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Rapporto Erasmus+ 2024: cresce la partecipazione dell’Italia
Il Programma Erasmus+ sostiene la mobilità e le esperienze formative a livello internazionale, includendo ogni settore educativo, dalla scuola all’università, dalla formazione professionale all’educazione degli adulti. L’Agenzia INDIRE è il punto di riferimento per l’informazione sul Programma e per la gestione dei progetti finanziati nei tre settori di competenza: Istruzione scolastica, Istruzione superiore ed Educazione degli adulti. In oltre trent’anni, il Programma Erasmus è stato importante per la creazione di un’identità europea autentica, basata sul dialogo interculturale e sul rispetto reciproco. Un successo che ha coinvolto oltre 15 milioni di partecipanti. Nel 2024, l’Agenzia Erasmus+ INDIRE celebra una crescita significativa del Programma in Italia, consolidandosi come riferimento per la mobilità internazionale nei settori scolastico, universitario e nell’educazione degli adulti. Grazie a un aumento dei fondi e a una maggiore partecipazione, Erasmus+ rafforza la dimensione europea dell’istruzione e della formazione. Il budget per la mobilità universitaria ha raggiunto 131,2 milioni di euro, finanziando 36.082 mobilità per studenti, docenti e staff di 298 istituzioni italiane partecipanti. I Blended Intensive Programme sono cresciuti del 15%, arrivando a 442, mentre la partecipazione degli Istituti Tecnologici Superiori (ITS) è aumentata con 43 beneficiari. La mobilità extra-europea ha visto l’assegnazione di 4.916 borse di studio, con particolare attenzione ai Balcani Occidentali e all’Africa Sub-sahariana. Il nostro Paese si distingue anche nella cooperazione internazionale, con 24 progetti finanziati e un forte impegno nelle Università Europee, strategiche per la qualità dell’istruzione, della ricerca e dell’innovazione. L’Italia partecipa con 45 istituti in queste alleanze, e Erasmus Mundus Joint Masters la vede al terzo posto in Europa per numero di istituti coinvolti. Sono alcuni dei dati del recente Rapporto Erasmus+ 2024. Nel settore scolastico, oltre 1.400 istituti sono accreditati, con un budget di 37 milioni di euro. Più di 1.300 progetti di mobilità hanno finanziato la formazione all’estero di 8.316 docenti e 16.000 studenti. “Partire in Erasmus durante il percorso scolastico, si sottolinea nel Rapporto, aumenta negli alunni la consapevolezza, la motivazione allo studio e accresce l’apertura internazionale delle scuole, in particolare quelle isolate e lontane”. Sono stati approvati 51 progetti di cooperazione focalizzati su inclusione, cambiamenti climatici, transizione digitale e partecipazione democratica. Crescono anche i progetti di breve termine, con 211 iniziative e 5.211 mobilità. L’educazione degli adulti segna invece un traguardo con 130 organizzazioni accreditate. Sono stati finanziati 2.697 educatori e formatori per esperienze all’estero e 1.326 discenti adulti per mobilità Erasmus+. I partenariati di cooperazione contano 44 progetti, concentrati su inclusione, partecipazione democratica e transizione digitale. Grazie alla mobilità europea, lo staff educativo migliora le proprie competenze, mentre i discenti adulti accedono a opportunità formative e di inclusione sociale. In riferimento alle mobilità realizzate dal 2021 al 2024, i partecipanti con minori opportunità coinvolti sono stati 6.627 (quasi il 10%), in maggior parte sono studenti (14%) su un totale di 44.875 mobilità (studenti). Dal Rapporto emerge come nel settore scuola l’inclusione sia la priorità più rilevante in 81 progetti, mentre nell’educazione degli adulti, inclusione e valorizzazione delle diversità siano centrali in 106 progetti, considerando il target composto da migranti, adulti con basse competenze e giovani fuoriusciti dal sistema formativo. Per quanto concerne l’ambito istruzione superiore, su 125 partenariati, la priorità più frequente è la trasformazione digitale (50 progetti), seguita da lotta ai cambiamenti climatici, inclusione e diversità, e partecipazione democratica. “I dati che emergono dopo i primi quattro anni dell’attuale programmazione 2021-2027, si legge nel Rapporto, evidenziano l’interesse crescente delle istituzioni scolastiche per le opportunità di mobilità degli alunni, degli insegnanti e del personale offerte dal Programma Erasmus+”. Di recente la Commissione europea ha presentato la sua proposta per il quadro finanziario pluriennale 2028-2034 (MFF), che doterà l’Europa di un bilancio per gli investimenti a lungo termine. E tra le nuove misure è prevista anche la creazione dei National and Regional Partnership Plans, con una dotazione complessiva di 865 miliardi di euro, nei quali confluiranno anche i finanziamenti destinati al Programma Erasmus+. La proposta MFF della Commissione prevede un incremento dei fondi Erasmus a 41 miliardi di euro, con un aumento del 50% rispetto al periodo 2021-2027. Qui il Rapporto: https://www.erasmusplus.it/pubblicazioni/educazione-degli-adulti/rapporto-erasmus-indire-2024/.   Giovanni Caprio
Milano, presidio a piazza Duomo. Un incontro inquietante
  Da quando è iniziato, il 16 giugno scorso, vado quando posso all’azione per Gaza che sta compiendo un gruppo di cittadini e cittadine, in silenzio, per un’ora, a Milano in piazza Duomo, dalle 18.30 alle 19.30. (milano-continua-il-presidio-quotidiano-in-piazza-duomo) Domenica 27 giugno sono al mio posto, cartello al collo, bandiera in mano. Mi si avvicina un ragazzo molto giovane, mi dirà poi che ha 17 anni e fa la quarta superiore. Mi dice che viene da una città emiliana (anche se non ha alcun accento) e che il suo cognome è ebreo. Si è svolto tra noi un fitto dialogo di oltre trenta minuti. Ma più che un dialogo, direi un ping pong di domande. Vediamo com’è andata. Si avvicina e con grande garbo mi chiede se può farmi qualche domanda, certo, rispondo. Inizierà con una raffica di domande. Tanto che dopo alcune gli dico: “Facciamo così, una domanda per uno” È d’accordo.  Le sue prime domande vertono su: “Ma se venisse attaccata la sua città…” “Ma se Milano attaccasse Monza…” “Ma se …” Io rispondo con calma, è chiaro che mi vuole portare sul terreno per cui è giusto e legittimo difendersi con le armi. Cerco di portarlo su un terreno più realistico e sul fatto che ogni situazione sia specifica, non vi siano risposte assolute, ma che sicuramente, tendenzialmente, non sarei per prendere le armi, oggetti che non ho mai toccato in vita mia, e vorrei che mio figlio non lo facesse, anzi nessuno al mondo e che, a questo, si unisse la chiusura delle fabbriche di armi. Cerco di spostare il piano del discorso sulle ingiustizie crescenti nel mondo, sulle dinamiche oppresso-oppressore, sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, sui ricchi sempre più ricchi e una popolazione che impoverisce, sul diritto di viaggiare nel mondo e sul non diritto a fare questo… Lui mi chiede se sono di destra o di sinistra. È una domanda che sopporto poco, sono sempre più stufo di etichette che lasciano il tempo che trovano, comunque, insiste e gli dico che sicuramente sono “storicamente” vicino alla sinistra. Cerco di declinare questo però: ovvero, da che parte sto nei conflitti, nelle lotte.  