Oltre il biocapitalismo
Articolo di Luca Mandara
Il problema storico che sta all’origine e definisce il compito dell’eco-marxismo
è fondare de jure quella che Paul Guillibert, nel suo Sfruttare i viventi.
Un’ecologia politica del lavoro recentemente tradotto dal francese per Ombre
Corte, definisce «un’ecologia di classe», per un nuovo progetto eco-socialista.
Per farlo, il marxismo più aggiornato, come quello del ricercatore francese, si
confronta con gli studi eco-femministi, decoloniali, ecologisti, formulando una
teoria omnicomprensiva dei molteplici rapporti di dominio (di classe, di genere,
di razza, inter-specifico) che articolano oggi la società capitalistica.
VERSO IL BIOCAPITALISMO
Negli anni Sessanta-Settanta, mentre la comunità scientifica denunciava i
«limiti della crescita», alcuni pensatori marxisti hanno fatto propria la
scoperta ecologica dell’impossibilità di una crescita infinita senza intaccare
risorse, processi e equilibri biofisici che fino ad allora avevano permesso la
vita degli esseri umani e di diverse altre specie. Emancipati dall’orizzonte
produttivistico condiviso anche dal socialismo «reale», dal canto loro, questi
pensatori hanno a loro volta emancipato l’ecologismo da una concezione astorica
e sacrale della natura, da proteggere, conservare, ripristinare quale è sempre
stata senza considerare i «costi» sociali. L’idea marxiana che, invece, la
«natura» sia un prodotto storico (di una storia naturale e sociale) e che questa
produzione non sia unica ma si modifichi storicamente, rende il rapporto con la
natura innanzitutto produttivo e politico, cioè esito di conflitti storici. Da
scienza dei processi biofisici, l’ecologia diventa così «ecologia politica», che
studia la questione dei rapporti col non-umano a partire dalla questione dei
rapporti di forza tra umani.
Nell’eco-marxismo questi rapporti sono rapporti tra classi in lotta a causa del
carattere della produzione. Quella capitalistica è finalizzata all’accumulazione
crescente di capitale mediante lo sfruttamento del lavoro «vivo» salariato e
della natura in generale oltre i limiti della loro capacità di riprodurre la
propria energia vivente. Poiché lo sfruttamento del lavoro umano pone un limite
«naturale» alla durata della giornata lavorativa – la riproduzione della forza
lavoro stessa richiede del tempo – il capitale tende a ridurre il valore dei
beni salario in vari modi, come impiegare le macchine in agricoltura.
Agricoltura meccanizzata e urbanizzazione, a loro volta, causano una «frattura
metabolica» del «ricambio organico» tra uomo e natura di cui già Marx
considerava le nefaste conseguenze: perdita di fertilità della terra,
inquinamento delle città, proliferazione di malattie, riduzione dell’età media,
ecc.
La critica ecologista è stata arricchita da quella femminista secondo la quale
anche la riproduzione intra-umana non è un fatto naturale ma il prodotto di
un’attività storica: il lavoro «domestico» femminile. Per pensatrici come Silvia
Federici, quest’attività non viene «contabilizzata» nei costi poiché la
produzione capitalistica è fondata sul salario, che apparentemente lascia libero
il lavoratore nei suoi rapporti riproduttivi. In verità, tali rapporti sono
organizzati da forme e istituzioni di dominio sulla donna che rendono la
riproduzione conforme e funzionale alla produzione capitalistica. La donna serve
gratis la sua attività di crescita ed educazione dei figli, forza lavoro futura,
di cura degli anziani, socialmente necessaria ma non ripagata. A sua volta se ne
avvantaggia la riproduzione della forza lavoro maschile. Come sottolinea Nancy
Fraser nel suo Capitalismo Cannibale, la logica intrinseca dello sfruttamento di
genere non è venuta meno con l’integrazione delle donne nel mercato del lavoro.
In Occidente, anzi, si è esteso e incrociato sempre di più con motivi
«razziali»: il lavoro domestico viene appaltato ad altre donne più povere,
soprattutto straniere.
Anche la questione razziale ha una sua componente ecologica. La critica
decoloniale ha mostrato che il capitale tende a ridurre i costi dei beni salario
anche sfruttando manodopera nelle «colonie» in rapporti non salariati,
schiavili, servili o malamente salariati, oltre che appropriandosi violentemente
delle risorse e impiegare il modello distruttivo della piantagione a
monocoltura.
