Tag - ambiente

Occorre trasparenza sull’operato della Commissione per il Paesaggio. Lettera al Comune di Firenze di urbanisti, architetti e docenti universitari
PerUnaltracittà insieme a Salviamo Firenze ha promosso la stesura di una lettera al Comune di Firenze per ottenere trasparenza sull’operato della Commissione per il paesaggio. In questo momento la composizione della Commissione è in fase di rinnovamento. A seguire il … Leggi tutto L'articolo Occorre trasparenza sull’operato della Commissione per il Paesaggio. Lettera al Comune di Firenze di urbanisti, architetti e docenti universitari sembra essere il primo su La Città invisibile | perUnaltracittà | Firenze.
Oltre il biocapitalismo
Articolo di Luca Mandara Il problema storico che sta all’origine e definisce il compito dell’eco-marxismo è fondare de jure quella che Paul Guillibert, nel suo Sfruttare i viventi. Un’ecologia politica del lavoro recentemente tradotto dal francese per Ombre Corte, definisce «un’ecologia di classe», per un nuovo progetto eco-socialista. Per farlo, il marxismo più aggiornato, come quello del ricercatore francese, si confronta con gli studi eco-femministi, decoloniali, ecologisti, formulando una teoria omnicomprensiva dei molteplici rapporti di dominio (di classe, di genere, di razza, inter-specifico) che articolano oggi la società capitalistica. VERSO IL BIOCAPITALISMO Negli anni Sessanta-Settanta, mentre la comunità scientifica denunciava i «limiti della crescita», alcuni pensatori marxisti hanno fatto propria la scoperta ecologica dell’impossibilità di una crescita infinita senza intaccare risorse, processi e equilibri biofisici che fino ad allora avevano permesso la vita degli esseri umani e di diverse altre specie. Emancipati dall’orizzonte produttivistico condiviso anche dal socialismo «reale», dal canto loro, questi pensatori hanno a loro volta emancipato l’ecologismo da una concezione astorica e sacrale della natura, da proteggere, conservare, ripristinare quale è sempre stata senza considerare i «costi» sociali. L’idea marxiana che, invece, la «natura» sia un prodotto storico (di una storia naturale e sociale) e che questa produzione non sia unica ma si modifichi storicamente, rende il rapporto con la natura innanzitutto produttivo e politico, cioè esito di conflitti storici. Da scienza dei processi biofisici, l’ecologia diventa così «ecologia politica», che studia la questione dei rapporti col non-umano a partire dalla questione dei rapporti di forza tra umani.  Nell’eco-marxismo questi rapporti sono rapporti tra classi in lotta a causa del carattere della produzione. Quella capitalistica è finalizzata all’accumulazione crescente di capitale mediante lo sfruttamento del lavoro «vivo» salariato e della natura in generale oltre i limiti della loro capacità di riprodurre la propria energia vivente. Poiché lo sfruttamento del lavoro umano pone un limite «naturale» alla durata della giornata lavorativa – la riproduzione della forza lavoro stessa richiede del tempo – il capitale tende a ridurre il valore dei beni salario in vari modi, come impiegare le macchine in agricoltura. Agricoltura meccanizzata e urbanizzazione, a loro volta, causano una «frattura metabolica» del «ricambio organico» tra uomo e natura di cui già Marx considerava le nefaste conseguenze: perdita di fertilità della terra, inquinamento delle città, proliferazione di malattie, riduzione dell’età media, ecc. La critica ecologista è stata arricchita da quella femminista secondo la quale anche la riproduzione intra-umana non è un fatto naturale ma il prodotto di un’attività storica: il lavoro «domestico» femminile. Per pensatrici come Silvia Federici, quest’attività non viene «contabilizzata» nei costi poiché la produzione capitalistica è fondata sul salario, che apparentemente lascia libero il lavoratore nei suoi rapporti riproduttivi. In verità, tali rapporti sono organizzati da forme e istituzioni di dominio sulla donna che rendono la riproduzione conforme e funzionale alla produzione capitalistica. La donna serve gratis la sua attività di crescita ed educazione dei figli, forza lavoro futura, di cura degli anziani, socialmente necessaria ma non ripagata. A sua volta se ne avvantaggia la riproduzione della forza lavoro maschile. Come sottolinea Nancy Fraser nel suo Capitalismo Cannibale, la logica intrinseca dello sfruttamento di genere non è venuta meno con l’integrazione delle donne nel mercato del lavoro. In Occidente, anzi, si è esteso e incrociato sempre di più con motivi «razziali»: il lavoro domestico viene appaltato ad altre donne più povere, soprattutto straniere. Anche la questione razziale ha una sua componente ecologica. La critica decoloniale ha mostrato che il capitale tende a ridurre i costi dei beni salario anche sfruttando manodopera nelle «colonie» in rapporti non salariati, schiavili, servili o malamente salariati, oltre che appropriandosi violentemente delle risorse e impiegare il modello distruttivo della piantagione a monocoltura.  Infine, come evidenziato dall’ambientalismo, anche il non-umano è attivo nel generare gli elementi necessari alla produzione e riproduzione umana (aria respirabile, acqua potabile, terreno coltivabile ecc.), e anche questa attività non viene ripagata da alcun valore. Questo porta diversi eco-marxisti a estendere la categoria di lavoro alla natura non-umana o a parte di essa, come nel caso di Guillibert, e a estendere l’uso dei concetti marxiani sui rapporti tra capitale e lavoro al rapporto capitale-natura. Il ricercatore francese, ad esempio, parla di «sussunzione totale della vita» al capitale per indicare la produzione di una nuova natura del capitale, fatta di Ogm e altro, già adeguata e conforme al regime dell’accumulazione. Attraverso la brevettazione della conoscenza, vengono messi a valore processi e relazioni tra viventi e tra questi e non-viventi danneggiando la loro capacità di rigenerazione. È la fase del «biocapitalismo», che smentisce certe concezioni della natura alla base delle critiche moralistiche alla sofferenza animale che accentuano una passivizzazione della natura sconosciuta al capitale. Quest’ultimo si caratterizza piuttosto per «un’intensificazione patologica, distruttiva e alienata della produttività della natura in nome del profitto». Verso un comunismo dei viventi La critica ecologista deve quindi mirare al dominio stesso del capitale e alle sue molteplici forme: tra divisione di classe in fabbrica, divisione di genere in famiglia, divisioni razziali nella piantagione, divisioni inter-specifiche c’è differenza, ma anche una radice comune. È il capitalismo come sistema che «mira all’accumulazione attraverso lo sfruttamento del lavoro e la svalorizzazione permanente delle condizioni oggettive di vita», ossia di quella «natura» che non è affatto un’entità astorica, ma «l’insieme delle realtà svalutate nel capitalismo, quelle che sono oggetto di un’appropriazione gratuita», e per lo più violenta.  