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Come Eni vuole prendersi gli influencer italiani
-------------------------------------------------------------------------------- Alcuni screenshot dalle pagine Instagram e TikTok di Plenitude -------------------------------------------------------------------------------- Una popolare pagina Instagram italiana pubblica un carosello, cioè un post composto da più immagini. La notizia al centro del contenuto social è il nuovo record segnato nel 2024 dall’installazione di energia eolica e fotovoltaica, ma i toni del post sono inusuali. Sole e vento «non bastano per la transizione energetica – scrive la pagina, e – il gas e alcune fossili restano indispensabili». Per i divulgatori dietro il profilo, la soluzione sta nella «neutralità tecnologica». Si tratta del principio, da tempo dibattuto nella politica europea, per cui dovrebbe essere il mercato a decidere quali soluzioni tecnologiche siano più adatte a portare avanti la transizione ecologica, e non gli Stati. I partiti della destra e dell’ultradestra hanno fatto della neutralità tecnologica una battaglia simbolo all’interno delle istituzioni comunitarie, e anche le aziende dell’oil&gas ne parlano diffusamente. E proprio a queste ultime dobbiamo guardare per capire il post da cui siamo partiti. L’ultima slide rivela infatti il vero scopo della pubblicazione: promuovere MINDS, un master organizzato dalla multinazionale italiana Eni assieme al Politecnico di Torino. Plenitude Creator Bootcamp: la scuola per influencer di Eni La collaborazione tra la pagine Instagram in questione – Data Pizza, 226mila follower – ed Eni è correttamente segnalata e assolutamente lecita. Il tema dei legami tra una delle più grandi aziende del nostro Paese e l’universo dei content creator italiani, però, merita attenzione. Da anni Eni, anche tramite la sua controllata Plenitude, investe molto sulle collaborazioni con personaggi famosi sui social e pagine dedicate alla divulgazione. L’attore Paolo Ruffini (1,9 milioni di follower su Instagram), la travel blogger Manuela Vitulli (168mila follower), il gamer Jody Checchetto (282mila follower) sono solo alcune delle celebrità online che hanno prestato la loro immagine all’azienda. Andrea Perticaroli e Christian Cardamone, meglio noti come @iwouldbeandrea e @nonsonokristiano, sono diventati di fatto i volti di Plenitude su TikTok. Un’investimento sui social che si combina alla pubblicità tradizionale e alle sponsorship dei grandi eventi – il Festival di Sanremo e la Seria A su tutte, ma anche grandi occasioni straniere come la Vuelta di Spagna recentemente conclusa. L’ultima novità in questo scenario è che l’azienda con sede a San Donato Milanese ha fatto un passo ulteriore nel mondo della comunicazione online. Proponendosi come punto di riferimento per chi vuole fare carriera su nuovi media. Ha avuto inizio il 15 settembre a Milano, da quanto si apprende sul sito della multinazionale, il Plenitude Creator Bootcamp. Si tratta di «un programma di formazione pensato per aspiranti content creator». Chiunque tra i 20 e i 40 anni con un profilo Instagram o TikTok attivo ha potuto candidarsi per partecipare a questa scuola. L’obiettivo è «consolidare ulteriormente il dialogo con le nuove generazioni attraverso i loro linguaggi». L’idea, insomma, sarebbe quella di creare una nuova generazione di influencer sui temi dell’energia e dell’ambiente. Una generazione la cui formazione passi dalla principale impresa dell’oil&gas italiana. Tante emissioni e poca transizione: il futuro secondo Eni «Fin dalla nascita qualche anno fa, Eni ha sempre cercato di promuovere Plenitude con una strategia di marketing ben precisa: associare l’azienda dal logo verde agli eventi più amati dalle persone e più lontani dall’immaginario fossile, come il Festival di Sanremo o le Olimpiadi invernali di Milano-Cortina. E sempre con il fine di ripulire la propria immagine e presentarsi come qualcosa di familiare, quotidiano e amichevole, ora Plenitude utilizza la voce dei content creator sui social media, come nella sua ultima accattivante iniziativa» ,dice a Valori.it Federico Spadini, campaigner clima di Greenpeace Italia. Da tempo le associazioni e i movimenti