomarsino e Andrea Pirni. L'articolo Rischio idrogeologico, il caso Genova proviene da Jacobin Italia.
Super vincoli paesaggistici su ex teatro Comunale, San Gallo e OGR. Eppure, lo scempio si può fare
Tre delle maggiori “rigenerazioni” in città, ex teatro Comunale, San Gallo e OGR, ricadono in aree super vincolate. Eppure, gli operatori edilizi si muovono in grande libertà. Con il beneplacito di Comune e Soprintendenza. Tutte e tre le “Aree … Leggi tutto L'articolo Super vincoli paesaggistici su ex teatro Comunale, San Gallo e OGR. Eppure, lo scempio si può fare sembra essere il primo su La Città invisibile | perUnaltracittà | Firenze.
Aeroporto di Firenze: la partita è ancora aperta. Cosa resta irrisolto dopo il decreto ministeriale
Il decreto ministeriale sul nuovo aeroporto di Firenze c’è, ma non chiude la partita. Il parere è positivo “con riserva”: gli stessi proponenti ammettono che le misure di mitigazione non eliminano i danni agli habitat protetti. Adesso la questione si … Leggi tutto L'articolo Aeroporto di Firenze: la partita è ancora aperta. Cosa resta irrisolto dopo il decreto ministeriale sembra essere il primo su La Città invisibile | perUnaltracittà | Firenze.
Brasile: A Belém la dichiarazione del Vertice dei Popoli
Belém do Pará, Amazzonia — Il 15 novembre oltre 70.000 persone hanno attraversato la città in una grande marcia che ha segnato il momento più partecipato del Vertice dei Popoli (Cupula dos Povos). Comunità indigene, movimenti sociali, lavoratrici, giovani e realtà popolari provenienti da vari Paesi hanno percorso le strade di Belém per denunciare gli impatti della crisi climatica e le responsabilità politiche ed economiche che la alimentano. Il giorno successivo, il 16 novembre, la Cúpula si è chiusa con la lettura della Dichiarazione del Vertice dei Popoli, documento elaborato durante i mesi di preparazione e nelle giornate di lavori svolte a Belém. Nel testo, il Vertice individua nel modello capitalistico globale e nelle multinazionali dei settori energetico, minerario, agroindustriale e tecnologico i principali responsabili dell’aggravarsi della crisi climatica e sociale. La dichiarazione contesta le false soluzioni di mercato e chiede misure concrete: protezione dei territori indigeni, politiche di riforma agraria popolare, una transizione energetica giusta e libera dai combustibili fossili, finanziamenti equi e trasparenti e una maggiore responsabilità fiscale per le aziende che traggono profitto da attività inquinanti. Al centro anche il riconoscimento del ruolo delle comunità indigene e dei movimenti sociali. Con la chiusura della Cúpula, il Vertice dei Popoli lancia un appello che punta a unire realtà diverse in una piattaforma comune di difesa dei diritti, dei territori e del clima.
La COP30 espelle la delegazione di Israele
La delegazione israeliana è stata espulsa dall’assemblea della COP30. Le proteste di fronte alla sede di Belem in Brasile e il boicottaggio espresso dalla maggioranza delle delegazioni hanno cacciato i rappresentanti del genocidio a Gaza. La notizia è stata censurata dalla stampa scorta mediatica di Netanyahu. La Commissione Onu per […] L'articolo La COP30 espelle la delegazione di Israele su Contropiano.