La violenza intra-specifica ed inter-specifica necessaria al capitalismo è perciò tra le cause storiche del dissesto ecologico. Essa è, inoltre, uno strumento fondamentale per costringere il non-umano ai tempi dell’accumulazione, come dimostrano i molteplici casi di resistenza animale. Chiaro che un progetto eco-socialista non può quindi limitarsi alla semplice transizione energetica, né alla «giusta» redistribuzione dei suoi costi sociali. Se l’origine è il dominio, e questo ha origine nel rapporto tra produzione e riproduzione internazionale, allora solo una rivoluzione di questi rapporti può condurre a una società «sostenibile». Assunti i limiti alla crescita; assunta la centralità del momento della riproduzione sociale oltre quello della produzione di beni, sorge nell’eco-marxismo la corrente della Degrowth Communism inaugurata da Kohei Saito e appoggiata dal «comunismo dei viventi» di Guillibert, secondo la quale una «decrescita» può essere ottenuta quando, rivoluzionati i rapporti di proprietà e le finalità della produzione (dall’accumulazione alla soddisfazione dei bisogni umani e non), le attività produttive vengono messe al servizio di quelle riproduttive, meno energivore (o, come scrive Emanuele Leonardi, neghentropiche) per il maggiore impiego di energia umana. SIAMO PRONTI PER IL BIOTARIATO? Detto del progetto, resta da interrogare la questione del chi per esso. Secondo alcuni la trasformazione della composizione «tecnica» del lavoro nel biocapitalismo deve portare a ripensare la classe nei termini operaisti della sua composizione «politica», introducendovi ora il non-umano. Léna Balaud parla ad esempio di «composizione ecologica della classe operaia»; Jason Moore di «proletariato ecologico o ‘biotariato’»; Guillibert, di un’«ecologia di classe» che «si costituisce a partire dalle resistenze animali alla messa a lavoro […] dalle quali sviluppare lotte e nuove composizioni».  Su questo punto mi pare persistere però una certa vaghezza e una certa confusione di priorità che contraddice, invece, la precisione con cui la critica eco-marxista riesce a cogliere le molteplici forme di sfruttamento. Chi formula queste ipotesi di alleanze inter-specifiche nella lotta politica, fonda le sue proposte su una revisione del concetto di lavoro che, mi pare, estende troppo la categoria dimenticando la fondamentale differenza che passa tra lavoro umano e attività non-umana: la storicità. Anche la natura ha una sua storia, ma quella umana è caratterizzata dal fatto che gli uomini modificano le forme della loro relazione con la natura non-umana; che producendo una «natura» producono la stessa produzione; che, a causa di fattori non-naturali, come la nascita delle classi, il passaggio tra forme di produzione è stato mediato da rivoluzioni politiche, per lo più violente. Fenomeni su cui agiscono condizioni naturali non-umane, certo, ma anche fattori che non troviamo nel mondo non-umano ma sono, appunto, nuovi, storici.  Da cui i dubbi sull’estendibilità di concetti della critica dell’economia politica di Marx – come sussunzione, lavoro, alienazione – alla «natura» o alla «vita». Il rischio è che, nel merito di illuminare l’utilizzo capitalistico del non-umano, appaia una sussunzione diretta al capitale dell’ente non-umano, che lascia nell’ombra il fatto che tale sussunzione è resa possibile solo mediante la sussunzione del lavoro umano, sia vivo, sia morto, cioè oggettivato nello strumento/macchina così come nella conoscenza che viene applicata durante il processo. Il punto della sussunzione della «natura» resta, quindi, la riduzione del valore del lavoro umano mediante la riduzione del valore delle merci che rientrano nel suo salario; e la lotta per la giornata lavorativa normale è, necessariamente, ciò che la produzione scatena «da sé» e da cui bisogna partire per ogni attività politica.  La questione è anacronistica solo se non si guarda al livello internazionale di questa lotta. Qui mi pare esserci un altro limite dell’eco-marxismo, che spesso coglie il carattere internazionale della divisione del lavoro, ma lo perde quando si tratta di passare all’analisi politica della «composizione di classe». Ci si focalizza molto sulla «nostra» esperienza di alleanza tra lavoro e ambiente, ma poco spazio è lasciato a quei movimenti extra-occidentali che da tempo uniscono le due questioni a quella della «sovranità» sul proprio territorio dovendolo sottrarre al dominio delle potenze imperialistiche occidentali.  La sovranità, invece, appare spesso solo nella sua versione destrorsa. Guillibert, ad esempio, denuncia il nuovo compromesso eco-razzista che giustifica politiche migratorie restrittive in nome della sovranità su un territorio dalle risorse scarse. Ci si dimentica, però, che la perdita di sovranità nazionale è stato uno dei fattori che ha contribuito al dominio sugli stessi popoli europei dei cosiddetti mercati finanziari globali (leggi monopoli anglo-americani) che distruggono e si appropriano della terra anche in Occidente, come dimostra drammaticamente il caso ucraino. Inoltre, ci si dimentica di quei popoli che sono privi di sovranità, sia formalmente (vedi i palestinesi), sia realmente (vedi i popoli soggetti a governi «fantoccio»), la cui lotta per una sovranità formale e reale è una lotta di liberazione non solo politica, ma anche potenzialmente ecologica.  Lo scriveva Herbert Marcuse già nel 1972 a proposito della guerra in Vietnam, infatti, l’«ecocidio» è un’arma di «genocidio» perché uccide non solo i viventi di oggi, ma le fonti naturali per la nascita e lo sviluppo autonomo delle generazioni a venire. Quella vietnamita – e oggi potremmo dire quella gazawi – era per lui una «liberazione ecologica rivoluzionaria» che «le bombe hanno lo scopo di prevenire». Prova ne è la scomparsa mediatica di Greta Thunberg dopo le sue prese di posizione radicali sul genocidio palestinese.  Da questo punto di vista, un ripensamento a sinistra del concetto di sovranità è una sfida che l’eco-marxismo deve affrontare. Ha buoni maestri, a partire da Vladimir ‘Ilic. Ma anche prove concrete che sta già avvenendo, come mostrano le recenti nazionalizzazioni delle risorse in Mali, Niger e Burkina Faso, dove ha permesso ingenti investimenti statali nella produzione tessile locale, oltre che una migliore redistribuzione della ricchezza con evidenti successi anche economici. Senza contare la sperimentazione del popolo del Rojava di una società laica, democratica, ecologica, senza divisioni di genere. Credo quindi che il problema dell’unità internazionale intra-umana per una lotta anti-imperialista sia una priorità ecologica rispetto a quella inter-specifica.  Valorizzare attraverso una nuova teoria del lavoro la «rivolta animale», può avere un’importante funzione simbolica e morale: conoscere la loro sofferenza e ribellione può stimolare il medesimo bisogno negli uomini che soffrono dello sfruttamento e dell’alienazione. Ma questo piano morale-sensoriale-sentimentale, dall’indubbio valore, resta qualitativamente diverso dalla dimensione politica. Come, infatti, si organizza una «rivolta animale»? Non sarebbe tale organizzazione anch’essa una imposizione contro cui l’animale potrebbe fare resistenza?  Chiarire le priorità rafforzerebbe, senza intaccare, il merito e la sfida profonda che, a mio modo di vedere, è stata posta dal sorgere dell’eco-marxismo: restituire al marxismo quella dimensione utopica perduta dopo la fine della «grande narrazione» produttivistica-prometeica, senza la quale nessun movimento può «abolire lo stato di cose presenti». Questo movimento è fatto di uomini e donne; a loro volta mossi da bisogni, desideri e coscienze. Immaginare un altro oltre le forme cannibali di soddisfazione e percezione del mondo capitalistico, è necessario per spezzare la presa su quella dimensione soggettiva del desiderio che occorre incanalare nella costruzione vissuta «in prima persona» di una società pacificata nei rapporti inter- e intra-specifici. *Luca Mandara insegna filosofia e storia nei licei e collabora con le Università di Napoli e della Basilicata, dove si occupa di teoria critica e di questione ecologica. Partecipa al movimento per la sanità pubblica e alle iniziative di altre organizzazioni politiche attive a Napoli. L'articolo Oltre il biocapitalismo proviene da Jacobin Italia.
