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Fosse comuni di massa a Gaza: Hamas sollecita un’azione globale
Gaza. Hamas ha esortato i tribunali internazionali e gli organismi competenti a perseguire i responsabili dopo che un’indagine ha rivelato che le forze israeliane hanno spianato con bulldozer i corpi di palestinesi in cerca di aiuti e li hanno sepolti in fosse poco profonde a Gaza. Il gruppo con base a Gaza, in una dichiarazione di mercoledì, ha invitato in particolare la Corte penale internazionale (CPI) e la Corte internazionale di giustizia (CIG) a seguire il caso di tale crimine efferato, includerlo nei rapporti che documentano i crimini del regime di Tel Aviv e portare i leader israeliani davanti alla giustizia per i loro delitti contro i palestinesi nella Striscia di Gaza. Hamas ha osservato che l’indagine della CNN, intitolata “Bulldozed corpses and unmarked graves” (“Corpi spianati e fosse comuni senza nome”), fornisce nuove prove documentate di uno degli aspetti del genocidio sistematico di Israele contro i palestinesi e offre ulteriori conferme del suo “tentativo deliberato di trasformare gli aiuti in trappole di morte di massa”. Il movimento di resistenza ha affermato che il crimine “orrendo” è parte dei crimini di guerra e degli attacchi sistematici che Israele sta perpetrando sotto gli occhi della comunità internazionale, con totale disprezzo per il diritto internazionale e i più basilari principi dei diritti umani. Hamas ha sottolineato che queste atrocità avvengono con la complicità dell’amministrazione statunitense e di alcuni governi occidentali, insieme ai tentativi di ostacolare il perseguimento internazionale dei criminali di guerra israeliani, in particolare il primo ministro Benjamin Netanyahu. Più di 2.000 palestinesi risultano uccisi nel 2025 mentre aspettavano di ricevere aiuti dalla cosiddetta Gaza Humanitarian Foundation, gestita congiuntamente dagli Stati Uniti e da Israele. Il rapporto della CNN, basato su analisi video, immagini satellitari e testimonianze di ex soldati, evidenzia che Israele ha commesso violazioni sistematiche del diritto umanitario internazionale a Gaza. L’indagine rivela la sorte dei palestinesi scomparsi mentre cercavano di raggiungere i convogli umanitari nel nord di Gaza. I sopravvissuti e le famiglie dei dispersi hanno raccontato momenti caotici segnati da spari indiscriminati delle forze israeliane, mentre i civili disperati si affrettavano a procurarsi del cibo. A giugno, Ammar Wadi, un giovane palestinese, aveva lasciato la sua casa in cerca di farina e non è più tornato. Settimane dopo, sul suo telefono è stato trovato un ultimo messaggio alla madre, che diceva: “Perdonami se succede qualcosa”. La sua sorte resta ignota e il suo corpo non è stato ancora recuperato. Filmati video, geolocalizzati nell’area di Zikim, mostrano diversi corpi in decomposizione, alcuni parzialmente sepolti, vicino a un camion di aiuti ribaltato. Si sono osservati cani che rovistavano tra i resti, mentre le immagini satellitari mostrano attività di bulldozer nell’area sia durante che dopo gli incidenti. Le squadre della difesa civile hanno riferito che numerosi corpi non hanno potuto essere recuperati a causa dei continui attacchi israeliani. Un ex soldato israeliano ha raccontato alla CNN che la sua unità aveva sepolto nove palestinesi disarmati senza contrassegnare le tombe né documentarne l’identità con fotografie. Ha descritto come l’odore della decomposizione diventasse insopportabile mentre i cani rovistavano tra i resti. Euro-Med Human Rights Monitor ha documentato tali pratiche attraverso un programma sistematico che utilizza indagini sul campo nel nord e nel sud della Striscia di Gaza. I rapporti sul campo dell’organizzazione indicano che le forze israeliane hanno spesso seppellito corpi palestinesi in spazi pubblici, aree aperte e luoghi vicini a strutture critiche come centri di distribuzione degli aiuti, ospedali e scuole. Queste operazioni venivano spesso condotte dopo che le aree erano state militarmente isolate, con accesso negato a squadre mediche, famiglie e residenti locali. Il gruppo con sede a Ginevra ha sottolineato che questa pratica elimina potenziali prove di uccisioni illegali, ostacola indagini approfondite e nega alle famiglie il diritto di conoscere il destino e il luogo di sepoltura dei loro cari, violando ulteriormente la dignità umana e il diritto internazionale. (Fonti: PressTV, PIC, Quds News, Euro-Med Monitor).
ONU: il maltempo e la crisi idrica aggravano le già terribili condizioni umanitarie di Gaza
Gaza – PIC. Jonathan Veitch, rappresentante speciale dell’UNICEF in Palestina, ha descritto la situazione nella Striscia di Gaza come “devastante”, osservando che il freddo e il maltempo stanno colpendo famiglie che già vivono in condizioni estremamente difficili. “La situazione a Gaza è devastante mentre il freddo e le forti piogge continuano a colpire famiglie che vivono in condizioni estremamente difficili”, ha detto Veitch in dichiarazioni rilasciate martedì. “Anche con il cessate il fuoco, la vita quotidiana rimane incredibilmente difficile per i bambini nella Striscia di Gaza”, ha affermato il funzionario dell’UNICEF. “Le tende finanziate dagli aiuti del Regno Unito sono ora entrate a Gaza e forniranno rifugi urgentemente necessari per aiutare le famiglie ad affrontare il rigido inverno. Ma serve molto di più”, ha aggiunto. Da parte sua, il Relatore speciale delle Nazioni Unite sul diritto all’acqua potabile sicura e ai servizi igienico-sanitari, Pedro Arrojo, ha avvertito di un’imminente catastrofe umanitaria nella Striscia di Gaza, osservando che l’esercito israeliano ha distrutto quasi il 90 percento delle strutture idriche dall’inizio della guerra contro l’enclave. In una recente dichiarazione, Arrojo ha accusato l’esercito israeliano di usare la sete come arma contro i residenti di Gaza, prendendo di mira le infrastrutture idriche e bloccando l’ingresso del carburante necessario per far funzionare pozzi e impianti di desalinizzazione. L’esperto ONU ha sottolineato che l’acqua potabile contaminata rappresenta una minaccia diretta per migliaia di famiglie di Gaza, in un contesto di crescenti timori di epidemie di colera e altre malattie mortali a causa della mancanza di acqua sicura.