Mi chiede quindi cosa ne pensi del reddito di cittadinanza, gli dico che non è stata una battaglia che ho portato avanti, anzi, ma che credo molto di più nella riduzione di orario di lavoro drastica, per tutti e tutte, a parità di salario e comunque per una radicale redistribuzione della ricchezza. Mi dice subito: “Ma è la destra che è contro il reddito di cittadinanza? E allora come la mettiamo?” Dico che non è certo l’unica proposta del cosiddetto centro-sinistra che non condivido. Gli racconto che insegno italiano agli stranieri e che, cosa che forse molti non sanno, tanti di loro lavorano in nero in decine di ristoranti o bar vicini alla piazza dove ci troviamo. Lavorano anche 60 ore alla settimana, sottopagati. Gli chiedo se sa quanto si paga di affitto per una stanza a Milano. Mi risponde che lui sa che un monolocale o al massimo bilocale a Milano può costare anche 200mila euro. Gli chiedo: “Sì, ma un affitto?” Mi risponde: “Non lo so, io un appartamento lo comprerei, mi sembra buttar via i soldi con un affitto”. Certo gli dico: il problema è avere una bella base di soldi per comprarlo e tutte le condizioni per avere un mutuo. Lui dice: “I soldi si guadagnano, se uno ha bisogno lavora di più.” Gli dico che, se lavorano già 60 ore, come può pensare che abbiano la forza per fare un secondo lavoro? Lui mi dice che guadagnare soldi non è difficile, lui ha guadagnato ultimamente 50mila euro. Non approfondisco su come abbia fatto, ma, fosse anche vero, dubito che i miei studenti abbiano gli strumenti (criptovalute, investimenti, finanzia…) per guadagnare dei soldi così in fretta… sarebbero stupidi o masochisti a lavorare per pochi euro all’ora. Ma vabbè, andiamo avanti. Fra una domanda e l’altra gli ricordo che, se lui ha 17 anni io ne ho 60 e forse della vita ho visto qualcosa di più (mi rendo conto che è una frase da vecchio trombone), ma gli dico anche che lui mi dà l’impressione di due cose: essere “dentro” molto vecchio, ed essere parecchio presuntuoso. Glielo dico sorridendo, ma lo penso davvero. Mi chiede se so in che percentuale siano gli stranieri nelle carceri italiane: certo che lo so, vi ho lavorato dentro, ma so soprattutto quale è la percentuale di poveri e ricchi, e di uomini e donne. Mi chiede cosa ne pensi di Vannacci e poi nomina Berlusconi… Non so più cosa dirgli, comincio ad essere stufo… Parentesi importante: lui è stato per tutto il tempo con il medesimo tono, come una macchina, con lo sguardo fisso nei miei occhi, senza la minima espressione del volto, tanto meno un sorriso (tanto che quando gli scappa, rido e glielo faccio notare!). Quando guardo altrove, parlando, mi chiede perché non lo guardi negli occhi, “Non sono degno di ricevere il suo sguardo?” Gli dico che sinceramente guardo dove credo, io ho accettato di ricevere delle domande, e rispondo, ma posso guardare dove credo, anche per capire chi si muove nella piazza, cosa succede nel frattempo. Tra l’altro la persona di noi vicina a me, mi fa presente che è bene che lui non stia di fronte a me, ma di lato, in modo che il mio cartello si veda.  Mi dà per tutto il tempo del lei, in modo molto formale. Quando in un paio di occasioni, dico “Cazzo”, mi chiede di non usare questo tipo di termini. Sorrido. Tra le cose che dico c’è anche questa: “Credo che un’autocritica che possiamo farci è quella di sapere troppo poco di guerre e massacri che succedono altrove, sappiamo troppo poco di Sudan, Congo, per esempio. Di Gaza sappiamo moltissimo, ma è anche indubbio che quello che sta avvenendo lì abbia un significato e delle modalità che avranno ricadute a livello mondiale, su tutti noi. Ma -ripeto e lo credo- dovremmo sapere molto di più di quello che succede, soprattutto in Africa”. Nel nostro dialogo la questione palestinese è sempre sullo sfondo, tanto che ad un certo punto gli dico: “Guarda, se fossi vissuto 80 anni fa sarei stato (spero) dalla parte degli ebrei, di coloro che erano perseguitati, come rom e omosessuali e oppositori politici, tanto che in un campo di concentramento avrei potuto finirci anch’io. Ma aggiungo una cosa: se tra 80 anni fossi ancora vivo e un presunto governo di uno stato palestinese si comportasse come oggi si comporta il governo di Israele, sarei dalla parte degli oppressi e sarei durissimo con le azioni di quel governo palestinese”.  Ma torniamo al botta e risposta con il nostro giovane, ad un certo punto vado al sodo: “Ma tu saresti capace di sparare a dei bambini?” E qui basta l’attacco della sua risposta: “Se…” non riesco a sentire cosa dice dopo. Si fa molta fatica a dialogare con qualcuno con queste posizioni. Dentro di me vorrei piangere, sono inorridito, turbato… Non so se ricordo di aver mai parlato con qualcuno che sostenesse una possibilità di questo genere in vita mia. È un’esperienza nuova, qualcosa che non avrei mai voluto sentire da qualcuno davanti a me, così giovane poi… Ha sicuramente più futuro e vita lui, davanti, rispetto a me. Mi chiede se non credo che sia meglio guadagnare tanti soldi per poi usarli per le cause in cui si crede. Gli dico che, se vi  avessi dedicato tutto il tempo impegnato in lotte e volontariato, sarei pieno di soldi, ma soprattutto che non credo in una formula del genere. La giustizia, la conquista dei diritti, è un percorso collettivo, così deve essere, non è calata dall’alto. Le persone devono partecipare collettivamente, insieme, prendere coscienza, partecipare, crescere. Solo così i risultati “tengono”. Così si cambia la realtà, si modificano realmente le condizioni di vita, i rapporti di forza. Gli elenco le forme di lotta in cui credo, gli dico che non ho mai fatto parte di un partito e, a dir la verità, neanche di un sindacato. Gli dico che lotto da quando ero un ragazzo. Cerco di farlo. Alla fine, gli dico che io sarei perché tutti i soldati disertassero e lasciassero fare le guerre a chi le decide, da soli, che sono per l’abolizione di eserciti, fabbriche di armi e confini. Forse faccio l’errore di dirgli che, se proprio devo avvicinarmi ad un pensiero, sono vicino a quello anarchico, libertario. Apriti cielo, parte con una raffica di domande, stile