Una critica radicale al cuore del capitalismo verde
Articolo di Jacob Nitschke, Marisol Manfredi
A 3.500 metri di altitudine, il vento attraversa le montagne e le nuvole si
dissolvono su una superficie che sembra infinita. Il tempo diventa denso. Le ore
passano più lentamente, l’aria si respira in modo diverso, come se la vita
avesse un altro ritmo. Nelle Salinas Grandes, a nord della provincia argentina
di Jujuy, il vento disegna vortici su una pianura bianca che sembra non finire
mai. In quel paesaggio sospeso, dove il silenzio risuona più forte di qualsiasi
motore, il presente si muove al ritmo della terra e il silenzio,
improvvisamente, acquista spessore: è il suono di un territorio che resiste.
Lì vive Flavia Lamas, presidente dell’Assemblea del Bacino di Salinas Grandes e
Laguna de Guayatayoc. Dal 2009, insieme ad altre 38 comunità kolla-casabinda,
affronta l’avanzata delle compagnie minerarie che cercano di estrarre litio
dalla salina, situata nel famoso e strategico Triangolo del Litio. In un mondo
che celebra la «transizione verde» e le auto elettriche come soluzione al
cambiamento climatico, Flavia ricorda che ogni batteria ha un prezzo che non si
misura in euro o in dollari: si misura in acqua, in comunità, in vita.
«Ci dicono che siamo il triangolo del litio e che per questo diventeremo ricchi.
Ma senza acqua non c’è vita. Noi non mangiamo batterie», ci racconta Flavia
quando la intervistiamo nel rifugio Santuario dei Tre pozzi, all’ingresso delle
Salinas, dove per pochi soldi (2 euro) offrono un servizio di guida turistica
che ci spiega come funziona la salina e come le comunità utilizzano il suo sale.
Quando nel 2009 sono arrivate le prime trivelle nella zona, le comunità non
sapevano cosa fosse il litio. «Abbiamo visto che la salina cominciava ad
affondare, che l’acqua dolce usciva mescolata alla salamoia. È stato allora che
ci siamo resi conto che qualcosa non andava», racconta Flavia. Da allora, si
sono organizzati. In Argentina, fortunatamente e in risposta a tante crisi, la
popolazione sa come opporre resistenza. È nata così l’Assemblea del bacino di
Salinas Grandes e Laguna de Guayatayoc, dove hanno redatto il proprio protocollo
di consultazione (Kachi Yupi o Huellas de Sal) e hanno chiesto che qualsiasi
progetto rispettasse il diritto di decidere sui propri territori.
La lotta non è stata facile. Nel 2023, dopo la riforma costituzionale promossa
dal governatore di Jujuy, i diritti delle popolazioni indigene sono stati
indeboliti. Le proteste sono state represse e molte comunità si sono divise.
Alcune, spinte dalla necessità o dalla promessa di posti di lavoro, hanno
accettato di dialogare con le compagnie minerarie. Altre, come quella di Flavia,
hanno resistito.
«Ci dicono che il progresso arriva con i camion e le macchine, ma quello che
portano è disuguaglianza. Prima nessuno aveva più di nessun altro. Ora alcuni
comprano automobili, altri niente. E questo distrugge la comunità», spiega.
Flavia racconta di Susques, una comunità a circa 66 km più in alto rispetto a
dove ci troviamo, uno dei primi villaggi della Puna dove è stata avviata
l’estrazione del litio. Lì, ci racconta Flavia, «non c’è più acqua potabile
durante il giorno e gli animali nascono deformi». Le comunità di Susques hanno
detto loro: «Voi siete ancora in tempo, noi abbiamo già perso tutto». Questa
frase riassume l’orizzonte temuto nelle Salinas: un territorio esaurito, una
vita circondata dalla polvere e dalla sete. A Susques, la promessa di sviluppo
si è trasformata in dipendenza. L’acqua che prima sgorgava dagli occhi della
terra (ojos de la tierra ) ora arriva in bottiglie di plastica: privatizzazione,
proprietà privata e individualismo sono alcune delle conseguenze che
l’estrazione mineraria ha portato a Susques.
Il racconto di Flavia rivela qualcosa di più profondo di un conflitto
ambientale: è una lotta ontologica, una differenza su cosa significhi questo
mondo e come viverci (bene). Per Flavia, il Buen Vivir non è una teoria, né solo
una cosmologia che si studia, ma una pratica quotidiana. «Non si tratta di
vivere bene, ma di vivere bene tutti. Se il mio vicino soffre, io non posso
stare tranquilla». Il legame che Flavia ha con le Salinas è anche intimo e
spirituale. «Sento una connessione con le Salinas… Quando nella mia famiglia
siamo tristi, angosciati o malati, l’unica cosa che facciamo è connetterci con
la natura. E così troviamo la tranquillità che un medico non può darci. Le
saline fanno parte della famiglia, ed è per questo che diciamo che toccarle è
come toccare una madre».
Nella sua cosmovisione, la salina non è una risorsa, è una madre; un essere che
vive, respira, soffre. Le parole di Flavia racchiudono una critica radicale al
cuore del capitalismo verde: l’idea che la natura possa essere separata dalla
vita umana e ridotta a una materia prima, a una risorsa, a un oggetto
sfruttabile. Quell’idea moderna per cui l’essere umano è una cosa e la natura
un’altra. Come se anche noi non fossimo natura.
Il progetto del nord del mondo di «transizione ecologica» viene spesso
presentato come un percorso inevitabile e benigno verso la sostenibilità.
Tuttavia, il litio che alimenta la mobilità elettrica viene estratto da
territori come questo, dove l’acqua è scarsa e la democrazia è fragile. In nome
della decarbonizzazione, si ripropongono vecchi modelli coloniali: il Nord
pianifica il suo futuro «pulito» (misurato in termini di energia e coscienza)
mentre il Sud offre nuovamente la sua terra e il suo corpo (le teorie femministe
sudamericane sul corpo-territorio hanno molto da offrirci su questo, se qualche
lettore fosse interessato ad approfondire).
Flavia lo sa. Ecco perché la sua richiesta non è rivolta a Buenos Aires e tanto
meno alle istituzioni locali di Jujuy. «Andare dal governo provinciale non
serve. L’aiuto deve venire dall’Europa, dove si prendono le decisioni sul litio.
Lì ci sono organizzazioni per i diritti umani che possono ascoltarci».
La richiesta di Flavia rompe lo schema semplicistico di un Sud vittima e di un
Nord oppressore. Lei non parla a nome di un confine, ma da una molteplice
interdipendenza: ecologica, politica, epistemica, ontologica. La sua voce mira a
tessere alleanze con coloro che, in Europa, mettono in discussione la finzione
di un progresso verde fondato sulla disuguaglianza. Nel nostro progetto
accademico chiamiamo questo fenomeno «dipendenze intersezionali»: comprendere
che la dipendenza non è distribuita solo tra paesi e geografie, ma anche tra
modi di vita, conoscenze e ontologie. Dalle montagne andine alle istituzioni
europee, le stesse gerarchie (tra natura e società, ragione e spiritualità, uomo
e donna, centro e periferia, ecc.) sostengono il modello estrattivista. Romperle
implica immaginare transizioni non solo energetiche, ma anche ontologiche, in
cui diverse forme di sapere e di esistenza possano coesistere in modo paritario.
O almeno, rompere con il modello in cui un’alternativa (presumibilmente
superiore, il mainstream imposto dal Nord globale) diminuisce, irrompe, sposta
e/o elimina altre forme alternative di comprendere il mondo e, di conseguenza,
di relazionarsi con la natura (cioè con noi stessi).