Santa Palomba è Roma: nessun territorio è un’isola
Una speciale ricchezza di ecosistemi e di biodiversità, una sorprendente varietà di paesaggi, contraddistinguono i comuni dei Castelli Romani. Proprio per le sue peculiarità il territorio castellano è da gran tempo noto nel mondo, anche grazie alle tante rappresentazioni pittoriche e alla prestigiosa sede estiva pontificia di Castelgandolfo. Molte di queste qualità si manifestano sul ponte monumentale di Ariccia, da cui si può ammirare lo spettacolo magnifico nel quale ci si trova letteralmente immersi. Lo sguardo plana sulla foresta Chigi, sulle distese boschive che rivestono i Colli Albani sino alla cima di Monte Cavo; sulla piana, cosparsa di campi coltivati, di frutteti, vigneti e uliveti – le produzioni tipiche protette dei Castelli –, attraversata dall’Appia e dalle stupende teorie di pini che le si snodano ai fianchi; infine sulla striscia di mare all’orizzonte che rischia di essere ferito irreparabilmente dalla colossale ciminiera dell’inceneritore che si vorrebbe costruire a Santa Palomba. > Ironicamente, la struttura, che viene presentata come una “torre panoramica”, > oltre a disperdere tossine fatali per la salute, cancellerebbe attorno a sé il > panorama di borghi ben altrimenti turriti. Ambienti montani, forestali, lacustri, marini, urbani, tutti accomunati, nelle loro rispettive specificità, da straordinaria bellezza e dalla fragilità dei loro equilibri, la cui preservazione e tutela sola può salvaguardare – anche nell’interesse delle future generazioni, come ormai prescritto dall’art. 9 della Costituzione – la salute e il benessere di tutte le viventi che vi abitano o vi sostano. Il Villino Volterra e il Palazzo Chigi con le prospicienti piazza e chiesa del Bernini, invitano – dalle due estremità del ponte di Ariccia – a superare sia la sconsiderata dicotomia Natura/cultura sia le opposizioni strumentali tra le “due culture” (l’umanistica e la scientifica), tra conservazione e “progresso”, per promuovere invece, con approcci in tanto autenticamente integrati in quanto improntati a ecologie integrali, un dialogo tra i saperi e tra le comunità che conduca a scelte che non sacrifichino più alcun territorio in nome di interessi solo dichiaratamente generali: a Santa Palomba come a Casal Selce, a Pietralata come altrove. > «Nessun uomo – ha scritto John Donne – è un’isola, intero in se stesso; > ciascuno è un pezzo del continente, una parte del tutto. Se una zolla di terra > viene portata via dal mare, l’Europa ne è diminuita, così come lo sarebbe un > promontorio […] la morte di qualsiasi uomo mi diminuisce, perché sono preso > nell’umanità, e perciò non mandar mai a chiedere per chi suona la campana: > essa suona per te». L’esperienza della vita, e la conoscenza della storia, insegnano ad attribuire gli alti versi del poeta agli ecosistemi non meno che agli individui, ai quali è invece di solito circoscritta la lezione di Donne. Considerando gli innumerevoli disastri ambientali dovuti agli impatti e alle conseguenze di attività antropiche che si sono verificati dal 1940 (l’anno in cui un’epigrafe di Hemingway rese popolare quei versi) sino ai giorni nostri, la meditazione di Donne si rivela incontrovertibile. Essa smentisce, tra l’altro, il carattere di emergenza e di straordinarietà che pure ci si ostina, contro ogni evidenza, a continuare ad attribuire a tali catastrofi, e richiama dunque ognunə alle proprie responsabilità. Reagendo alle molteplici crisi occorse negli ultimi decenni, una moltitudine di persone, associazioni e realtà locali ha acquisito una profonda consapevolezza dell’interdipendenza tra tutti gli ecosistemi naturali e sociali. Da qui il rifiuto dei vari “modelli” e delle molteplici “ricette” e “soluzioni” che solo apparentemente vengono proposte – nei fatti sono imposte – ai territori. Recentemente, la scala affatto locale di tale sistema è stata restituita con grande nettezza in numerose occasioni: nelle assemblee pubbliche e nelle manifestazioni promosse dalla rete RIOT – Realtà Indisponibili Organizzate sui Territori; nel confronto tra le politiche romagnole e romane, stimolato da un dibattito con il regista Pascal Bernhardt a margine della proiezione del suo Romagna tropicale organizzata dalle EcoResistenze; nel dialogo tra realtà sociali e ambientaliste di Milano e della capitale svoltosi alla Festa dei Circoli ARCI Roma. Risuonano oggi dunque più che mai valide e attuali – e anzi ci interpellano con un’urgenza alla quale le conseguenze irreversibili di progetti nefasti come l’inceneritore di Santa Palomba e di pratiche irresponsabili quali lo sfrenato consumo del suolo e la captazione dissennata delle risorse idriche conferiscono una magnitudine senza precedenti –, le due parole che compongono il motto scelto cinquant’anni orsono dal Comitato Promotore per il Parco Naturale Regionale dei Castelli Romani, che Castelli Suoli Vivi ha a sua volta fatto proprio: Sinite florere, “lasciate fiorire”. Lasciate, lasciamo, vivere! Si potrebbe riassumere in questi termini il nucleo delle ricerche e delle battaglie contro ogni nocività che ai Castelli Romani da anni – in alcuni casi da decenni –, cittadinз e comitati stanno portando avanti, da Albano a Santa Palomba. Un messaggio, questo, che è stato ribadito, con approccio multidisciplinare e multiorganico, in incontri e presidi che si sono svolti ai Castelli in questi ultimi giorni. > La scorsa domenica ad Albano Laziale, nell’ambito della quarta edizione della > Festa Resistente, si è ragionato sulla gestione dei territori a partire da > prospettive accomunate dalla consapevolezza della vitale correlazione tra > giustizia ambientale e giustizia sociale. Durante l’assemblea pubblica tenutasi lunedì sera a Santa Maria delle Mole l’Unione dei comitati contro l’inceneritore ha ribadito, in dialogo con una nutrita platea istituzionale, la necessità di presentare, per Santa Palomba, un’istanza d’istituzione di area ad elevato rischio ambientale ai sensi dell’art. 2, comma 1, L.R.Lazio 13/2019. L’assemblea – alla quale erano presenti, o rappresentatз, sindacз di nove comuni dei Castelli –, è stata dunque anche l’occasione per ribadire la necessità dell’impegno costante di tutte le parti coinvolte e sottolineare l’urgenza di adottare ulteriori deliberazioni e predisporre tutte le iniziative che le amministrazioni locali hanno facoltà di promuovere. Il presidio settimanale che l’Unione dei comitati, a seguito dello scempio perpetrato dalla mattina del 27 giugno sulla vegetazione ripariale del Fosso della Cancelleria, promuove ogni martedì dinanzi al sito, in Via Ardeatina, sta registrando una crescente partecipazione di cittadinз e di altre vertenze, provenienti non solo dai