interrogazione di liceo, (o forse interrogatorio) su quanto so sulla storia dell’anarchia, l’etimologia, le origini, le correnti, etc… Alla fine credo che raggiunga l’obiettivo: stanco, non rispondo ad una sua domanda. Perfetto, è soddisfatto, ringrazia, saluta, ci diamo la mano e dice che deve andar a prendere il treno (sarà vero? Boh…). Rimango a pensare parecchio a questo incontro. Mi ricorda quando ventenne all’università statale c’erano quelli che sulla porta di ingresso stavano lì e cercavano di fermarti per parlare, non ricordo se erano di Battaglia comunista, spartachisti, quarta internazionale… Fermarsi rischiava di essere uno stillicidio. Confesso che credo di essermi fermato un paio di volte, poi li salutavo cordialmente, ma tiravo dritto. In sostanza: questo giovane dava l’impressione di essere preparatissimo e formato nel cercare e sostenere questo tipo di dialoghi (ripeto, non so se un dialogo è fatto solo di domande, con tono inquisitorio). Comunque, il suo volto, il suo atteggiamento sembrava proprio studiato. In fondo, penso, un atteggiamento del genere, per quanto massimamente educato (nella forma), nella sostanza trasmette una grande aggressività, assomiglia di più ad interrogatorio, un cercare in tutti i modi di “far cadere” l’avversario. Una partita a scacchi, ma con del sadismo, molto nello sguardo, perché si vuole piegare chi si ha di fronte.  Anche questo incontro fa parte del nostro essere in piazza Duomo, ma, mi dico anche: in queste nuove generazioni c’è una discreta fetta che avanza e che punta (se non c’è già arrivata) a quell’egemonia culturale che prima pendeva dall’altra parte della bilancia. Rimane il fatto culminante: un giovane di 17 anni non esclude che sia giusto e necessario uccidere dei bambini.  Non c’è dubbio che il nostro essere in piazza comporta una fatica fisica, intellettuale ma anche, a volte, soprattutto emotiva. Coraggio e andiamo avanti. Andrea De Lotto
Nel mondo 1 persona su 4 in condizione di sfruttamento o schiavitù moderna è minorenne
La maggior parte dei 12,3 milioni di bambini in condizione di sfruttamento o schiavitù moderna, ovvero circa 9 milioni, è coinvolta in matrimoni forzati, mentre i restanti 3,2 milioni sono divisi in sfruttamento sessuale (1,6 milioni), sfruttamento lavorativo o in attività illecite (1,3 milioni) e lavori forzati imposti dalle autorità statali (320.000). Per quanto riguarda la tratta, nel 2022 è minore più di una vittima su 3 (il 38% del totale delle 68.836 persone coinvolte per cui è stata rilevata l’età, cioè oltre 26mila bambini e adolescenti). E’ senz’altro una sottostima, ma in ogni caso il numero di minori identificati come vittime di tratta è aumentato del 31% rispetto al 2019, evidenziando una crescita significativa nella rilevazione del fenomeno minorile a livello globale. L’incremento è attribuibile alla maggiore incidenza delle ragazze tra le vittime trafficate a fini di sfruttamento sessuale e all’aumento dei ragazzi vittime di tratta per lavoro forzato, in particolare in Europa e nel Nord America, e alla forte crescita delle vittime minorenni in Africa Sub-Sahariana. Sono alcuni dei dati della XV edizione del Dossier Piccoli Schiavi Invisibili di Save the Children sul fenomeno della tratta e dello sfruttamento dei minori, un fenomeno che negli ultimi anni ha assunto una dimensione sempre più complessa e dinamica, alimentata da crisi globali interconnesse. Le ragazze rappresentano il 57% delle vittime minorenni rilevate a livello globale e nel 60% dei casi il loro sfruttamento è di tipo sessuale. I ragazzi, al contrario, risultano maggiormente coinvolti in situazioni di lavoro forzato (45%). I Paesi dell’America Centrale e dei Caraibi si presentano come quelli con la più alta incidenza di vittime minorenni: più di 3 vittime su 5, tra quelle rilevate, sono sotto i 18 anni (67%). Seguono l’Africa Sub-Sahariana e i Paesi del Nord Africa con, rispettivamente, il 61% e il 60% dei minori tra le vittime di tratta. Per quanto riguarda l’Europa, nel 2023 le vittime minorenni di tratta costituiscono il 12,6%, pari a 1.358 bambine, bambini e adolescenti, per lo più identificate in Francia (29,4%), Germania (17,7%) e Romania (16,3%), sfruttate nel 70% dei casi a fini sessuali, mentre il restante 30% è impiegato in lavoro forzato (13%) o in altre forme come l’accattonaggio forzato o attività criminali forzate (17%) come rapine, borseggi o spaccio di sostanze stupefacenti. “Rilevante sottolineare – sottolinea Save the Children –  che, nel periodo 2021-2022, l’81% delle vittime di tratta minorenni (2.401) in Europa era rappresentato da cittadini dell’UE e l’88% di essi (2.120) è stato sfruttato nello Stato membro di appartenenza. Generalmente, i trafficanti cercano di adescare minori che provengono da contesti sociali e familiari fragili, che vivono in condizioni di povertà e in alcuni casi soffrono di disturbi psicologici”. In Italia, invece, la tratta e lo sfruttamento dei minori rappresentano una realtà sommersa, che coinvolge sia flussi migratori internazionali – il Paese si conferma crocevia di transito e destinazione di minori vittime di tratta – sia contesti interni di vulnerabilità sociale.  Le vittime sono spesso coinvolte in forme multiple di sfruttamento: sessuale, lavorativo, forzato in ambito domestico, fino al coinvolgimento in attività criminali forzate o accattonaggio coatto. La digitalizzazione della società contemporanea ha profondamente trasformato il panorama della tratta e dello sfruttamento minorile. In questo contesto, si parla sempre più spesso di “e-trafficking”, che include tutte le forme di tratta e sfruttamento di esseri umani che si avvalgono in modo determinante delle tecnologie digitali, sia per il reclutamento, l’adescamento e il controllo delle vittime, sia per la gestione logistica, il pagamento e la distribuzione dei profitti. “L’e-trafficking, sottolinea Save the Children, caratterizzato dall’uso sistematico di piattaforme online, social network, app di messaggistica e strumenti digitali, consente di abbattere le barriere geografiche, rendere più rapidi ed efficienti i processi di tratta e sfruttamento e ridurre i rischi per gli sfruttatori. Questa modalità – utilizzata sia per sfruttamento sessuale che per il coinvolgimento dei minori in attività criminali forzate, il lavoro forzato e la produzione e/o distribuzione di materiale di abuso online – permette di raggiungere un numero molto più ampio di potenziali vittime, di agire in modo anonimo e di rendere più difficile l’individuazione e il contrasto da parte delle autorità”. Una nuova frontiera è la “gamification” dello sfruttamento, una strategia che utilizza gli sviluppi della tecnologia – che ha trasformato le esperienze di gioco online facendole passare da piattaforme chiuse a spazi virtuali che consentono un’ampia gamma di interazioni sociali – e la risposta psicologica associata alle fasi del gioco – come il progresso (es. Il passaggio a un livello successivo del gioco) o i premi e le ricompense (es. i badge che si ottengono quando si completa un’attività o si vince una sfida) – per rendere più accettabile e “normale” la partecipazione a reti criminali, mascherando lo sfruttamento dietro dinamiche ludiche e sociali apparentemente innocue. Qui il Rapporto: https://www.savethechildren.it/cosa-facciamo/pubblicazioni/piccoli-schiavi-invisibili-2025. Giovanni Caprio