Infine, come evidenziato dall’ambientalismo, anche il non-umano è attivo nel
generare gli elementi necessari alla produzione e riproduzione umana (aria
respirabile, acqua potabile, terreno coltivabile ecc.), e anche questa attività
non viene ripagata da alcun valore. Questo porta diversi eco-marxisti a
estendere la categoria di lavoro alla natura non-umana o a parte di essa, come
nel caso di Guillibert, e a estendere l’uso dei concetti marxiani sui rapporti
tra capitale e lavoro al rapporto capitale-natura. Il ricercatore francese, ad
esempio, parla di «sussunzione totale della vita» al capitale per indicare la
produzione di una nuova natura del capitale, fatta di Ogm e altro, già adeguata
e conforme al regime dell’accumulazione. Attraverso la brevettazione della
conoscenza, vengono messi a valore processi e relazioni tra viventi e tra questi
e non-viventi danneggiando la loro capacità di rigenerazione. È la fase del
«biocapitalismo», che smentisce certe concezioni della natura alla base delle
critiche moralistiche alla sofferenza animale che accentuano una passivizzazione
della natura sconosciuta al capitale. Quest’ultimo si caratterizza piuttosto per
«un’intensificazione patologica, distruttiva e alienata della produttività della
natura in nome del profitto».
Verso un comunismo dei viventi
La critica ecologista deve quindi mirare al dominio stesso del capitale e alle
sue molteplici forme: tra divisione di classe in fabbrica, divisione di genere
in famiglia, divisioni razziali nella piantagione, divisioni inter-specifiche
c’è differenza, ma anche una radice comune. È il capitalismo come sistema che
«mira all’accumulazione attraverso lo sfruttamento del lavoro e la
svalorizzazione permanente delle condizioni oggettive di vita», ossia di quella
«natura» che non è affatto un’entità astorica, ma «l’insieme delle realtà
svalutate nel capitalismo, quelle che sono oggetto di un’appropriazione
gratuita», e per lo più violenta.
La violenza intra-specifica ed inter-specifica necessaria al capitalismo è
perciò tra le cause storiche del dissesto ecologico. Essa è, inoltre, uno
strumento fondamentale per costringere il non-umano ai tempi dell’accumulazione,
come dimostrano i molteplici casi di resistenza animale. Chiaro che un progetto
eco-socialista non può quindi limitarsi alla semplice transizione energetica, né
alla «giusta» redistribuzione dei suoi costi sociali. Se l’origine è il dominio,
e questo ha origine nel rapporto tra produzione e riproduzione internazionale,
allora solo una rivoluzione di questi rapporti può condurre a una società
«sostenibile».
Assunti i limiti alla crescita; assunta la centralità del momento della
riproduzione sociale oltre quello della produzione di beni, sorge
nell’eco-marxismo la corrente della Degrowth Communism inaugurata da Kohei Saito
e appoggiata dal «comunismo dei viventi» di Guillibert, secondo la quale una
«decrescita» può essere ottenuta quando, rivoluzionati i rapporti di proprietà e
le finalità della produzione (dall’accumulazione alla soddisfazione dei bisogni
umani e non), le attività produttive vengono messe al servizio di quelle
riproduttive, meno energivore (o, come scrive Emanuele Leonardi, neghentropiche)
per il maggiore impiego di energia umana.
SIAMO PRONTI PER IL BIOTARIATO?
Detto del progetto, resta da interrogare la questione del chi per esso. Secondo
alcuni la trasformazione della composizione «tecnica» del lavoro nel
biocapitalismo deve portare a ripensare la classe nei termini operaisti della
sua composizione «politica», introducendovi ora il non-umano. Léna Balaud parla
ad esempio di «composizione ecologica della classe operaia»; Jason Moore di
«proletariato ecologico o ‘biotariato’»; Guillibert, di un’«ecologia di classe»
che «si costituisce a partire dalle resistenze animali alla messa a lavoro […]
dalle quali sviluppare lotte e nuove composizioni».
Su questo punto mi pare persistere però una certa vaghezza e una certa
confusione di priorità che contraddice, invece, la precisione con cui la critica
eco-marxista riesce a cogliere le molteplici forme di sfruttamento.
Chi formula queste ipotesi di alleanze inter-specifiche nella lotta politica,
fonda le sue proposte su una revisione del concetto di lavoro che, mi pare,
estende troppo la categoria dimenticando la fondamentale differenza che passa
tra lavoro umano e attività non-umana: la storicità. Anche la natura ha una sua
storia, ma quella umana è caratterizzata dal fatto che gli uomini modificano le
forme della loro relazione con la natura non-umana; che producendo una «natura»
producono la stessa produzione; che, a causa di fattori non-naturali, come la
nascita delle classi, il passaggio tra forme di produzione è stato mediato da
rivoluzioni politiche, per lo più violente. Fenomeni su cui agiscono condizioni
naturali non-umane, certo, ma anche fattori che non troviamo nel mondo non-umano
ma sono, appunto, nuovi, storici.
Da cui i dubbi sull’estendibilità di concetti della critica dell’economia
politica di Marx – come sussunzione, lavoro, alienazione – alla «natura» o alla
«vita». Il rischio è che, nel merito di illuminare l’utilizzo capitalistico del
non-umano, appaia una sussunzione diretta al capitale dell’ente non-umano, che
lascia nell’ombra il fatto che tale sussunzione è resa possibile solo mediante
la sussunzione del lavoro umano, sia vivo, sia morto, cioè oggettivato nello
strumento/macchina così come nella conoscenza che viene applicata durante il
processo. Il punto della sussunzione della «natura» resta, quindi, la riduzione
del valore del lavoro umano mediante la riduzione del valore delle merci che
rientrano nel suo salario; e la lotta per la giornata lavorativa normale è,
necessariamente, ciò che la produzione scatena «da sé» e da cui bisogna partire
per ogni attività politica.