Castelli ma anche da Roma e dalla provincia, concordi con l’appassionata esortazione civile che si leva dal territorio di Santa Palomba affinché ci si impegni per il ripristino del «diritto violato». All’ultimo sit-in la dottoressa Francesca Mazzoli (pediatra e co-autrice, assieme ad altrз membrз del comitato tecnico-scientifico dell’Unione, del volume L’inceneritore di Roma. Una scelta sbagliata) ha fatto riferimento alla letteratura sui danni, anche gravissimi, che il cosiddetto termovalorizzatore – in verità un inceneritore, dunque un impianto tecnicamente appartenente alla categoria delle industrie insalubri di prima classe –, causerebbe nella popolazione umana, in particolare neз bambinз e nelle persone più fragili, in tutte le altre specie viventi – si pensi a esempio alle api (sono più di 4.600 gli alveari censiti ai Castelli, ha successivamente ricordato unз attivista) –, con ricadute su ogni ecosistema. Dall’Unione dei comitati sono stati ribadite le principali vulnerabilità di cui risulta costellato l’iter dell’inceneritore: a partire dalla decisione di sostenere un progetto che avrebbe impatti di tanto grave entità e di così lunga durata su un territorio, quello di Santa Palomba, peraltro già fortemente colpito da molteplici forme di inquinamento dovute anche a ex discariche e da gravi carenze idriche (mentre, a causa delle ulteriori captazioni, il livello dei laghi di Albano e di Nemi sta diminuendo costantemente), senza che sia stata completata la Valutazione di impatto ambientale, condizione inderogabile, secondo le normative comunitarie, per un’eventuale approvazione dell’impianto. > È in tale contesto che l’Unione dei comitati si è trovata nella condizione di > dover richiedere una valutazione del rischio di crisi ambientale costituito > dall’elevata concentrazione, nell’area, di stabilimenti a rischio di incidente > rilevante (ben 4 dei 19 RIR della Regione Lazio si trovano nei pressi di Santa > Palomba). È stata ricordata infine la perdurante assenza di risposte alla petizione firmata da oltre 12.000 cittadinз e ai cinque quesiti contenuti nella lettera inviata il 7 aprile 2025 dall’on. Bogdan Rzońca, presidente della Commissione petizioni del Parlamento Europeo, a Roberto Gualtieri, che a Santa Palomba interviene nella quadruplice veste di sindaco di Roma Capitale e di Città Metropolitana, di commissario straordinario ai rifiuti e per il Giubileo. Il prossimo appuntamento a Santa Palomba è per il 29 luglio alle 18. È previsto un corteo che partirà dal sito per dirigersi in Via Cancelliera, anche per denunciare le conseguenze della paventata chiusura di circa un km di Via Cancelliera, funzionale all’avvio dei lavori. L’immagine di copertina è di Norma Bianchi SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress si può donare sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo Santa Palomba è Roma: nessun territorio è un’isola proviene da DINAMOpress.
Livorno, tra fumi e smog non respira. Ma la Giunta si autopromuove
Dopo viale Gramsci a Firenze, il viale Carducci di Livorno è la strada più inquinata della Toscana dal terribile biossido di azoto (causa di 11.300 morti premature l’anno in Italia, prima nazione in Europa). Le evidenze critiche vengono dalla centralina … Leggi tutto L'articolo Livorno, tra fumi e smog non respira. Ma la Giunta si autopromuove sembra essere il primo su La Città invisibile | perUnaltracittà | Firenze.
Come una compagnia israeliana controlla – e taglia – l’accesso dei palestinesi all’acqua in Cisgiordania
di Qassam Muaddi   mondoweiss.net, luglio 22, 2025    I palestinesi in Cisgiordania stanno affrontando una crisi senza precedenti nell’accedere adeguatamente all’acqua. Ma il problema non è la carenza delle risorse idriche, quanto il fatto che Israele estragga e controlli tutta l’acqua da sotto i loro piedi. Palestinesi riempiono bottiglie di plastica e taniche con acqua potabile da un serbatoio d’acqua nel villaggio di Um al-Khair in Cisgiordania, a sud di Hebron, 17 agosto 2016. (Wisam Hashlamoun/APA Images) Per 100 giorni, i palestinesi della città di Idna, nella Cisgiordania occupata, sono sopravvissuti senza acqua corrente. La città di circa 40.000 abitanti ha fatto affidamento su serbatoi di acqua piovana e taniche d’acqua comprate da dei rivenditori. La crisi di siccità della città è stata provocata dalla decisione di aprile della compagnia idrica nazionale israeliana Mekorot di ridurre la fornitura giornaliera di acqua al governatorato di Hebron, nel sud della Cisgiordania. L’approvvigionamento idrico si è ridotto da 32.000 metri cubi a 26.000, il che ha visto la chiusura completa della linea idrica di Mekorot per Idna. Questa crisi idrica non è nuova e non si limita a Idna. Ogni estate, diverse parti della Cisgiordania subiscono interruzioni idriche prolungate che possono estendersi fino a un mese, principalmente a causa della mancanza di approvvigionamento di acqua da parte di Mekorot, che controlla la maggior parte delle risorse idriche in Palestina. A Idna, i residenti si sono incontrati lunedì nel municipio per discutere della crisi. Il sindaco della città ha condiviso l’argomentazione della società israeliana per aver tagliato loro l’acqua, ovvero che “alcuni residenti stavano rubando illegalmente l’acqua”. “Il sindaco ha detto che non è responsabilità del comune cercare coloro che rubano l’acqua, ma fornire acqua ai residenti, cosa che è stata resa impossibile”, ha detto a Mondoweiss Rami Nofal, un giornalista locale residente a Idna. “Ogni estate, subiamo tagli all’acqua, e l’argomento che alcuni individui rubano l’acqua dalla linea principale non è una scusa per lasciare 40.000 persone senza acqua per tre mesi”, ha detto.  Il sindaco ha poi assicurato alla folla che l’Autorità Palestinese sta cercando di risolvere la crisi con Mekorot, ma non ci sono notizie di una soluzione. “A Idna, come nel resto della Cisgiordania, riceviamo l’acqua in determinati giorni della settimana, e il turno del mio quartiere è stato ad aprile, solo pochi giorni prima che fosse programmato il taglio completo”, ha continuato Nofal. “Ho comprato un serbatoio d’acqua di 13 metri cubi per 180 shekel, e questa è l’acqua con cui io e la mia famiglia stiamo risparmiando per sopravvivere”. Serbatoi di questo tipo punteggiano i tetti di tutti gli edifici della Cisgiordania, poiché la carenza d’acqua è cronica. “Dobbiamo stare attenti a ogni caso di consumo di acqua”, ha spiegato Nofal. “Ogni volta che i miei figli aprono il rubinetto, dico loro di richiuderlo il prima possibile. Risparmiamo mentre laviamo e anche quando tiriamo lo sciacquone”. Resti demoliti di case palestinesi nel villaggio di Idna, a ovest di Hebron, 13 maggio 2025. (Mamoun Wazwaz/APA Images) Come