Il Piano Mattei e l’olio di ricino
Articolo di Maura Benegiamo, Valerio Bini
Pochi atti del governo Meloni sono stati caricati di un valore simbolico quanto
il cosiddetto «Piano Mattei per l’Africa». Il programma non prevede nessuno
stanziamento straordinario, ma, nella comunicazione governativa, questo
eterogeneo insieme di iniziative finanziate con il Fondo per il Clima e le
risorse della cooperazione internazionale, dovrebbe rappresentare il modello di
una relazione di tipo nuovo, non «caritatevole» e «predatorio», con il
continente africano. Fuori dalla retorica istituzionale, si tratta di progetti
realizzati in Africa con l’obiettivo di garantire l’accesso a fonti energetiche
alternative ai combustibili russi, rafforzando contemporaneamente legami
economici tra il nostro paese e alcuni Stati africani considerati strategici dal
punto di vista geopolitico (migrazione, infrastrutture).
La nostra analisi muove dal primo progetto finanziato all’interno di questo
piano: la produzione di agrocarburanti a base di ricino da parte di Eni, in
Kenya. L’iniziativa si basa su uno schema relativamente semplice: in Kenya,
decine di migliaia di contadini (80.000 ora, in prospettiva fino a 200.000
secondo i piani di Eni) vengono contrattualizzati affinché producano ricino, una
pianta diffusa in area tropicale dai cui semi si produce un olio che può essere
utilizzato nei motori termici. I semi prodotti vengono acquistati a un prezzo
concordato da alcune società locali che fanno da intermediarie e trasportati in
due impianti di proprietà di Eni al fine di produrre l’olio che viene esportato
in Italia, dove viene lavorato nelle bioraffinerie di Eni per ottenere
carburanti di natura parzialmente o completamente non fossile.
Ora, che alcuni partiti politici che hanno raccolto l’eredità del fascismo
decidano di finanziare la produzione di olio di ricino in Africa Orientale
potrebbe suonare inquietante, o farsesco, ma non è questo il tema del nostro
contributo. Ciò che vogliamo raccontare è la fascinazione che gli agrocarburanti
continuano a suscitare nei governi italiani, l’impatto di questa strategia sulle
popolazioni africane e, più a fondo, come questi nuovi progetti sembrino chiari
indicatori del definitivo tramonto delle politiche di mitigazione climatica,
dentro un quadro, ancora più aggressivo, di «estrattivismo green».
FORTUNE E FALLIMENTI DEGLI AGROCARBURANTI
L’attrazione per gli agrocarburanti è vecchia come il capitalismo fossile: fin
dalla nascita dei motori termici si sperimentavano carburanti a base vegetale
che permettessero di sostituire i combustibili di origine fossile – distribuiti
in modo diseguale sul pianeta e di difficile estrazione – con alternative che
potessero essere prodotte quasi in ogni luogo e con tecniche e mezzi
relativamente semplici. La storia degli agrocarburanti è però stata molto
altalenante e dipendente dalle fortune dei combustibili fossili, molto più
redditizi a parità di investimento: nei momenti in cui il petrolio era a buon
mercato, come dopo la Seconda guerra mondiale, gli agrocarburanti scomparivano,
nei momenti in cui il petrolio era inaccessibile, come durante le guerre, o
costava caro, come con la crisi petrolifera degli anni Settanta, il dibattito
sugli agrocarburanti, e il loro uso, tornava a crescere.
Il più recente ritorno di interesse è però legato al tema delle emissioni di
biossido di carbonio: in una fase storica segnata dall’obiettivo della
mitigazione del cambiamento climatico, gli agrocarburanti avrebbero dovuto
permettere la riduzione nell’utilizzo di combustibili fossili. Molte ricerche
hanno mostrato come questo assunto sia profondamente inesatto, se non
accompagnato da vere politiche di transizione, perché non tiene conto delle
emissioni generate per produrre questi combustibili a base vegetale, ma la
narrazione degli agrocarburanti come alternativa green si è diffusa rapidamente
a partire dai primi anni di questo secolo.