UNIONE EUROPEA: SOSPETTI DI FRODE AL COLLEGIO D’EUROPA, FERMATA LA RETTRICE FEDERICA MOGHERINI
Terremoto nelle Istituzioni Europee con il fermo della rettrice del Collegio d’Europa di Bruges, Federica Mogherini, ex alto rappresentante per la politica estera dell’Unione Europea ed ex Ministra degli Esteri nel governo guidato da Matteo Renzi, nel 2014. Il fermo, che deve essere convalditato entro 48 ore, arriva per presunte irregolarità nell’assegnazione da parte del Servizio Europeo per l’Azione Esterna di un programma di formazione finanziato dall’Unione Europea. Insieme a lei fermati anche Stefano Sannino, 65emme, diplomatico italiano ex segretario generale del Servizio Europeo per l’Azione Esterna ed un manager del Collegio. I reati ipotizzati sono turbativa e frode in appalti pubblici, corruzione, conflitto di interessi e violazione del segreto professionale. Per il fermo di Mogherini e di Sannino, che potrebbe tramutarsi in arresto, la magistratura ha chiesto ed ottenuto la rimozione dell’immunità diplomatica. Da Buxelles il collegamento con Federico Baccini, corrispondente dalla capitale belga per l’Osservatorio Balcani e Caucaso. Ascolta o scarica
Leva militare e militarizzazione: l’Europa di fronte a nuove sfide
Sul finire degli anni Ottanta del secolo scorso, con il crollo del Muro di Berlino e lo sgretolamento del Patto di Varsavia, NATO, USA e Europa capirono che si stavano aprendo enormi spazi per la loro egemonia economica e militare. Nell’arco di pochi anni la NATO iniziò ad espandersi nell’est e nel Nord Europa, iniziava allora quella che venne stupidamente definitiva “una nuova era di pace“, visto che un decennio dopo l’Occidente capitalista scatena conflitti con milioni di morti. In quel contesto storico la leva era un ferro vecchio del secolo precedente, serviva un esercito di professionisti, meno numeroso ma operativo per interventi in varie parti del Globo. E fu così che tanti Paesi decisero di archiviare la leva obbligatoria, congelandola in attesa degli eventi. Il conflitto tra Russia ed Ucraina ci riporta indietro nel tempo ed è indubbio che soffino venti di guerra visto che la Bundeswehr (forze armate tedesche) ha redatto un corposo documento reso pubblico nei giorni scorsi ipotizzando nei minimi particolari lo scontro con la Russia. Il Wall Street Journal ha parlato di questo documento e c’è un passaggio, riportato anche da Il Fatto Quotidiano in un articolo pubblicato nell’edizione del 29 novembre, in cui si parla della necessità di spostare fino a 800 mila soldati NATO verso il confine Russia. Solo questo spostamento comporta una rete ferrovia, stradale, dei porti e degli aeroporti funzionanti, una rete logistica e infrastrutturale da ammodernare per scopi di guerra. Al posto della manutenzione dei territori abbiamo un piano di logistica con investimenti straordinari, ecco un esempio pratico di come si sta facendo strada (letteralmente) quella che definiamo economia di guerra. Logiche e strategie da Guerra fredda, un intervento indispensabile perchè innumerevoli vie di comunicazioni non sono adeguate al trasporto di armi e la rete ferroviaria da tempo necessita di investimenti e ammodernamenti. Se qualcuno ironizzava sulle dichiarazioni di Crosetto riguardo al pericolo di attacchi ibridi presto dovrà ricredersi  visto che sta per arrivare in Parlamento un disegno di legge per soldati volontari. Non si parla ancora di leva obbligatoria, ma per trovare un numero congruo di soldati le strade sono molteplici e al fine di invogliare i giovani a scegliere la via militare interverranno sulle condizioni lavorative e previdenziali. Ad esempio, i militari potrebbero beneficiare di scivoli e aiuti per una uscita anticipata dal mondo del lavoro facendo pesare più di ogni altra categoria i contributi versati. Ad esempio, 30 anni di servizio militare potrebbero essere equiparati a 43 anni di contributi per arrivare alla pensione con un elevato assegno pur avendo dieci e oltre anni di contributi versati in meno. E sempre nei mesi scorsi avevano parlato di welfare e piano casa per i militari, di buste paga maggiorate, tutte ipotesi ancora al vaglio del Governo La questione va quindi affrontata nella sua complessità perchè una lettura di questi fatti non potrà essere parziale, non basta parlare di enorme flusso di denaro dal civile e dal militare o genericamente di economia di guerra, dietro all’aumento degli effettivi  di celano innumerevoli scelte. In Germania hanno già reintrodotto la leva, volontaria, pronta a trasformarsi in obbligatoria, se non ci saranno i numeri previsti. In Francia hanno già pensato al servizio nazionale volontario a partire dal 2026, con dieci mesi di naia, il progetto prevede di arrivare entro 10 anni a 50 mila unità in aggiunta ai militari di professione veri e propri. Negli ultimi anni l’Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle università ha denunciato la presenza deli militari nelle scuole, il reclutamento ideologico, la esaltazione della vita in divisa, le scuole militari, i campi estivi organizzati dalle associazioni legate ai vari corpi armati, le Fondazioni culturali e scientifiche emanazioni di aziende militari, un sistematico lavoro di catalogazione che si è guadagnato il sarcasmo di chi non aveva contezza della realtà. La presenza di tanti militari aveva uno scopo ben preciso, perché lor signori hanno una marcia in più rispetto ai creduloni da social: essi leggono, studiano, hanno documenti strategici e si muovono in largo anticipo per preparare il terreno sul quale muoversi. Storicamente la presenza di militari nelle scuole ha sempre determinato la costruzione di un clima da guerra, di una cultura militarista, un po’ di letture sarebbero a portata di tutti. Quanto accade in Francia funge da modello anche per il nostro Paese. Se in Germania parlano esplicitamente di obbligatorietà della leva, in questi due Paesi ci si ferma, al momento, alla volontarietà. Tra poche settimane leggeremo quanto prevede il testo di legge, intanto la presenza di militari nelle scuole per il reclutamento futuro dei giovani avrà un ulteriore impulso. E se fino ad ora abbiamo parlato solo di Francia, Italia e Germania sarà il caso di sapere che in molti Paesi del Nord Europa sono ancora in piedi, dalla guerra fredda, dei sistemi di coscrizione parzialmente obbligatori, in diverse nazioni ci sono i volontari ma in caso di necessità le loro leggi nazionali prevedono la leva obbligatoria. In Polonia, il Paese che ad est è arrivato per primo al 5% del PIL per la spesa militare, esiste oltre un mese di addestramento base volontario a cui seguono periodi più lunghi di specializzazione. E per giustificare l’ennesimo processo di militarizzazione, per spianare la strada all’avvento generalizzato dell’economia di guerra si torna a parlare della urgente necessità per la UE di dotarsi di un esercito comune e ancor prima di un sistema militare che tenga insieme le imprese belliche del vecchio continente evitando che siano inglobate nel sistema statunitense. Gli scenari sono molteplici, il nostro impegno sarà quello di farli conoscere a chi sarà carne da macello per le prossime guerre, impresa ardua specie in tempi come i nostri. Federico Giusti, Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle università
