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La Corte di giustizia dell’Ue boccia il “modello Albania”
Il Tavolo Asilo e Immigrazione 1 ha dichiarato che con la decisione di oggi la Corte di giustizia dell’Unione europea ha stabilito un principio chiaro: uno stato membro non può designare un Paese di “origine sicuro” senza garantire un controllo giurisdizionale effettivo e trasparente, né può mantenere tale designazione se nel paese non è assicurata protezione a tutta la popolazione, senza eccezioni. Si tratta di una decisione dirompente, che smentisce in modo radicale la linea del governo italiano. Il cosiddetto “modello Albania”, ideato per esternalizzare le procedure di frontiera verso centri collocati fuori dal territorio nazionale ma sotto giurisdizione italiana, è stato costruito e mantenuto su basi giuridiche oggi dichiarate incompatibili con il diritto dell’Unione europea. La sentenza colpisce al cuore uno degli assi portanti dell’intero impianto: la possibilità di processare richieste di asilo in procedura accelerata, basandosi sulla presunzione automatica di sicurezza del paese d’origine. Non è più possibile, alla luce della pronuncia, utilizzare atti legislativi opachi e privi di fonti verificabili per giustificare il respingimento veloce delle domande di protezione; e non è ammissibile trattare come “sicuro” un paese che non offre garanzie a tutte le persone. È esattamente quanto avvenuto nei trasferimenti verso l’Albania e ciò rende evidente che ogni ripresa di questa pratica comporterebbe gravi violazioni e un elevato rischio di annullamento da parte dei tribunali. Il Tavolo Asilo e Immigrazione sollecita il governo a non riattivare il protocollo Italia-Albania: una richiesta avanzata dal Tai fin da prima dell’avvio delle operazioni e che ora diventa più forte nella cornice di questa sentenza. Nell’ultimo anno l’esecutivo ha più volte cercato di piegare le sentenze al proprio racconto, presentando come legittimazione ciò che non lo era affatto. Questa volta la pronuncia della Corte è inequivocabile ed è difficile immaginare che possa essere strumentalizzata. L’architettura giuridica del modello viene demolita. C’è un altro fronte giuridico ancora aperto e riguarda i trasferimenti verso l’Albania direttamente dai centri di permanenza per il rimpatrio (CPR): la questione è oggetto di un nuovo rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia. Si tratta di un iter che richiederà almeno due anni. Nel frattempo, anche il nuovo modello è stato oggetto di molteplici censure giudiziali ed è incompatibile con i diritti umani, come raccontato nel report “Ferite di confine” recentemente diffuso dal Tai. Il “modello Albania”, anche nella sua seconda fase, va dismesso immediatamente. Il Tavolo asilo e immigrazione chiede al governo di prendere atto della pronuncia, cessare ogni iniziativa orientata alla riattivazione del protocollo e ricondurre la politica migratoria all’interno del diritto internazionale ed europeo, e delle garanzie costituzionali. PER APPROFONDIRE: * Comunicato stampa della CGUE: “Protezione internazionale: la designazione di un paese terzo come «paese di origine sicuro» deve poter essere oggetto di un controllo giurisdizionale effettivo” * Leggi il report “Ferite di Confine” in pdf 1. A Buon Diritto, ACLI, Action Aid, Agenzia Scalabriniana per la Cooperazione allo Sviluppo, Amnesty International Italia, ARCI, ASGI, Avvocato di Strada Onlus, Caritas Italiana, Casa dei Diritti Sociali, Centro Astalli, CGIL, CIES, CIR, CNCA, Commissione Migranti e GPIC Missionari Comboniani Italia, Comunità di Sant’Egidio, Comunità Papa Giovanni XXIII, CoNNGI, Emergency, Ero Straniero, Europasilo, FCEI, Fondazione Migrantes, Forum per cambiare l’ordine delle cose, International Rescue Committee Italia, INTERSOS, Legambiente, Medici del Mondo Italia, Medici per i Diritti Umani, Movimento Italiani senza Cittadinanza, Medici Senza Frontiere Italia, Oxfam Italia, Re.Co.Sol, Red Nova, Refugees Welcome Italia, Save the Children, Senza Confine, SIMM, UIL, UNIRE ↩︎
Le elites europee governanti hanno svenduto l’Europa alle multinazionali statunitensi. Chiediamo il ritiro della firma dall’accordo sui dazi!
L’accordo siglato tra Unione Europea e USA sui dazi è un disastro e costituisce un punto di passaggio periodizzante. Ci ricorderemo a lungo del campo da golf scozzese come del teatro di un atto di sottomissione che cambia la storia dell’Europa. Riassumendo brevemente le merci europee pagheranno per entrare negli USA dazi dal 15%al 50%. Viceversa le merci USA non pagheranno praticamente nulla: scenderanno sotto allo 0,9%. In aggiunta l’Unione Europa si impegna a comprare in tre anni (entro la fine del mandato di Trump) dagli USA 750 miliardi di dollari di gas (ad un prezzo di 5 volte superiore a quello che veniva pagato alla Russia), centinaia di miliardi di armamenti ed a fare 600 miliardi di investimenti negli USA. Non sappiamo ancora cosa prevede l’intesa nel dettaglio ed in particolare in merito agli “ostacoli non tariffari al commercio”. Gli USA hanno infatti sempre chiesto una modifica radicale dei regolamenti europei che aprisse il mercato europeo agli USA sul terreno bancario, assicurativo, dell’esportazione di carne (estrogeni, etc), di prodotti agricoli (OGM etc.), del riconoscimento dei farmaci (senza applicare il principio di precauzione) e così via. Conosciamo quindi le linee generali di un disastro su più piani. In primo luogo sul piano simbolico: la trattativa si è tenuta in un campo da golf scozzese di proprietà di Trump e l’accordo è stato firmato nella sala da ballo che il proprietario – Donald Trump – ha intitolato a se stesso. Questo quadretto, di cui tutto il mondo sta ridendo, esprime in forma plastica la completa e servile subordinazione della UE agli USA, dice chi comanda e chi ubbidisce scodinzolando. In secondo luogo per la sua arbitrarietà che nuovamente parla della subordinazione europea: La narrazione che ha preceduto la trattativa ha descritto i rapporti economici tra gli USA e l’Unione Europea come completamente squilibrati, in cui l’Europa inonda di merci gli USA che si debbono difendere. Si tratta di colossale mistificazione: Nei rapporti tra USA e UE infatti gli USA hanno un disavanzo di 213 miliardi per quanto riguarda le merci ma hanno un avanzo di 156 miliardi per quanto riguarda i servizi e di 52 miliardi per quanto riguarda i capitali. In pratica una situazione che vede un disavanzo economico-finanziario reale tra USA e UE è di 5 (cinque) miliardi, è stata presentata come un enorme squilibrio e questa narrazione tossica è stata accettata dall’Unione Europea. Che cosa succede invece per i servizi (Google, Microsoft, Amazon,etc etc.) in cui sono gli USA che invadono la UE? Nulla, nel senso che questi erano sostanzialmente detassati e tali rimangono: le grandi aziende tecnologiche statunitensi hanno nell’Europa – attraverso la porta irlandese – un gigantesco paradiso fiscale in cui non pagano le tasse, altro che i dazi! In una situazione di equilibrio negli scambi economici l’Unione Europea ha quindi accettato di mettere i dazi sulle proprie esportazioni di merci mentre tutte le esportazioni di merci e servizi degli USA sono esentasse, come ovviamente è esentasse il flusso di capitali dall’Europa agli USA. In terzo luogo per l’effetto distruttivo dell’apparato produttivo: i dazi e gli acquisti obbligati di gas determineranno un peggioramento netto della competitività delle imprese europee non solo rispetto