ecologisti accusano Eni di greenwashing. Ovvero, la pratica per cui delle aziende impegnate in settori inquinanti ripuliscono la loro immagine pubblica con piccole iniziative verdi o con campagne di marketing dal sapore ecologista. Un’accusa esplosa da quando la controllata Eni Gas&Luce ha cambiato nome in Plenitude: un rebranding volto proprio a mettere in evidenza l’impegno ambientale dell’azienda. Greenwashing e strategia social: così Eni punta sugli influencer Eni è il primo emettitore italiano, e il suo core business è l’estrazione e vendita di idrocarburi. Si tratta di un’azienda privata, ma i principali azionisti sono pubblici: ministero dell’Economia e delle Finanze e Cassa Depositi e Prestiti. Secondo le ong Greenpeace e Recommon, Eni da sola nel 2021 ha prodotto 456 Mt CO2eq. Cioè più dell’Italia nel suo complesso. Secondo uno studio di Reclaim Finance,  gli attuali piani aziendali prevedono  che la produzione di idrocarburi sarà superiore del 70% rispetto al livello richiesto dagli scenari di riduzione delle emissioni “Net Zero Emission” dell’Agenzia Internazionale dell’Energia. Sempre secondo le ong, al 2021 ad ogni euro che ENI investe in fossili corrispondono sette centesimi in rinnovabili. Non sappiamo se questo genere di dati vengano discussi durante la formazione che l’azienda del cane a sei zampe offre alla nuova generazione di content creator. «Il business di Eni si basa per la stragrande maggioranza su gas fossile e petrolio, principali cause della crisi climatica», dice ancora Spadini. «Insomma, di verde e amichevole Plenitude ha solo il logo, il resto è una grande copertura per continuare a emettere gas serra e a fare profitti sulle spalle delle persone e del Pianeta». -------------------------------------------------------------------------------- Pubblicato su Valori.it -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Come Eni vuole prendersi gli influencer italiani proviene da Comune-info.
Il Piano Mattei e l’olio di ricino
Articolo di Maura Benegiamo, Valerio Bini Pochi atti del governo Meloni sono stati caricati di un valore simbolico quanto il cosiddetto «Piano Mattei per l’Africa». Il programma non prevede nessuno stanziamento straordinario, ma, nella comunicazione governativa, questo eterogeneo insieme di iniziative finanziate con il Fondo per il Clima e le risorse della cooperazione internazionale, dovrebbe rappresentare il modello di una relazione di tipo nuovo, non «caritatevole» e «predatorio», con il continente africano. Fuori dalla retorica istituzionale, si tratta di progetti realizzati in Africa con l’obiettivo di garantire l’accesso a fonti energetiche alternative ai combustibili russi, rafforzando contemporaneamente legami economici tra il nostro paese e alcuni Stati africani considerati strategici dal punto di vista geopolitico (migrazione, infrastrutture). La nostra analisi muove dal primo progetto finanziato all’interno di questo piano: la produzione di agrocarburanti a base di ricino da parte di Eni, in Kenya. L’iniziativa si basa su uno schema relativamente semplice: in Kenya, decine di migliaia di contadini (80.000 ora, in prospettiva fino a 200.000 secondo i piani di Eni) vengono contrattualizzati affinché producano ricino, una pianta diffusa in area tropicale dai cui semi si produce un olio che può essere utilizzato nei motori termici. I semi prodotti vengono acquistati a un prezzo concordato da alcune società locali che fanno da intermediarie e trasportati in due impianti di proprietà di Eni al fine di produrre l’olio che viene esportato in Italia, dove viene lavorato nelle bioraffinerie di Eni per ottenere carburanti di natura parzialmente o completamente non fossile.  