
La marcia indietro della Cop 30
Jacobin Italia - Thursday, November 13, 2025
Articolo di Salvatore Cannavò«Dobbiamo procedere molto, molto più velocemente, sia in termini di riduzione delle emissioni che di rafforzamento della resilienza» dice Simon Stiell, Segretario esecutivo delle Nazioni unite sui cambiamenti climatici, all’apertura del 30° Summit mondiale sul clima (Cop30). Il presidente brasiliano, Luiz Inácio Lula da Silva, paese che ospita il vertice, nel suo discorso di benvenuto ha attaccato indirettamente Donald Trump, affermando che «nell’era della disinformazione, gli oscurantisti rifiutano non solo le prove scientifiche, ma anche i progressi del multilateralismo. Controllano gli algoritmi, seminano odio e diffondono paura. […] È tempo di infliggere un’altra sconfitta al negazionismo».
I due interventi sembravano risentire delle catastrofi climatiche che nelle ultime settimane hanno colpito duramente diversi paesi dell’area. Stiell ha fatto riferimento al recente uragano Melissa, che ha devastato i Caraibi alla fine di ottobre, mentre il Brasile è stato recentemente colpito da un tornado che ha devastato l’80% di Rio Bonito do Iguaçu, una città di 14.000 abitanti nello stato del Paraná facendo almeno sei morti e 750 feriti.
Nella stessa direzione l’intervento della negoziatrice giamaicana UnaMay Gordon,secondo la quale «dopo Melissa, la Giamaica è diventata il simbolo globale della devastazione climatica. Belém deve quindi dimostrare al mondo di essere un simbolo di azione per il clima. Sono qui per chiedere chi ne sia responsabile e chi debba pagare». E nella stessa conferenza stampa, Toiata Apelu-Uili, dell’Alleanza dei piccoli Stati insulari (che rappresenta le isole più povere del mondo), ha sottolineato che «il costo dell’inazione si misura in vite umane perse». Rispettare l’obiettivo di riscaldamento globale di 1,5°C, come stabilito dall’accordo di Parigi, «non è uno slogan politico da sbandierare indiscriminatamente. È un’ancora di salvezza per la nostra gente e le nostre piccole isole». Ma si tratta di petizioni di principio o queste invocazioni hanno una qualche speranza di essere realizzate o per lo meno messe rigorosamente in agenda di questo trentesimo vertice? Il luogo di elezione, Belem, l’Amazzonia, è simbolicamente potente, un fallimento qui sarebbe l’ammissione di un’incapacità congenita di questo assetto mondiale a perseguire, sia pure timidamente, gli obiettivi che proprio dieci anni fa, a Parigi, indicarono una strada che allora sembrava obbligata. Ma la Cop30 non può far finta di non vedere che tra le sedie dei paesi negoziatori quella del paese più importante e potente, gli Stati uniti, resterà vuota. Si sta parlando del principale produttore mondiale di petrolio e gas che ha annunciato il ritiro dall’accordo di Parigi per il 2026 e il cui presidente, Donald Trump, ritiene di aver vinto «la guerra contro la bufala del cambiamento climatico».
Ancora più recentemente Trump si è distinto per il fallimento dell’accordo sulla riduzione
dell’inquinamento nel trasporto marittimo nonostante, anzi proprio perché, un centinaio di paesi avevano raggiunto un accordo per adottare un piano, negoziato sotto l’egida delle Nazioni unite, per limitarne gli effetti devastanti. Come ha riportato il New York Times «gli Stati uniti hanno lanciato una campagna di pressione che i funzionari di tutto il mondo hanno definito straordinaria. A un ambasciatore asiatico è stato comunicato che, se avesse votato a favore del piano, ai marinai del suo paese non sarebbe più stato permesso di sbarcare nei porti americani. Ai diplomatici caraibici è stato comunicato che avrebbero potuto essere inseriti in una lista nera per entrare negli Stati uniti. E Marco Rubio, il Segretario di Stato, ha contattato personalmente i funzionari di diversi paesi per minacciare sanzioni pecuniarie». L’amministrazione Trump, di fatto, si è scatenata quando ha scoperto il progetto, che riteneva contrario agli interessi americani, e l’accordo è fallito.