Agadez, il limbo nel deserto: cinque anni di attesa e silenzio per i rifugiati intrappolati nel “centro umanitario”
Da oltre cinque anni, quasi duemila rifugiati e richiedenti asilo vivono intrappolati nel deserto del Niger, nel “centro umanitario” di Agadez. Sono persone fuggite da guerre, persecuzioni, violenze; persone che hanno attraversato confini dove hanno subìto abusi in Algeria e in Libia, che sono sopravvissute ai respingimenti e ai rastrellamenti, e che oggi si ritrovano abbandonate in un luogo che, più che un rifugio, somiglia a una prigione a cielo aperto. Una vicenda che come redazione seguiamo con attenzione dal novembre 2024, in contatto diretto con le persone che si trovano nel centro. L’appello pubblicato il 25 novembre scorso 1 ci offre l’occasione di continuare a tenere gli occhi aperti su Agadez e di rilanciare la loro voce: una voce stremata ma ostinata, che continua a chiedere solo ciò che dovrebbe essere garantito a chiunque – dignità, protezione, futuro. Agadez è distante quindici chilometri dalla città, isolato nel nulla. Il campo, costruito con fondi europei e italiani, si presenta come un progetto umanitario, ma chi lo abita lo descrive come un luogo di confinamento: tende consumate dal vento del deserto, prefabbricati che non proteggono né dal sole né dalle tempeste di sabbia, un accesso irregolare a servizi essenziali come acqua potabile, cure mediche, elettricità, istruzione. Dal 2025, perfino l’assistenza alimentare è stata ridotta: solo alcune categorie, considerate “vulnerabili”, ricevono ancora un sostegno regolare. Gli altri, quelli che l’UNHCR non ha inserito in liste di priorità, sopravvivono come possono. La protesta, iniziata il 22 settembre 2024, ha oltrepassato l’anno. Per mesi gli abitanti del campo hanno organizzato sit-in, marce, lettere aperte, scioperi della fame: sempre pacifici, sempre ignorati. Il loro slogan, «We don’t want to stay here», è un grido semplice e limpido: non chiedono privilegi, ma di essere liberati da un’attesa infinita che li consuma. La risposta delle autorità è stata troppo però spesso la criminalizzazione del dissenso. A marzo 2025 otto rappresentanti dei rifugiati sono stati arrestati durante una protesta. Sono stati rilasciati dopo dieci giorni, ma l’episodio ha lasciato un segno profondo: molti hanno perso lo status di protezione, altri vivono nella paura di subire la stessa sorte. Il “centro umanitario” di Agadez è un simbolo potente dell’esternalizzazione delle frontiere europee. Qui, nel cuore del deserto, si materializzano le contraddizioni di un sistema che, in nome della sicurezza e del controllo migratorio, preferisce trattenere le persone lontano dai propri confini – anche quando questo significa lasciarle vivere per anni in condizioni disumane. La retorica della “protezione internazionale” si sgretola davanti alla realtà: non si tratta di accoglienza, ma di sospensione della vita. Di un tempo morto imposto a uomini, donne, bambini che non hanno alcuna prospettiva di reinsediamento né possibilità di integrarsi nel Niger. L’appello chiede di ascoltare finalmente le loro voci, di riconoscere che quanto accade ad Agadez non è un’emergenza ma una scelta politica. Chiede che si aprano percorsi di reinsediamento reali, che si garantiscano condizioni minime di vita dignitosa, che si ponga fine a un sistema che confonde la gestione con l’abbandono. Chiede, soprattutto, di vedere i rifugiati per ciò che sono: persone che hanno perso tutto e che ora rischiano di perdere anche la speranza. Agadez non è un episodio isolato: è un ingranaggio di un meccanismo che sposta sempre più lontano la responsabilità, rendendo invisibili le vite che schiaccia. Raccontare ciò che accade nel deserto del Niger significa rompere un silenzio conveniente, riportare al centro ciò che troppo spesso resta ai margini: la dignità umana come principio non negoziabile. 1. Leggi l’appello sul blog di Davide Tommasin ↩︎
La Germania concede asilo agli asini di Gaza, rifiutando l’evacuazione medica per i bambini
Berlino – Quds News. La Germania avrebbe accolto e “salvato” degli asini dalla Striscia di Gaza, devastata dalla guerra, rifiutandosi di evacuare i bambini palestinesi feriti e malati per cure mediche, in una mossa che evidenzia come il Paese continui a voltare le spalle alla causa palestinese, pur sostenendo fermamente Israele. I media tedeschi hanno riferito la scorsa settimana che almeno otto asini di Gaza erano stati “salvati” e trasportati in Germania. “Si sono lasciati alle spalle fame e miseria, percosse e sfruttamento”, inizia così un quotidiano tedesco il suo articolo sul “salvataggio” degli asini, senza dire una parola che spieghi che Israele è responsabile delle loro sofferenze dopo due anni di genocidio. L’articolo osserva che gli asini, “considerando tutte le cose terribili che hanno vissuto, sono incredibilmente fiduciosi” e sono già “fioriti un po’”. Le notizie hanno suscitato indignazione sui social media, soprattutto perché la Germania si è rifiutata di portare bambini palestinesi feriti o malati da Gaza per cure mediche, sostenendo di aver dovuto ricorrere a “procedure complesse”. Le notizie hanno anche messo in luce paragoni tra la gestione del genocidio a Gaza da parte della Germania e la guerra in Ucraina, con oltre un milione di ucraini reinsediati in Germania da febbraio 2022. Per oltre due anni, la Germania ha sostenuto il genocidio israeliano a Gaza. Nell’ottobre 2023, ha aumentato le esportazioni di armi verso Israele, diventando il secondo fornitore di armi di Israele dopo gli Stati Uniti e definendo il genocidio come “autodifesa”. Nonostante l’accordo di cessate il fuoco firmato il mese scorso, il sistema sanitario a Gaza è rimasto in crisi a causa del blocco israeliano, con circa solo il 50% degli ospedali parzialmente funzionanti, carenze croniche di medicinali e attrezzature e 229 farmaci essenziali completamente indisponibili, secondo il Ministero della Salute palestinese. Ci sono circa 15.000 pazienti che necessitano di evacuazioni mediche urgenti. Il dott. Mohammed Abu Salmiya, direttore dell’ospedale al-Shifa di Gaza, ha recentemente dichiarato che oltre 1.000 palestinesi bisognosi di cure mediche sono morti dall’inizio della guerra a causa delle continue restrizioni israeliane all’ingresso di forniture essenziali nella Striscia di Gaza. Ha aggiunto che dall’inizio della tregua, il 10 ottobre, solo il 10% delle forniture mediche necessarie ha raggiunto l’enclave assediata. Ha osservato che oltre 350.000 pazienti con patologie croniche necessitano urgentemente di farmaci. Nel frattempo, 22.000 palestinesi necessitano di cure all’estero, inclusi 18.000 che hanno completato tutte le pratiche necessarie per essere trasferiti fuori da Gaza. Tuttavia, la continua chiusura dei valichi da parte di Israele impedisce loro di viaggiare, ha affermato Salmiya. Ha sottolineato che donne e bambini sono tra i più vulnerabili. Medici Senza Frontiere (MSF) ha dichiarato lunedì che tra luglio 2024 e agosto 2025, almeno 740 pazienti sono morti in attesa dell’evacuazione. “Questa cifra è probabilmente molto più alta, poiché numerosi casi rimangono non documentati”.