È con queste ambizioni infatti che gli agrocarburanti hanno giocato un ruolo di
primo piano già nel quadro della «corsa alle terre agricole» (land rush) dei
primi anni 2000, un fenomeno di dimensioni e impatti paragonabili solo a quanto
avvenuto nel periodo dell’espansionismo coloniale. Nel contesto di interesse
speculativo verso la terra dei primi anni di questo secolo, la retorica green ha
sostenuto politiche di sviluppo promosse da governi, istituzioni multilaterali e
agenti dello sviluppo, che hanno incoraggiato l’espansione del modello
agroindustriale su larga scala nel continente africano. Questo ha significato
incentivare il passaggio di enormi quantità di terra dalle mani di piccoli
contadini e agricoltori locali a capitali e attori transnazionali. A fronte di
una tendenziosa sovrastima del ruolo della Cina e di altri Stati asiatici in
questa «corsa alla terra», e accanto alla presenza di multinazionali come
Bonduelle o Ferrero – che hanno manifestato un crescente interesse per il
controllo diretto delle risorse agricole – sono stati piuttosto impresari
privati e fondi di investimento i veri «pionieri» di quest’ondata di
accaparramenti.
Gli esiti di molte di queste operazioni – segnate da conflitti, espropri e
fallimenti produttivi – hanno tuttavia smentito le stime ottimistiche e le
visioni ereditate dal colonialismo sulla disponibilità di terre e persone che
non aspettano altro che trasformarsi in operai agricoli salariati per le grandi
catene del valore globale. Se il ruolo delle proteste locali e internazionali
nel bloccare i progetti è stato determinante, il divario tra «retorica»
sviluppista e «realtà» ha a sua volta fortemente contribuito a smontare le
aspettative di investitori e della popolazione locale. Perfino le cosiddette
best practices sono naufragate, vanificando anche i tentativi – come quello
della Banca Mondiale – di rispondere alle criticità attraverso una «migliore
regolazione» e una maggiore disciplina degli investimenti.
Il fallimento degli esperimenti dei primi anni 2000 non ha però fermato
l’interesse del settore e oggi i carburanti a base vegetale costituiscono una
parte rilevante della strategia di decarbonizzazione dell’Unione europea. Con la
Direttiva sull’Energia Rinnovabile del 2018 (Red II) l’Unione si era posta
l’obiettivo di avere almeno il 14% dell’energia utilizzata per i trasporti
derivante da agrocarburanti entro il 2030. L’ultima revisione della direttiva
del 2023 (Red III) aumenta l’obiettivo al 29% e il regolamento RefuelEU
aviation, dello stesso anno, prevede l’aumento progressivo dell’uso degli
agrocarburanti nei combustibili dell’aviazione (i cosiddetti Sustainable
Aviation Fuels, Saf) fino al 70% nel 2050. Oggi la produzione di agrocarburanti
copre solo il 7% dei consumi nel settore dei trasporti ed è dunque destinata ad
aumentare nei prossimi anni.
La produzione di agrocarburanti nell’Unione è storicamente legata ai biodiesel
tradizionali (chiamati Fame e prodotti prevalentemente da olio di colza e di
girasole), realizzati in Europa, con un ruolo predominante svolto dalla Germania
(3,6 milioni di tonnellate nel 2024). Negli ultimi anni però il settore del
biodiesel ha visto una crescita notevole anche grazie al fatto che, accanto a
quelli tradizionali, sono stati sviluppati dei nuovi biodiesel avanzati,
chiamati Hvo (Olio Vegetale Idrotrattato o Idrogenato), come il carburante
prodotto da Eni. La scelta di ENI è dunque particolarmente rilevante, e
reintroduce il tema della delocalizzazione della produzione.
Il principale difetto dei carburanti a base vegetale infatti è che, a differenza
del petrolio, richiedono enormi superfici per essere prodotti. Dove trovare
tutta la terra necessaria a produrre gli agrocarburanti che dovrebbero
alimentare le auto e gli aeroplani europei? Questa domanda pone immediatamente
il tema della distribuzione dei costi della cosiddetta transizione ecologica
poiché per essere competitivi questi carburanti devono essere prodotti in luoghi
dove la terra e il lavoro costano poco ed è in questo quadro che il continente
africano torna centrale. Il tema degli agrocarburanti non è dunque scindibile
dal tema del cosiddetto «colonialismo green ed energetico», che scarica i costi
sociali e ambientali sulle società più impoverite.