Del resto, fin dall’inizio del suo secondo mandato, Trump ha smantellato l’Agenzia per la Protezione Ambientale, ha eliminato tutti i sussidi per le energie rinnovabili, arrivando persino a rinviare i progetti di parchi eolici, che considera «orribili». Anche il sostegno ai veicoli elettrici è stato cancellato. L’azione della sua Amministrazione è ormai orientata all’insegna del motto «drill, baby, drill» (orribile, tra l’altro, anche sul piano semantico), quindi perforazioni senza alcun limite. I produttori di gas di scisto, petrolio e carbone hanno licenze assolute per portare avanti i loro progetti, le normative ambientali sono revocate. A ostacolare i progetti di Trump c’è solo il prezzo, basso, del petrolio: con 60 dollari al barile e prezzi del gas a 4 dollari per milione di Btu (British Thermal Unit) i progetti non sono sufficientemente redditizi e al momento non bastano gli impegni estorti a Unione europea e Giappone ad acquistare gas e petrolio statunitensi.
Il fatto è che Trump sta semplicemente realizzando ciò che le grandi compagnie energetiche e petrolifere hanno iniziato a fare già dal 2023-2024: resettare i loro investimenti in fonti rinnovabili e «green» e tornare di gran corsa a investire in gas e petrolio complice la ridiscesa dei prezzi dopo la fiammata dovuta alla guerra ucraina. BP, ad esempio, che si era fatta paladina di una strategia a basse emissioni di carbonio, ha compiuto una radicale inversione di tendenza nel 2023 annunciando, invece di una riduzione del 40% delle emissioni entro il 2030, solo una riduzione del 25%. Nella stessa direzione vanno compagnie come Shell o Exxon e in Italia l’Eni. Non è più tempo di investimenti «verdi», come è evidente anche dal cambio di strategia dell’Unione europea sulla spinta delle grandi aziende e delle confindustrie europee che chiedono di uscire dalla «follia green» che aveva caratterizzato gli ultimi anni.
Nel 2017, il presidente di BlackRock, il più grande gestore patrimoniale al mondo, ha inviato una lettera a tutti gli azionisti in cui indicava una linea ambientalista. Sei anni dopo, ha fatto marcia indietro su tutte le sue promesse: l’ambiente non è abbastanza redditizio. Ovunque, la finanza verde sembra aver fatto marcia indietro. Secondo i dati del Wall Street Journal, altri sei fondi hanno eliminato ogni riferimento agli standard Esg (Environmental, Social, and Governance) e hanno deciso di orientarsi verso investimenti molto più convenzionali.
Il segno di questa svolta, quello simbolicamente più rilevante, può essere rintracciato in Bill, il fondatore di Microsoft che si era speso per la lotta al cambiamento climatico, che nel suo messaggio di fine ottobre frena decisamente sugli allarmi del passato: «C’è una visione apocalittica del cambiamento climatico che recita più o meno così: tra pochi decenni, un cambiamento climatico catastrofico decimerà la civiltà. Le prove sono ovunque: basta guardare le ondate di calore e le tempeste causate dall’aumento delle temperature globali. Nulla è più importante che limitare l’aumento della temperatura. Fortunatamente per tutti noi, questa visione è sbagliata. Sebbene il cambiamento climatico avrà gravi conseguenze, in particolare per le popolazioni dei paesi più poveri, non porterà alla fine dell’umanità». Insomma, si può attendere.
L’Unione europea
Alla politica di Trump dovrebbe fare da contraltare l’Unione europea che ha redatto il proprio documento di partecipazione alla Cop30 in estremo ritardo e con evidenti contraddizioni interne. La Ue «ribadisce l’appello ad abbandonare gradualmente i combustibili fossili nei sistemi energetici» ma chiede di farlo «in modo giusto, ordinato ed equo», in linea con percorsi verso il valore di 1,5 °C, ma chiede l’eliminazione «graduale» delle delle sovvenzioni ai combustibili fossili e comunque con un impegno minore per gli Stati membri che si traduce nella decisione di considerare l’obiettivo della riduzione delle emissioni del 90% entro il 2040 come composto dall’85% per quanto riguarda direttamente i progressi europei e dal 5% come acquisto di crediti internazionali di carbonio. Un espediente, insomma, per conciliare la linea dell’impegno ecologico con le domande pressanti dell’industria europea, in particolare quella automobilistica che ha già puntato l’obiettivo del 2035 per la fine della produzione di auto a motore endotermico, sperando di farlo slittare più avanti. Ma ci sono anche le lobby agricole, chimiche e finanziarie che lavorano per la cancellazione dei progetti ambientali supportate da quasi tutti i partiti europei di estrema destra e contrastati molto debolmente dalle forze socialdemocratiche.