Due diciottenni israeliani finiscono in prigione per il rifiuto di partecipare al genocidio a Gaza
Questa mattina, i diciottenni Ayana Gerstmann e Yuval Pelleg si sono rifiutati di arruolarsi nell’esercito israeliano. Gerstmann è stata condannata a 30 giorni di prigione militare, mentre Pelleg è stato condannato a 20 giorni. Prima di entrare nella base di arruolamento di Tel HaShomer, la Rete Mesarvot ha organizzato una manifestazione a sostegno dei due giovani obiettori di coscienza, con la partecipazione di decine di ex obiettori, di familiari e del deputato della Knesset Offer Cassif. Ayana Gerstmann – Dichiarazione di rifiuto Mi chiamo Ayana Gerstmann, ho 18 anni e la legge israeliana mi impone di arruolarmi. Ho deciso di rifiutare, poiché la mia morale mi obbliga a farlo e ho scelto di agire di conseguenza. Sono cresciuta in una famiglia che parlava spesso del fallimento morale del servizio militare. Eppure da ragazzina non capivo bene cosa fosse il fallimento morale del servizio militare di cui mia madre parlava spesso. Non avevo idea di cosa stesse accadendo intorno a me, quali fossero i territori e quali le occupazioni. Ricordo che anni fa ho partecipato alla cerimonia della Giornata di Gerusalemme della mia scuola – ho ballato, cantato e recitato testi nazionalistici senza nemmeno immaginare che ci fosse un problema con la celebrazione gioiosa di ciò che ci veniva mostrato come “l’unificazione di Gerusalemme – la capitale eterna”. Un anno dopo la mia ignoranza politica è andata in frantumi. Nei giorni precedenti la Giornata di Gerusalemme, ci venne assegnata una ricerca sui luoghi importanti di Gerusalemme. Oggi mi è chiaro che l’obiettivo era quello di rafforzare le mie tendenze nazionalistiche, ma il risultato è stato l’opposto. Ho letto di Gerusalemme Est e per la prima volta l’ho vista come era rappresentata nel sito web di B’Tselem. Improvvisamente ho aperto gli occhi su ciò che si nascondeva dietro le celebrazioni dell’orgoglio nazionale a cui avevo partecipato un anno prima: l’occupazione e l’oppressione. Improvvisamente, e in un colpo solo, mi sono trovata davanti la profonda sofferenza di milioni di persone, che prima non sapevo nemmeno esistessero, la cui libertà viene schiacciata giorno dopo giorno, ora dopo ora, dal regime di occupazione. Da quel momento, è cresciuta la consapevolezza che non posso assolutamente far parte del sistema militare che applica il regime di occupazione e che rende la vita dei palestinesi miserabile. Non farò parte di un sistema che espelle abitualmente comunità, uccide innocenti e permette ai coloni di appropriarsi delle loro terre. Dal 7 ottobre questa consapevolezza ha raggiunto il suo apice a causa delle azioni dell’esercito a Gaza. Dall’inizio della guerra, decine di migliaia di donne e bambini sono stati uccisi e centinaia di migliaia sono stati sfollati dalle loro case, costretti a vivere in campi profughi, privati della loro dignità e affamati. Questa catastrofe umanitaria è il risultato delle azioni dell’esercito, il risultato di una guerra che dura da quasi due anni e che ha perso i suoi obiettivi da tempo. Da due anni vedo lo spargimento di sangue come risultato di una guerra di vendetta senza speranza. Vedo decine di migliaia di bambini gazawi che nascono e crescono nella disperazione, nella morte e nella distruzione che formano un circolo infinito di odio, vendetta e omicidio. Vedo centinaia di giovani della mia età che vengono uccisi perché mandati dallo Stato a continuare in eterno questo circolo. Vedo una guerra che mette in pericolo la vita degli ostaggi. E non posso rimanere in silenzio di fronte a queste cose. Non posso tacere in una società in cui il silenzio ha preso il sopravvento. Non ho il privilegio di stare in silenzio, quando so che tutti intorno a me lo hanno fatto a lungo. La società israeliana ha visto l’occupazione per sei decenni e sta chiudendo gli occhi. La società israeliana vede i bambini gazawi uccisi nei bombardamenti e chiude gli occhi. La società israeliana vede l’esercito commettere le peggiori atrocità morali e decide di tacere. La società israeliana non è pronta a riconoscere le atrocità che il suo esercito sta commettendo contro gli innocenti, perché sa che una volta che lo farà, non sarà in grado di affrontare il senso di colpa. Invece di invocare la propria moralità e opporsi alle atrocità, la società israeliana mette a tacere ogni accenno alla propria immoralità, giustifica tutto ciò che non può essere messo a tacere ed etichetta come malvagia qualsiasi opposizione alla guerra, per paura di essere etichettata come tale, se oserà guardare la verità. Durante la guerra ho sentito innumerevoli volte l’affermazione ”Non ci sono innocenti a Gaza” – e sono inorridita. Vedo questa affermazione normalizzarsi sempre di più. Vedo persone davvero convinte che nemmeno il più piccolo bambino di Gaza sia innocente e che quindi non meriti alcuna pietà. E io rispondo: Un bambino è sempre innocente! Anch’io da bambina ero innocente, quando ho partecipato alle cerimonie della Giornata di Gerusalemme. Non potevo scegliere diversamente quando ho letto i testi nazionalisti che mi era stato detto di leggere, ignorando completamente le sofferenze palestinesi. Un bambino inconsapevole non può fare le sue scelte e quindi è innocente. Ma ora, essendo maturata, la mia innocenza non è incondizionata. Per questo so che se decidessi di rimanere in silenzio, ora che sono consapevole delle sofferenze inflitte a milioni di persone dall’esercito, sarei complice del crimine. Oggi so che non posso tacere di fronte alla sofferenza. Non posso tacere di fronte alle uccisioni e alla distruzione. E oggi so che arruolarsi nell’esercito è peggio del silenzio: è collaborare con un sistema che fa del male a milioni di persone. Per questo mi rifiuto, e lo faccio a gran voce. Non collaborerò e non farò parte del silenzio che permette di commettere le peggiori atrocità in mio nome. Come cittadina di