funziona il sistema idrico in Cisgiordania Mekorot è stata fondata negli anni ’30 sotto il mandato britannico. Dopo la fondazione dello Stato di Israele, alla società è stato concesso il diritto esclusivo di esplorare e sfruttare l’acqua nel paese. Dopo il 1967, ciò includeva le terre della Cisgiordania e di Gaza, che Israele occupava. Mekorot espanse le sue operazioni e fu incaricata di costruire la portaerei nazionale, una linea di condutture idriche che trasporta l’acqua dalla parte settentrionale del paese, intorno alla Cisgiordania attraverso la provincia israeliana del 1948, fino alle zone secche meridionali del deserto del Naqab. Gran parte di quest’acqua alimentava il fiume Giordano prima della costruzione della portaerei negli anni ’60. Ihab Sweiti, dell’Autorità palestinese per l’acqua, ha detto a Mondoweiss che “le fonti d’acqua naturali in Palestina sono per lo più sotterranee e si classificano in quattro serbatoi naturali; le falde orientali e occidentali su entrambi i lati della regione collinare centrale, il bacino della Valle del Giordano, e l’acquifero costiero, che è la principale fonte d’acqua per Israele e la Striscia di Gaza. I bacini idrici orientali e della Valle del Giordano si trovano principalmente in Cisgiordania, e il bacino idrico occidentale si estende anche in Israele”. “Dall’occupazione del 1967, Mekorot ha scavato altri pozzi in Cisgiordania, finendo per controllare circa 25 pozzi, che utilizza per fornire acqua agli insediamenti israeliani e per vendere acqua a molti comuni palestinesi, come Idna”, ha continuato Sweiti. “Quando la compagnia Mekorot ci ha informato che stavano tagliando l’approvvigionamento idrico dall’area ovest di Hebron, compresa Idna, hanno detto che il motivo era che c’erano troppe estensioni illegali fatte dai palestinesi lungo la linea dell’acqua”. Sweiti afferma che la società israeliana sostiene che il furto d’acqua per le città e i villaggi della zona ha ridotto la quota d’acqua per gli insediamenti israeliani. Sweiti ammette che i palestinesi fanno estensioni irregolari lungo la linea di Mekorot, ma i dati smentiscono l’affermazione che la quota di insediamenti israeliani è stata ridotta. Secondo il Palestinian Hydrology Group, i palestinesi consumano in media 70 litri di acqua a persona al giorno, mentre gli israeliani ne consumano 300. Per i coloni israeliani in Cisgiordania, tuttavia, la media sale a 800 litri a persona al giorno. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, la media sana per il consumo giornaliero di acqua è di 100-120 litri per individuo al giorno, che è molto al di sopra del tasso di consumo medio palestinese e molto al di sotto del consumo medio giornaliero dei coloni israeliani. Secondo i dati dell’Ufficio centrale di statistica palestinese del marzo 2023, la quota individuale di acqua dei coloni israeliani in Cisgiordania rispetto a quella dei palestinesi è di sette a uno. Secondo il diritto internazionale, sia gli insediamenti israeliani in Cisgiordania che lo sfruttamento israeliano dell’acqua della Cisgiordania sono illegali. La Quarta Convenzione di Ginevra, che regola i casi di occupazione, proibisce esplicitamente sia il trasferimento dei cittadini della potenza occupante nel territorio occupato sia lo sfruttamento delle risorse naturali del territorio occupato, a meno che non sia a beneficio della popolazione occupata. Quando nel 1993 furono firmati gli accordi di Oslo tra l’OLP e Israele, i diritti all’acqua furono classificati come parte della fase strategica dei negoziati sullo “status finale“, insieme ai rifugiati palestinesi, ai confini, allo status di Gerusalemme e agli insediamenti israeliani. I negoziati sullo status finale avrebbero dovuto concludersi a Camp David nel 2000, ma gli accordi sono crollati. Da allora, l’amministrazione della distribuzione dell’acqua continua ad avvenire secondo il meccanismo provvisorio degli Accordi di Oslo: distribuzione ampiamente ineguale e totale controllo israeliano. Questo meccanismo si basa sulla formazione di un comitato congiunto in cui le autorità idriche israeliane e palestinesi rivedono e aggiornano regolarmente il numero di pozzi che i palestinesi sono autorizzati a scavare o sfruttare e la quantità di acqua che possono estrarre e distribuire in base alla crescita della popolazione. Questa riunione periodica del comitato multilaterale dovrebbe svolgersi ogni pochi anni. Secondo Ihab Sweiti, l’ultimo incontro è avvenuto nel 2023, prima dell’inizio della guerra a Gaza. “Noi, l’Autorità Palestinese per l’Acqua, avevamo all’ordine del giorno diversi nuovi pozzi che volevamo ottenere l’approvazione israeliana per scavare e gestire, e c’erano altri due pozzi che avevano già ricevuto l’approvazione israeliana, anche nella parte occidentale di Hebron”. Erano rimaste solo discussioni tecniche, dice Sweiti, ma la guerra a Gaza ha paralizzato tutto. “È tutto ancora in sospeso”. Le macchine dell’esercito israeliano distruggono un serbatoio d’acqua utilizzato dai contadini palestinesi a Hebron, 14 giugno 2011. (Najeh Hahlamoun/APA Images) “La gente avrà veramente sete” A Idna, anche l’estrazione irregolare di acqua da parte dei palestinesi è stata interrotta dall’esercito israeliano. “Domenica, le forze di occupazione hanno fatto irruzione nell’area fuori Idna, dove passa la linea dell’acqua, hanno scavato il terreno e distrutto tutte le estensioni irregolari fatte da alcuni palestinesi”, ha osservato Rami Nofal. Di conseguenza, ora anche i serbatoi d’acqua non sono più disponibili. Se continua così, in due settimane la crisi andrà fuori controllo”. “La gente di Idna avrà veramente sete”, ha sottolineato Nofal. Sweiti sostiene che le estensioni irregolari della linea principale sono un problema per i palestinesi, non solo per gli insediamenti israeliani. “L’acqua estratta, che non viene contabilizzata, viene alla fine detratta dalla quota dei palestinesi”, dice Sweiti. “Ma l’area in cui passa la linea si trova nell’area C, dove Israele non permette all’Autorità palestinese di avere alcuna presenza”. Ciò significa che l’Autorità palestinese non ha il potere di imporre l’ordine o mantenere le infrastrutture idriche per le comunità palestinesi, spiega Sweiti. “Tagliare l’acqua da un’intera area o città non è una soluzione”, afferma. “La soluzione è permettere a noi palestinesi di gestire il nostro approvvigionamento idrico e avere le nostre fonti d’acqua”. https://mondoweiss.net/2025/07/how-one-israeli-company-controls-and-cuts-off-palestinians-access-to-water-in-the-west-bank/ Traduzione a cura di AssopacePalestina Non sempre AssopacePalestina condivide gli articoli che pubblichiamo, ma pensiamo che opinioni anche diverse possano essere utili per capire.