ONU: Il genocidio a Gaza ha cancellato 69 anni di sviluppo e fatto crollare l’economia
Gaza – PIC. Un nuovo insieme di risultati delle Nazioni Unite ha rivelato un crollo catastrofico nello sviluppo e nell’economia di Gaza, avvertendo che il genocidio israeliano ha spazzato via quasi sette decenni di progressi e ha spinto il territorio sull’orlo della non-esistenza. Francesca Albanese, relatrice speciale dell’ONU sui diritti umani nei Territori palestinesi occupati, ha affermato che un nuovo rapporto delle Nazioni Unite mostra l’entità della distruzione scatenata dall’inizio del genocidio israeliano nell’ottobre 2023. Albanese ha scritto su X che la devastazione equivale al “peggior collasso economico mai registrato”, sottolineando: “Questa non è una guerra. È genocidio”. Il rapporto, pubblicato dalla Conferenza delle Nazioni Unite sul Commercio e lo Sviluppo (UNCTAD), conclude che 69 anni di progressi nello sviluppo umano sono stati cancellati, mentre sistemi sanitari, scuole, abitazioni, infrastrutture e persino reti bancarie sono stati distrutti. Secondo il riassunto pubblicato da Albanese, la devastazione “ha scatenato crisi economiche, umanitarie, ambientali e sociali consecutive, spingendo il Territorio palestinese occupato dal sotto-sviluppo alla rovina totale”. L’UNCTAD avverte che la ricostruzione di Gaza richiederà più di 70 miliardi di dollari e potrebbe richiedere decenni, un processo che lascerà la Striscia dipendente da un sostegno internazionale su larga scala e duraturo. Anche secondo le proiezioni più ottimistiche, crescita economica a due cifre e ingenti aiuti esterni, Gaza avrebbe comunque bisogno di molti decenni per riconquistare gli standard di vita di base che aveva prima dell’ottobre 2023. Il rapporto rileva anche che l’economia di Gaza si è ridotta dell’87% tra il 2023 e il 2024, facendo crollare il PIL pro capite a soli 161 dollari, una delle cifre più basse mai registrate a livello globale. Ogni pilastro essenziale di sopravvivenza, cibo, riparo e assistenza sanitaria, è collassato, spingendo Gaza verso quella che le Nazioni Unite descrivono come “la soglia del totale collasso”. L’UNCTAD sottolinea che la distruzione e il blocco hanno generato “una delle dieci peggiori crisi economiche al mondo dal 1960”. L’agenzia chiede un intervento internazionale immediato e su larga scala, che includa assistenza finanziaria coordinata, l’alleggerimento delle restrizioni alla circolazione e al commercio, la ripresa dei trasferimenti finanziari e l’introduzione di un programma di reddito di base d’emergenza che fornisca pagamenti mensili incondizionati a ogni persona a Gaza. Secondo il Ministero della Sanità di Gaza, le cui cifre l’ONU considera affidabili, almeno 69.756 palestinesi, per lo più donne e bambini, sono stati uccisi da attacchi aerei e operazioni terrestri israeliane. La distruzione dei quartieri e il collasso dei sistemi alimentari hanno prodotto carestia in diverse aree, mentre la distruzione sistematica ha innescato crisi economiche, umanitarie, ambientali e sociali sovrapposte. Il rapporto osserva inoltre che, sebbene la situazione nella Cisgiordania occupata non abbia ancora raggiunto lo stesso livello di devastazione, sta peggiorando rapidamente. L’accelerazione della violenza dei coloni, l’espansione degli insediamenti, le restrizioni al movimento dei lavoratori e le continue incursioni israeliane hanno provocato quella che l’ONU definisce “la peggiore recessione economica da quando è iniziata la raccolta dei dati nel 1972”. Diverse aree, tra cui al-Khalil/Hebron, rimangono sotto forte pressione a causa dell’espansione dei coloni e delle incursioni militari. UNCTAD sollecita un piano di salvataggio completo per evitare il collasso di Gaza e garantire che il territorio possa un giorno ricostruirsi e tornare a essere una società vivibile.