questo Paese dico chiaramente: la distruzione di Gaza – non in mio nome! L’occupazione – non in mio nome! Mi rifiuto di rimanere in silenzio, nella speranza che la mia voce apra gli occhi di altri nella nostra società e risvegli la loro consapevolezza di ciò che viene fatto in loro nome – fino a quando neanche loro potranno più rimanere in silenzio”. Yuval Pelleg – Dichiarazione di rifiuto Mi chiamo Yuval Pelleg e oggi mi rifiuto di arruolarmi. Come tutti noi, ricordo bene le atrocità del 7 ottobre e l’inizio della guerra di distruzione. Ricordo anche le parole di Tal Mitnick, che poco tempo dopo si rifiutò di arruolarsi e disse che la guerra non avrebbe portato alcun progresso, ma solo morte e distruzione. Sono passati 22 mesi e le sue affermazioni si sono rivelate vere. Gli obiettivi ufficiali della guerra – smantellare il dominio di Hamas e restituire gli ostaggi – non sono stati raggiunti. Sotto le dichiarazioni di “porteremo la sicurezza” e di “vittoria totale”, tuttavia, si nasconde una sinistra verità: il vero obiettivo che sta guidando la guerra, quello che non si trova nelle note ufficiali, era e rimane la vendetta. Una vendetta che ha causato l’uccisione di molte decine di migliaia di gazawi, tra cui bambini che il 7 ottobre non erano nemmeno nati, la distruzione totale della Striscia di Gaza e la distruzione di ogni speranza. Mentre assisto ai crimini commessi dall’esercito israeliano contro il popolo palestinese a Gaza e in Cisgiordania, si rivela un fatto spiacevole riguardo all’arruolamento in un esercito che pretende di proteggermi in quanto ebreo: si tratta di un’azione incompatibile con i principi fondamentali della vita e dell’uguaglianza per tutti gli esseri umani, e dell’adesione a un sistema la cui essenza è l’oppressione, l’occupazione e la distruzione. Un tempo speravo di dare un contributo importante alla società attraverso il servizio militare. Ho studiato informatica e volevo entrare nell’intelligence, imparare nell’esercito e poi trovare un buon lavoro nell’alta tecnologia. Purtroppo, ogni linea rossa che avrei potuto immaginare (e molte altre che non mi sono mai passate per la testa) è stata oltrepassata. Non si possono scusare o giustificare i crimini che lo Stato di Israele ha commesso negli ultimi due anni, e in generale in tutta la sua storia. La conclusione è chiara: rifiutare di arruolarsi non è solo un diritto, ma un obbligo, e il primo passo per migliorare la vita di tutti quelli che vivono in questa terra. Dobbiamo capire che il genocidio di Gaza non sta avvenendo in modo casuale o per una scelta “sfortunata” nell’elezione dei leader. È il risultato di lunghi processi di fascistizzazione dell’area e una logica conclusione derivata dai principi fondamentali del sionismo. Lo Stato di Israele ha acquisito esperienza nei crimini e nel terrore fin dalle prime fasi della sua fondazione, e oggi la loro portata e la loro accettazione da parte della società sono più ampie che mai. Da un lato l’ignoranza della morale e del diritto internazionale è sempre stata familiare allo Stato, dall’altro siamo chiaramente nel mezzo di un declino – è lecito supporre che se Nathan Alterman scrivesse “Al Zot” (una poesia del 1948 che critica i crimini di guerra israeliani) oggi verrebbe considerato un traditore e gli direbbero: “Vai a Gaza”. Giustamente, l’IDF non è considerato a livello internazionale un esercito morale, e tantomeno “l’esercito più morale del mondo”. Le sue azioni e le sue aspirazioni – uccisioni di massa di bambini, fame indotta e persino piani per istituire un campo di concentramento – cioè un genocidio – ispirano odio e disgusto, e se mettiamo da parte il nazionalismo e il tribalismo è facile vedere che la rabbia, l’odio e l’opposizione non sono reazioni radicali e certamente non antisemite, ma piuttosto morali, minime e giustificate in risposta ai crimini di cui sopra. Nonostante tutti i suoi crimini, le nazioni del mondo continuano a rifornire la macchina di distruzione israeliana con armi e finanziamenti. Presto sarò imprigionato per il mio rifiuto di partecipare al massacro e mi appello a voi, popoli del mondo: intensificate la lotta! Unitevi a me e resistete alla distruzione e al genocidio con tutta la vostra forza. Infine, voglio ricordare che qui non si tratta di me. Si tratta della distruzione, delle persone uccise, del dialogo che è stato portato all’estinzione e della giustizia che è stata sepolta sotto le macerie di Gaza. Mi sforzo di prendere parte a una lotta per la vita, l’uguaglianza e la libertà. In questa lotta, una cosa è chiara: io e l’esercito siamo agli antipodi. Ecco perché mi rifiuto di arruolarmi. Mesarvot
Freedom Flotilla Coalition, intervista ad Antonio Mazzeo
Freedom Flotilla, la coalizione internazionale che associa cittadini comuni, attivisti e operatori umanitari, ha lo scopo di fare pressione sul governo israeliano affinché cessi l’assedio che dal ’48 perpetra ai danni del popolo palestinese, con alterne accelerazione dei soprusi nei loro confronti, sfociato nella creazione di Gaza, la più grande prigione a cielo aperto del mondo. Con la decisa sterzata a destra dell’ultimo ventennio, fino all’attuale coalizione governativa, ostaggio delle fazioni più oltranziste, conservatrici e islamofobe, l’assedio, frutto marcio di un colonialismo di insediamento, così come viene sistematizzato ed applicato al popolo palestinese secondo lo storico israeliano Ilan Pappé, si è addirittura trasformato in genocidio: uno sterminio in mondovisione dove le immagini e le cifre si rincorrono a suon di fake-news che negano la realtà dei fatti. Tornando alla Freedom Flotilla e al caso della nave Handala, l’obiettivo è quello di rompere il blocco illegale agli aiuti umanitari, entrando nell’unico corridoio, il porto di Gaza, che in teoria non richiederebbe il “permesso” del governo sionista perché, appunto, è territorio palestinese. Lo scopo più importante però è quello di aprire una breccia nel muro spietato dell’indifferenza, uno spiraglio di speranza contro il genocidio e su questo, come sempre, ci sono venuti in aiuto i bambini e le bambine della Sicilia e della Puglia con i loro giocattoli da consegnare ai loro fratellini gazawi. Pur non avendo l’autorità legale per assaltare la nave, rapirne l’equipaggio e poi detenerlo e deportarlo nel proprio territorio, Israele lo ha fatto compiendo un gesto terroristico, nonché un atto di guerra non dichiarato preventivamente: un attacco non provocato infatti  è considerato “crimine di guerra” (Art. 8 dello Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale. Come ha dichiarato Ann Wright, membro del comitato direttivo della Freedom Flotilla, “non si tratta