L’indifferenza delle istituzioni campane all’emergenza ambientale del Lago Patria
(archivio disegni napolimonitor) Puntuale ogn’anno, come il due novembre della Livella di Totò, si ripresenta a ogni estate la solita ostruzione coatta alla foce del Lago Patria. La diga di sabbia è stata piazzata all’inizio di luglio, più o meno come lo scorso anno, quando la manomissione artificiale della foce determinò la morìa di pesci per ipossia, con relativa emersione a galla dei cadaveri. Questa manovra, che deturpa gravemente l’ecosistema del lago, avrebbe lo scopo di “preservare” il tratto di costa tra Varcaturo e Ischitella dai reflui che si riversano nel bacino. L’unico risultato è però, piuttosto, quello di trasformare il lago in una vasca stagnante dove la temperatura si innalza a dismisura e la fauna acquatica muore soffocata. Dal 1999 il lago fa parte della Riserva naturale Foce Volturno-Costa di Licola, un’area protetta regionale che ha accorpato e ampliato altre aree già protette. “È una questione che denunciamo da anni, ma che continua a ripetersi”, dichiara Giovanni Sabatino, presidente dell’Ente Riserva Foce. “Nel lago arrivano, a mezzo della centrale idrovora di Patria, le acque provenienti dal canale Vena, per una superficie complessivamente drenata di circa duecento chilometri quadri. Tutto il carico inquinante arriva così al lago. A settembre 2024 abbiamo costituito un tavolo tecnico con attori istituzionali e non, per opporci all’uso criminale del lago come discarica dove vengono smaltiti rifiuti soprattutto liquidi di natura organica, ma anche chimica, attraversando i canali di aree a forte vocazione agricola”. Il tavolo sembra ben apparecchiato: vi partecipano il presidente della Commissione regionale ambiente, Giovanni Zannini; il  vice presidente della Commissione parlamentare ecomafie, Francesco Emilio Borrelli; e poi Fulvio Bonavitacola, vicepresidente della regione Campania, Maria Antonietta Troncone, procuratore capo di Napoli Nord, Gabriella Maria Casella, presidente del tribunale di Santa Maria Capua Vetere, e ancora i sindaci di Castel Volturno, di Villa Literno e l’ex primo cittadino di Giugliano. Tuttavia, misure concrete per l’individuazione degli scarichi illegali non sono state ancora prese e dopo quasi un anno, l’“usanza” si ripete puntuale (nessuna risposta o dichiarazione in merito ci è stata fornita dalla polizia municipale di Castel Volturno, che ha giurisdizione sulla foce; da quella di Giugliano, che ha giurisdizione sul lago; dalla protezione civile e dalle segreterie dei sindaci). Come storicamente documentato, fasi di profonda distrofia estiva del Lago Patria, con morìe di massa della fauna ittica, si verificavano regolarmente anche negli anni Cinquanta e Sessanta dello scorso secolo. Tuttavia, si legge in uno studio del Cnr-Irsa, “il precipitare delle condizioni ecologiche del lago, con relativi episodi di mortalità in massa nel periodo estivo, è dovuto in modo preponderante allo scarso ricambio col mare, a causa dell’occlusione, quasi costante, del tratto finale del canale di foce per l’apporto di sabbia dovuto alle mareggiate. L’occlusione è talvolta favorita, o volutamente mantenuta – specie in periodo estivo, quando il lago avrebbe maggior necessità di ricambio delle acque – per non compromettere la balneazione (e gli interessi economici) nei lidi presenti sugli adiacenti tratti di costa”. A fronte della progressiva e selvaggia urbanizzazione del territorio, avvenuta senza la realizzazione di infrastrutture fognarie adeguate e di depurazione degli scarichi, un question time del 2017 di due consiglieri comunali di Giugliano chiedeva al presidente del consiglio di rendere conto degli atti compiuti dall’ente per subentrare alla Regione nella realizzazione del progetto di risanamento del bacino. Sebbene l’ordinanza del commissario alla depurazione che approvò il progetto esecutivo sia del settembre 2005, quest’ultimo non solo a oggi non è stato completato, ma neppure è dato conoscerne lo stato dell’arte. Lo sversamento del sovrappieno degli scarichi urbani in laguna, intanto, continua indisturbato, nonostante, sempre nel 2017, in una interrogazione alla giunta regionale, il consigliere Tommaso Malerba avesse fatto richiesta di conoscere la quantità di risorse stanziate e impiegate fino a quel momento: le carte non sono mai arrivate, o sono arrivate in maniera incompleta. Dopo poco i lavori sono stati addirittura sospesi. Eppure, tra i vari interventi suggeriti nello studio del Cnr vi è l’apertura del canale di foce in modo costante, “al fine di assicurare un ricambio più continuo delle acque lagunari a opera delle maree”. Questa circolazione implicherebbe anche “un processo di progressiva depurazione del Lago Patria e un minor carico generale di inquinanti, in modo da non compromettere la balneazione nei tratti di costa adiacenti, come avviene invece con riaperture della foce effettuate d’urgenza, quando le condizioni delle acque lacustri sono ormai critiche”. Sempre nel 2017, in qualità di sindaco della Città Metropolitana di Napoli, Luigi de Magistris aveva approvato un progetto di fattibilità per “Lavori di riqualificazione paesaggistica del Lago Patria” nel comune di Giugliano, sulla base di un finanziamento regionale di otto milioni e seicentomila euro. Il documento puntava allo sviluppo di strutture turistico-ricettive, delle infrastrutture collegate al tempo libero e allo sport, alla realizzazione di una pista ciclabile, la rifunzionalizzazione della strada principale, la creazione di una fascia boscata e la sistemazione di un’area a verde attrezzato. Quel finanziamento è andato perduto a causa dell’inerzia istituzionale dei vari enti coinvolti, e così lo scorso gennaio la Città Metropolitana ha dovuto avviare una gara d’appalto per un intervento di riqualificazione paesaggistica e infrastrutturale, per un investimento previsto di sette milioni di euro circa. L’unico atto concreto si è avuto lo scorso marzo, quando in tutta fretta, prima di dare le dimissioni (sfiduciato da diciannove consiglieri su venti), l’ex sindaco di Giugliano Nicola Pirozzi aveva dato avvio ai lavori per il rifacimento di un complesso sportivo abbandonato, il centro Remiero, dedicato alla disciplina del canottaggio. Ritardi, inadempienze, uso inappropriato di risorse finanziarie: l’aggressione ambientale a questo territorio prosegue impunita. Intanto, nell’ultima indagine conoscitiva del 23 giugno, l’Autorità nazionale anticorruzione ha evidenziato tutte le carenze nella progettazione, nell’avvio e nell’esecuzione degli interventi previsti per la costruzione e per l’efficientamento dei sistemi depurativi. Su questo tema come su altri, numerose procedure di infrazione da parte dell’Unione Europea sono al momento aperte. (mena moretta)
Oltre l’“imbroglio” della transizione energetica green. Comunicato della Società dei territorialisti/e
Fin dal suo avvio, la cosiddetta transizione ecologica si fonda soprattutto sulla sua declinazione energetica. Proprio la transizione energetica, tuttavia, oltre a subire continue battute d’arresto, presenta aspetti profondamente contraddittori rispetto allo scopo di affrontare realmente la grave questione ambientale … Leggi tutto L'articolo Oltre l’“imbroglio” della transizione energetica green. Comunicato della Società dei territorialisti/e sembra essere il primo su La Città invisibile | perUnaltracittà | Firenze.