alle imprese USA ma rispetto a quelle di tutto il mondo. Questo accordo infatti seppellisce qualsiasi possibilità di riaprire l’acquisto di gas a basso costo dalla Russia – e da altri paesi – obbligandoci a comprarlo dagli USA ad un prezzo esorbitante. Dopo decenni di attacchi al movimento operaio italiano ed europeo per ridurre il costo del lavoro, qui si accetta di peggiorare strutturalmente la competitività dell’industria europea, di impedire la crescita di aziende di servizi europei e probabilmente di mettere in discussione la tenuta delle strutture bancarie ed assicurative europee. Difficile trovare le parole per descrivere questo livello di sudditanza. In quarto luogo non ci vuole un mago per capire che l’accettazione dei dazi porterà con se la richiesta di tagliare ulteriormente i salari al fine di mantenere la competitività internazionale e nel contempo di foraggiare le aziende colpite dai dazi con sovvenzioni statali, cioè con i soldi derivanti dalla tasse della classe lavoratrice e dei pensionati (che sono gli unici che pagano le tasse). Questo accordo sarà cioè lo scusa per un ulteriore attacco al salario diretto e indiretto della classe lavoratrice. In quinto luogo porterà alla distruzione del welfare e alla sua sostituzione con un sistema assicurativo privato gestito dai fondi statunitensi. Non sfugge a nessuno il rapporto tra l’accordo sui dazi e la decisione della NATO di portare le spese militari europee al 5% del PIL in dieci anni. In una situazione in cui l’economia reale peggiora e in cui i salari reali sono destinati a diminuire, la scelta di porre in essere un piano di riarmo enorme – per l’Italia 6,4 miliardi di aumento della spesa militare ogni anno per i prossimi dieci anni – significa necessariamente tagliare la spesa sociale di un ammontare corrispondente. Quindi è il sistema pensionistico, sanitario, assistenziale, delle autonomie locali che verrà distrutto da questa scelta che – oltre al danno la beffa – non produrrà nemmeno un aumento di posti di lavoro in Europa perché la gran parte delle armi verranno prodotte negli USA (magari da aziende europee che delocalizzeranno). In sesto luogo questo accordo segue di pochi giorni il pieno fallimento del vertice tra UE e Cina. In questo modo la dirigenza UE, avendo rotto le relazioni con la Russia e la Cina – e quindi con il grosso dei BRICS – in un mondo che vede la crisi verticale della globalizzazione, si è consegnata mani e piedi ad avere come unico mercato di sbocco per i propri prodotti quello statunitense. Il combinato disposto tra l’esito del vertice con la Cina e l’accordo sui dazi determina quindi una dipendenza sistemica dell’Europa dagli USA come non si era mai visto. L’Unione Europea è diventata una colonia L’accordo sui dazi è quindi destinato ad essere il punto di passaggio che sancisce la fine di una fase dell’Unione Europa e la sua consacrazione a colonia statunitense sul piano strutturale, non solo politico. L’accordo infatti non ha un carattere sovrastrutturale ma interviene a modificare i rapporti di forza tra gli apparati produttivi di merci e servizi ed a accentuare all’inverosimile elementi di dipendenza sistemica. Questo accordo è stato fatto in nome della stabilità per rendere irreversibile il rapporto di dipendenza dell’Europa dagli USA. Questo dipendenza è vista dalle classi dominanti europee come l’unica via possibile per salvaguardare i propri interessi. Questo accordo è stato fatto quindi per salvaguardare la posizione di privilegio subalterno da parte delle classi dominanti europee a scapito degli interessi dei popoli europei. E’ la genuflessione dei feudatari – di fronte all’imperatore e alla sua corte – che accettano di far morire di fame i propri sudditi pur di non perdere i propri privilegi e magari sostituiti. Sono tutti responsabili Questo disastro è così grande e sarà così visibile nei prossimi mesi, che tutti i governanti europei fanno a gara a criticare l’accordo per non assumersene la responsabilità. Moltissimi membri dell’establishment europeo sostengono che la colpa è tutta della von der Leyen, che sta diventando il capro espiatorio della vicenda. Ora, che la Presidente della commissione sia un personaggio squallido e immorale, venduta alle multinazionali e disposta a piegarsi al miglior offerente, è del tutto evidente. Il fatto che tutti critichino il risultato ma nessuno chieda di togliere la firma e di far saltare l’accordo però la dice lunga sulla malafede delle critiche. L’accordo firmato dalla von der Leyen è in realtà il frutto delle politiche liberiste e di subalternità agli USA che la dirigenza dell’Unione europea sta seguendo da decenni e di cui sono stati protagonisti i Draghi, i Monti, i Macron le Meloni e così via. E’ con gli accordi di Maastricht ed in particolare con quelli di Lisbona, con il Fiscal compact e tutte le criminali scelte fatte da Draghi, dalla Merkel e soci nel 2012 che sono state poste le premesse per questo risultato. La scelta folle è stata di puntare tutto su un modello finanziarizzato che aveva al centro gli USA e su un modello produttivo finalizzato unicamente alla compressione dei costi e all’esportazione, scegliendo come unico mercato di sbocco di grande rilevanza gli USA. Questa scelta è stata fatta da decenni e la von der Leyen non è nulla più che la criminale esecutrice testamentaria di un disegno costruito negli anni dalle classi dominanti europee che sono state bravissime a distruggere il movimento operaio europeo ma hanno sacrificato a questa prospettiva il destino complessivo dell’Europa. Mai come oggi risulta evidente che gli interessi delle classi dominanti europee – occultati e infiocchettati dal complesso dei media europei e dai principali schieramenti politici – sono in contrasto radicale con gli interessi dei popoli europei. Togliere la firma dall’accordo Il nodo politico è quindi uno solo: l’accordo deve essere mantenuto o deve essere fatto saltare? E’ evidente che deve essere fatto saltare. Tutte le critiche, anche le più dure se non chiedono di ritirare la firma e di azzerare l’accordo sono aria fritta, fumo negli occhi. Per evitare oltre al danno la beffa dobbiamo costruire una movimento di massa per chiedere le dimissioni della von der Leyen – e della Meloni – il ritiro della firma e la proclamazione della nullità dell’accordo. Paolo Ferrero Redazione Italia
Humane World for Animals chiede il divieto totale dell’allevamento di animali per la produzione di pellicce nell’UE