di una questione di giurisdizione interna israeliana. Si tratta di cittadini stranieri che operano secondo il diritto internazionale in acque internazionali. La loro detenzione è arbitraria, illegale e deve cessare”. L’assalto dei militari israeliani è avvenuto in acque internazionali a 40 miglia nautiche dalle coste di Gaza nella notte tra il 25 e il 26 luglio 2025, quindi si configura come l’ennesimo crimine commesso da Israele nel totale disprezzo del diritto internazionale. I 21 membri della Freedom Flottilla sono stati rapiti e incarcerati. Gli è stata data la possibilità di essere rimpatriati subito firmando un documento precompilato, ma alcuni di loro non hanno accettato e sono ancora detenuti in attesa di processo per l’espulsione forzata, in teoria dopo 72 ore e dopo avere subito un processo per direttissima con l’accusa paradossale di “immigrazione clandestina”: sulla base di questa accusa fantasiosa lo Stato d’Israele non sarebbe mai dovuto nascere! Antonio Mazzeo, uno dei due italiani che ha scelto di tornare immediatamente in Italia, dopo aver risposto alle domande tipiche dei media mainstream (“Come ti hanno trattato?”, “Dove stanno gli altri membri dell’equipaggio?”, oppure “Quando verranno rilasciati?”, ecc. ecc.) tentando ogni volta di riportare il discorso sulla situazione tragica di Gaza, sui massacri, sul genocidio e sulle complicità dei governi “occidentali”, primo fra tutti quello più fedele a asservito alla coppia USA-Israele, l’Italia, si è soffermato su uno degli aspetti più emozionanti che aveva in serbo la missione. Antonio, parlaci dei giocattoli e dell’obiettivo di portare questi regali, simbolo di unione tra i bambini di Siracusa e Gallipoli (l’ultima tappa prima di prendere il largo verso le coste palestinesi) e i loro fratelli, ancora oggi sotto le bombe a Gaza Il fatto stesso che la nave si chiamasse Handala, un personaggio dei fumetti con cui sono cresciute intere generazioni di giovani palestinesi, conteneva un messaggio particolare. Non eravamo una delle tante navi umanitarie che hanno tentato di forzare il blocco, ma una nave pensata principalmente per il suo rapporto con i bambini. La nave si è “arricchita”, a dimostrazione di quanto fosse stato colto questo segnale, nelle due soste a Siracusa e a Gallipoli, dove è stata visitata da centinaia di bambini e bambine. Volevano vedere proprio la nave Handala, quella che portava gli aiuti ai loro amichetti di Gaza! Tutti sentivano il bisogno di portare qualcosa, in questo caso bambolotti, peluche e giocattoli. La cosa più bella e commovente è avvenuta la mattina dell’arrivo ad Ashdod. Stava albeggiando, eravamo tutti sdraiati sul ponte e mi sono accorto che ognuno di noi dormiva abbracciato a uno dei peluche con cui avevamo navigato in quegli ultimi 10 giorni. Eppure stiamo parlando di persone dai 70 anni e più, sino ai 25! Anch’io ho portato con me un souvenir dall’Handala, uno di quei bambolotti. Ecco, forse questa è la cosa più bella, il segnale più bello, perché probabilmente tra i bambini del mondo, ma anche tra quei bambini a cui l’umanità viene negata, i bambini di Gaza, il luogo più disumanizzato e più disumanizzante che esista, c’è ancora lo stesso bisogno di protezione e di dolcezza. I bambini avrebbero potuto vedere una nave che portava degli aiuti, ma soprattutto i regalini dei loro cuginetti dall’altra parte del Mediterraneo. Allora, questo sì che è un segno di speranza anche per le nostre giovani generazioni. Questa situazione, la strage per fame e oggi il genocidio per fame a Gaza, mi fa venire in mente soltanto un’altra vicenda storica, dei primi anni ’60, dopo l’indipendenza della Nigeria: in quegli anni in Biafra morivano migliaia e migliaia di bambini, come oggi, ma con la differenza che sono passati 60 anni e questi fatti si ripetono ancora. Inoltre all’epoca si trattava di una sorta di guerra civile tutta svolta all’interno di uno Stato, mentre oggi assistiamo a uno Stato che sta occupando e facendo morire di malnutrizione i cittadini di un altro Stato. Antonio, ti porto i ringraziamenti di Nancy Hamad*, la studentessa laureanda in economia con cui sono in contatto direttamente da Gaza. Quando le ho raccontato di questa iniziativa mi ha chiesto di dirti quanto questo supporto morale sia fondamentale per loro. Grazie a voi! * Per leggere le corrispondenze e conoscere la vicenda di Nancy Hamad di Gaza, vai ai nostri articoli pubblicati su Pressenza: articolo1 – articolo2 – articolo3 Stefano Bertoldi
Due diciottenni israeliani rifiutano di arruolarsi nell’esercito per protesta contro l’annientamento di Gaza
Giovedì 31 luglio 2025 alle ore 10:00, presso la base militare di Tel HaShomer, gli attivisti della rete Mesarvot terranno una manifestazione a sostegno di Ayana Gerstmann, diciottenne di Ramat-Gan, che si rifiuta di arruolarsi nell’esercito israeliano per protesta contro la guerra e il genocidio a Gaza, che ha già ucciso più di 60.000 palestinesi e distrutto intere città, e per opporsi all’occupazione in corso del popolo palestinese. Insieme a lei, anche Yuval Peleg, 18 anni, di Kfar Saba, si rifiuterà di arruolarsi domani mattina. Ayana Gerstmann: “Durante la guerra, ho sentito innumerevoli volte l’affermazione ”Non ci sono innocenti a Gaza” – e sono inorridita. Vedo questa affermazione normalizzarsi sempre di più. Vedo persone davvero convinte che nemmeno il più piccolo bambino di Gaza sia innocente e che quindi non meriti alcuna pietà. E io rispondo: Un bambino è sempre innocente! Come cittadina di questo Paese, dico con voce chiara: la distruzione di Gaza – non in mio nome! L’occupazione – non in mio nome! Mi rifiuto di rimanere in silenzio, nella speranza che la mia voce apra gli occhi di altri nella nostra società e risvegli la loro consapevolezza di ciò che viene fatto in loro nome – fino a quando anche loro non potranno più rimanere in silenzio”. Yuval Peleg: “Nonostante tutti i suoi crimini, le nazioni del mondo continuano a rifornire la macchina di distruzione israeliana con armi e finanziamenti. Presto sarò imprigionato per il mio rifiuto di partecipare al massacro e mi appello a voi, popoli del mondo: intensificate la lotta! Unitevi a me e resistete alla distruzione e al genocidio con tutta la vostra forza”. Foto di Soul Behar Tsalik, Mesarvot Mesarvot
La Classifica Censis delle Università italiane: edizione 2025/2026