La marcia indietro della Cop 30
Articolo di Salvatore Cannavò «Dobbiamo procedere molto, molto più velocemente, sia in termini di riduzione delle emissioni che di rafforzamento della resilienza» dice Simon Stiell, Segretario esecutivo delle Nazioni unite sui cambiamenti climatici, all’apertura del 30° Summit mondiale sul clima (Cop30). Il presidente brasiliano, Luiz Inácio Lula da Silva, paese che ospita il vertice, nel suo discorso di benvenuto ha attaccato indirettamente Donald Trump, affermando che «nell’era della disinformazione, gli oscurantisti rifiutano non solo le prove scientifiche, ma anche i progressi del multilateralismo. Controllano gli algoritmi, seminano odio e diffondono paura. […] È tempo di infliggere un’altra sconfitta al negazionismo». I due interventi sembravano risentire delle catastrofi climatiche che nelle ultime settimane hanno colpito duramente diversi paesi dell’area. Stiell ha fatto riferimento al recente uragano Melissa, che ha devastato i Caraibi alla fine di ottobre, mentre il Brasile è stato recentemente colpito da un tornado che ha devastato l’80% di Rio Bonito do Iguaçu, una città di 14.000 abitanti nello stato del Paraná facendo almeno sei morti e 750 feriti. Nella stessa direzione l’intervento della negoziatrice giamaicana UnaMay Gordon,secondo la quale «dopo Melissa, la Giamaica è diventata il simbolo globale della devastazione climatica. Belém deve quindi dimostrare al mondo di essere un simbolo di azione per il clima. Sono qui per chiedere chi ne sia responsabile e chi debba pagare». E nella stessa conferenza stampa, Toiata Apelu-Uili, dell’Alleanza dei piccoli Stati insulari (che rappresenta le isole più povere del mondo), ha sottolineato che «il costo dell’inazione si misura in vite umane perse». Rispettare l’obiettivo di riscaldamento globale di 1,5°C, come stabilito dall’accordo di Parigi, «non è uno slogan politico da sbandierare indiscriminatamente. È un’ancora di salvezza per la nostra gente e le nostre piccole isole». Ma si tratta di petizioni di principio o queste invocazioni hanno una qualche speranza di essere realizzate o per lo meno messe rigorosamente in agenda di questo trentesimo vertice? Il luogo di elezione, Belem, l’Amazzonia, è simbolicamente potente, un fallimento qui sarebbe l’ammissione di un’incapacità congenita di questo assetto mondiale a perseguire, sia pure timidamente, gli obiettivi che proprio dieci anni fa, a Parigi, indicarono una strada che allora sembrava obbligata. Ma la Cop30 non può far finta di non vedere che tra le sedie dei paesi negoziatori quella del paese più importante e potente, gli Stati uniti, resterà vuota. Si sta parlando del principale produttore mondiale di petrolio e gas che ha annunciato il  ritiro dall’accordo di Parigi per il 2026 e il cui presidente, Donald Trump, ritiene di aver vinto «la guerra contro la bufala del cambiamento climatico».  Ancora più recentemente Trump si è distinto per il fallimento dell’accordo sulla riduzione  dell’inquinamento nel trasporto marittimo nonostante, anzi proprio perché, un centinaio di paesi avevano raggiunto un accordo per adottare un piano, negoziato sotto l’egida delle Nazioni unite, per limitarne gli effetti devastanti. Come ha riportato il New York Times «gli Stati uniti hanno lanciato una campagna di pressione che i funzionari di tutto il mondo hanno definito straordinaria. A un ambasciatore asiatico è stato comunicato che, se avesse votato a favore del piano, ai marinai del suo paese non sarebbe più stato permesso di sbarcare nei porti americani. Ai diplomatici caraibici è stato comunicato che avrebbero potuto essere inseriti in una lista nera per entrare negli Stati uniti. E Marco Rubio, il Segretario di Stato, ha contattato personalmente i funzionari di diversi paesi per minacciare sanzioni pecuniarie». L’amministrazione Trump, di fatto, si è scatenata quando ha scoperto il progetto, che riteneva contrario agli interessi americani, e l’accordo è fallito. Del resto, fin dall’inizio del suo secondo mandato, Trump ha smantellato l’Agenzia per la Protezione Ambientale, ha eliminato tutti i sussidi per le energie rinnovabili, arrivando persino a rinviare i progetti di parchi