Trattare con i Talebani per “contrastare” i flussi migratori. Il vero volto della solidarietà europea
A fine ottobre la Commissione Europea ha scritto ai 27 Stati membri per esortarli ad accelerare i rimpatri e implementare gli accordi bilaterali con Paesi extra-Ue, anche con quelli che non rispettano il diritto umanitario, come l’Afghanistan. Una strategia brutale che getta una luce inquietante sugli aiuti umanitari che Bruxelles sta garantendo a Kabul. L’Unione Europea sta rispondendo con prontezza alle richieste delle Nazioni Unite e delle agenzie umanitarie di inviare aiuti all’Afghanistan alle prese con il freddo che avanza, catastrofi naturali, crisi economica e sospensione dei finanziamenti statunitensi. Ma è autentica solidarietà, generosa e disinteressata, o piuttosto un calcolato avvicinamento al governo talebano per convincerlo a riprendersi i “suoi” immigrati in Europa, in risposta alla sempre maggiore pressione delle forze di destra perché si liberino di questo “fardello”? Per provare a rispondere è utile fare un passo indietro e osservare come si sono mossi alcuni Stati europei in questi ultimi mesi. L’isolamento in cui il governo di fatto dell’Afghanistan è stato confinato con le sanzioni comminate nei confronti dei ministri talebani, che impediscono loro di viaggiare, dovrebbe rendergli impossibile incontrare funzionari di Paesi dell’Unione, tanto più in Europa. Invece la Germania già il 21 luglio non solo ha deportato a Kabul 81 migranti con il coordinamento dell’amministrazione talebana e l’aiuto del Qatar, ma ha persino invitato due rappresentanti diplomatici del governo talebano in Europa perché seguissero le pratiche dei respingimenti in futuro. E questi personaggi non sono stati trattati da funzionari con mansioni “tecniche”: sono stati riconosciuti come nuovi portavoce facenti funzioni consolari, dopo che i precedenti della vecchia Repubblica hanno dato le dimissioni proprio per protesta contro l’invito ai “nuovi” delegati. Si è così scavalcato di fatto ogni impegno al non riconoscimento del governo talebano che gli Stati europei e la stessa Germania continuano a ribadire come loro vincolo imperativo, prefigurando un cambio della politica europea nei confronti del governo de facto. La pensano così anche i Talebani, che infatti si sono affrettati a mettere in risalto il loro nuovo ruolo e a occupare tutti gli spazi resi disponibili in questo nuovo contesto, con grande rischio per gli emigrati e per le loro famiglie, perché ora tutta la documentazione relativa ai profughi che vivono in Germania e alle loro famiglie rimaste in Afghanistan è stata ceduta nelle loro mani. Questa decisione di Berlino ha creato un gravissimo precedente, che altri Stati europei si sono affrettati a seguire. Infatti già il 29 luglio funzionari svizzeri hanno chiesto al loro governo un dialogo diretto con i funzionari dell’Emirato islamico dell’Afghanistan per facilitare il processo di rimpatrio forzato dei richiedenti asilo afghani. Il 30 luglio anche la Svezia ha tentato di ricorrere alla burocrazia per rendere la vita difficile agli immigrati afghani e prepararne l’espulsione, dichiarando nulli i documenti di viaggio non regolari, unici documenti di cui sono in possesso i fuggitivi dall’Afghanistan. Intanto i Talebani hanno alzato il tiro: hanno informato la Svizzera che non avrebbero più accettato i rimpatri che non fossero stati firmati da esponenti del proprio governo, imponendo così di fatto i loro funzionari, tanto che il 23 agosto si sono recati a Ginevra per aiutare a identificare chi dovesse essere deportato in Afghanistan. Anche Vienna si è fatta avanti. A metà settembre una delegazione di cinque membri del Ministero degli Esteri talebano si è recata nella capitale austriaca per discutere le missioni diplomatiche e i servizi consolari ai cittadini afghani che vivono in Austria e in altri Paesi europei. Ma la tappa decisiva è stata l’istanza dei 19 Paesi europei che hanno sottoscritto il 19 ottobre di quest’anno una richiesta al Commissario Europeo per gli Affari interni e le migrazioni affinché venga facilitato il rimpatrio, volontario o forzato, dei cittadini extra-europei senza permesso di soggiorno o asilo, chiedendo quindi che le deportazioni siano trattate come una “responsabilità condivisa a livello dell’UE”. A sottoscrivere il documento sono stati i governi di Bulgaria, Cipro, Estonia, Finlandia, Germania, Grecia, Ungheria, Irlanda, Italia, Lituania, Lussemburgo, Malta, Austria, Polonia, Slovacchia, Svezia, Repubblica Ceca e Paesi Bassi. Si è poi aggiunta la Norvegia la quale, pur non essendo membro dell’UE, è un Paese Schengen. Questa stretta migratoria, se è molto grave perché rischia di ripercuotersi pesantemente su tutti i profughi rifugiatisi in Europa, ha una ricaduta ancora più inquietante quando i migranti presi di mira sono cittadini afghani, costretti a tornare a vivere sotto un regime dittatoriale e repressivo dal quale erano fuggiti spesso per salvare la pelle. Ma è ancor più grave per il risvolto internazionale che prefigura, perché si ripercuote sulle relazioni tra Europa e Afghanistan, facendo diventare il governo afghano protagonista di una trattativa che lo riconosce di fatto se non di diritto, secondo una scelta che sembra essere sempre più considerata necessaria anche dai Paesi occidentali, in quanto giustificata da esigenze pragmatiche. Infatti il respingimento degli afghani nel Paese di origine necessita dell’accordo con il governo dei Talebani, fondamentalista e gravemente persecutorio nei confronti delle donne, che nessuno al mondo tranne la Russia ha voluto finora riconoscere. Ma questo governo è disponibile a dare il suo consenso al rientro dei suoi concittadini solo in cambio di un avanzamento del suo posizionamento nel mondo verso il riconoscimento legale. Posizione che rimane sottotraccia nella richiesta di deportazione avanzata degli Stati europei. A estendere la nuova “linea politica” ci ha pensato la presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, inviando il 22 ottobre una lettera a tutti i 27 Stati dell’Unione per esortarli ad accelerare i rimpatri e implementare gli accordi bilaterali con i Paesi extra-Ue, anche con quelli che non rispettano il diritto umanitario, tipo l’Afghanistan. Quindi trattare con il governo talebano, aprendo al dialogo e ai suoi ambasciatori, riconoscendogli di fatto un ruolo ufficiale sebbene ciò contraddica le dichiarazioni che la stessa UE continua a proclamare, è la nuova strategia europea per “ridurre” l’immigrazione. La politica di dialogo dell’UE con il governo talebano è stata del resto ribadita anche dal nuovo rappresentante UE per l’Afghanistan, Gilles Bertrand, che appena eletto si è recato a Kabul per confermare direttamente ai Talebani l’intenzione dell’UE di portare avanti il processo di dialogo stabilito nell’ambito degli accordi di Doha 3 – quelli cioè che escludono qualsiasi trattativa sui diritti delle donne per far piacere ai Talebani – offrendo e chiedendo collaborazione a vari livelli. È quanto del resto ha ribadito il Parlamento Europeo nel suo ultimo comunicato in cui, mentre prende una decisa posizione contro l’apartheid di genere e denuncia le responsabilità dei Talebani, anziché proporre provvedimenti per isolarli stringe i legami attraverso viaggi in Afghanistan e contatti segreti tra diplomatici, giustamente denunciati da alcune deputate europee. In questa ottica, assume una luce più inquietante e interessata l’erogazione di aiuti umanitari che Bruxelles sta garantendo a Kabul sotto varie forme: non appare come un libero impegno dei Paesi europei democratici, solidali nei confronti del popolo afghano affamato, ma invece come un sostegno al governo talebano per avere in cambio la deportazione dei migranti afghani e agevolare il consenso dell’opinione pubblica europea sempre più xenofoba. L’articolo è stato pubblicato su Altreconomia, 18 novembre 2025   Anna Polo
Tunisia: il confine invisibile d’Europa
Detenzioni arbitrarie, deportazioni e cooperazione UE: come la strategia di esternalizzazione alimenta violenze e violazioni dei diritti delle persone migranti. La Tunisia è uno dei principali Paesi di transito, ma anche di destinazione, per persone migranti, rifugiati e richiedenti asilo, provenienti principalmente dall’Africa sub-sahariana. In passato, le condizioni di vita di rifugiati e migranti erano considerate generalmente migliori rispetto a quelle di altri Paesi, come ad esempio la Libia. Dal 2023, tuttavia, in seguito alla decisione del governo di adottare un approccio più duro, la situazione è nettamente peggiorata.  Kaïs Saïed è in carica dal 2019, ma è nel 2021 che, sospeso il parlamento, ha cominciato a governare per decreto, tanto da parlare di “iper-presidenzialismo”, in cui l’opposizione politica è praticamente assente.  In questa situazione, la questione migratoria viene utilizzata politicamente per compattare la nazione contro un nemico comune, fomentando il razzismo già presente nella società tunisina.  Il presidente, infatti, ha dichiarato che l’arrivo di «orde di migranti illegali» dall’Africa sub-sahariana fa parte di un «piano criminale per cambiare la composizione demografica» 1 della Tunisia. Come ha sottolineato l’antropologa Kenza Ben Azouz, «Incolpando la comunità subsahariana senza affrontare in modo sostanziale la questione migratoria, egli si aggrappa a una logica populista e opportunistica» 2, in accordo con le diffuse (soprattutto in Europa) narrative di una presunta “sostituzione etnica”. Inevitabilmente, questi commenti «danno legittimità a chiunque voglia attaccare una persona nera per strada» 3, denuncia Saadia Mosbah. Quest’ultima, presidente dell’associazione Mnemty, è stata arrestata nel maggio 2024 4, mentre l’associazione, impegnata nella lotta contro il razzismo, è stata sottoposta, insieme a molte altre organizzazioni per i diritti umani, a un mese di sospensione delle attività 5.  E infatti è stato documentato un incremento di violenza contro i migranti africani, tramite raid, arresti arbitrari e detenzioni, ma anche deportazioni di massa ai confini con Algeria e Libia. Le persone migranti vengono abbandonate senza cibo e acqua ed esposte al rischio di rapimenti, estorsioni, lavoro forzato, violenza sessuale e perfino morte 6. Nonostante i richiami e le ingiunzioni al governo da parte delle Nazioni Unite, affinché migliorasse il trattamento delle persone senza cittadinanza e mettesse fine alla retorica xenofoba, il trattamento discriminatorio e violento continua, così come la propaganda razzista.  Ad aprile 2025, ad esempio, le autorità hanno smantellato i campi vicino Sfax, che ospitavano circa 7000 migranti sub-sahariani, dando fuoco alle tende prima di arrestarli e deportarli  7. L’incremento di questo tipo di azioni, insieme alla detenzione di rappresentanti delle organizzazioni della società civile e alla retorica xenofoba, coincide con il crescente supporto dell’Unione Europea per quanto riguarda il controllo del confine e la gestione dei flussi migratori, che è a sua volta parte della più generale strategia di esternalizzazione del confine europeo.  Una tappa fondamentale nella costruzione delle relazioni UE-Tunisia è stata il Memorandum d’intesa firmato a luglio 2023 dal presidente tunisino Kais Saied, dalla presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen, dalla premier italiana Giorgia Meloni e dall’ex-premier olandese Mark Rutte. Grazie a questo accordo la Tunisia ha ottenuto 105 milioni di euro dedicati alla gestione dei confini e alla “lotta contro l’immigrazione illegale” 8, che hanno finanziato anche la Guardia Nazionale tunisina, la quale, secondo un’indagine del The Guardian, ha sottoposto centinaia di migranti a stupri, pestaggi e altri abusi 9.  L’ultimo rapporto di Global Detention Project (GDP) e Forum Tunisien pour les droits économiques et sociaux (FTDES) 10, pubblicato a ottobre, fa luce proprio sulla situazione attuale e sulle numerose problematiche legate alla detenzione di migranti, rifugiati e richiedenti asilo. L’utilizzo della detenzione per le persone in movimento è impiegato sistematicamente in Tunisia, anche se la legge tunisina non contiene disposizioni specifiche relative alla detenzione amministrativa per motivi di immigrazione o alla detenzione prima del rimpatrio. Il GDP e l’FTDES, infatti, hanno documentato ripetutamente l’uso di centri di detenzione informali nel Paese, nonostante l’assenza di qualsiasi base legale chiara per il loro funzionamento. Il Forum Tunisien pour les Droits Économiques et Sociaux (FTDES) è un’organizzazione tunisina indipendente, fondata nel 2011, che si occupa di difendere e promuovere i diritti economici, sociali e ambientali. Conduce ricerche, monitora politiche pubbliche e denuncia violazioni riguardanti lavoro, migrazioni, disuguaglianze regionali e giustizia sociale. È riconosciuto come una delle principali voci della società civile tunisina. Questi includono la struttura Al-Wardia, fuori Tunisi, e un’altra vicino a Ben Guerdane, utilizzata per raccogliere i migranti prima della loro deportazione in Libia. Sebbene le autorità designino alcuni siti come “centri di accoglienza e orientamento”, nella pratica essi funzionano come vere e proprie strutture di detenzione. Nel 2020, diverse organizzazioni, come Avocats Sans Frontières e Terre d’Asile Tunisie, hanno inviato degli avvocati al centro di Al-Wardia, i quali hanno riferito di essersi visti negare l’ingresso, confermando che per migranti all’interno non era possibile uscire 11. In seguito alle pressioni della società civile, 22 migranti sono stati rilasciati nel settembre dello stesso anno, ma le autorità hanno comunque continuato a trattenere i non-cittadini all’interno della struttura, compresi donne e bambini, nonostante manchino le basi legali per farlo 12.  