Ora, che alcuni partiti politici che hanno raccolto l’eredità del fascismo decidano di finanziare la produzione di olio di ricino in Africa Orientale potrebbe suonare inquietante, o farsesco, ma non è questo il tema del nostro contributo. Ciò che vogliamo raccontare è la fascinazione che gli agrocarburanti continuano a suscitare nei governi italiani, l’impatto di questa strategia sulle popolazioni africane e, più a fondo, come questi nuovi progetti sembrino chiari indicatori del definitivo tramonto delle politiche di mitigazione climatica, dentro un quadro, ancora più aggressivo, di «estrattivismo green». FORTUNE E FALLIMENTI DEGLI AGROCARBURANTI L’attrazione per gli agrocarburanti è vecchia come il capitalismo fossile: fin dalla nascita dei motori termici si sperimentavano carburanti a base vegetale che permettessero di sostituire i combustibili di origine fossile – distribuiti in modo diseguale sul pianeta e di difficile estrazione – con alternative che potessero essere prodotte quasi in ogni luogo e con tecniche e mezzi relativamente semplici. La storia degli agrocarburanti è però stata molto altalenante e dipendente dalle fortune dei combustibili fossili, molto più redditizi a parità di investimento: nei momenti in cui il petrolio era a buon mercato, come dopo la Seconda guerra mondiale, gli agrocarburanti scomparivano, nei momenti in cui il petrolio era inaccessibile, come durante le guerre, o costava caro, come con la crisi petrolifera degli anni Settanta, il dibattito sugli agrocarburanti, e il loro uso, tornava a crescere. Il più recente ritorno di interesse è però legato al tema delle emissioni di biossido di carbonio: in una fase storica segnata dall’obiettivo della mitigazione del cambiamento climatico, gli agrocarburanti avrebbero dovuto permettere la riduzione nell’utilizzo di combustibili fossili. Molte ricerche hanno mostrato come questo assunto sia profondamente inesatto, se non accompagnato da vere politiche di transizione, perché non tiene conto delle emissioni generate per produrre questi combustibili a base vegetale, ma la narrazione degli agrocarburanti come alternativa green si è diffusa rapidamente a partire dai primi anni di questo secolo. È con queste ambizioni infatti che gli agrocarburanti hanno giocato un ruolo di primo piano già nel quadro della «corsa alle terre agricole» (land rush) dei primi anni 2000, un fenomeno di dimensioni e impatti paragonabili solo a quanto avvenuto nel periodo dell’espansionismo coloniale. Nel contesto di interesse speculativo verso la terra dei primi anni di questo secolo, la retorica green ha sostenuto politiche di sviluppo promosse da governi, istituzioni multilaterali e agenti dello sviluppo, che hanno incoraggiato l’espansione del modello agroindustriale su larga scala nel continente africano. Questo ha significato incentivare il passaggio di enormi quantità di terra dalle mani di piccoli contadini e agricoltori locali a capitali e attori transnazionali. A fronte di una tendenziosa sovrastima del ruolo della Cina e di altri Stati asiatici in questa «corsa alla terra», e accanto alla presenza di multinazionali come Bonduelle o Ferrero – che hanno manifestato un crescente interesse per il controllo diretto delle risorse agricole – sono stati piuttosto impresari privati e fondi di investimento i veri «pionieri» di quest’ondata di accaparramenti. Gli esiti di molte di queste operazioni – segnate da conflitti, espropri e fallimenti produttivi – hanno tuttavia smentito le stime ottimistiche e le visioni ereditate dal colonialismo sulla disponibilità di terre e persone che non aspettano altro che trasformarsi in operai agricoli salariati per le grandi catene del valore globale. Se il ruolo delle proteste locali e internazionali nel bloccare i progetti è stato determinante, il divario tra «retorica» sviluppista e «realtà» ha a sua volta fortemente contribuito a smontare le aspettative di investitori e della popolazione locale. Perfino le cosiddette best practices sono naufragate, vanificando anche i tentativi – come quello della Banca Mondiale – di rispondere alle criticità attraverso una «migliore regolazione» e una maggiore disciplina degli investimenti. Il fallimento degli esperimenti dei primi anni 2000 non ha però fermato l’interesse del settore e oggi i carburanti a base vegetale costituiscono una parte rilevante della strategia di decarbonizzazione dell’Unione europea. Con la Direttiva sull’Energia Rinnovabile del 2018 (Red II) l’Unione si era posta l’obiettivo di avere almeno il 14% dell’energia utilizzata per i trasporti derivante da agrocarburanti entro il 2030. L’ultima revisione della direttiva del 2023 (Red III) aumenta l’obiettivo al 29% e il regolamento RefuelEU aviation, dello stesso anno, prevede l’aumento progressivo dell’uso degli agrocarburanti nei combustibili dell’aviazione (i cosiddetti Sustainable Aviation Fuels, Saf) fino al 70% nel 2050. Oggi la produzione di agrocarburanti copre solo il 7% dei consumi nel settore dei trasporti ed è dunque destinata ad aumentare nei prossimi anni.  