eolici, che considera «orribili». Anche il sostegno ai veicoli elettrici è stato cancellato. L’azione della sua Amministrazione è ormai orientata all’insegna del motto «drill, baby, drill» (orribile, tra l’altro, anche sul piano semantico), quindi perforazioni senza alcun limite. I produttori di gas di scisto, petrolio e carbone hanno licenze assolute per portare avanti i loro progetti, le normative ambientali sono revocate. A ostacolare i progetti di Trump c’è solo il prezzo, basso, del petrolio: con 60 dollari al barile e prezzi del gas a 4 dollari per milione di Btu (British Thermal Unit) i progetti non sono sufficientemente redditizi e al momento non bastano gli impegni estorti a Unione europea e Giappone ad acquistare gas e petrolio statunitensi. Il fatto è che Trump sta semplicemente realizzando ciò che le grandi compagnie energetiche e petrolifere hanno iniziato a fare già dal 2023-2024: resettare i loro investimenti in fonti rinnovabili e «green» e tornare di gran corsa a investire in gas e petrolio complice la ridiscesa dei prezzi dopo la fiammata dovuta alla guerra ucraina. BP, ad esempio, che si era fatta paladina di una strategia a basse emissioni di carbonio, ha compiuto una radicale inversione di tendenza nel 2023 annunciando, invece di una riduzione del 40% delle emissioni entro il 2030, solo una riduzione del 25%. Nella stessa direzione vanno compagnie come Shell o Exxon e in Italia l’Eni. Non è più tempo di investimenti «verdi», come è evidente anche dal cambio di strategia dell’Unione europea sulla spinta delle grandi aziende e delle confindustrie europee che chiedono di uscire dalla «follia green» che aveva caratterizzato gli ultimi anni.   Nel 2017, il presidente di BlackRock, il più grande gestore patrimoniale al mondo, ha inviato una lettera a tutti gli azionisti in cui indicava una linea ambientalista. Sei anni dopo, ha fatto marcia indietro su tutte le sue promesse: l’ambiente non è abbastanza redditizio. Ovunque, la finanza verde sembra aver fatto marcia indietro. Secondo i dati del Wall Street Journal, altri sei fondi hanno eliminato ogni riferimento agli standard Esg (Environmental, Social, and Governance) e hanno deciso di orientarsi verso investimenti molto più convenzionali.  Il segno di questa svolta, quello simbolicamente più rilevante, può essere rintracciato in  Bill, il fondatore di Microsoft che si era speso per la lotta al cambiamento climatico, che nel suo messaggio di fine ottobre frena decisamente sugli allarmi del passato: «C’è una visione apocalittica del cambiamento climatico che recita più o meno così: tra pochi decenni, un cambiamento climatico catastrofico decimerà la civiltà. Le prove sono ovunque: basta guardare le ondate di calore e le tempeste causate dall’aumento delle temperature globali. Nulla è più importante che limitare l’aumento della temperatura. Fortunatamente per tutti noi, questa visione è sbagliata. Sebbene il cambiamento climatico avrà gravi conseguenze, in particolare per le popolazioni dei paesi più poveri, non porterà alla fine dell’umanità». Insomma, si può attendere. L’UNIONE EUROPEA Alla politica di Trump dovrebbe fare da contraltare l’Unione europea che ha redatto il proprio documento di partecipazione alla Cop30 in estremo ritardo e con evidenti contraddizioni interne. La Ue «ribadisce  l’appello ad abbandonare gradualmente i combustibili fossili nei sistemi energetici» ma chiede di farlo «in modo giusto, ordinato ed equo», in linea con percorsi verso il valore di 1,5 °C, ma chiede l’eliminazione «graduale» delle delle sovvenzioni ai combustibili fossili e comunque con un impegno minore per gli Stati membri che si traduce nella decisione di considerare l’obiettivo della riduzione delle emissioni del 90% entro il 2040 come composto dall’85% per quanto riguarda direttamente i progressi europei e dal 5% come acquisto di crediti internazionali di carbonio. Un espediente, insomma, per conciliare la linea dell’impegno ecologico con le domande pressanti dell’industria europea, in particolare quella automobilistica che ha già puntato l’obiettivo del 2035 per la fine della produzione di auto a motore endotermico, sperando di farlo slittare più avanti. Ma ci sono anche le lobby agricole, chimiche e finanziarie che lavorano per la cancellazione dei progetti ambientali supportate da quasi tutti i partiti europei di estrema destra e contrastati molto debolmente dalle forze socialdemocratiche.  Il cavallo di Troia per smantellare il Green Deal euoropeo, già ampiamente rivisto, è la nuova strategia di riarmo che spinge per un balzo della produzione militare, soprattutto in chiave dual use che comporta una forte limitazione dei parametri ambientali. Il fondo sovrano norvegese, per esempio, ha annunciato di aver abbandonato alcuni dei suoi criteri sociali e ambientali per evitare di essere costretto a vendere parte delle sue partecipazioni high-tech. La spinta statunitense, la minaccia dei dazi, la necessità di stare al passo con una concorrenza spietata, ha reso le élites europee sempre meno inclini ad avventurarsi nel campo della rigenerazione ambientale soprattutto in tema di rinnovabili. Solo che a Belém non servono palliativi, se è vero che secondo l’Organizzazione meteorologica mondiale le emissioni di gas serra, che contribuiscono al riscaldamento globale, hanno raggiunto un livello record nel 2025. CINA E ASIA Si può sperare nella Cina? Il paese ha inviato una ricca delegazione in Brasile e Lula rappresenta uno dei suoi principali alleati, facendo entrambi parte del sistema dei Brics, i paesi del Sud globale che provano a fissare agenda e politiche comune distinte e spesso alternative all’agenda del G7. Il vicepresidente cinese Ding Xuexiang ha sostenuto il multilateralismo e la cooperazione internazionale per combattere il cambiamento climatico. «La Cina è un paese che mantiene le promesse», ha insistito, sottolineando che il suo paese, il secondo maggior emettitore di CO₂ al mondo, ha adottato un piano quinquennale per ridurre l’uso del carbone e rafforzare la propria sicurezza ambientale. In effetti, le linee guida elaborate dall’ultimo plenum del Comitato centrale del Pcc, che ha redatto il nuovo piano quinquennale 2025-2030, sono fortemente ancorate all’innovazione tecnologica e allo sviluppo delle energie rinnovabili. La Cina sta facendo passi inediti in questo senso con 447 gigawatt di potenza degli impianti fotovoltaici che rappresentano il 48,4% di quella mondiale, mentre i 444 dell’eolico coprono il 44,2% della capacità totale. E nel corso del 2025 per la prima volta in assenza di una crisi economia Pechino ha ridotto le emissioni di CO2 nell’ambito della sua strategia finalizzata ad acquistare autonomia e competitività tecnologica ed energetica. Le emissioni cinesi sono in calo ormai da oltre un anno, dopo il picco raggiunto nel 2024, cosa che era già successa altre quattro volte negli ultimi 20 anni , ma questa è la prima volta che la causa è la crescita delle energie pulite, e non più una crisi economica dice l’autore. LULA E PETROBRAS Quello che invece presenta la maggior contraddizione è proprio il Brasile di Lula. Pochi giorni prima del discorso che ha dato via ai lavori della Cop30, discorso contro il «negazionismo» e assertore della strada degli impegni comuni a livello mondiale, il Brasile concedeva alla compagnia energetica Petrobras il permesso di trivellare alla foce del Rio delle Amazzoni. Da un lato Lula ha chiesto l’elaborazione di «roadmap» per l’eliminazione graduale dei combustibili fossili, dall’altro si è dovuto piegare alle solide ragioni dell’industria più aggressiva. Come denuncia la Via Campesina, «l’agroindustria sta trasformando il Brasile nel principale esportatore mondiale di carne e mangimi. Tutte le principali aziende alimentari e agroalimentari globali hanno ricavato enormi profitti da questo boom, compresi alcuni giganti locali come quello della lavorazione della carne Jbs. La combinazione di deforestazione, allevamenti intensivi di bestiame e campi inondati di pesticidi e fertilizzanti ha reso il Brasile un simbolo globale della distruzione climatica».  