Oltre a queste strutture, gli osservatori riportano anche l’uso di stazioni di polizia, sedi della polizia di frontiera e stazioni della polizia di frontiera aeroportuali e marittime per la detenzione di persone senza la cittadinanza tunisina. Rapporti attendibili indicano, inoltre, che un numero significativo di migranti subsahariani viene detenuto all’interno delle carceri del paese e nei “dépôts” (strutture di detenzione preventiva) a seguito della loro condanna per ingresso, soggiorno e uscita irregolari. Alcuni vengono trasferiti in centri di detenzione informali (senza autorizzazione giudiziaria), il che comporta sostanzialmente un allungamento significativo del periodo della loro reclusione 13. Pochi osservatori sono stati in grado di entrare in questi centri e quindi vi è una trasparenza molto limitata riguardo ciò che accade all’interno. Tuttavia, il GDP e l’FTDES hanno documentato in diversi rapporti le condizioni e i trattamenti che i non-cittadini, la maggior parte dei quali di origine subsahariana, devono affrontare durante la permanenza in queste strutture. Nel marzo 2023, France 24 ha pubblicato rapporti e foto dall’interno del centro Al-Wardia, che includono accuse di abusi fisici, grave sovraffollamento e spazio insufficiente per dormire 14. Gli osservatori riportano inoltre che i detenuti hanno difficoltà a contattare avvocati e interpreti, il che, combinato con il mancato obbligo delle autorità di informare i detenuti del loro diritto di fare ricorso, crea significative barriere all’accesso a qualsiasi forma di revisione giudiziaria significativa. A ciò si aggiunge che, poiché la legge tunisina non prevede la detenzione amministrativa, essa non contiene disposizioni riguardanti la durata massima della detenzione, lasciando i detenuti esposti al rischio di detenzione indefinita 15.  Persone migranti, rifugiati e richiedenti asilo detenuti nella struttura di Al-Wardia hanno inoltre segnalato violenze durante perquisizioni e arresti, trasferimenti verso altri siti non identificati e problemi, tra cui scarsa igiene, mancanza di cibo, confisca dei beni, stress psicologico. Inoltre, poiché il trattenimento legato all’immigrazione non è previsto dalla legge tunisina, non esistono nemmeno garanzie o protezioni formali per gruppi vulnerabili come i bambini, le vittime di tratta e i richiedenti asilo. Allo stesso tempo, tuttavia, la legge non prevede alcuna base giuridica per privare tali gruppi della libertà per motivi legati alla migrazione 16.  Inoltre, in assenza di un sistema nazionale di asilo, l’UNHCR ha condotto la registrazione dei richiedenti asilo e la determinazione dello status di rifugiato, ma queste procedure sono state sospese nel giugno 2024, lasciando molte persone bloccate senza uno status legale. Ciò ha lasciato centinaia di persone senza protezione ed esposte all’arresto e alla detenzione. I rapporti indicano che molti – in particolare quelli provenienti dall’Africa sub-sahariana – che intendono richiedere protezione vengono arrestati, detenuti e deportati senza avere l’opportunità di fare domanda di asilo.  L’FTDES e il GDP chiedono pertanto la ripresa immediata della registrazione delle domande di asilo e l’adozione di una legge nazionale sull’asilo conforme agli standard internazionali. Ritengono inoltre che le strutture di detenzione debbano essere chiuse immediatamente. Le organizzazioni che presentano la denuncia invitano inoltre le autorità ad adottare regole chiare e pubbliche per qualsiasi luogo in cui una persona sia privata della libertà: registrazione, informazioni in una lingua che il detenuto comprenda, accesso a un avvocato e a un interprete al momento dell’arrivo, certificato medico, separazione tra uomini e donne e visite regolari da parte di organizzazioni indipendenti. Senza trarre insegnamenti dai risultati devastanti della cooperazione con la Libia, l’attuale cooperazione UE-Tunisia in materia di controllo delle migrazioni ha portato al contenimento delle persone in un Paese in cui sono esposte a diffuse violazioni dei diritti umani. Questa cooperazione è ancora in corso a più di due anni di distanza, nonostante le allarmanti e ben documentate segnalazioni di violazioni. Tuttavia, dando priorità al controllo della migrazione a scapito del diritto internazionale, la collaborazione è stata celebrata dai funzionari europei come un successo, citando una significativa riduzione degli arrivi irregolari via mare di persone dalla Tunisia dal 2024 17. Come ha dichiarato Heba Morayef, direttrice regionale per il Medio Oriente e il Nord Africa di Amnesty International, «il silenzio dell’UE e dei suoi Stati membri di fronte a questi orribili abusi è particolarmente allarmante. Ogni giorno che l’UE persiste nel sostenere in modo sconsiderato il pericoloso attacco della Tunisia ai diritti dei migranti, dei rifugiati e di coloro che li difendono, senza rivedere in modo significativo la sua cooperazione in materia di migrazione, i leader europei rischiano di diventarne complici» 18. 