La produzione di agrocarburanti nell’Unione è storicamente legata ai biodiesel tradizionali (chiamati Fame e prodotti prevalentemente da olio di colza e di girasole), realizzati in Europa, con un ruolo predominante svolto dalla Germania (3,6 milioni di tonnellate nel 2024). Negli ultimi anni però il settore del biodiesel ha visto una crescita notevole anche grazie al fatto che, accanto a quelli tradizionali, sono stati sviluppati dei nuovi biodiesel avanzati, chiamati Hvo (Olio Vegetale Idrotrattato o Idrogenato), come il carburante prodotto da Eni. La scelta di ENI è dunque particolarmente rilevante, e reintroduce il tema della delocalizzazione della produzione.  Il principale difetto dei carburanti a base vegetale infatti è che, a differenza del petrolio, richiedono enormi superfici per essere prodotti. Dove trovare tutta la terra necessaria a produrre gli agrocarburanti che dovrebbero alimentare le auto e gli aeroplani europei? Questa domanda pone immediatamente il tema della distribuzione dei costi della cosiddetta transizione ecologica poiché per essere competitivi questi carburanti devono essere prodotti in luoghi dove la terra e il lavoro costano poco ed è in questo quadro che il continente africano torna centrale. Il tema degli agrocarburanti non è dunque scindibile dal tema del cosiddetto «colonialismo green ed energetico», che scarica i costi sociali e ambientali sulle società più impoverite.  L’Italia nella corsa alla terra africana In tutto ciò vale la pena chiedersi quale sia il ruolo dell’Italia. L’interesse a sviluppare la filiera degli agrocarburanti a partire dalle terre africane, e in particolare dell’Africa sub-sahariana, non è nuovo per il governo Italiano che nei primi anni 2000 guardava al continente e a questa filiera come a un ambito strategico di sviluppo, soprattutto in risposta alla crisi finanziaria globale del 2008-2009. Uno studio dell’Ispi, commissionato dal Ministero degli Affari Esteri, già nel 2013 indicava le economie emergenti del continente africano come spazi importanti per favorire l’internazionalizzazione delle imprese italiane, con un’attenzione specifica verso le energie rinnovabili e le politiche di transizione, ambito nel quale l’Italia ambiva ad assumere un ruolo geopolitico di primo piano. Ribattezzata «diplomazia della crescita», questa strategia «divenne quindi un mantra in voga presso la Farnesina – anche per rilegittimarne ruolo e azione in un contesto di risorse scarse e marcati tagli alla spesa pubblica». È su questo sfondo quindi che tra il 2007 e il 2012 l’Italia si è classificata tra i primi paesi attivi nell’acquisizione di terre arabili nel continente, con almeno 20 aziende italiane ad aver avviato iniziative per la produzione di agrocarburanti e biomasse in diversi paesi dell’Africa sub-sahariana, con acquisizioni che potevano raggiungere i 50.000 ettari a progetto. Tra i diversi paesi, il Senegal fu uno dei principali target: qui, nel biennio 2008-2009, le imprese italiane risultavano il secondo investitore fondiario per numero di contratti di locazione e per estensione delle superfici acquisite, con l’obiettivo di coltivare, soprattutto, la Jatropha curcas, un arbusto fortemente incentivato per la produzione di biodiesel. Tuttavia, in linea con le tendenze globali, la quasi totalità di questi investimenti è fallita nel giro di pochi anni, con conseguente abbandono dei progetti e delle terre da parte degli investitori, o riconversione della produzione.  Alla luce di tutto ciò, è ancora più rilevante la decisione del governo italiano di riprendere la strategia agrocarburanti affidandosi a Eni, partecipata statale e principale impresa del paese, soprattutto considerando che gli esiti per ora non sembrano migliori e la quantità di olio di ricino importato dal Kenya non è cresciuta quanto ci si attendeva. DALLA GREEN ECONOMY AL GREENING EXTRACTIVISM? Sono passati vent’anni dalla corsa alla terra dei primi anni 2000, e il tempo per assimilare gli errori di un approccio predatorio c’è stato. Si è avuta anche la possibilità di riflettere sull’inconsistenza delle promesse populiste sugli agrocarburanti «pro-poveri», iper-produttivi e iper-redditizi, coltivabili ovunque e da chiunque. Eppure oggi come ieri la produzione di agrocarburanti è in diretta competizione con le produzioni alimentari. Nonostante Eni affermi che la produzione di ricino in Kenya non faccia concorrenza alle produzioni alimentari, le ricerche di campo che abbiamo condotto negli ultimi anni mostrano come la coltivazione avvenga di norma su terreni che precedentemente erano destinati a colture alimentari. L’equivoco nasce dal fatto che Eni sostiene di agire in contee che lo Stato keniano definisce Asal (aride e semiaride – e quindi giudicate improduttive), ma questa definizione copre circa l’80% delle terre del paese e dunque non ci dice nulla sulle reali strategie delle popolazioni locali nelle terre coinvolte dal progetto. Anche le politiche di «cooperazione» dentro cui questa operazione si colloca presentano elementi di continuità con la prima ondata di investimenti – come l’impronta securitaria, declinata in chiave nazionalista, e l’assenza della società civile africana e dell’Unione africana nella governance del Piano Mattei. Tuttavia, al netto di queste similitudini, che testimoniano dell’inestricabile colonialità delle dinamiche di sviluppo, ritroviamo anche alcune differenze che meritano di essere messe a fuoco. Anzitutto, non è più il mondo dell’agrobusiness che guarda al mondo del fuel, ma al contrario sono le grandi imprese del fossile che stanno investendo su questa filiera. Anche il modo in cui ciò avviene è cambiato: se prima, nonostante una forma di sostegno diplomatico e un quadro dello sviluppo favorevole, con agevolazioni fiscali e politiche di sostegno, gli imprenditori che desideravano lanciarsi nell’impresa erano chiamati a farlo perlopiù a proprie spese e rischio (e di chi veniva deprivato dalla propria terra) ora invece i finanziamenti arrivano direttamente dagli Stati: Eni, ad esempio, per sviluppare la filiera ha beneficiato di 75 milioni di euro del Fondo Clima attraverso il Piano Mattei e, più recentemente, ha ottenuto un finanziamento di 500 milioni di euro dalla Banca centrale europea per convertire la raffineria di Livorno in una bioraffineria. In linea con l’approccio di derisking che sta contraddistinguendo questa nuova fase di politiche di transizione, dal dopo Covid in poi.  Del resto Eni sta progressivamente separando le sue attività legate alla transizione energetica – come le rinnovabili, gli agrocarburanti e la cattura della CO₂ – dal core business tradizionale oil & gas, attraverso una strategia cosiddetta «satellite» che mira a creare entità autonome, come Plenitude ed Enilive. Quest’approccio risponde sia alla necessità di attrarre investimenti mirati, sia alla crescente pressione sui costi e sugli investimenti nel comparto green, che in alcuni casi non ha ancora raggiunto una piena sostenibilità economica. Sebbene non ci siano dichiarazioni ufficiali, sembra evidente che una parte significativa dei progetti legati alla transizione energetica beneficia – o beneficerà – di finanziamenti pubblici, crediti fiscali e fondi europei, rendendo di fatto la transizione un processo condiviso anche sul piano finanziario, con un trasferimento diretto di eventuali perdite verso lo Stato italiano o l’Unione europea.  Vale però anche la pena chiedersi se possiamo ancora parlare di transizione o se piuttosto siamo di fronte a una torsione «green» del tradizionale modello estrattivo.  