L’agroindustria mantiene una presa salda sullo Stato brasiliano, afferma ancora il movimento contadino ed ecologico nato anche dall’impulso del Movimento sem terra (Mst) brasiliano, sia sotto governi di sinistra che di destra, con Lula o Bolsonaro. Non sorprende quindi che la Cop di quest’anno si stia configurando come un monumentale esercizio di greenwashing agricolo. Il segnale viene inviato esplicitamente da Marina Silva, ministra dell’Ambiente del governo Lula, storica ecologista e impegnata soprattutto per la difesa dell’Amazzonia, che in un’intervista al quotidiano brasiliano O Globo, ha detto: «Non è possibile abbandonare i combustibili fossili per decreto perché ciò provocherebbe un collasso energetico globale».  La sfida è dunque molto impervia e incerta. Il 4 novembre, l’Onu ha calcolato che le roadmap dei paesi potrebbero ridurre le emissioni solo del 17% entro il 2035 rispetto al 2019, mentre limitare il riscaldamento globale a 1,5 °C richiede una riduzione del 60% delle nostre emissioni di carbonio, cosa che al momento non sta avvenendo. Un aggiornamento pubblicato il 10 novembre, che incorpora gli ultimi piani climatici annunciati, come quelli dell’Ue e della Cina, abbassa questa cifra, già bassa, al 12%. I MOVIMENTI POPOLARI Alla Cop30, ovviamente, si guarderà anche alle iniziative, azioni e dibattiti dei movimenti sociali e popolari, coalizioni, collettivi, reti e organizzazioni riuniti nella Cúpula de los Pueblos come spazio autonomo. Questa si è presentata mercoledì 12 novembre con  l’unione di oltre 200 imbarcazioni, tra canoe, barche e navi, con a bordo circa 5.000 persone di movimenti popolari provenienti da 62 paesi. Con un’agenda «socioambientale, antipatriarcale, anticapitalista, anticolonialista, antirazzista e dei diritti», le centinaia di associazioni denunciano la messa a rischio dell’obiettivo di riduzione dell’1,5 °C dell’Accordo di Parigi e insistono sulla necessità di «rivedere il modello economico attuale ed eliminare la produzione e la combustione di combustibili fossili, responsabili di oltre i due terzi delle emissioni che causano il riscaldamento globale, nonché attuare politiche per la deforestazione zero».  «È fondamentale che si realizzi una transizione giusta, popolare e inclusiva; il diritto alla terra e al territorio attraverso la riforma urbana, agraria e fondiaria; la demarcazione, la titolarizzazione e la regolarizzazione dei territori indigeni, quilomboli, dei pescatori e tradizionali; l’istituzione di sistemi alimentari incentrati sulla sovranità alimentare, con la promozione dell’agroecologia, della valorizzazione della produzione familiare, contadina e della pesca artigianale, dell’economia indigena, solidale e femminista; il riconoscimento della natura come soggetto di diritti; la protezione delle aree oceaniche, delle terre rare e marine; la protezione della biodiversità; la creazione di lavoro dignitoso, occupazione e reddito e di politiche di assistenza; il consolidamento del diritto alla città con politiche urbane e ambientali; l’attuazione di politiche specifiche per le persone colpite dai cambiamenti climatici; l’accesso all’acqua potabile e ai servizi igienico-sanitari di base; la prevenzione e l’adattamento ai cambiamenti climatici, in particolare nelle periferie urbane e nei territori indigeni e tradizionali; l’eliminazione del razzismo ambientale e strutturale e della violenza contro le donne e le ragazze, delle diverse culture e visioni del mondo; la promozione della libertà di comunicazione e della diversità culturale; politiche per i giovani neri; e misure di riparazione e democratizzazione del finanziamento equo per il clima, al di fuori del mercato del carbonio e dell’indebitamento, con la strutturazione dei fondi e la governance da parte delle comunità». Il 15 novembre si terrà la Marcia Unificata, durante la quale popoli indigeni, comunità quilombolas, giovani, lavoratori urbani e rurali, organizzazioni femministe, collettivi ambientalisti, sindacati e reti internazionali ribadiranno nelle strade di Belém che la giustizia climatica è direttamente legata alla difesa della vita e dei territori.  *Salvatore Cannavò, già vicedirettore de Il Fatto quotidiano e direttore editoriale di Edizioni Alegre, è autore tra l’altro di Mutualismo, ritorno al futuro per la sinistra (Alegre, 2018) e Si fa presto a dire sinistra (Piemme, 2023). L'articolo La marcia indietro della Cop 30 proviene da Jacobin Italia.