L’allevamento di animali per la produzione di pellicce nell’Unione Europea non rispetta i requisiti fondamentali di benessere animale per visoni, volpi, cani procione e cincillà, secondo il parere scientifico ufficiale pubblicato oggi dall’Autorità europea per la sicurezza alimentare (EFSA). In risposta, l’organizzazione leader per la protezione degli animali Humane World for Animals Europe (precedentemente nota come Humane Society International) chiede alla Commissione Europea di introdurre con urgenza un divieto totale dell’allevamento di animali per la produzione di pellicce in tutta l’UE. Nel 2023, oltre 1,5 milioni di persone hanno firmato una petizione per aderire all’iniziativa dei Cittadini Europei “Fur Free Europe”, chiedendo l’introduzione di un divieto, a livello europeo, riguardo all’allevamento e al commercio di pellicce. In seguito a questa iniziativa, la Commissione Europea si è impegnata a valutare l’attuazione di possibili misure, tenendo conto anche delle conclusioni dell’EFSA, e a comunicare entro marzo 2026 quale azione legislativa ritenga più appropriata. Attualmente, oltre 6 milioni di animali sono ancora rinchiusi in quasi 1.200 allevamenti destinati alla produzione di pelliccia in tutta l’Unione Europea, in Paesi come Finlandia, Polonia, Danimarca, Spagna e Grecia. L’allevamento per la produzione di pelliccia è già vietato in 22 Paesi europei, tra cui 16 Stati membri dell’UE – tra gli ultimi ad aver introdotto il divieto figurano Estonia, Italia, Lettonia, Lituania e Romania. Anche se non è ancora stato introdotto un divieto formale, in Svezia e Bulgaria non sono più attivi allevamenti di questo tipo. La dottoressa Joanna Swabe, Direttrice delle Relazioni Istituzionali di Humane World for Animals Europe, ha dichiarato: “Il parere dell’EFSA conferma ciò che attivisti per i diritti degli animali e veterinari denunciano da decenni: allevare animali come visoni, volpi, cani procione e cincillà per l’industria della moda in gabbie piccole e spoglie causa, come prevedibile, gravi problemi cronici di benessere animale, tra cui la soppressione di comportamenti vitali, stress, lesioni e altri problemi di salute. Le sofferenze fisiche e psicologiche subite dagli animali, descritte nel dettaglio dal gruppo internazionale di esperti dell’EFSA, sono totalmente incompatibili con gli attuali standard etici in materia di benessere animale. In tutto il rapporto, gli esperti concludono che queste sofferenze ‘non possono essere prevenute né significativamente mitigate’ negli attuali sistemi di allevamento per la produzione di pellicce. Si tratta di una condanna inequivocabile, che non lascia alcun futuro sostenibile al settore della pellicceria”. Tra i principali problemi di benessere animale rilevati negli attuali sistemi di allevamento per la produzione di pellicce, il rapporto elenca: * Gabbie di dimensioni e complessità insufficienti, completamente spoglie, che “limitano severamente i movimenti”, oltre ad avere pavimentazioni inadeguate in rete metallica. * Sottostimolazione e sovrastimolazione sensoriale, a seconda della specie, che causano noia cronica e/o stress. * Impossibilità di esprimere comportamenti fondamentali, come giocare, esplorare, cercare cibo, scavare, saltare o rosicchiare; per i cincillà, impossibilità di effettuare i bagni di sabbia tipici della specie; per i visoni, mancanza di accesso all’acqua per nuotare. * Lesioni, stress e aggressioni, compresi infanticidio e cannibalismo, causati da mancanza di spazio e/o sovraffollamento e/o sistemazione in gruppi non idonei — per esempio, lotte tra compagni di gabbia e casi di masticazione del pelo (fur chewing) — e/o competizione per le risorse disponibili. * Paura e stress dovuti alle interazioni con gli esseri umani, e lesioni causate dal prelievo tramite pinze per il collo, anche durante procedure come l’inseminazione forzata. * Comportamenti stereotipati, come camminare avanti e indietro ripetutamente o muovere ripetutamente la testa. * Zoppia, debolezza o deformazioni degli arti. * Disturbi gastrointestinali e dieta inadeguata: in alcuni casi, fame prolungata; in altri, sovralimentazione forzata. La dottoressa Swabe conclude: “Pensare che l’industria della pellicceria possa trasformarsi completamente per eliminare la crudeltà insita negli allevamenti in gabbia è un’illusione, soprattutto per un settore in declino economico irreversibile. E qualche metro quadrato in più non basterebbe certo a ricreare un habitat naturale adeguato per volpi, visoni e cani procione, necessario al loro benessere fisico e psicologico. La crudeltà delle pellicce non ha posto in un’Europa moderna e compassionevole, e l’unica scelta veramente etica e umana è imporre al più presto un divieto totale dell’allevamento per la produzione di pellicce nell’UE. Un divieto rappresenterebbe un passo storico per porre fine a una delle forme più gravi e superate di crudeltà sugli animali nell’Unione Europea, e darebbe voce agli oltre 1,5 milioni di cittadine e cittadini europei che hanno firmato la petizione per un’Europa senza pellicce”. Redazione Italia
Mediterraneo rotta letale: due bambini morti e una persona dispersa
Lunedì abbiamo individuato un’imbarcazione in difficoltà e allertato le autorità. Ieri il natante si è capovolto durante un’operazione di soccorso da parte di un mercantile. Lunedì il nostro aereo Seabird ha individuato un’imbarcazione in difficoltà con oltre 90 persone a bordo che era in mare da tre giorni. Due persone erano in acqua. Abbiamo immediatamente chiesto aiuto. Frontex è arrivata sei ore dopo, ha visto il natante e se n’è andata. Ieri mattina, le persone erano ancora abbandonate al loro destino. Le navi di soccorso europee avrebbero potuto raggiungerle in circa tre ore, ma hanno scelto di non intervenire. Quando la nave mercantile Port Fukuka, che si trovava nelle vicinanze, ha cercato di soccorrerle, l’imbarcazione si è capovolta. Tutte le persone a bordo sono finite in mare. Una volta soccorse, due bambini erano deceduti e una persona risultava dispersa. Oggi i naufraghi sono ancora sul mercantile e le autorità italiane stanno facendo di tutto per impedire loro di raggiungere l’Italia. C’è il pericolo imminente che la cosiddetta Guardia Costiera libica li rapisca e li porti in Libia, verso tortura e morte. È inaccettabile. La nostra nave veloce Aurora avrebbe potuto intervenire in soccorso di queste persone. Si trova a sole quattro ore e mezza di distanza, ma è bloccata dalle autorità italiane nel porto di Lampedusa con motivazioni prive di fondamento. Questo “spettacolo” vergognoso non si è ancora concluso, ma le autorità italiane ed europee non sono intervenute. È un sistema che sta facendo ciò per cui è stato progettato: lasciare che le persone anneghino ai confini dell’Europa. Silenziosamente, sistematicamente. Sea Watch
“Ferite di confine: la nuova fase del modello Albania” in diretta dalla Camera dei Deputati
Martedì 29 luglio alle ore 16:00, presso la Sala Stampa della Camera dei Deputati (via della Missione 4, Roma), si è tenuta la conferenza stampa di presentazione del nuovo rapporto “Ferite di confine. La nuova fase del modello Albania”, frutto delle visite di monitoraggio svolte da membri di organizzazioni della società civile, principalmente italiane, con il supporto del Gruppo di contatto del Parlamento Italiano e del Parlamento Europeo nel centro di detenzione per migranti di Gjadër, nel nord dell’Albania. Il report, curato dal “Tavolo Asilo e Immigrazione”, ha lo scopo di approfondire e fornire aggiornamenti in continuità con quanto già documentato nel precedente dossier “Oltre la frontiera. L’accordo Italia-Albania e la sospensione dei diritti”, presentato lo scorso 25 febbraio 2025 e basato questa volta sulle evidenze raccolte nel corso delle sei missioni realizzate nel periodo aprile – luglio 2025 in collaborazione con parlamentari europei e italiani. Se nella prima fase l’attenzione era concentrata sul trasferimento forzato in Albania dei richiedenti asilo intercettati in mare provenienti da Paesi considerati “sicuri” dal governo italiano, oggi lo scenario è mutato radicalmente e comprende scenari più ampi, non da ultimo le recenti decisioni sui “Return Hubs” e sulla replica seriale di accordi sul modello dell’accordo Rama-Meloni che istituisce i centri per procedere all’esame delle richieste d’asilo al di fuori dell’UE, come confermato lo scorso 22 luglio dalla riunione dei Ministri degli Interni dei 27 Stati Membri dell’Unione Europea. Quest’ultima è stata organizzata dalla