Se infatti in passato l’attenzione agli agrocarburanti si collocava all’interno di un discorso globale sulla mitigazione climatica, oggi, nonostante il permanere di alcune retoriche, le pratiche sembrano rispondere piuttosto a una logica di diversificazione del mercato da un lato, e di vero e proprio greenwashing dall’altro, sostenuto dallo Stato italiano i cui progetti principali in Africa non riguardano affatto le rinnovabili. Ne è esempio l’iniziativa più importante di Eni in Costa d’Avorio, altro paese prioritario del Piano Mattei, che è senza dubbio quella legata allo sviluppo del giacimento offshore Baleine, scoperto nel 2021 e già entrato in produzione nell’agosto 2023 e le cui risorse sono stimate in oltre 2 miliardi di barili equivalenti di petrolio e gas, lo rendeno uno dei poli energetici più promettenti dell’Africa occidentale. L’iniziativa si vanta dell’ambizione «net zero», grazie a un piano integrato di compensazione ambientale. In Costa d’Avorio, in particolare, Eni dichiara di portare avanti piani di conservazione e riforestazione e una campagna di produzione di agrocarburanti a partire dal prodotto di scarto dalle piantagioni di caucciù. Quest’ultima è una filiera che si sta espandendo in particolare sulle terre già martoriate dal modello delle piantagioni di cacao, e che presenta non pochi problemi in termini di sostenibilità ambientale e sfruttamento del lavoro. Per quanto riguarda i progetti forestali, già molto controversi, una recente missione di ricerca effettuata nel paese ha mostrato come l’effettiva partecipazione delle comunità rurali e il loro coinvolgimento sia ancora tutto da verificare. Le questioni sono quindi molteplici, e i motivi per non fidarsi degli intenti verdi di chi per anni ha finanziato il negazionismo climatico sono molti. Per ora possiamo concludere con quanto dichiarato da Fadhel Kaboub – professore associato di economia presso la Denison University (Ohio, USA) e Senior Advisor di Power Shift Africa – in merito al piano Mattei, ovvero che «un piano che non affronta le esigenze strutturali dell’Africa e che invece aumenta i progetti di combustibili fossili ad alta emissione di carbonio, grava ulteriormente sul continente con il debito e mantiene i paesi radicati in fondo alla catena del valore globale». *Valerio Bini, geografo, insegna politica dell’ambiente all’Università di Milano. Ha curato il volume Africa. La natura contesa (Edizioni Ambiente). Maura Benegiamo, ricercatrice in Sociologia economica e del lavoro all’Università di Pisa, è autrice del libro La terra dentro il capitale (Orthotes editrice 2021). L'articolo Il Piano Mattei e l’olio di ricino proviene da Jacobin Italia.
No cubo nero nella valle di Rimezzano
Pubblichiamo il comunicato stampa dell’associazione Valle di Rimezzano. Segnaliamo inoltre la festa “Woodstock a Rimezzano” che si terrà domenica 21 settembre 2025, ore 16,30, all’Antella (Firenze) in via Romanelli (indicazioni in loco). La scuola americana ISF-The International School of Florence … Leggi tutto L'articolo No cubo nero nella valle di Rimezzano sembra essere il primo su La Città invisibile | perUnaltracittà | Firenze.
PACE E GIUSTIZIA CLIMATICA: SETTIMANA DI AZIONE GLOBALE DAL 15 AL 21 SETTEMBRE 2025
Torna la Settimana di azione globale per la Pace e la Giustizia Climatica. La seconda edizione, in Italia rilanciata dalla Rete Pace Disarmo, si terrà dal 15 al 21 settembre 2025 e si occuperà dei legami tra guerra, militarismo/militarizzazione e ingiustizia sociale, economica e climatica e promuoverà azioni dal basso e richieste di politiche pubbliche volte a fronteggiare sia il genocidio che l’ecocidio — per la pace e una transizione sistemica giusta. Durante questa settimana, movimenti sociali e attivisti di tutto il mondo si mobiliteranno per chiedere un disinvestimento dalle guerre e un impegno concreto per una transizione giusta, che metta al centro la sostenibilità ambientale e l’equità sociale. Presentiamo l’iniziativa, ai microfoni di Radio Onda d’Urto, con Francesco Vignarca, della Rete Pace e Disarmo. Ascolta o scarica.
Castelli: questa sera corteo per proteggere il lago di Nemi
Sabato 30 agosto alle ore 21:00 si svolgerà la "Lucciolata", un corteo di luci al Lago di Nemi per chiedere lo stato di emergenza ambientale, a cura del Comitato Protezione Boschi. La manifestazione partirà dal Museo delle Navi Romane e raggiungerà l'Ex Fiocina e ritorno. L'attenzione è sul lago che sta diventando uno stagno. Ne parliamo con un compagno dei castelli preoccupati anche della costruzione dell'inceneritore di Santa Palomba che per funzionare ha bisogno di molta acqua. Inoltre oggi e domani c'è proprio una due giorni contro l'inceneritore al km24.600 di via ardeatina con due assemblee aperte.  9 settembre ci sarà anche il corteo. 
Piombino, un rigassificatore a scadenza?