Sono tante le ragazze e i ragazzi che, archiviata la “maturità”, stanno valutando in quale università proseguire i propri studi. E anche quest’anno per loro è disponibile la Classifica Censis delle Università italiane, giunta alla sua venticinquesima edizione: uno strumento che è stato creato per fornire orientamenti alle scelte di tutti gli studenti pronti a intraprendere la carriera universitaria. Le prime due posizioni tra i mega atenei statali (quelli con oltre 40.000 iscritti) sono occupate stabilmente anche quest’anno dall’Università di Padova, prima con un punteggio complessivo di 90,3, seguita dall’Università di Bologna (87,7). Sale in terza posizione l’Università di Pisa che con 84,7 punti totali scala 3 posizioni della classifica, superando la Sapienza di Roma che scende al quarto posto (84,2) ex aequo con l’Università Statale di Milano che rispetto allo scorso anno guadagna una posizione. Sale al quinto posto l’Università di Firenze (lo scorso anno in ottava posizione) con il punteggio di 83,5, seguita dall’Università di Torino (83,0, +1 posizione) e dall’Università di Palermo (82,3, -3 posizioni). Torna tra i mega atenei l’Università di Bari (75,7), che si colloca in penultima posizione, precedendo l’Università di Napoli Federico II (75,5), che chiude la classifica. Per quanto riguarda i medi atenei statali, anche quest’anno apre la classifica l’Università di Trento, che con il punteggio di 93,7 mantiene la prima posizione, seguita come lo scorso anno dall’Università di Udine, che condivide il secondo posto con l’Università Politecnica delle Marche con il punteggio di 92,2, avendo quest’ultima guadagnato due posizioni. In terza si colloca l’Università di Siena (89,7), che avanza anch’essa di due posizioni. Retrocede al quarto posto l’Università di Sassari (88,8, -1 posizione). Il quinto e il sesto posto sono, invece, detenuti dall’Università di Trieste (88,7, +2 posizioni) e dall’Università Ca’ Foscari Venezia (88,0). Nella classifica dei piccoli atenei statali (fino a 10.000 iscritti) continua a occupare il primo posto l’Università di Camerino, con un punteggio complessivo pari a 96,0, seguita dall’Università di Cassino che scala di due posizioni la classifica totalizzando il punteggio di 89,0 e supera l’Università della Tuscia, che retrocede dalla seconda alla terza posizione con 88,3. La speciale classifica dei Politecnici è guidata, invece, anche quest’anno dal Politecnico di Milano (con un punteggio di 98,8 punti), seguito dal Politecnico di Torino (92,5), che occupa la seconda posizione. Terzo in graduatoria lo IUAV di Venezia (86,7). Chiude la classifica il Politecnico di Bari con il punteggio di 85,2. Per quanto riguarda la classifica degli atenei non statali, con specifico riferimento ai grandi atenei (oltre 10,000 iscritti) la Luiss si conferma al pari dello scorso anno al vertice della graduatoria con il punteggio totale di 94,2, davanti all’Università Bocconi (91,4) e all’Università Cattolica (78,0), rispettivamente in seconda e terza posizione. Tra i medi (da 5.000 a 10.000 iscritti) è ancora la Lumsa a primeggiare (83,0), a cui si accodano lo Iulm (79,6) e l’Università Suor Orsola Benincasa (75,2), che chiude questa classifica. Tra i piccoli (fino a 5.000 iscritti), più numerosi, la Libera Università di Bolzano mantiene la prima posizione (con un punteggio di 95,2), seguita in seconda posizione dall’Università di Roma Europea (87,0) e, in terza, dall’Università Campus Biomedico di Roma (86,8). Al quarto posto sale, guadagnando una posizione l’Università degli Studi internazionali di Roma (86,6), a cui si accoda Liuc-Università Cattaneo (84,6 punti, -1 posizione), che si qualifica quinta. Sale al sesto posto l’Università degli Studi Link (80,8, +2 posizioni), seguita dall’Università di Enna Kore (79,8, +1 posizione) e dall’Università LUM De Gennaro stabile in ottava posizione (78,4). L’Università di Milano San Raffaele (73,0) e l’Università della Valle d’Aosta (72,8) si inseriscono al penultimo ed ultimo posto. Il CENSIS certifica anche che crescono le immatricolazioni: secondo i dati provvisori dell’Anagrafe Nazionale degli Studenti Universitari, nell’anno accademico 2024/2025 si registra un sensibile incremento degli immatricolati, aumentati del 5,3% rispetto a marzo 2024. L’area disciplinare Giuridica, economica e sociale raggiunge il 35,4% delle immatricolazioni, grazie ai corsi di laurea in economia con il 43,1% delle nuove iscrizioni. Seconda per numero di immatricolazioni è l’area delle discipline Stem (28,6%, di cui il 42,6% nei corsi di ingegneria industriale e dell’informazione). In terza posizione si colloca l’area Sanitaria e Agro-Veterinaria con il 18,4% di immatricolati (di cui il 66,7% in ambito medico-sanitario e farmaceutico). In quarta ed ultima posizione l’area Artistica, letteraria ed educazione (il 17,6% degli immatricolati, di cui il 29,1% ha scelto corsi di laurea del gruppo educazione e formazione). Qui la Classifica del Centro Studi Investimenti Sociali delle Università italiane (edizione 2025/2026): https://www.censis.it/sites/default/files/downloads/Classifica%20Censis%20delle%20Universita%20Italiane%202025-2026.pdf.  Giovanni Caprio
Come continuare nelle lotte senza trovarsi tutt3 in carcere?
Da quando abbiamo pubblicato il libro “Carcere ai Ribell3” lo abbiamo usato come strumento di dialogo e di confronto sulle dinamiche della repressione e del carcere. Volevamo contribuire al movimento popolare che si stava attivando per contrastare il disegno di legge Sicurezza che l’anno scorso di questi tempi era stato proposto. ORA CHE IL DISEGNO È DIVENTATO LEGGE (LA 80/25), CON UNA FORZATURA IMPRESSIONANTE DEL SUO ITER, A COSA SERVE ANCORA PARLARE DI QUESTE STORIE? La risposta l’abbiamo trovata quasi subito: è necessario continuare a parlarne e proseguire in un’azione di contrasto a questa legge, sul piano giuridico certo, ma anche politico e sociale, tenendo alta l’attenzione sulle narrazioni e sulle intersezioni che finora abbiamo incontrato portando in giro il libro in varie parti d’Italia. E con questo intento che abbiamo portato al Festival Alta Felicità la nostra proposta di presentazione che è stato un nuovo luogo di confronto tra rappresentanti delle lotte oggi più attive: Bianca di Extinction Rebellion Torino, Dana Lauriola di Associazione a Resistere, Rosa delle Mamme e Mariapaola Boselli di Amnesty International – Italia. Con loro abbiamo affrontato i temi della repressione sempre più pervasiva che mira a contrastare tutte le lotte attive oggi in Italia, non solo quelle che utilizzano pratiche più conflittuali ma anche quelle che praticano azioni non violente e pacifiche. In ogni caso la portata della repressione si è abbattuta in maniera sempre più evidente: denunce, processi, fogli di via, multe estremamente costose, trattenimenti in questura e perquisizioni corporali … il tutto raccolto nelle famigerate schedature di polizia: le segnalazioni di sicurezza. Tutte procedure che mirano soprattutto a spaventare e intimidire gli e le attivist3, a impedirne le attività colpendoli sul piano economico e quello della mobilità personale (i fogli di via, i procedimenti penali). VIENE DETTO A PIÙ VOCI “𝐸’ 𝑛𝑒𝑐𝑒𝑠𝑠𝑎𝑟𝑖𝑜 𝑟𝑖𝑓𝑙𝑒𝑡𝑡𝑒𝑟𝑒 𝑠𝑢𝑔𝑙𝑖 𝑠𝑝𝑎𝑧𝑖 𝑑𝑖 𝑙𝑖𝑏𝑒𝑟𝑡𝑎’ 𝑒 𝑑𝑖 𝑑𝑒𝑚𝑜𝑐𝑟𝑎𝑧𝑖𝑎 𝑐ℎ𝑒 𝑣𝑜𝑔𝑙𝑖𝑎𝑚𝑜 𝑑𝑖𝑓𝑒𝑛𝑑𝑒𝑟𝑒” Da parte di Amnesty, che ha impegnato tutto l’ufficio italiano per contrastarne il percorso di attuazione, viene riscontrato che la società civile ha saputo rispondere efficacemente e attivamente e si è mobilitata in maniera evidente contro al DDL, poi DL, evidenziandone le criticità anche a livello mediatico e comunicativo. La provocazione delle Mamme è: 𝗰𝗼𝗺𝗲 𝗰𝗼𝗻𝘁𝗶𝗻𝘂𝗮𝗿𝗲 𝗻𝗲𝗹𝗹𝗲 𝗹𝗼𝘁𝘁𝗲 𝘀𝗲𝗻𝘇𝗮 𝗽𝗲𝗿Ò 𝘁𝗿𝗼𝘃𝗮𝗿𝘀𝗶 𝘁𝘂𝘁𝘁𝗶 𝗲 𝘁𝘂𝘁𝘁𝗲 𝗶𝗻 𝗰𝗮𝗿𝗰𝗲𝗿𝗲, 𝗼𝗿𝗮 𝗰𝗵𝗲 𝗹𝗼 𝗮𝗯𝗯𝗶𝗮𝗺𝗼 𝗰𝗼𝗺𝗲 𝗹𝗲𝗴𝗴𝗲? 