Presidenza danese del Consiglio dell’UE, che ha anticipato già da mesi l’intenzione di procedere verso restrizioni sempre piu dure sotto la guida di Mette Frederiksen e soprattutto sulla presa in carico del processo di revisione dell’approccio alla provenienza dai “Paesi sicuri”. rispetto alla quale l’implementazione dell’accordo Rama-Meloni ha già fornito un rilevante, ed estremamente preoccupante, campo di sperimentazione. Un nuovo assetto operativo Da aprile 2025 il governo italiano ha introdotto un nuovo dispositivo, ovvero la deportazione verso il centro di Gjadër di persone già trattenute nei CPR (Centri di permanenza per il rimpatrio) sul territorio italiano. Si tratta di una forma di detenzione amministrativa transnazionale, opaca e potenzialmente lesiva dei diritti fondamentali, che istituzionalizza l’esternalizzazione contestata per molti anni, ma ora pienamente in fase di completamento del rodaggio e ulteriore emulazione da parte degli Stati Membri e della stessa Unione Europea. Il deterioramento del sistema di protezione dei diritti umani e la tutela dello stesso diritto di asilo sono questioni di crescente preoccupazione, come confermato dai molteplici casi di violazione e dalle gravi criticità emerse durante le visite sul campo condotte dal Tavolo Asilo e Immigrazione. Con il decreto-legge n. 37/2025, l’esecutivo ha cercato di rilanciare un protocollo già in difficoltà, spostando in Albania migranti trattenuti nei CPR italiani – spesso per il solo motivo di contare unicamente su un documento scaduto – senza fornire motivazioni credibili. L’operazione è stata messa in atto con una massiccia presenza di forze dell’ordine: due agenti per ogni persona migrante, ammanettata e scortata per esigenze più mediatiche e di amplificazione della propaganda legata alla stessa apertura dei centri in Albania che di reale sicurezza. Una deriva pericolosa ed estremamente costosa per l’Europa intera Questo nuovo rapporto si propone di documentare con rigore l’evoluzione organizzativa e giuridica del “modello Albania”, le condizioni materiali e sanitarie all’interno del centro di Gjadër e gli effetti sistemici su diritti, garanzie individuali e ordinamento democratico. Al centro dell’analisi vi sono la mancanza di trasparenza procedurale, la compressione delle garanzie giuridiche e la pressoché totale elusione del controllo giurisdizionale. Il risultato è la creazione di uno spazio di eccezione al di fuori del territorio nazionale, ma pienamente sotto responsabilità italiana. Oltre alle violazioni dei diritti, l’esperimento in Albania si sta rivelando un fallimento anche sotto il profilo economico. L’inchiesta condotta dai giornalisti James Imam, Vladimir Karaj e Ada Homolová per la piattaforma internazionale Follow the Money e pubblicata un mese fa, il 26 giugno 2025, aveva rivelato che ogni posto letto nel nuovo centro albanese è costato al contribuente non meno di 72.461 euro, dunque ben oltre dieci volte il costo di una struttura analoga in Italia. I dati diffusi dalla sezione italiana della ONG ActionAid e il Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università di Bari nel rapporto “Trattenuti. Una radiografia del sistema detentivo per stranieri” ancor più recentemente, il 24 luglio scorso, sono ancora più inquietanti e dimostrano come siano stati spesi con disinvoltura 114.000 euro al giorno per soli cinque giorni di effettiva operatività del centro di Gjadër tra ottobre e dicembre 2024. La cifra pagata dalla Prefettura di Roma all’ente gestore Medihospes risulta corrispondente a 570.000 euro totali pagati, suddivisi in 153.000 euro per allestire un singolo posto letto, contro i 21.000 euro del centro CTRA di Porto Empedocle, in Sicilia. A fine marzo 2025 risultavano costruiti 400 posti tra Gjadër e Shëngjin, realizzati con affidamenti diretti per mantenere in moto una macchina distruttiva volta principalmente a brucia denaro pubblico, alimentata da una logica repressiva brutale oltre che totalmente inefficace e volta a indebolire ulteriormente lo stato di diritto e la gestione responsabile delle risorse. Sempre secondo i dati raccolti nel rapporto curato da ActionAid e dal Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università di Bari, l’operazione Albania è il più costoso, inutile e inumano strumento della storia delle politiche migratorie italiane. I rimpatri, del resto, sono ai minimi storici, mentre cresce il numero delle persone trattenute per mesi senza prospettiva né tutela. Sulla piattaforma “Trattenuti”, legata al lavoro del rapporto, sono ora disponibili i dati inediti su tutti i 14 centri attivi in Italia e su quello operativo in Albania, inclusi gli episodi di rivolte, atti autolesionistici e altri eventi critici che rappresentano segni tangibili del costo umano di tali politiche, oltre all’evidente spreco di ingenti risorse pubbliche. Nel quadro più ampio del Patto europeo su migrazione e asilo, che entrerà in vigore a giugno 2026, il cosiddetto “modello Albania” rischia dunque di trasformarsi da esperimento isolato a procedura esportabile per tutta l’Unione Europea, anche in linea con le estensioni di matrice statunitense esibite negli ultimi giorni dall’Amministrazione Trump. Si tratta di una prospettiva allarmante denunciata da più parti, nel solco della quale il diritto d’asilo come garantito dal diritto internazionale viene di fatto svuotato, mentre i valori fondativi dell’UE come sanciti dall’articolo 2 (sia del Trattato dell’Unione Europea sia della Costituzione italiana) vengono sistematicamente erosi. Durante la conferenza stampa, trasmessa anche in modalità streaming dalla piattaforma ufficiale della Camera dei Deputati, a tutte le persone partecipanti è stato distribuito il testo del rapporto, che è disponibile anche al seguente link: “Ferite di confine. La nuova fase del modello Albania” (Luglio 2025)   Anna Lodeserto
f.Lotta: un’occupazione marittima contro il sistema dei confini
IL DESERTO DEL MEDITERRANEO CENTRALE Il Mediterraneo centrale è una delle rotte migratorie più letali al mondo, dove il razzismo delle politiche di frontiera dell’Unione Europea appare in modo evidente: oltre 25.000 persone sono morte dal 2014 1. I soldi dell’Unione Europea finanziano il controllo del confine, costruiscono centri di detenzione in Nord Africa e ostacolano gli sforzi delle navi ONG. La strategia ha dato i suoi frutti: lo stato ha espanso il proprio controllo in questa zona di frontiera, irregimentando la solidarietà in un quadro operativo che si conclude quasi sempre con la detenzione o l’assegnazione di un porto lontano per lo sbarco. Peggio ancora: la violenza frontaliera dello stato sta diventando invisibile. F.LOTTA f.Lotta è una chiamata dal basso a rifiutare questa situazione e il sistema mondo che l’ha normalizzata.  