La voce di Flavia viaggia attraverso percorsi di sale e vento, ma punta al cuore
del dibattito globale sulla transizione ecologica. Ci ricorda che non c’è
giustizia climatica senza una giustizia più profonda: quella ontologica. Che
cambiare energia non basta se continuiamo a pensare al mondo con la stessa
logica. Dobbiamo aprirci a nuovi modi di pensare e comprendere il mondo: solo
così arriveranno nuove soluzioni. E la transizione «verde», con la sua finzione
di venderci la soluzione ai nostri problemi, basata sul cosiddetto
«tecno-fix-ottimismo» – la fede cieca nella tecnologia come utopia che ci
salverà da tutti i nostri problemi – in realtà sta eliminando una delle
alternative in cui cercare risposte, ampliare i nostri modi di vedere,
comprendere e pensare il mondo. Non potremo affrontare la crisi ecologica
globale ricorrendo alle stesse logiche di estrazione, separazione e dominio che
l’hanno generata. Come scrisse Audre Lorde nel 1979, «gli strumenti del padrone
non smantelleranno mai la casa del padrone»: non potremo risolvere i problemi
della nostra epoca con gli stessi strumenti della nostra epoca, poiché sono
stati proprio questi ultimi, in primo luogo, a creare i problemi. È quindi
necessario smascherare il lato nascosto della tanto agognata e apparentemente
innocua «transizione verde», poiché ancora una volta essa sposta ed elimina
possibili futuri, ma anche possibili modi di comprendere il presente. Dobbiamo
cambiare la cassetta degli attrezzi con cui non solo «riparare» la nostra
società frammentata e divisa, ma anche ripensarla: la voce di Flavia Lamas è un
invito a farlo.
Non è facile, ricorda Flavia. Nell’intervista racconta come, delle 33 comunità
che facevano parte della lotta, molte abbiano iniziato ad allontanarsi. «Ci sono
comunità che hanno detto che non c’è più niente da fare perché abbiamo tutto
contro». E spiega che, in alcuni casi, non è l’intera comunità, ma «un gruppetto
di famiglie che stanno dando l’ok, ma ora basta… una volta frammentate le
opinioni nella comunità, questa non è più abbastanza forte, quindi l’industria
mineraria penetra».
Cosa penetra e perché succede? Non è solo la transizione verde del Nord che sa
vendersi molto bene, ma anche le logiche aziendali delle società minerarie. I
loro sofisticati strumenti di marketing sanno come penetrare nelle comunità.
Anche se con una connettività e una connessione Internet limitate – poiché solo
in alcune parti del percorso è possibile accedere al 4G – le comunità ricevono
(soprattutto da quando viviamo in questa era digitale) i concetti di progresso,
lavoro, ascesa sociale, successo. È comprensibile: in territori dove lo Stato è
assente e dove dalla colonizzazione a oggi sono stati reclusi, esclusi e
ignorati (non dimentichiamo che anche le loro lingue sono state eliminate
nell’omogeneizzazione colonizzatrice della lingua spagnola), la promessa
mineraria appare come l’unica alternativa per unirsi al cosiddetto sistema, dove
quel progresso, quell’ascesa sociale e quel successo che vengono venduti sugli
schermi potrebbero finalmente fiorire.
Il lavoro minerario non offre solo uno stipendio: offre simboli. Un’auto, una
casa in muratura, vestiti nuovi, gioielli, un cellulare migliore. Oggetti che
nella logica del capitalismo coloniale rappresentano l’«essere arrivati». E in
territori impoveriti da politiche nazionali storicamente estrattive, questi
segnali possono pesare più del discorso ambientale. È chiaro, quindi,
riflettiamo con Flavia, che non tutte le comunità si oppongono, rimangono fedeli
ai loro antenati e ai messaggi che il tata wayra (vento) e il tata inti (sole)
trasmettono loro attraverso suoni impercettibili all’orecchio occidentale.
Quella stessa promessa fatta dalle aziende distrugge il tessuto sociale delle
comunità. Il documentario The Hidden Cost: The Other Side of the Green
Transition, prodotto dalle colleghe dell’Osservatorio sul Debito Globale, mostra
chiaramente ciò che Flavia sintetizza in una frase: «La comunità si rompe».