La questione è anacronistica solo se non si guarda al livello internazionale di
questa lotta. Qui mi pare esserci un altro limite dell’eco-marxismo, che spesso
coglie il carattere internazionale della divisione del lavoro, ma lo perde
quando si tratta di passare all’analisi politica della «composizione di classe».
Ci si focalizza molto sulla «nostra» esperienza di alleanza tra lavoro e
ambiente, ma poco spazio è lasciato a quei movimenti extra-occidentali che da
tempo uniscono le due questioni a quella della «sovranità» sul proprio
territorio dovendolo sottrarre al dominio delle potenze imperialistiche
occidentali.
La sovranità, invece, appare spesso solo nella sua versione destrorsa.
Guillibert, ad esempio, denuncia il nuovo compromesso eco-razzista che
giustifica politiche migratorie restrittive in nome della sovranità su un
territorio dalle risorse scarse. Ci si dimentica, però, che la perdita di
sovranità nazionale è stato uno dei fattori che ha contribuito al dominio sugli
stessi popoli europei dei cosiddetti mercati finanziari globali (leggi monopoli
anglo-americani) che distruggono e si appropriano della terra anche in
Occidente, come dimostra drammaticamente il caso ucraino. Inoltre, ci si
dimentica di quei popoli che sono privi di sovranità, sia formalmente (vedi i
palestinesi), sia realmente (vedi i popoli soggetti a governi «fantoccio»), la
cui lotta per una sovranità formale e reale è una lotta di liberazione non solo
politica, ma anche potenzialmente ecologica.
Lo scriveva Herbert Marcuse già nel 1972 a proposito della guerra in Vietnam,
infatti, l’«ecocidio» è un’arma di «genocidio» perché uccide non solo i viventi
di oggi, ma le fonti naturali per la nascita e lo sviluppo autonomo delle
generazioni a venire. Quella vietnamita – e oggi potremmo dire quella gazawi –
era per lui una «liberazione ecologica rivoluzionaria» che «le bombe hanno lo
scopo di prevenire». Prova ne è la scomparsa mediatica di Greta Thunberg dopo le
sue prese di posizione radicali sul genocidio palestinese.
Da questo punto di vista, un ripensamento a sinistra del concetto di sovranità è
una sfida che l’eco-marxismo deve affrontare. Ha buoni maestri, a partire da
Vladimir ‘Ilic. Ma anche prove concrete che sta già avvenendo, come mostrano le
recenti nazionalizzazioni delle risorse in Mali, Niger e Burkina Faso, dove ha
permesso ingenti investimenti statali nella produzione tessile locale, oltre che
una migliore redistribuzione della ricchezza con evidenti successi anche
economici. Senza contare la sperimentazione del popolo del Rojava di una società
laica, democratica, ecologica, senza divisioni di genere.
Credo quindi che il problema dell’unità internazionale intra-umana per una lotta
anti-imperialista sia una priorità ecologica rispetto a quella inter-specifica.
Valorizzare attraverso una nuova teoria del lavoro la «rivolta animale», può
avere un’importante funzione simbolica e morale: conoscere la loro sofferenza e
ribellione può stimolare il medesimo bisogno negli uomini che soffrono dello
sfruttamento e dell’alienazione. Ma questo piano morale-sensoriale-sentimentale,
dall’indubbio valore, resta qualitativamente diverso dalla dimensione politica.
Come, infatti, si organizza una «rivolta animale»? Non sarebbe tale
organizzazione anch’essa una imposizione contro cui l’animale potrebbe fare
resistenza?
Chiarire le priorità rafforzerebbe, senza intaccare, il merito e la sfida
profonda che, a mio modo di vedere, è stata posta dal sorgere dell’eco-marxismo:
restituire al marxismo quella dimensione utopica perduta dopo la fine della
«grande narrazione» produttivistica-prometeica, senza la quale nessun movimento
può «abolire lo stato di cose presenti». Questo movimento è fatto di uomini e
donne; a loro volta mossi da bisogni, desideri e coscienze. Immaginare un altro
oltre le forme cannibali di soddisfazione e percezione del mondo capitalistico,
è necessario per spezzare la presa su quella dimensione soggettiva del desiderio
che occorre incanalare nella costruzione vissuta «in prima persona» di una
società pacificata nei rapporti inter- e intra-specifici.
*Luca Mandara insegna filosofia e storia nei licei e collabora con le Università
di Napoli e della Basilicata, dove si occupa di teoria critica e di questione
ecologica. Partecipa al movimento per la sanità pubblica e alle iniziative di
altre organizzazioni politiche attive a Napoli.
L'articolo Oltre il biocapitalismo proviene da Jacobin Italia.