f.Lotta organizzerà una protesta in mare a sud di Lampedusa, riunendo il maggior numero possibile di imbarcazioni, per ripoliticizzare quello che oggi è un cimitero a cielo aperto. Vogliamo occupare il Mediterraneo centrale con la nostra solidarietà e resistenza collettiva, vogliamo riscattarlo dal regime dei confini. Barche provenienti da molti porti d’Italia e d’Europa convergeranno verso Lampedusa attraverso tappe logistico-politiche in diversi porti, per diffondere le idee di f.Lotta e creare connessioni con le realtà locali e le reti di solidarietà. La protesta in mare a sud di Lampedusa durerà 3 giorni, in un periodo compreso tra il 10 e il 20 settembre. Comprenderà due momenti di concentrazione vicino all’isola, una navigazione collettiva attraverso il confine meridionale dell’Unione Europea e commemorActions. OCOB: ONE CAMPAIGN ONE BOAT f.Lotta è una campagna di campagne. L’orizzonte politico comune di f.Lotta è la libertà di movimento. Gruppi politici e collettive a terra sostengono f.Lotta sviluppando campagne specifiche che arricchiscono una piattaforma politica condivisa a favore di un sistema diverso. Ogni barca di f.Lotta diventa testimone e portabandiera di una specifica campagna, portandola simbolicamente con sé durante l’azione in mare: se f.Lotta fosse un manifesto, ogni barca sarebbe una rivendicazione. Potete scoprire le campagne sul nostro sito web. F.LOTTINE E F.LOTTA DI TERRA f.Lotta vuole contrastare l’espansione dell’estrema destra e non si esaurisce con la protesta in mare a sud di Lampedusa. Le f.Lottine e la f.Lotta di terra sono ulteriori articolazioni dell’iniziativa, azioni di protesta parallele che collegano lo spazio del Mediterraneo centrale con altre città europee e altre aree di confine. Una f.Lottina è un’altra occupazione marittima o fluviale, mentre un’azione di f.Lotta di terra può assumere diverse forme: un’occupazione, una marcia, un sit-in davanti a un centro di deportazione. Crediamo che molteplici occupazioni di mare, di fiume e di terra siano necessarie per creare connessioni con realtà e lotte già esistenti, raggiungendo quante più persone possibile. Da quando l’Europa ha deciso di diventare una fortezza, ha accettato il rischio di un assedio collettivo. LA MARCIA DELLA SPERANZA f.Lotta rende omaggio e trae ispirazione da un momento che 10 anni fa sconvolse i rapporti di forza all’interno del sistema dei confini. A settembre 2015, migliaia di rifugiate iniziarono a camminare sulle autostrade dall’Ungheria verso la Germania. La loro azione spontanea e diretta aprì i confini interni dell’Unione Europea. Alcuni anniversari devono essere rumorosi. CHI SIAMO f.Lotta federa un gruppo molteplice di persone unite dalla convinzione che un orizzonte politico diverso sia possibile. Non siamo un’organizzazione istituzionalizzata. La protesta in mare apre il Mediterraneo centrale a forme di solidarietà e resistenza diverse rispetto al soccorso marittimo professionalizzato, riunendo persone, collettive, gruppi con o senza barche. Invita la società civile a rigettare ovunque il regime di frontiera, fino alle sue fondamenta: razzismo, colonialismo, capitalismo e patriarcato. CON O SENZA BARCA Qui potete leggere la nostra chiamata, con diversi modi per sostenere f.Lotta. Squattiamo il mare assieme! Contatti: https://flotta.noblogs.org F_Lotta@inventati.org https://www.instagram.com/f.lotta_ 1. Si veda: Missing Migrant Project ↩︎
Antonio Mazzeo: “E’ necessaria una grande pressione internazionale perché l’Handala possa approdare a Gaza”
Buongiorno, è iniziato il quinto giorno di viaggio dell’Handala, l’imbarcazione di Freedom Flotilla diretta a Gaza. Abbiamo appena superato l’appunto orientale di Creta, abbiamo dall’altra parte superato anche il confine della Libia e, di fatto, siamo ormai frontali all’Egitto, pertanto più del 50-60% del percorso da Gallipoli a Gaza è stato completato. La notte è trascorsa serenamente, ancora una volta abbiamo fatto un bagno nella Via Lattea, anche se pure stanotte abbiamo dovuto constatare il transito costante e continuo di aerei militari sulla rotta tra il Mediterraneo occidentale e il Mediterraneo orientale, soprattutto gli immancabili droni che non credo fossero per l’Handala, ma dimostrano come ormai il Mediterraneo si sia ultramilitarizzato. Non c’è soltanto lo scontro in atto in Medio Oriente, ma c’è soprattutto la guerra all’immigrazione e ai migranti che è stata lanciata dall’Unione Europea e dall’agenzia Frontex; non è un caso che proprio la parte finale di questo mare, compresa tra la Libia e la Grecia, è intensamente visitata e monitorata da questi droni. Appartengono ormai un po’ a tutte le marine e a tutte le aeronautiche dei Paesi presenti in questo bacino, ma soprattutto vedono l’Agenzia dell’Unione Europea continuare a spendere soldi; voglio ricordare che alcuni di questi droni sono di produzione israeliana, sono stati acquistati in Israele. Le notizie che arrivano da Gaza purtroppo sono sempre le stesse. Continua lo sterminio per fame della popolazione, soprattutto delle bambine e dei bambini. Ormai le grandi agenzie internazionali e centinaia di organizzazioni non governative lanciano l’allarme: morte per malnutrizione. E ieri il ministro Tajani ha avuto l’ardire di dire che è arrivata l’ora di convincere Netanyahu a cessare le proprie operazioni di morte e di guerra con Israele. Non ha spiegato come, ma comunque ci ha tenuto a precisare che non è certo rompendo le relazioni con Israele che si riuscirebbe a garantire l’aiuto economico e l’intervento umanitario direttamente a Gaza. Ebbene, consentitemi di dire al ministro Tajani che perlomeno un modo c’è ed è interrompere immediatamente qualsiasi relazione militare con Israele. Impedire che continuino ad arrivare armi italiane a Israele, esattamente tutto il contrario di quello che sarebbe stato affermato dal ministro Crosetto, cioè che non abbiamo trasferito armi dopo il 7 ottobre 2023, notizia smentita da diverse inchieste giornalistiche che hanno utilizzato le fonti ufficiali, in particolare le Camere di commercio e l’Istat. E poi lo diciamo chiaramente al ministro Tajani: c’è questa imbarcazione, l’Handala, che rappresenta la volontà dei popoli dell’America Latina, dei popoli degli Stati Uniti, dei popoli dell’Europa e ha il dovere morale di rompere questo blocco navale che impedisce che impedisce che gli aiuti umanitari, i farmaci, i generi alimentari arrivino alla popolazione palestinese. Ebbene, il ministro Tajani, la Von der Leyen, i ministri del Paesi membri dell’Unione Europea devono fare immediatamente una cosa: fare tutte le pressioni possibili sul governo israeliano perché si permetta all’Handala di toccare il porto di Gaza. Vogliamo incontrare i cittadini di Gaza, vogliamo guardare negli occhi le donne, gli uomini, gli anziani, ma soprattutto le bambine e i bambini di Gaza. Vogliamo esprimere concretamente la nostra solidarietà e soprattutto il desiderio della comunità internazionale che il popolo palestinese abbia finalmente la pace, abbia finalmente il diritto a restare nella terra in cui sono nati ed impedire pertanto la pulizia etnica in corso da parte del governo israeliano. Pertanto, credo che in questo momento la cosa più importante è che ci sia una grande pressione internazionale perché l’Handala possa finalmente approdare a Gaza. Sarebbe un fatto politico importante, dimostrerebbe che di fronte all’inefficienza, di fronte all’incapacità, di fronte alla condivisione da parte dei governi delle politiche genocide d’Israele c’è esattamente una popolazione intera del pianeta che ha fatto una scelta di campo, ha scelto di stare accanto ai palestinesi e ha scelto di farlo in modo concreto, mettendoci i corpi, mettendoci i volti. Lo si sta facendo nelle piazze di tutto il mondo, lo si è fatto nelle università con le occupazioni e gli accampamenti e oggi lo si sta facendo con un’azione diretta nonviolenta. Ventuno corpi messi a disposizione del popolo palestinese per rompere l’embargo, per rompere questo blocco navale. Ecco, i governi europei, il governo statunitense, il governo australiano, il governo tunisino, il governo marocchino devono fare tutte le pressioni su Israele perché venga rispettato il diritto internazionale umanitario, perché venga rispettato il diritto della navigazione, perché vengano rispettati i più elementari diritti umani. A Gaza si sta morendo di fame, a Gaza si sta morendo di inedia, a Gaza si muore di sete. Ecco, allora se vogliamo davvero esprimere un minimo di umanità, un po’ come ci ricordava Arrigoni: restiamo umani. E allora, per restare umani fate in modo che l’Handala possa arrivare a Gaza per esprimere un gesto piccolo, ma un gesto di umanità in un luogo dove la disumanizzazione, dove la morte è diventata sovrana. Grazie. Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle università
Controfuoco. Per una critica all’ordine delle cose (N° 2, giugno 2025)
> con·tro·fuò·co/ > Incendio, appiccato volontariamente, > per eliminare il materiale > combustibile e quindi contrastare > l’avanzata di un incendio di grandi > proporzioni, spec. nei boschi. ARCHITETTURE DEL CONFINAMENTO: IL TRATTENIMENTO COME INFRASTRUTTURA L’editoriale di Francesco Ferri e Omid Firouzi Tabar Sono passati oramai dieci anni dalla cosiddetta “crisi dei rifugiati” e appare sempre più chiaro come il regime complessivo di regolamentazione, filtraggio e selezione della mobilità delle persone migranti sia vivendo una preoccupante virata autoritaria e repressiva, una recrudescenza che vede nella privazione della libertà un fattore sempre più diffuso, strutturale e normalizzato. Questa “sicuritarizzazione” dell’apparato sicuritario-umanitario, che vediamo da alcuni anni intrecciare e ibridare dinamiche di controllo e segregazione con quelle dell’assistenzialismo compassionevole e infantilizzante, si sta progressivamente infiltrando gran parte dei contesti legati alle migrazioni. Lo vediamo nelle narrazioni mediatiche sempre più stigmatizzanti, nel piano normativo che restringe progressivamente diritti e garanzie e nelle prassi istituzionali sempre più segnate da dinamiche di abbandono socio-economico e dalla moltiplicazione degli ostacoli amministrativi e burocratici. Stiamo assistendo in primo luogo a un vero e proprio attacco frontale al diritto di asilo per come lo abbiamo conosciuto, che si materializza attraverso la progressiva centralità di concetti come “paesi sicuro” e alle conseguenti procedure “accelerate” o di “frontiera”. In questo senso la richiesta di protezione internazionale non è più soltanto preludio a una vera e propria trappola sociale, ma è sempre più un’opzione che viene semplicemente negata, soprattutto per sottrarre le persone al pacchetto di diritti che tutt’ora implicherebbe. In tale direzione vanno legislazioni nazionali e il nuovo Patto europeo su migrazioni e asilo, punto di svolta decisivo delle politiche migratorie continentali. A questa erosione del diritto di asilo si accompagna una sorta di “Hotspotizzazione” della regolamentazione delle persone anche oltre alle fasi successive all’approdo. Al netto della resistenza, talvolta anche ostinata, di alcuni tribunali, la prospettiva politica sembra essere quella di dare una progressiva centralità (non soltanto simbolica) a strutture classicamente detentive come i Cpr, ma anche a strutture ibride di trattenimento come i centri albanesi (e altri che fioriranno sul perimetro europeo per le “procedure di frontiera”), e quelli di Pozzallo e Porto Empedocle adibiti per le “procedure veloci”. In parallelo, la costante minaccia di “deportabilità” in questi luoghi, ben agevolata dalla diffusione di misure di militarizzazione urbana come le “Zone Rosse”, diventa ingrediente ricattatorio di estrema violenza. Senza scordarci, per completare questo cupo quadro, di una certa intensificazione della criminalizzazione delle pratiche solidali, soprattutto in mare, e di quella, statisticamente preoccupante, dello smuggling e dei cosiddetti “capitani”, che sta allargando la stretta penale su un numero sempre più vasto di migranti. Tutto ciò non sembra proiettarsi nella direzione di un rafforzamento di forme di mera esclusione ed estromissione delle persone dalla cosiddetta “Fortezza Europa”, concetto che ci appare oggi anche poco funzionale, talvolta del tutto fuorviante, per leggere in profondità i processi in corso e le razionalità che li sottendono. In campo sembra invece persistere un’economia politica del modello confinario imperniata su dinamiche di selettività e di violenta (im)mobilizzazione, orientate a garantire nuove linee di inclusione subalterna e di produzione di soggettività, più che a materializzare una rigida (e improduttiva) impermeabilizzazione del perimetro europeo. Più che alla tensione tra rigide linee che separano estromissione da e inclusione nello spazio europeo, dobbiamo in sintesi sforzarci a cogliere tensioni e conflittualità sempre più molecolari e interstiziali tra espressione di mobilità indisciplinata e tentativo di produzione di soggettività esposte a forme sempre più intensive di sfruttamento lavorativo e di stigmatizzazione utile a nutrire le retoriche sicuritarie. Questi nuovi sviluppi si materializzano dentro una congiuntura di guerra che, oltre alle uccisioni, ai massacri, ai genocidi e alle devastazioni che produce nelle zone di conflitto dove è materialmente in atto, si espande in quanto regime complessivo di produzione di linee di comando, ispirando drammaticamente molte politiche europee tra cui quelle che riguardano migrazioni e confini. In questo scenario bellico la costruzione dei blocchi e delle polarizzazioni, strutturati intorno a un ritorno di costruzioni identitarie come popolo, stato e nazione, produce inevitabili e considerevoli ripercussioni nei regimi di  “bordering” e di “othering”, ponendosi come frame perfettamente coerente con la stretta sicuritaria vissuta in questa fase storica in molti territori europei. Scendendo su un piano più concreto, l’analisi del “modello Albania” fornisce indicazioni utili per cogliere le tendenze che attraversano il regime confinario. Il funzionamento del centro di Gjader ha evidentemente caratteristiche peculiari ma non è, dal punto di vista della logica che lo informa, un’eccezione. Questo progetto, infatti, rende visibile e leggibile una delle traiettorie più rilevanti del governo della mobilità: l’estensione selettiva del trattenimento come pratica ordinaria. In Italia, la detenzione amministrativa si presenta come diffusa ma non generalizzata: uno scarto importante, da cogliere per darne preciso rilievo politico. Infatti, la gran parte delle persone rimpatriate non passa dai Cpr. Ma questo dato non ridimensiona il ruolo politico di quei centri. Al contrario, lo chiarisce: i Cpr non funzionano per volumi, ma per effetto. Producono una pedagogia della minaccia, inscrivono nella vita migrante una moltiforme precarietà costitutiva, alimentano una condizione permanente di esponibilità alla violenza e al rimpatrio. Il modello Albania riproduce questa stessa logica: poche persone effettivamente trattenute bastano a produrre un salto, simbolico e materiale, nell’architettura del confinamento. È per questo che l’analisi non può fermarsi ai numeri. Serve uno sguardo qualitativo e politico sulla detenzione, che è poi quello che questo numero di Controfuoco tenta di portare. Le molteplici forme del trattenimento non vanno valutate unicamente sulla base della capienza o del tasso di rimpatri che producono, ma interrogati come dispositivi: macchine selettive di produzione della soggettività e della forza-lavoro migrante. Le loro funzioni travalicano i corpi che rinchiudono. La violenza concreta che esercitano non va dunque ridimensionata, ma compresa nella sua estensione. La lista dei diritti violati – libertà personale, difesa, salute, unità familiare – è solo la soglia di un impatto più ampio: una violenza sistemica, che agisce al di là delle griglie giuridiche. È una violenza strutturale, fatta di trattamento differenziale, segregazione materiale e simbolica, disciplinamento sociale. Il trattenimento va allora letto come infrastruttura, non come eccezione. Non è una parentesi nella vita migrante, ma una condizione che incide sui tempi, gli spazi, le possibilità di movimento e di relazione. La deportabilità – più che la deportazione effettiva – è oggi la condizione generalizzata che definisce la collocazione sociale di ampi settori di soggettività migrante. Il rischio permanente della detenzione orienta le traiettorie, comprime le aspettative, spezza le reti, contribuisce alla collocazione nel mercato del lavoro, nei modelli dell’abitare. È in questo scenario che si colloca il presente numero di Controfuoco, dedicato alle molteplici forme del trattenimento. Le attraversa, le connette, le storicizza. Non per restituirne un’immagine unitaria, ma per mapparne le articolazioni, le ricadute, le resistenze. Il trattenimento non è ai margini: è un asse portante delle politiche migratorie. È dentro la società, ne riflette le gerarchie, ne rafforza i confini. L’ambizione di questo numero è chiara: contribuire, con strumenti agili e accessibili, alla politicizzazione del dibattito sul trattenimento. Passando in rassegna i vari contributi, Chiara Denaro presenta delle riflessioni che riguardano i nuovi piani di sperimentazione della detenzione migrante. Si parla dei centri di Pozzallo e Porto Empedocle, pensati per trattenere migranti giunti dai “paesi sicuri”, mentre viene esaminata la loro richiesta di protezione internazionale. L’autrice si sofferma in particolare sulla privazione della libertà vista come ingrediente sempre più diffuso del controllo delle migrazioni e sul ruolo svolto dai giudici e dal diritto in questo campo di tensioni. Francesco Ferri presenta una riflessione critica rispetto a un tema che ha avuto recentemente molta amplificazione mediatica, quello dei centri di detenzione in Albania. Ferri si sofferma nello specifico sulla funzione latente di questi luoghi, interpretati come strumenti punitivi che incarnano, anche in prospettiva delle nuove politiche europee, uno specifico modello di controllo della mobilità indisciplinata. In particolare emerge l’idea che tali luoghi rappresentino un confine interno esternalizzato, dove la dislocazione della detenzione pone, tra i vari, seri problemi dal punto di vista del controllo giurisdizionale e della tutela legale. Il tema della detenzione amministrativa è stato approfondito da Rocco Sapienza, in relazione alla struttura collocata a Palazzo San Gervasio, in Provincia di Potenza. Le riflessioni intorno a questo Cpr si soffermano non soltanto sulla violenza istituzionale agita con le forme del trattenimento all’interno di questo luogo, ma si sviluppano anche in riferimento alla sua collocazione nel territorio e in particolar modo nelle reti e infrastrutture dello sfruttamento lavorativo. La progressiva recrudescenza delle politiche di controllo delle migrazioni e la crescente centralità di strumenti necropolitici e repressivi è la cornice di riferimento del contributo di Francesca Esposito. L’autrice, focalizzandosi sul tema della detenzione amministrativa in Italia e in Europa, propone una riflessione critica di orientamento transfemminista e abolizionista indicando la necessità di guardare alle molteplici interconnessioni tra la violenza confinaria e violenza di genere, con particolare riferimento allo sguardo portato nel dibattito attuale dal femminismo anticarcerario. Anche il contributo di Luca Ceraolo affronta il tema della detenzione delle persone migranti all’interno del Cpr. Tenendo la salute mentale come cornice generale di riferimento, in questo contributo viene messa a fuoco la relazione tra diversi campi del sapere – con particolare attenzione a quello medico – nelle pratiche detentive e la materializzazione di un “continuum coloniale” nei processi di stigmatizzazione che riguardano le soggettività migranti. Luca Daminelli e Andrea Contenta si focalizzano sulla Grecia e sul borderscape rappresentato da quella particolare porta d’ingresso verso l’Europa, segnata fortemente dagli accordi con la Turchia che continuano ad avere molteplici conseguenze. In questo contributo l’attenzione è rivolta ai dispositivi di privazione della libertà, che fungono in modo sempre più diffuso e normalizzato come strategie di regolamentazione, esclusione ed inclusione subalterna dei migranti irregolarizzati, ma anche dei richiedenti asilo. Infine troviamo le riflessioni presentate da Giovanni Marenda, che volge lo sguardo verso la Bulgaria, di nuovo imperniate sull’analisi della centralità assunta dalla pratica della detenzione nel governo delle migrazioni indisciplinate. Secondo l’autore le prassi osservabili in quel territorio, segnate da diffusi soprusi e violenze discrezionali degli attori istituzionali, possono essere interpretate come una sorta di anticipazione del recente Patto europeo sulle migrazioni che tende ad incorporarle, legalizzandole. Quest’ultimo infatti viene immaginato non tanto come cambio di paradigma, ma come normalizzazione di un sistema che prevede lo strapotere di polizia e la generalizzazione della detenzione come fulcri operativi. CONTROFUOCO N° 2 GIUGNO 2025 SOMMARIO I nuovi centri di detenzione per i richiedenti asilo. Genealogia di un fallimento governativo Chiara Denaro Da dove viene la singolare pretesa di trasportare i migranti in Albania per aumentare i rimpatri? Francesco Ferri Geografia del controllo: note da Palazzo San Gervasio Rocco Sapienza Per una critica transfemminista abolizionista della detenzione amministrativa in Italia Francesca Esposito Politiche della diagnosi e continuum della colonia. Riflessioni sulla salute nella detenzione amministrativa Luca Ceraolo La Grecia scudo d’Europa. Di razzismo istituzionale, condizioni di vita inumane e politiche di morte Andrea Contenta e Luca Daminelli Reclusi alla periferia d’Europa. Uno sguardo sulla detenzione dei migranti in Bulgaria Giovanni Marenda Clicca sull’immagine di copertina per scaricare gratuitamente la rivista o qui sotto Download in pdf Acquista una copia cartacea Fotografie: Silvia Di Meo, Rami Sole, Luca Greco, Marios Lolos, Francesco Cibati, Rocco Sapienza, Stop CPR Roma e Mel Progetto grafico: Giacomo Bertorelle Gruppo redazionale: Jacopo Anderlini, Emilio Caja, Francesco Della Puppa, Francesco Ferri, Enrico Gargiulo, Barbara Barbieri, Stefano Bleggi, Giovanni Marenda, Omid Firouzi Tabar, Martina Lo Cascio La foto di copertina è stata scattata durante la mobilitazione del Network Against Migrant Detention in Albania l’1 e 2 dicembre 2024. NAMD è una rete di attivist* transnazionale che chiede l’abolizione della detenzione amministrativa. Cooperativa editrice Tele Radio City s.c.s., Vicolo Pontecorvo, 1/A – 35121 Padova, Italy, Iscr. Albo Soc. Coop. n. A121522 Melting Pot è una testata giornalistica iscritta presso il Tribunale di Padova in data 15/06/2015 n. 2359 del Registro Stampa. Controfuoco è un processo aperto e collettivo che vuole coinvolgere saperi e conoscenze composite e crescere a partire dalle diverse esperienze e biografie che intreccerà. Per contribuire scrivi a collaborazioni@meltingpot.org.
Gaza, MSF: “Ennesimo fallimento dell’UE per fermare il genocidio in corso”
MSF chiede agli Stati membri azioni concrete per fermare l’assedio di Israele. I ministri degli affari esteri dell’Unione Europea (UE) hanno mostrato per l’ennesima volta di non voler esercitare alcuna pressione su Israele per porre fine alla distruzione deliberata e sistematica delle vite dei palestinesi a Gaza, rendendosi così complici del genocidio perpetrato dalle autorità israeliane. Le conclusioni del Consiglio Affari Esteri che si è tenuto il 15 luglio confermano l’ipocrisia degli Stati membri e il loro persistente doppio standard nel proteggere i civili e nel garantire il rispetto del diritto internazionale umanitario. Medici Senza Frontiere (MSF) ribadisce il suo appello all’UE affinché agisca concretamente. Ogni Stato ha la responsabilità morale e giuridica di riconoscere e fermare le atrocità in corso a Gaza. A seguito del Consiglio Affari Esteri i leader dell’UE hanno rilasciato dichiarazioni fuorvianti su Gaza, e l’Alto rappresentante dell’UE Kaja Kallas ha affermato che ci sono ‘segnali positivi’ che gli aiuti saranno consegnati, mentre Israele continua a bombardare i bambini in fila per prendere acqua, spara sulle persone che cercano il cibo e continua a mantenere  sotto assedio un’intera popolazione, usandola come strumento di punizione collettiva. Se lo volesse, Israele potrebbe garantire cibo, acqua e medicine a sufficienza a uomini, donne e bambini palestinesi, ma invece continua a mantenere la sua morsa sulla Striscia. Nel frattempo, i leader dell’UE non solo non affrontano la questione dell’assedio imposto da Israele, ma mancano anche del coraggio e dell’umanità necessari per esercitare pressioni sulle autorità israeliane affinché queste pongano fine all’uccisione quotidiana di innocenti. Il 16 giugno, MSF ha inviato una lettera aperta con un messaggio molto chiaro ai leader dell’UE: l’UE ha i mezzi politici, economici e diplomatici per esercitare una reale pressione su Israele affinché ponga fine alle atrocità di massa e apra immediatamente i valichi di frontiera di Gaza per consentire l’ingresso degli aiuti. La popolazione di Gaza non può più aspettare; gli Stati membri dell’UE devono agire con urgenza per fermare la deliberata distruzione della popolazione palestinese a Gaza. Gli operatori di MSF a Gaza lavorano instancabilmente e in condizioni critiche da quasi 2 anni e 12 di loro sono stati uccisi dalle forze israeliane. I team di MSF ricevono regolarmente pazienti con ferite da arma da fuoco, molti dei quali sono stati attaccati nei centri di distribuzione di cibo gestiti dalla Gaza Humanitarian Foundation. Quasi 800 persone sono state uccise mentre cercavano di procurarsi del cibo per sopravvivere nei centri di distribuzione. Quante altre vite dovranno essere perse prima che l’UE intervenga? Quali ulteriori violazioni del diritto internazionale umanitario devono verificarsi prima che le atrocità commesse da Israele contro la popolazione di Gaza abbiano fine?     Medecins sans Frontieres
SOS Humanity pubblica le prove di un respingimento illegale e della scomparsa di 4 persone durante un’operazione della Guardia Costiera tunisina e di quella italiana
Venerdì 11 luglio il nostro equipaggio è riuscito a salvare 26 persone da un gommone sovraffollato e non idoneo alla navigazione, senza giubbotti di salvataggio, nelle acque internazionali della zona di ricerca e soccorso (SRR) libica. Il luogo sicuro (PoS) assegnato dalle autorità italiane è Brindisi, dove Humanity 1 arriverà martedì 15 luglio alle 09:00 CET circa. Il caso di emergenza è stato individuato dai binoculari venerdì mattina. Intorno alle 11:15 CET, il soccorso di un’imbarcazione sovraffollata è stato completato e tutti i 26 sopravvissuti sono stati portati in salvo a bordo. Erano partiti da Zuwiyah e avevano trascorso 30 ore in mare. La maggior parte dei sopravvissuti, tra cui alcuni minori, proviene dal Sudan devastato dalla guerra, mentre altri provengono dall’Egitto, dal Mali e dalla Costa d’Avorio. Poco dopo aver completato il salvataggio, Humanity 1 ha ricevuto una richiesta di soccorso da un aereo Frontex che segnalava circa 70 persone in pericolo. L’aereo dell’ONG Seabird 1 era sul posto e ha confermato il caso di emergenza e che l’imbarcazione era alla deriva. Humanity 1 ha proceduto a prestare assistenza sotto il coordinamento del Centro di coordinamento marittimo italiano (MRCC). Durante la navigazione, l’equipaggio di Humanity 1 ha ascoltato una conversazione radio VHF tra la Guardia Costiera tunisina e quella italiana riguardo a un’operazione in mare: la Guardia Costiera tunisina ha riferito di aver preso a bordo 33 persone, mentre la Guardia Costiera italiana ha segnalato 27 persone a bordo della propria imbarcazione, indicando che quattro persone erano disperse. Il MRCC italiano ha successivamente informato l’equipaggio di Humanity 1 che le persone erano state “soccorse” e ha ordinato alla nave di procedere verso Brindisi. Le prove raccolte da SOS Humanity da bordo di Humanity 1 confermano un respingimento illegale da parte della Guardia Costiera tunisina, che ha costretto 33 persone a tornare in Tunisia e ha lasciato almeno 4 persone disperse in mare. L’intercettazione coercitiva da parte della Guardia Costiera tunisina è stata pubblicata per la prima volta dai progetti Maldusa e Mediterranean Hope sulla base delle testimonianze dei sopravvissuti sbarcati a Lampedusa dopo essere stati soccorsi dalla Guardia Costiera italiana venerdì 11 luglio. La loro pubblicazione rispecchia le prove raccolte in mare da Humanity 1. Questo è l’ennesimo esempio delle conseguenze mortali delle politiche di esternalizzazione dell’UE: con il sostegno dell’UE e dei suoi Stati membri, le persone in cerca di protezione vengono lasciate morire e i rifugiati vengono riportati contro il diritto internazionale in Tunisia, dove sono sottoposti a detenzione arbitraria, discriminazione razziale ed espulsioni collettive nel deserto. La Guardia Costiera tunisina non effettua operazioni di ricerca e soccorso in conformità con il diritto internazionale, ma costringe illegalmente le persone a tornare in Tunisia nonostante la Guardia Costiera italiana sia sul posto per soccorrerle e portarle in un luogo sicuro. Questa è la chiara conseguenza dell’esternalizzazione sistematica delle operazioni di ricerca e soccorso, che l’UE e i suoi Stati membri affidano alla Guardia Costiera tunisina. La perdita di quattro vite umane e il ritorno forzato di 33 persone in Tunisia, dove i loro diritti non sono tutelati, è l’ennesima prova lampante delle politiche migratorie letali dell’Europa e della sua diretta responsabilità per queste violazioni dei diritti umani in mare. Redazione Italia