Nel porto di Piombino tuttora è ormeggiata una nave che rigassifica da luglio 2023 in virtù di una autorizzazione firmata da Eugenio Giani, Presidente Regione Toscana e Commissario straordinario per i rigassificatori in Toscana. Ricordo in sintesi la storia: il … Leggi tutto L'articolo Piombino, un rigassificatore a scadenza? sembra essere il primo su La Città invisibile | perUnaltracittà | Firenze.
I data center delle piattaforme prosciugano i rubinetti dell’acqua
Con lo sviluppo dell’intelligenza artificiale i data center consumano sempre più acqua, lasciando a secco intere comunità Una famiglia che abita nella contea di Newton, a un’ora e mezza in macchina da Atlanta, da diversi anni ha problemi con l’acqua. Racconta infatti il New York Times che dal 2018 la lavastoviglie, la macchina del ghiaccio, la lavatrice e il gabinetto hanno smesso uno per uno di funzionare. Poi, nel giro di un anno, la pressione dell’acqua si è ridotta a un rivolo. Finché dai rubinetti del bagno e della cucina non usciva più acqua. Nulla. Ma il problema, ovviamente, non riguarda solo questa famiglia. [...] Tutto questo perché? Perché dal 2018, appunto, è cominciata la costruzione del nuovo data center di Meta. I data center sono immensi centri di elaborazione dati che in breve tempo sono diventati la spina dorsale della nostra economia. Sono l’infrastruttura critica che alimenta l’archiviazione cloud, i servizi di emergenza, i sistemi bancari, le comunicazioni e la logistica. Ma sono i data center sono strutture gigantesche che consumano quantità immense di energia, suolo e acqua. Con il rapido sviluppo dell’intelligenza artificiale, questi consumi sono destinati a crescere a ritmo esponenziale. Leggi l'articolo
Ancora pale in Alta Valmarecchia: Anche Sant’Alberico e Uguccione della Faggiola nel vento della speculazione.
COMUNICATO STAMPA CONGIUNTO CRINALI BENE COMUNE E APPENNINO SOSTENIBILE – CACTUS WIND Nel cuore dell’Appennino, sui crinali millenari della Valmarecchia e dell’Alta Valtiberina, sta per consumarsi un’altra ferita indelebile: l’impianto eolico industriale “Cactus Wind” che sarebbe previsto nell’area a … Leggi tutto L'articolo Ancora pale in Alta Valmarecchia: Anche Sant’Alberico e Uguccione della Faggiola nel vento della speculazione. sembra essere il primo su La Città invisibile | perUnaltracittà | Firenze.
Sullo Stretto il ponte non lo vogliono. Cronaca di un corteo a Messina
(fotografia di nm) Il 9 agosto un fiume di gente ha attraversato le strade di Messina per dire no al ponte. Più di diecimila persone sono scese in strada lanciando una sfida al ministro Salvini che, qualche giorno prima, durante l’approvazione del progetto definitivo del ponte da parte del Cipess, si era precipitato in città – accolto da una decina di sostenitori tra cui il sindaco della città Basile – per presentare in pompa magna il progetto, con l’avvio dei  cantieri che avverrà entro la fine del 2025, e che prevede l’inizio dei lavori a fine 2025 e soprattutto a fine degli espropri. Al termine dell’incontro, con un fare provocatorio, Salvini aveva lanciato dei bacini ai manifestanti “No ponte” che lo aspettavano fuori dal luogo in cui si teneva l’evento. La manifestazione, partita alle diciotto da piazza Cairoli, ha attraversato le principale arterie del centro, giungendo due ore dopo a piazza Duomo. Sul camion con le bandiere della Palestina e dei No ponte, campeggiava la fotografia di Santino Bonfiglio, militante morto qualche mese fa, a cui è stato dedicato il corteo. Appena dietro il camion, uno striscione con la scritta No ponte, e un pugno chiuso che spezza in due il ponte che unisce le due sponde dello Stretto. Tra i manifestanti tanta gente comune e qualche volto noto, come Antonio Mazzeo, membro dell’equipaggio della Freedom Flotilla che ha provato a rompere l’assedio a Gaza. Il corteo, sebbene sia stato circondato da un numero enorme di agenti in tenuta antisommossa – evidente il clima di intimidazione, nella nuova cornice securitaria sublimatasi con l’approvazione del ddl sicurezza – è riuscito ad affrontare con maturità le diverse provocazioni ricevute, a cominciare dal volo basso dell’elicottero della