L’Italia nella corsa alla terra africana
In tutto ciò vale la pena chiedersi quale sia il ruolo dell’Italia. L’interesse
a sviluppare la filiera degli agrocarburanti a partire dalle terre africane, e
in particolare dell’Africa sub-sahariana, non è nuovo per il governo Italiano
che nei primi anni 2000 guardava al continente e a questa filiera come a un
ambito strategico di sviluppo, soprattutto in risposta alla crisi finanziaria
globale del 2008-2009. Uno studio dell’Ispi, commissionato dal Ministero degli
Affari Esteri, già nel 2013 indicava le economie emergenti del continente
africano come spazi importanti per favorire l’internazionalizzazione delle
imprese italiane, con un’attenzione specifica verso le energie rinnovabili e le
politiche di transizione, ambito nel quale l’Italia ambiva ad assumere un ruolo
geopolitico di primo piano. Ribattezzata «diplomazia della crescita», questa
strategia «divenne quindi un mantra in voga presso la Farnesina – anche per
rilegittimarne ruolo e azione in un contesto di risorse scarse e marcati tagli
alla spesa pubblica».
È su questo sfondo quindi che tra il 2007 e il 2012 l’Italia si è classificata
tra i primi paesi attivi nell’acquisizione di terre arabili nel continente, con
almeno 20 aziende italiane ad aver avviato iniziative per la produzione di
agrocarburanti e biomasse in diversi paesi dell’Africa sub-sahariana, con
acquisizioni che potevano raggiungere i 50.000 ettari a progetto. Tra i diversi
paesi, il Senegal fu uno dei principali target: qui, nel biennio 2008-2009, le
imprese italiane risultavano il secondo investitore fondiario per numero di
contratti di locazione e per estensione delle superfici acquisite, con
l’obiettivo di coltivare, soprattutto, la Jatropha curcas, un arbusto fortemente
incentivato per la produzione di biodiesel. Tuttavia, in linea con le tendenze
globali, la quasi totalità di questi investimenti è fallita nel giro di pochi
anni, con conseguente abbandono dei progetti e delle terre da parte degli
investitori, o riconversione della produzione.
Alla luce di tutto ciò, è ancora più rilevante la decisione del governo italiano
di riprendere la strategia agrocarburanti affidandosi a Eni, partecipata statale
e principale impresa del paese, soprattutto considerando che gli esiti per ora
non sembrano migliori e la quantità di olio di ricino importato dal Kenya non è
cresciuta quanto ci si attendeva.
DALLA GREEN ECONOMY AL GREENING EXTRACTIVISM?
Sono passati vent’anni dalla corsa alla terra dei primi anni 2000, e il tempo
per assimilare gli errori di un approccio predatorio c’è stato. Si è avuta anche
la possibilità di riflettere sull’inconsistenza delle promesse populiste sugli
agrocarburanti «pro-poveri», iper-produttivi e iper-redditizi, coltivabili
ovunque e da chiunque. Eppure oggi come ieri la produzione di agrocarburanti è
in diretta competizione con le produzioni alimentari. Nonostante Eni affermi che
la produzione di ricino in Kenya non faccia concorrenza alle produzioni
alimentari, le ricerche di campo che abbiamo condotto negli ultimi anni mostrano
come la coltivazione avvenga di norma su terreni che precedentemente erano
destinati a colture alimentari. L’equivoco nasce dal fatto che Eni sostiene di
agire in contee che lo Stato keniano definisce Asal (aride e semiaride – e
quindi giudicate improduttive), ma questa definizione copre circa l’80% delle
terre del paese e dunque non ci dice nulla sulle reali strategie delle
popolazioni locali nelle terre coinvolte dal progetto.
Anche le politiche di «cooperazione» dentro cui questa operazione si colloca
presentano elementi di continuità con la prima ondata di investimenti – come
l’impronta securitaria, declinata in chiave nazionalista, e l’assenza della
società civile africana e dell’Unione africana nella governance del Piano
Mattei. Tuttavia, al netto di queste similitudini, che testimoniano
dell’inestricabile colonialità delle dinamiche di sviluppo, ritroviamo anche
alcune differenze che meritano di essere messe a fuoco.