Il cavallo di Troia per smantellare il Green Deal euoropeo, già ampiamente rivisto, è la nuova strategia di riarmo che spinge per un balzo della produzione militare, soprattutto in chiave dual use che comporta una forte limitazione dei parametri ambientali. Il fondo sovrano norvegese, per esempio, ha annunciato di aver abbandonato alcuni dei suoi criteri sociali e ambientali per evitare di essere costretto a vendere parte delle sue partecipazioni high-tech. La spinta statunitense, la minaccia dei dazi, la necessità di stare al passo con una concorrenza spietata, ha reso le élites europee sempre meno inclini ad avventurarsi nel campo della rigenerazione ambientale soprattutto in tema di rinnovabili. Solo che a Belém non servono palliativi, se è vero che secondo l’Organizzazione meteorologica mondiale le emissioni di gas serra, che contribuiscono al riscaldamento globale, hanno raggiunto un livello record nel 2025.
Cina e Asia
Si può sperare nella Cina? Il paese ha inviato una ricca delegazione in Brasile e Lula rappresenta uno dei suoi principali alleati, facendo entrambi parte del sistema dei Brics, i paesi del Sud globale che provano a fissare agenda e politiche comune distinte e spesso alternative all’agenda del G7. Il vicepresidente cinese Ding Xuexiang ha sostenuto il multilateralismo e la cooperazione internazionale per combattere il cambiamento climatico. «La Cina è un paese che mantiene le promesse», ha insistito, sottolineando che il suo paese, il secondo maggior emettitore di CO₂ al mondo, ha adottato un piano quinquennale per ridurre l’uso del carbone e rafforzare la propria sicurezza ambientale. In effetti, le linee guida elaborate dall’ultimo plenum del Comitato centrale del Pcc, che ha redatto il nuovo piano quinquennale 2025-2030, sono fortemente ancorate all’innovazione tecnologica e allo sviluppo delle energie rinnovabili. La Cina sta facendo passi inediti in questo senso con 447 gigawatt di potenza degli impianti fotovoltaici che rappresentano il 48,4% di quella mondiale, mentre i 444 dell’eolico coprono il 44,2% della capacità totale. E nel corso del 2025 per la prima volta in assenza di una crisi economia Pechino ha ridotto le emissioni di CO2 nell’ambito della sua strategia finalizzata ad acquistare autonomia e competitività tecnologica ed energetica. Le emissioni cinesi sono in calo ormai da oltre un anno, dopo il picco raggiunto nel 2024, cosa che era già successa altre quattro volte negli ultimi 20 anni , ma questa è la prima volta che la causa è la crescita delle energie pulite, e non più una crisi economica dice l’autore.
Lula e Petrobras
Quello che invece presenta la maggior contraddizione è proprio il Brasile di Lula. Pochi giorni prima del discorso che ha dato via ai lavori della Cop30, discorso contro il «negazionismo» e assertore della strada degli impegni comuni a livello mondiale, il Brasile concedeva alla compagnia energetica Petrobras il permesso di trivellare alla foce del Rio delle Amazzoni. Da un lato Lula ha chiesto l’elaborazione di «roadmap» per l’eliminazione graduale dei combustibili fossili, dall’altro si è dovuto piegare alle solide ragioni dell’industria più aggressiva. Come denuncia la Via Campesina, «l’agroindustria sta trasformando il Brasile nel principale esportatore mondiale di carne e mangimi. Tutte le principali aziende alimentari e agroalimentari globali hanno ricavato enormi profitti da questo boom, compresi alcuni giganti locali come quello della lavorazione della carne Jbs. La combinazione di deforestazione, allevamenti intensivi di bestiame e campi inondati di pesticidi e fertilizzanti ha reso il Brasile un simbolo globale della distruzione climatica».