polizia al momento della partenza del corteo, e alcuni spostamenti anomali di contingenti verso una parte di manifestanti in alcuni tratti della manifestazione. Un altro elemento da sottolineare è stata la decisione di eliminare qualsiasi caratterizzazione partitica, collocando a inizio corteo le bandiere No ponte, e spostando in coda tutti i militanti con le bandiere dei propri partiti e gruppi politici. Nei primi interventi i manifestanti denunciano il tentativo di colonizzazione del progetto ponte promosso dal governo Meloni, la Società Stretto di Messina e Webuild, che alimentano la macchina ponte. In particolare il ruolo di WeBuild (ex Salini-Impregilo), a cui vengono appaltati diversi cantieri in Italia, che ha visto schizzare verso l’alto le azioni in borsa dopo l’annuncio della costruzione del ponte del 2023. Il progetto di WeBuild si realizzerà attraverso un utilizzo di tecniche invasive, cantierizzazione diffusa e alimentando criticità legate allo smaltimento di materiali tossici, come quella già verificatasi per la costruzione del raddoppio ferroviario sulla Messina-Catania, che ha inquinato di arsenico l’area di Contesse, alla periferia sud della città. (fotografia di nm) Tutte criticità che preoccupano la popolazione, visto che le aree di cantiere, tra stoccaggio di materiali e costruzione dei cavi, interesseranno tutta la città, compresi i quartieri che si trovano a più di venti chilometri di distanza rispetto a dove sorgeranno i pilastri del ponte. Il tutto verrà facilitato dal decreto infrastrutture, che per accelerare la costruzione prevede la possibilità di cantierizzazione per fasi. Dopo circa trenta minuti dalla partenza del corteo, mentre una signora esce dal proprio balcone di casa sventolando una bandiera della Palestina, un altro intervento dal camion ricorda che i territori sono di chi li abita e se ne prende cura. Un riferimento è alla legge 2001, che come avvenuto con la Tav in Val di Susa, per la costruzione delle opere pubbliche non prevede alcuna consultazione con le popolazioni locali. Tra i quattordici miliardi che serviranno per la costruzione di questa grande opera, una buona parte delle risorse potrebbe essere utilizzata invece per intervenire sulla gestione idrica o sul dissesto idrogeologico. Messina registra perdite della rete idrica che costringono la popolazione ad avere l’acqua solo per alcune ore al giorno. O la sanità, con la sua crisi economica strutturale che impedisce l’incremento dei posti letto negli ospedali, e le  assunzioni di ausiliari, Oss, infermieri e medici specializzati. (fotografia di nm) Altrettanto menzognera resta la manovra del governo di far passare il ponte come un’infrastruttura militare che rafforza i sistemi di mobilità in una regione piena di basi Nato, come emergerebbe dalla recente delibera Iropi che giustificherebbe la costruzione del ponte per facilitare lo spostamento di truppe militari nel Mediterraneo. Secondo Antonio Mazzeo a oggi non esiste alcun documento ufficiale che consideri il ponte funzionale allo spostamento di truppe, mezzi e armamenti. Eppure il dispositivo ponte continua ad essere alimentato non solo dal governo ma anche dalla magistratura, come dimostrato dalla sentenza del tribunale di Roma che ha condannato i militanti No ponte – che avevano presentato un ricorso contro la costruzione da parte della Società Stretto di Messina – al pagamento di 340 mila euro di spese legali. Ed è per questo che appena il corteo arriva a piazza Duomo, un ultimo intervento dal camion ricorda come il movimento No ponte non può fare affidamento su nessun soggetto istituzionale, consigliere o partito, ma solo sulle forze degli stessi militanti che con passione e energia continuano a sostenere la mobilitazione, da più di venti anni. Gli stessi manifestanti ricordano ai reparti mobili schierati davanti e in coda al corteo che i militanti continueranno la battaglia, sia nei cantieri dove partiranno i lavori, che davanti a ogni casa dove verrà eseguito lo sfratto per l’esproprio. Prima di entrare in piazza un ultimo coro arriva dalla folla: “Lo stretto di Messina non si tocca, lo difenderemo con la lotta!” (giuseppe mammana)