Anzitutto, non è più il mondo dell’agrobusiness che guarda al mondo del fuel, ma
al contrario sono le grandi imprese del fossile che stanno investendo su questa
filiera. Anche il modo in cui ciò avviene è cambiato: se prima, nonostante una
forma di sostegno diplomatico e un quadro dello sviluppo favorevole, con
agevolazioni fiscali e politiche di sostegno, gli imprenditori che desideravano
lanciarsi nell’impresa erano chiamati a farlo perlopiù a proprie spese e rischio
(e di chi veniva deprivato dalla propria terra) ora invece i finanziamenti
arrivano direttamente dagli Stati: Eni, ad esempio, per sviluppare la filiera ha
beneficiato di 75 milioni di euro del Fondo Clima attraverso il Piano Mattei e,
più recentemente, ha ottenuto un finanziamento di 500 milioni di euro dalla
Banca centrale europea per convertire la raffineria di Livorno in una
bioraffineria. In linea con l’approccio di derisking che sta contraddistinguendo
questa nuova fase di politiche di transizione, dal dopo Covid in poi.
Del resto Eni sta progressivamente separando le sue attività legate alla
transizione energetica – come le rinnovabili, gli agrocarburanti e la cattura
della CO₂ – dal core business tradizionale oil & gas, attraverso una strategia
cosiddetta «satellite» che mira a creare entità autonome, come Plenitude ed
Enilive. Quest’approccio risponde sia alla necessità di attrarre investimenti
mirati, sia alla crescente pressione sui costi e sugli investimenti nel comparto
green, che in alcuni casi non ha ancora raggiunto una piena sostenibilità
economica. Sebbene non ci siano dichiarazioni ufficiali, sembra evidente che una
parte significativa dei progetti legati alla transizione energetica beneficia –
o beneficerà – di finanziamenti pubblici, crediti fiscali e fondi europei,
rendendo di fatto la transizione un processo condiviso anche sul piano
finanziario, con un trasferimento diretto di eventuali perdite verso lo Stato
italiano o l’Unione europea.
Vale però anche la pena chiedersi se possiamo ancora parlare di transizione o se
piuttosto siamo di fronte a una torsione «green» del tradizionale modello
estrattivo.
Se infatti in passato l’attenzione agli agrocarburanti si collocava all’interno
di un discorso globale sulla mitigazione climatica, oggi, nonostante il
permanere di alcune retoriche, le pratiche sembrano rispondere piuttosto a una
logica di diversificazione del mercato da un lato, e di vero e proprio
greenwashing dall’altro, sostenuto dallo Stato italiano i cui progetti
principali in Africa non riguardano affatto le rinnovabili.
Ne è esempio l’iniziativa più importante di Eni in Costa d’Avorio, altro paese
prioritario del Piano Mattei, che è senza dubbio quella legata allo sviluppo del
giacimento offshore Baleine, scoperto nel 2021 e già entrato in produzione
nell’agosto 2023 e le cui risorse sono stimate in oltre 2 miliardi di barili
equivalenti di petrolio e gas, lo rendeno uno dei poli energetici più
promettenti dell’Africa occidentale. L’iniziativa si vanta dell’ambizione «net
zero», grazie a un piano integrato di compensazione ambientale. In Costa
d’Avorio, in particolare, Eni dichiara di portare avanti piani di conservazione
e riforestazione e una campagna di produzione di agrocarburanti a partire dal
prodotto di scarto dalle piantagioni di caucciù. Quest’ultima è una filiera che
si sta espandendo in particolare sulle terre già martoriate dal modello delle
piantagioni di cacao, e che presenta non pochi problemi in termini di
sostenibilità ambientale e sfruttamento del lavoro. Per quanto riguarda i
progetti forestali, già molto controversi, una recente missione di ricerca
effettuata nel paese ha mostrato come l’effettiva partecipazione delle comunità
rurali e il loro coinvolgimento sia ancora tutto da verificare.
Le questioni sono quindi molteplici, e i motivi per non fidarsi degli intenti
verdi di chi per anni ha finanziato il negazionismo climatico sono molti. Per
ora possiamo concludere con quanto dichiarato da Fadhel Kaboub – professore
associato di economia presso la Denison University (Ohio, USA) e Senior Advisor
di Power Shift Africa – in merito al piano Mattei, ovvero che «un piano che non
affronta le esigenze strutturali dell’Africa e che invece aumenta i progetti di
combustibili fossili ad alta emissione di carbonio, grava ulteriormente sul
continente con il debito e mantiene i paesi radicati in fondo alla catena del
valore globale».
*Valerio Bini, geografo, insegna politica dell’ambiente all’Università di
Milano. Ha curato il volume Africa. La natura contesa (Edizioni Ambiente). Maura
Benegiamo, ricercatrice in Sociologia economica e del lavoro all’Università di
Pisa, è autrice del libro La terra dentro il capitale (Orthotes editrice 2021).
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