Appaiono pratiche che prima non esistevano, in particolare, da una prospettiva
di genere, l’alcolismo e la prostituzione. Per questo motivo, le colleghe nel
loro documentario cercano di mostrare la prospettiva di genere, molto necessaria
nell’estrazione del litio, perché porta cambiamenti molto forti. Per quanto
riguarda la prima problematica, le donne di Susques – che, come abbiamo già
detto, subiscono le conseguenze dell’attività mineraria penetrata già da 10 anni
– affermano, ci racconta Flavia, che non è più sicuro uscire di notte, perché ci
sono molti uomini ubriachi e violenti che vagano per le strade. Per quanto
riguarda la seconda, sebbene rimandi a un dibattito molto più ampio che non
possiamo affrontare in questa sede, costringe le donne a cercare altri modi per
guadagnare denaro e mantenersi economicamente, soddisfacendo una domanda che,
evidentemente, emerge dalla stessa logica estrattivista e individualista che
l’estrazione mineraria instaura (in modo irreversibile). Questi fenomeni sono
gli effetti sociali di una logica estrattivista che instaura disuguaglianza
all’interno della comunità e ne altera l’universo morale, relazionale e
affettivo.
Dal bacino, molte voci convergono nello stesso giudizio, ci racconta Flavia:
«Non vogliamo essere una zona di sacrificio». L’urgenza climatica non può
legittimare transizioni energetiche che aggravano le disuguaglianze sociali,
etniche e ambientali, che destabilizzano le comunità, che generano malessere e
violenza. La richiesta è chiara: ascoltare i territori, difendere l’acqua,
rispettare i diritti collettivi, lasciarli essere e decidere, riconoscere la
loro esistenza, il loro modo di vivere e di pensare e, soprattutto, capire che
con le batterie al litio ci potranno essere auto e cellulari, ma senza acqua non
ci sarà nessuno che li userà o li guiderà.
Flavia ci chiede di diffondere il suo messaggio in Europa. Eccoci qui, a cercare
di far risuonare la sua voce in tutti gli spazi possibili. Se ti stai chiedendo
come puoi aiutare, la prima risposta di Flavia è semplice e urgente: fai eco.
Condividi. Mantieni viva la conversazione. Seguili su Instagram all’indirizzo
@cuencadesalinasgrandes e sul loro sito web, perché ogni diffusione apre una
fessura da cui entra aria. E perché diffondere è un atto politico.
Alla fine della giornata, la domanda non è chi sarà il proprietario del litio,
ma quale mondo continuiamo ad alimentare quando crediamo che la tecnologia da
sola ci salverà. La domanda che questo articolo lascia è scomoda, ma
inevitabile: a cosa serve decarbonizzare l’Europa se le montagne andine del Sud
del mondo si desertificano? A cosa serve una transizione verde che richiede il
sacrificio di interi territori in nome di un futuro a cui quelle popolazioni non
potranno nemmeno accedere? Che tipo di giustizia climatica è quella che ha
bisogno di «zone di sacrificio» (le stesse del passato, ovviamente)?
Mentre le potenze del Nord parlano e celebrano l’«innovazione verde», nelle
Salinas Grandes le comunità continuano a difendere qualcosa di più elementare e
vero di un’auto elettrica o di un terzo cellulare in due anni: difendono
l’acqua, difendono la vita. Nelle parole di Flavia, parole che l’Europa ha
bisogno di ascoltare: «Senza acqua non c’è vita. Noi non mangiamo batterie».
Forse questo è il messaggio più profondo che le Salinas ci restituiscono: che la
transizione ecologica non sarà giusta se costruita su territori assetati; che se
la transizione verde ha bisogno di territori vuoti, comunità frammentate e
saline senza acqua, allora non è né transizione né verde, è semplicemente
un’altra forma di estrattivismo, questa volta in nome del clima; che non ci sarà
un mondo possibile se continuiamo a zittire le voci che potrebbero aiutarci a
immaginarne altri; e che la Pachamama, quando parla in silenzio, ci sta dicendo
che siamo ancora in tempo, ma che non ne rimane molto.
*Marisol Manfredi è un’economista eterodossa argentina formatasi a Mar del
Plata, Parigi e Pisa. Jakob Nitschke è un ricercatore in Economia Geografica con
particolare attenzione ai temi della decolonizzazione, dei conflitti eco-sociali
e dell’estrattivismo.
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