Il tempo della piazza. A Taranto si riapre la partita sull’ex Ilva
UNA CREPA NEL COPIONE Il tempo, in politica, è una risorsa decisiva. Può essere mobilitata con le finalità più disparate. Nelle politiche ambientali, il rinvio è una tecnica collaudata per non intervenire davanti all’avanzare della crisi climatica. A Taranto, in questo momento, il tempo gioca un ruolo del tutto differente. Il rinvio al 31 luglio della decisione sull’accordo di programma in tema di ex Ilva non ha una mera dimensione procedurale: è un’apertura politica. Indica uno spazio di possibilità. > Per i movimenti e per quella parte di città che immagina un futuro > radicalmente diverso dalle macerie del presente, è una buona notizia. Un primo prodotto della mobilitazione collettiva che può permettere di allargare lo scenario e sperimentare nuove alleanze. In questa direzione, la mobilitazione convocata per il giorno precedente ha avuto un ruolo di primo piano. Il 14 luglio, la piazza ha fatto irruzione nella partita. Davanti a Palazzo di Città, il presidio convocato da Giustizia per Taranto ha portato in strada una composizione larga, plurale, arrabbiata. Generazioni, contesti, storie diverse. Soprattutto: un’atmosfera elettrica, come non si respirava da tempo. Le parole d’ordine si alternano: c’è chi urla “chiusura!”, chi evoca le barricate, chi se la prende con lə protagonistə istituzionali della vicenda – Michele Emiliano è il più citato. Ma la postura della piazza è chiara: rigettare l’accordo così come prospettato dal governo. Riaprire una partita che sembrava chiusa. Costruire – qui e ora –  una discontinuità radicale. Il giorno dopo, nessuna firma è stata apposta. È stata accolta la richiesta del sindaco Bitetti di sottoporre la decisione al Consiglio comunale, convocato per il 30 luglio. Nel verbale si individua anche una commissione tecnica, incaricata di valutare le opzioni progettuali. Per la città è una boccata d’ossigeno. Il tempo guadagnato è molto prezioso. Può consentire di cambiare i termini della discussione. COS’È L’ACCORDO DI PROGRAMMA E COSA PREVEDE L’Accordo di Programma è lo strumento con cui le pubbliche amministrazioni disegnano il futuro dell’ex Ilva e della città. Il suo impatto giuridico diretto è limitato: sono altri gli atti – a cominciare dall’Autorizzazione Integrata Ambientale – che definiscono concretamente la cornice operativa dell’impianto. Ma l’accordo ha una funzione politica fondamentale: cristallizza i rapporti di forza del presente e prova a renderli orizzonte di governo. Dentro ci sono scelte produttive, traiettorie tecnologiche, margini di compromesso ambientale e occupazionale. Il contenuto dell’accordo è variato più volte. La versione attuale prefigura la cosiddetta decarbonizzazione dell’impianto, con la realizzazione di forni elettrici. La fonte di alimentazione – e quindi il ruolo della nave rigassificatrice da collocare nel porto – è parte fondamentale della contesa. Gli scenari tecnici sono cambiati più volte, ma rimangono allarmanti secondo associazioni ambientaliste ed espertə. Nella forma attuale – per quanto migliorata rispetto al “prendere o lasciare” presentato dal governo solo poche settimane fa – il piano non disegna una transizione complessiva fondata sulla giustizia ambientale e sociale. La variabilità dell’accordo, modificato in corsa sotto pressione, ne svela la natura flessibile. È un campo negoziale, non un esito obbligato. Anche per questo il rinvio al 31 è significativo: mostra che l’accordo può essere ancora ridiscusso. È il segno che la piazza può incidere. LE RAGIONI DEL CONFLITTO Nella percezione comune in città, l’ex Ilva è un dispositivo tossico. Non solo per l’ambiente, ma anche per la vita politica, economica e culturale della città. La proposta di accordo attualmente in discussione non viene percepita come un’occasione di rottura sostanziale col passato. I problemi sono due, distinti ma in dialogo. Il primo riguarda la configurazione produttiva disegnata. L’accordo è visto come un tentativo di normalizzare la presenza dell’ex Ilva, in una congiuntura in cui la chiusura dello stabilimento – sotto il fuoco incrociato di crisi ambientale, produttiva, finanziaria – appare per la prima volta concretamente possibile. Il secondo riguarda gli impatti specifici del piano proposto: la decarbonizzazione ipotizzata comporterebbe nuovi e differenti rischi ambientali. A rendere più complessa la partita, c’è il nodo dell’AIA – l’Autorizzazione Integrata Ambientale – in discussione nella Conferenza dei Servizi del 17 luglio. È il provvedimento che autorizza il funzionamento dell’impianto e si esprime sull’attuale assetto produttivo. L’AIA di cui si discute continua a basarsi sul carbone. Il rischio è che venga approvata in fretta, rendendo cogente la continuità industriale e chiudendo ogni spazio di transizione reale. Da qui al 31 luglio si gioca una partita decisiva come poche nella storia recente della città. Dal punto di vista delle piazze, non si tratta di sommare sigle o ricostruire fronti organizzativi tradizionali. La posta in gioco è più ampia: come consolidare un “noi” plurale – sufficientemente largo da includere tutte le soggettività disposte a mobilitarsi per la giustizia ambientale? Quali parole d’ordine possono avere un impatto espansivo? Come evitare che distinguo e protagonismi indeboliscano una dinamica che, per ora, appare promettente? Il passaggio in Consiglio comunale del 30 luglio potrebbe innescare nuove convergenze. L’investitura del Consiglio comunale, chiamato a discutere dei contenuti dell’accordo di programma, ha una valenza politica simbolica e materiale. Non si tratta solo di un passaggio formale, ma della possibilità concreta di rimettere al centro della vita istituzionale i destini della città. L’iniziativa dellə consiglierə che hanno chiesto al sindaco di non firmare l’ultima versione dell’accordo ha giocato un ruolo cruciale nella riapertura della