1. Tunisia’s President Saied claims sub-Saharan migrants threaten country’s identity, Le Monde (23 febbraio 2023) ↩︎ 2. Cfr. Le Monde (23 febbraio 2023) ↩︎ 3. Cfr. Le Monde (23 febbraio 2023) ↩︎ 4. Affaire Mnemty : la justice tunisienne relance les poursuites, la société civile alerte, tunisienews (6 agosto 2025) ↩︎ 5. Suspension des activités de l’association Mnemty, BusinessNews (28 ottobre 2025) ↩︎ 6. Global Detention Project, “Tunisia: Detention and “Desert Dumping” of Sub-Saharan Refugees,” 8 luglio 2024 ↩︎ 7. Tunisia dismantles sub-Saharan migrant camps and forcibly deports some | Reuters, Reuters (5 aprile 2025) ↩︎ 8. EU-Tunisia Memorandum of Understanding ↩︎ 9. The brutal truth behind Italy’s migrant reduction: beatings and rape by EU-funded forces in Tunisia | Global development | The Guardian, The Guardian (19 settembre 2024) ↩︎ 10. Global Detention Project, “Tunisia: Issues Related To The Immigration Detention Of Migrants, Refugees, And Asylum Seekers”, ottobre 2025 ↩︎ 11. Note-juridique-El-Ourdia-VF.pdf, OMCT, “Note sur la détention arbitraire au centre de détention de migrants d’El-Ouardia,” 2023 ↩︎ 12. Tunisia, la denuncia: “Nei centri di detenzione illegale anche migranti bambini”, Dire (17 novembre 2025) ↩︎ 13. Note-juridique-El-Ourdia-VF.pdf, OMCT, “Note sur la détention arbitraire au centre de détention de migrants d’El-Ouardia,” 2023 ↩︎ 14. ‘They spit on us’: What’s really going on in the El Ouardia migrant centre in Tunis, France24 (13 marzo 2023). ↩︎ 15. Note-juridique-El-Ourdia-VF.pdf, OMCT, “Note sur la détention arbitraire au centre de détention de migrants d’El-Ouardia,” 2023 ↩︎ 16. En Tunisie, “les prisons sont remplies de migrants subsahariens” condamnés pour “séjour irrégulier” – InfoMigrants, Infomigrants (18 novembre 2024) ↩︎ 17. Answer given by Mr Brunner on behalf of the European Commission ↩︎ 18. Tunisia: Rampant violations against refugees and migrants expose EU’s complicity risk, Amnesty International (6 novembre 2025) ↩︎
Corruzione all’ombra della NATO? Quando militarismo e affari si muovono tra gli appalti
Alcuni giornali danno notizie di inchieste sulle tangenti alla agenzia che si occupa degli acquisti militari per conto della NATO. L’Agenzia NATO di Supporto e Approvvigionamento (NSPA) è il fornitore di servizi della NATO e testualmente riunisce le attività di supporto logistico e approvvigionamento della NATO, fornendo soluzioni di supporto multinazionali efficaci ed economiche. NSPA è un’agenzia finanziata dai clienti, che opera su base “nessun profitto – nessuna perdita”. Agenzia NATO di Supporto e Approvvigionamento (NSPA) | Argomento NATO La NSPA svolge attività di supporto a operazioni ed esercitazioni NATO, un ruolo rilevante dietro le quinte ma di fondamentale rilevanza ad esempio nella gestione di quel sistema di gasdotti dell’Europa centrale da cui dipende la sopravvivenza di buona parte del vecchio continente. Ma le competenze di NSPA sono ben altre, ad esempio il delicato compito di acquistare, gestire e mantenere efficienti i vari sistemi d’arma, nella consegna carburante,  nei servizi logistici fino a tutti i supporti di cui necessitano le truppe che vanno dal carburante ai  servizi ristorazione e a quelli medici, al fine di garantire il massimo supporto alle operazioni e alle esercitazioni della NATO. Leggiamo testualmente dal sito NATO prima menzionato: “Attualmente la NSPA gestisce 32 partnership multinazionali di supporto che coprono oltre 90 principali sistemi d’arma (elicotteri, radar, missili, veicoli corazzati, sistemi di sorveglianza aerea, ecc.), inclusi progetti ad alta visibilità come: * Alleanza per la Sorveglianza e il Controllo del Futuro (AFSC) * Flotta Multinazionale di Trasporto Multiruoli (MRTT) (MMF) * Sorveglianza Terrestre dell’Alleanza (AGS) * Munizioni guidate di precisione e munizioni decisive per battaglie terrestri * Veicoli e Equipaggiamenti da Combattimento Terrestre * Difesa Aerea Basata a Terra (GBAD) * Soluzione Internazionale di Trasporto Strategico (SALIS)“. Nell’aprile 2015, l’Agenzia di Supporto NATO si è trasformata nella Agenzia di Supporto e Approvvigionamento NATO. Fin qui la storia di una Agenzia sconosciuta alla maggioranza dei cittadini che del resto nulla sanno del sistema di potere militar industriale oggi dominante. Non è la prima volta, e purtroppo neanche l’ultima che attorno ad appalti e forniture si affacciano interessi e appetiti, nel passato sono caduti Governi, si sono dimessi ministri per essere stati coinvolti in un giro di tangenti, è avvenuto in Italia ma anche in altri paesi Nato. E decine di casi registriamo in Asia e Africa con la corruzione di governanti locali da parte di intermediatori interessati alla vendita di armi. Lobby, sistemi di potere per favorire l’acquisto di armi da questa o da quella multinazionale sono fenomeni diffusi che in epoca di Riarmo troveranno terreno sempre più fertile. Se poi aumenteranno le gare in deroga anche alle norme che gestiscono modalità e tempistiche proprie degli appalti, se prevarranno deroghe ai sistema delle norme vigenti per accorciare i tempi di realizzazione evitando più di un controllo a tutela dell’ambiente, la possibilità di fenomeni corruttivi è destinata a crescere. La notizia delle ultime ore ci riporta in vari paesi europei, la Magistratura sospetta fenomeni di corruzione che vedrebbero coinvolti funzionari, militari e agenti, personale ed ex personale della Nspa, una inchiesta, in Belgio, nella primavera scorsa ha portato ad una decina di arresti con accuse di corruzione e riciclaggio. I fenomeni corruttivi riguardano vari ambiti ma il settore militare, per gli ingenti capitali interessati al Riarmo, potrebbe rappresentare un settore privilegiato che non sarà attenzionato magari in nome della sicurezza nazionale ed internazionale. Quando si parla di appalti per milioni di euro è quasi scontato che ci siano fenomeni corruttivi alimentati dal fatto che l’intero sistema è fuori dai riflettori, dal controllo pubblico, sottoposto spesso a regole di segretezza. Gli inquirenti del Belgio sospettano che alcuni dipendenti della agenzia possano avere fornito, in cambio di soldi, informazioni rilevanti ad aziende che si sono poi aggiudicati gli appalti, si parla di un vasto giro di corruzione con il denaro riciclato attraverso società di consulenza. Non è di aiuto la mancata pubblicazione di un rapporto che avrebbe dovuto fare chiarezza sui fenomeni corruttivi. Da parte nostra crediamo indispensabile aprire una discussione pubblica, fornire informazioni, allargare le maglie della rete di silenzio attorno al Riarmo e farlo in questa sede sui fenomeni corruttivi oggetto di indagini in numerosi paesi europei  Una minima bibliografia su quanto scritto: Corruzione alla Nato: appalti truccati nel settore armamenti – Il Fatto Quotidiano Cinque cose da sapere sullo scandalo della corruzione della NATO – Segui i soldi – Piattaforma per il giornalismo investigativo Corruzione nella NATO: il caso NSPA in Lussemburgo e la fragilità del sistema difensivo occidentale – VP News – Vietato Parlare Microsoft Word – TESI VERSIONE FINALE D’AMATO.docx Federico Giusti, Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle università