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Milano, presidio a piazza Duomo. Un incontro inquietante
  Da quando è iniziato, il 16 giugno scorso, vado quando posso all’azione per Gaza che sta compiendo un gruppo di cittadini e cittadine, in silenzio, per un’ora, a Milano in piazza Duomo, dalle 18.30 alle 19.30. (milano-continua-il-presidio-quotidiano-in-piazza-duomo) Domenica 27 giugno sono al mio posto, cartello al collo, bandiera in mano. Mi si avvicina un ragazzo molto giovane, mi dirà poi che ha 17 anni e fa la quarta superiore. Mi dice che viene da una città emiliana (anche se non ha alcun accento) e che il suo cognome è ebreo. Si è svolto tra noi un fitto dialogo di oltre trenta minuti. Ma più che un dialogo, direi un ping pong di domande. Vediamo com’è andata. Si avvicina e con grande garbo mi chiede se può farmi qualche domanda, certo, rispondo. Inizierà con una raffica di domande. Tanto che dopo alcune gli dico: “Facciamo così, una domanda per uno” È d’accordo.  Le sue prime domande vertono su: “Ma se venisse attaccata la sua città…” “Ma se Milano attaccasse Monza…” “Ma se …” Io rispondo con calma, è chiaro che mi vuole portare sul terreno per cui è giusto e legittimo difendersi con le armi. Cerco di portarlo su un terreno più realistico e sul fatto che ogni situazione sia specifica, non vi siano risposte assolute, ma che sicuramente, tendenzialmente, non sarei per prendere le armi, oggetti che non ho mai toccato in vita mia, e vorrei che mio figlio non lo facesse, anzi nessuno al mondo e che, a questo, si unisse la chiusura delle fabbriche di armi. Cerco di spostare il piano del discorso sulle ingiustizie crescenti nel mondo, sulle dinamiche oppresso-oppressore, sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, sui ricchi sempre più ricchi e una popolazione che impoverisce, sul diritto di viaggiare nel mondo e sul non diritto a fare questo… Lui mi chiede se sono di destra o di sinistra. È una domanda che sopporto poco, sono sempre più stufo di etichette che lasciano il tempo che trovano, comunque, insiste e gli dico che sicuramente sono “storicamente” vicino alla sinistra. Cerco di declinare questo però: ovvero, da che parte sto nei conflitti, nelle lotte.  Mi chiede quindi cosa ne pensi del reddito di cittadinanza, gli dico che non è stata una battaglia che ho portato avanti, anzi, ma che credo molto di più nella riduzione di orario di lavoro drastica, per tutti e tutte, a parità di salario e comunque per una radicale redistribuzione della ricchezza. Mi dice subito: “Ma è la destra che è contro il reddito di cittadinanza? E allora come la mettiamo?” Dico che non è certo l’unica proposta del cosiddetto centro-sinistra che non condivido. Gli racconto che insegno italiano agli stranieri e che, cosa che forse molti non sanno, tanti di loro lavorano in nero in decine di ristoranti o bar vicini alla piazza dove ci troviamo. Lavorano anche 60 ore alla settimana, sottopagati. Gli chiedo se sa quanto si paga di affitto per una stanza a Milano. Mi risponde che lui sa che un monolocale o al massimo bilocale a Milano può costare anche 200mila euro. Gli chiedo: “Sì, ma un affitto?” Mi risponde: “Non lo so, io un appartamento lo comprerei, mi sembra buttar via i soldi con un affitto”. Certo gli dico: il problema è avere una bella base di soldi per comprarlo e tutte le condizioni per avere un mutuo. Lui dice: “I soldi si guadagnano, se uno ha bisogno lavora di più.” Gli dico che, se lavorano già 60 ore, come può pensare che abbiano la forza per fare un secondo lavoro? Lui mi dice che guadagnare soldi non è difficile, lui ha guadagnato ultimamente 50mila euro. Non approfondisco su come abbia fatto, ma, fosse anche vero, dubito che i miei studenti abbiano gli strumenti (criptovalute, investimenti, finanzia…) per guadagnare dei soldi così in fretta… sarebbero stupidi o masochisti a lavorare per pochi euro all’ora. Ma vabbè, andiamo avanti. Fra una domanda e l’altra gli ricordo che, se lui ha 17 anni io ne ho 60 e forse della vita ho visto qualcosa di più (mi rendo conto che è una frase da vecchio trombone), ma gli dico anche che lui mi dà l’impressione di due cose: essere “dentro” molto vecchio, ed essere parecchio presuntuoso. Glielo dico sorridendo, ma lo penso davvero. Mi chiede se so in che percentuale siano gli stranieri nelle carceri italiane: certo che lo so, vi ho lavorato dentro, ma so soprattutto quale è la percentuale di poveri e ricchi, e di uomini e donne. Mi chiede cosa ne pensi di Vannacci e poi nomina Berlusconi… Non so più cosa dirgli, comincio ad essere stufo… Parentesi importante: lui è stato per tutto il tempo con il medesimo tono, come una macchina, con lo sguardo fisso nei miei occhi, senza la minima espressione del volto, tanto meno un sorriso (tanto che quando gli scappa, rido e glielo faccio notare!). Quando guardo altrove, parlando, mi chiede perché non lo guardi negli occhi, “Non sono degno di ricevere il suo sguardo?” Gli dico che sinceramente guardo dove credo, io ho accettato di ricevere delle domande, e rispondo, ma posso guardare dove credo, anche per capire chi si muove nella piazza, cosa succede nel frattempo. Tra l’altro la persona di noi vicina a me, mi fa presente che è bene che lui non stia di fronte a me, ma di lato, in modo che il mio cartello si veda.  Mi dà per tutto il tempo del lei, in modo molto formale. Quando in un paio di occasioni, dico “Cazzo”, mi chiede di non usare questo tipo di termini. Sorrido. Tra le cose che dico c’è anche questa: “Credo che un’autocritica che possiamo farci è quella di sapere troppo poco di guerre e massacri che succedono altrove, sappiamo troppo poco di Sudan, Congo, per esempio. Di Gaza sappiamo moltissimo, ma è anche indubbio che quello che sta avvenendo lì abbia un significato e delle modalità che avranno ricadute a livello mondiale, su tutti noi. Ma -ripeto e lo credo- dovremmo sapere molto di più di quello che succede, soprattutto in Africa”. Nel nostro dialogo la questione palestinese è sempre sullo sfondo, tanto che ad un certo punto gli dico: “Guarda, se fossi vissuto 80 anni fa sarei stato (spero) dalla parte degli ebrei, di coloro che erano perseguitati, come rom e omosessuali e oppositori politici, tanto che in un campo di concentramento avrei potuto finirci anch’io. Ma aggiungo una cosa: se tra 80 anni fossi ancora vivo e un presunto governo di uno stato palestinese si comportasse come oggi si comporta il governo di Israele, sarei dalla parte degli oppressi e sarei durissimo con le azioni di quel governo palestinese”.  Ma torniamo al botta e risposta con il nostro giovane, ad un certo punto vado al sodo: “Ma tu saresti capace di sparare a dei bambini?” E qui basta l’attacco della sua risposta: “Se…” non riesco a sentire cosa dice dopo. Si fa molta fatica a dialogare con qualcuno con queste posizioni. Dentro di me vorrei piangere, sono inorridito, turbato… Non so se ricordo di aver mai parlato con qualcuno che sostenesse una possibilità di questo genere in vita mia. È un’esperienza nuova, qualcosa che non avrei mai voluto sentire da qualcuno davanti a me, così giovane poi… Ha sicuramente più futuro e vita lui, davanti, rispetto a me. Mi chiede se non credo che sia meglio guadagnare tanti soldi per poi usarli per le cause in cui si crede. Gli dico che, se vi  avessi dedicato tutto il tempo impegnato in lotte e volontariato, sarei pieno di soldi, ma soprattutto che non credo in una formula del genere. La giustizia, la conquista dei diritti, è un percorso collettivo, così deve essere, non è calata dall’alto. Le persone devono partecipare collettivamente, insieme, prendere coscienza, partecipare, crescere. Solo così i risultati “tengono”. Così si cambia la realtà, si modificano realmente le condizioni di vita, i rapporti di forza. Gli elenco le forme di lotta in cui credo, gli dico che non ho mai fatto parte di un partito e, a dir la verità, neanche di un sindacato. Gli dico che lotto da quando ero un ragazzo. Cerco di farlo. Alla fine, gli dico che io sarei perché tutti i soldati disertassero e lasciassero fare le guerre a chi le decide, da soli, che sono per l’abolizione di eserciti, fabbriche di armi e confini. Forse faccio l’errore di dirgli che, se proprio devo avvicinarmi ad un pensiero, sono vicino a quello anarchico, libertario. Apriti cielo, parte con una raffica di domande, stile interrogazione di liceo, (o forse interrogatorio) su quanto so sulla storia dell’anarchia, l’etimologia, le origini, le correnti, etc… Alla fine credo che raggiunga l’obiettivo: stanco, non rispondo ad una sua domanda. Perfetto, è soddisfatto, ringrazia, saluta, ci diamo la mano e dice che deve andar a prendere il treno (sarà vero? Boh…). Rimango a pensare parecchio a questo incontro. Mi ricorda quando ventenne all’università statale c’erano quelli che sulla porta di ingresso stavano lì e cercavano di fermarti per parlare, non ricordo se erano di Battaglia comunista, spartachisti, quarta internazionale… Fermarsi rischiava di essere uno stillicidio. Confesso che credo di essermi fermato un paio di volte, poi li salutavo cordialmente, ma tiravo dritto. In sostanza: questo giovane dava l’impressione di essere preparatissimo e formato nel cercare e sostenere questo tipo di dialoghi (ripeto, non so se un dialogo è fatto solo di domande, con tono inquisitorio). Comunque, il suo volto, il suo atteggiamento sembrava proprio studiato. In fondo, penso, un atteggiamento del genere, per quanto massimamente educato (nella forma), nella sostanza trasmette una grande aggressività, assomiglia di più ad interrogatorio, un cercare in tutti i modi di “far cadere” l’avversario. Una partita a scacchi, ma con del sadismo, molto nello sguardo, perché si vuole piegare chi si ha di fronte.  Anche questo incontro fa parte del nostro essere in piazza Duomo, ma, mi dico anche: in queste nuove generazioni c’è una discreta fetta che avanza e che punta (se non c’è già arrivata) a quell’egemonia culturale che prima pendeva dall’altra parte della bilancia. Rimane il fatto culminante: un giovane di 17 anni non esclude che sia giusto e necessario uccidere dei bambini.  Non c’è dubbio che il nostro essere in piazza comporta una fatica fisica, intellettuale ma anche, a volte, soprattutto emotiva. Coraggio e andiamo avanti. Andrea De Lotto