partita: ha segnalato che esiste uno scarto tra la linea governativa e una parte della rappresentanza territoriale, attenta alla pressione esercitata dalla mobilitazione. Anche se, com’è evidente, il Consiglio comunale non è un’istituzione di partecipazione diretta, può diventare, in questa fase, un luogo in cui si esercita una forma di democrazia sostanziale. Questo può avvenire se non si limiterà a ratificare decisioni prese altrove, ma svilupperà una discussione aperta, profonda, sulle alternative possibili per la città. Perché questo accada, è utile immaginare forme creative di connessione tra piazza e aula consiliare: confronti pubblici, audizioni, assemblee informali, strumenti che rendano permeabile e aperto un processo che non può richiudersi nel recinto della tecnica. COSA INSEGNA TARANTO ALLE LOTTE AMBIENTALI Come spesso accade, la partita che si gioca a Taranto supera i confini della città. Non è in discussione solo un impianto industriale inquinante, ma la possibilità di affermare una politica dell’ambientalismo capace di radicarsi anche in contesti e conflitti apparentemente distanti. A Taranto, oggi, la giustizia ambientale non si limita a una critica esterna, etica o testimoniale. Entra nel merito della contesa, rivendica spazio decisionale, ambisce a determinare l’esito del confronto. > Il punto di forza della mobilitazione è la capacità di tenere insieme una > direzione strategica chiara – la chiusura delle fonti inquinanti – con parole > d’ordine flessibili, capaci di tradursi in obiettivi intermedi – che > prefigurano e anticipano l’obiettivo finale. Il rifiuto dell’attuale accordo di programma può rappresentare una di queste: una piattaforma in grado di tenere dentro posizioni diverse, anche parziali, accomunate dalla volontà di superare l’attuale modello produttivo. È una postura che non si limita a commentare dall’esterno. Segnala un metodo di intervento politico. La piazza dimostra che le decisioni non sono blindate neanche quando sono presentate come tali. Che gli atti istituzionali sono contendibili. Che la mobilitazione può modificare il corso delle cose. LA CONTESA È APERTA Il 14 luglio, per la città, è uno snodo carico di tensione simbolica. Evocare la presa della Bastiglia fa sorridere, per ora. Ma Taranto, città di tumulti profondi, ha più volte mostrato che la storia può riaprirsi anche quando sembra bloccata. Anche stavolta, la faglia è netta: da un lato chi difende la continuità produttiva; dall’altro chi prova a praticare una discontinuità sociale e politica ad ampio spettro. Un dettaglio racconta bene il momento. Ogni sera, dal Castello Aragonese, l’inno nazionale viene diffuso dagli altoparlanti. Il 14 luglio, per un attimo, ha coperto le voci della piazza. L’effetto è straniante. Ma poi la piazza ha ripreso ritmo e voce. È l’immagine plastica dello scontro in corso: da una parte il dispositivo nazionale – governo, ministeri, apparati – impegnato a garantire la continuità produttiva a ogni costo. Dall’altra, una città che non accetta l’accordo e prova a riscrivere le condizioni del presente. L’accordo di programma, se osservato dal cuore della piazza non è un mostro intoccabile. Non è nemmeno un elemento dato. È una tigre di carta: il contenuto è cambiato più volte. Può ancora essere ribaltato. I prossimi giorni saranno decisivi. Il 16 e il 21 luglio sono già stati convocati nuovi appuntamenti pubblici. Il 30 si riunisce il Consiglio comunale. La contesa è aperta. E si può ancora vincere. Immaginare l’accordo come una tavolozza bianca, più che come un testo da emendare, è un utile esercizio collettivo. Significa non limitarsi a migliorare ciò che propone il governo, ma pretendere di definire nel complesso le condizioni, la cornice, il futuro della città. Lo scenario della chiusura delle fonti inquinanti – per la prima volta – è percepito come una possibilità concreta. È un’immagine che suggestiona. Può essere allo stesso tempo affascinante e drammatica. Può ridefinire il futuro di Taranto su coordinate radicalmente diverse. Ma non accadrà senza l’energia che è tornata in circolo. Il tempo – almeno per ora – lo ha conquistato la piazza. Ora si tratta di usarlo con intelligenza collettiva e coraggio. L’immagine di copertina è di DimiTalen, da wikicommon SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress si può donare sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo Il tempo della piazza. A Taranto si riapre la partita sull’ex Ilva proviene da DINAMOpress.
VICENZA: SGOMBERO A CA’ ALTE, NON SI FERMA LA LOTTA PER LA DIFESA DEL VERDE E CONTRO IL TAV
L’Italia continua a essere martoriata dalle grandi opere inutili, che devastano il nostro territorio, cementificando senza sosta, nonostante l’evidenza della crisi climatica. A Vicenza, le forze dell’ordine hanno iniziato lo sgombero del bosco di Ca’ Alte, rimuovendo attivisti e attiviste che si erano incatenati davanti ai cancelli d’accesso in difesa di quel prezioso spazio verde. Il bosco, infatti, rischia di essere distrutto per fare posto ai lavori per il Tav. In via Maganza, cresce il numero di persone che partecipano al presidio di solidarietà, una mobilitazione spontanea animata dai residenti e che accoglie anche chi è stato allontanato dal cancello. Nonostante le difficoltà, all’interno del bosco continua la loro lotta per difendere e preservare i boschi liberati come racconta, ai microfoni di Radio Onda d’Urto, Marco del centro sociale Bocciodromo di Vicenza. Ascolta o scarica
APPELLO PER LA SALVAGUARDIA E LA RIGENERAZIONE DEI PAESI
Il 9 aprile scorso la Cabina di regia, istituita presso il Dipartimento per le politiche di coesione e per il Sud della Presidenza del Consiglio, ha approvato il Piano Strategico Nazionale delle Aree Interne. Lo ha fatto senza una … Leggi tutto L'articolo APPELLO PER LA SALVAGUARDIA E LA RIGENERAZIONE DEI PAESI sembra essere il primo su La Città invisibile | perUnaltracittà | Firenze.