L’agroindustria mantiene una presa salda sullo Stato brasiliano, afferma ancora il movimento contadino ed ecologico nato anche dall’impulso del Movimento sem terra (Mst) brasiliano, sia sotto governi di sinistra che di destra, con Lula o Bolsonaro. Non sorprende quindi che la Cop di quest’anno si stia configurando come un monumentale esercizio di greenwashing agricolo. Il segnale viene inviato esplicitamente da Marina Silva, ministra dell’Ambiente del governo Lula, storica ecologista e impegnata soprattutto per la difesa dell’Amazzonia, che in un’intervista al quotidiano brasiliano O Globo, ha detto: «Non è possibile abbandonare i combustibili fossili per decreto perché ciò provocherebbe un collasso energetico globale».
La sfida è dunque molto impervia e incerta. Il 4 novembre, l’Onu ha calcolato che le roadmap dei paesi potrebbero ridurre le emissioni solo del 17% entro il 2035 rispetto al 2019, mentre limitare il riscaldamento globale a 1,5 °C richiede una riduzione del 60% delle nostre emissioni di carbonio, cosa che al momento non sta avvenendo. Un aggiornamento pubblicato il 10 novembre, che incorpora gli ultimi piani climatici annunciati, come quelli dell’Ue e della Cina, abbassa questa cifra, già bassa, al 12%.
I movimenti popolari
Alla Cop30, ovviamente, si guarderà anche alle iniziative, azioni e dibattiti dei movimenti sociali e popolari, coalizioni, collettivi, reti e organizzazioni riuniti nella Cúpula de los Pueblos come spazio autonomo. Questa si è presentata mercoledì 12 novembre con l’unione di oltre 200 imbarcazioni, tra canoe, barche e navi, con a bordo circa 5.000 persone di movimenti popolari provenienti da 62 paesi. Con un’agenda «socioambientale, antipatriarcale, anticapitalista, anticolonialista, antirazzista e dei diritti», le centinaia di associazioni denunciano la messa a rischio dell’obiettivo di riduzione dell’1,5 °C dell’Accordo di Parigi e insistono sulla necessità di «rivedere il modello economico attuale ed eliminare la produzione e la combustione di combustibili fossili, responsabili di oltre i due terzi delle emissioni che causano il riscaldamento globale, nonché attuare politiche per la deforestazione zero».
«È fondamentale che si realizzi una transizione giusta, popolare e inclusiva; il diritto alla terra e al territorio attraverso la riforma urbana, agraria e fondiaria; la demarcazione, la titolarizzazione e la regolarizzazione dei territori indigeni, quilomboli, dei pescatori e tradizionali; l’istituzione di sistemi alimentari incentrati sulla sovranità alimentare, con la promozione dell’agroecologia, della valorizzazione della produzione familiare, contadina e della pesca artigianale, dell’economia indigena, solidale e femminista; il riconoscimento della natura come soggetto di diritti; la protezione delle aree oceaniche, delle terre rare e marine; la protezione della biodiversità; la creazione di lavoro dignitoso, occupazione e reddito e di politiche di assistenza; il consolidamento del diritto alla città con politiche urbane e ambientali; l’attuazione di politiche specifiche per le persone colpite dai cambiamenti climatici; l’accesso all’acqua potabile e ai servizi igienico-sanitari di base; la prevenzione e l’adattamento ai cambiamenti climatici, in particolare nelle periferie urbane e nei territori indigeni e tradizionali; l’eliminazione del razzismo ambientale e strutturale e della violenza contro le donne e le ragazze, delle diverse culture e visioni del mondo; la promozione della libertà di comunicazione e della diversità culturale; politiche per i giovani neri; e misure di riparazione e democratizzazione del finanziamento equo per il clima, al di fuori del mercato del carbonio e dell’indebitamento, con la strutturazione dei fondi e la governance da parte delle comunità». Il 15 novembre si terrà la Marcia Unificata, durante la quale popoli indigeni, comunità quilombolas, giovani, lavoratori urbani e rurali, organizzazioni femministe, collettivi ambientalisti, sindacati e reti internazionali ribadiranno nelle strade di Belém che la giustizia climatica è direttamente legata alla difesa della vita e dei territori.
*Salvatore Cannavò, già vicedirettore de Il Fatto quotidiano e direttore editoriale di Edizioni Alegre, è autore tra l’altro di Mutualismo, ritorno al futuro per la sinistra (Alegre, 2018) e Si fa presto a dire sinistra (Piemme, 2023).
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