𝗖𝗼𝗺𝗲 𝘀𝗶 𝗽𝗿𝗼𝘀𝗲𝗴𝘂𝗲?   Anche se il tempo a nostra disposizione era ormai scaduto e la risposta doveva essere concisa, le attiviste presenti hanno fornito una serie di suggestioni e strategie molto chiare: la resistenza si farà, in maniera collettiva e solidale, bisognerà essere reattivi e solidali, essere sempre di più (allargare le reti), dialogare con tutti, agire attraverso l’autoformazione legale, la coscienza dei propri diritti e la conoscenza della legge, la resistenza legale, le casse di resistenza, inventare sempre nuove strategie di lotta … Ce n’est qu’un début, continuons le combat! Mamme in piazza per la libertà di dissenso
Il ruggito silenzioso: rivoluzione psico-sociale e sottile potere della generazione Z – Ridisegnare la leadership filippina
Le elezioni filippine recentemente concluse lo scorso 2025 maggio hanno svelato una sottile ma profonda rivoluzione psico-sociale, particolarmente evidente nei modelli di voto della Generazione Z e degli elettori affini di altre fasce demografiche. Al di là della politica tradizionale e dei consensi delle celebrità, una nuova specie di elettori, impregnati di fluidità digitale e desiderosi di un vero cambiamento, sembra orientarsi verso leader definiti da integrità, autenticità e visione trasformativa. Questa “rivoluzione psicosociale” rappresenta un cambiamento più profondo nella coscienza collettiva dell’elettorato. Si tratta di un’evoluzione da un’accettazione potenzialmente passiva delle narrazioni politiche tradizionali a una richiesta attiva e informata di una governance etica. La generazione Z, spesso caratterizzata dalla capacità digitale, dall’accesso istantaneo alle informazioni e da uno spiccato senso di giustizia sociale, non si limita a votare, ma è assetata di leader autentici, al servizio della gente e trasformatori. Mostrano una bassa tolleranza per la corruzione e un elevato apprezzamento per la trasparenza, l’impegno diretto e l’impatto tangibile. Il loro scetticismo nei confronti delle dinastie politiche consolidate e dei sistemi clientelari convenzionali è una caratteristica distintiva, che li spinge a cercare individui che incarnino realmente il servizio pubblico. Questo approccio perspicace si è visibilmente riflesso nel forte sostegno raccolto da figure come il pluripremiato sindaco di Pasig City Victor Ma. Regis N. Sotto, soprannominato “Vico” Sotto. Il suo impegno per il buon governo e la trasparenza gli è valso persino il riconoscimento del Dipartimento di Stato americano, che lo ha nominato tra i Campioni Internazionali Anticorruzione nel 2021. Il suo mandato, caratterizzato da una governance trasparente, da programmi sociali innovativi e da una chiara posizione anti-corruzione, risuona profondamente con una generazione che dà più valore alla sostanza che alla retorica. Allo stesso modo, il fervente sostegno a leader come l’ex vicepresidente Leni Robredo, la cui campagna elettorale ha posto l’accento sul volontariato, sui movimenti di base e su un’esperienza di integrità e servizio, la dice lunga sulle aspirazioni della generazione Z. Questi leader, a prescindere dai risultati elettorali finali, incarnano proprio le qualità – onestà, competenza e una mentalità progressista – che questa generazione considera prioritarie. Le loro scelte segnano un allontanamento dai modelli di voto storici, spesso influenzati da culti della personalità o da apparati politici radicati. Al contrario, la generazione Z sfrutta i social media non solo per l’intrattenimento, ma come strumento critico per il discorso politico, la verifica dei fatti e la costruzione di comunità attorno a valori condivisi. Questo attivismo digitale si traduce in una richiesta di responsabilità che trascende i filtri dei media tradizionali. L’impatto di questo risveglio psicosociale è di vasta portata. Sfida i futuri aspiranti politici a riflettere realmente sulle loro piattaforme, sui loro precedenti e sul loro impegno per un servizio pubblico senza macchia. Suggerisce che è in atto un cambiamento a lungo termine, in cui la vera leadership non si misura con la ricchezza o il lignaggio, ma con la capacità di ispirare fiducia, di fornire soluzioni trasformative e di impegnarsi in un percorso etico per il progresso della nazione. Mentre la Generazione Z continua a maturare fino a diventare un gruppo demografico dominante, il suo panorama psicosociale in evoluzione promette di essere una forza costante per le riforme, costringendo l’arena politica a innovare e adattarsi per un futuro più responsabile e progressista. Condivisione durante la 3. assemblea del Forum Umanista, 19 luglio 2025 Tavolo tematico – Rivoluzioni psicosociali e spirituali   Pressenza Philippines
Una riflessione sugli alunni che hanno rifiutato gli esami orali di maturità
Ha fatto parecchio scalpore la notizia della protesta attuata da alcuni studenti che si sono rifiutati di sostenere l’orale agli esami di maturità. Una parte dei commenti sono stati negativi ponendo l’accento sulla mancanza di responsabilità da parte di pochi ragazzi, che in fondo hanno attuato una protesta puramente individuale, e senza peraltro correre alcun rischio avendo già ottenuto il punteggio minimo per il superamento dell’esame. Inutile dire poi che il ministro Valditara, in perfetto stile meloniano, ha subito trovato la solita risposta facile, tutta ordine e repressione: “chi ci riprova, dal prossimo anno, sarà bocciato.” Al contrario una schiera di psicologi e pedagogisti di area “benpensanti di sinistra”, dopo aver sottolineato giustamente il fatto che più che di una protesta si è trattato della espressione di un disagio per un sistema iper-competitivo e scarsamente attento alle esigenze dei giovani, si sono poi incartati nella ricerca di complicate soluzioni didattiche e di valutazione del merito, spesso a metà strada tra il cervellotico e il banale. Certo non è questione semplice. Credo possa essere utile, a tal proposito, riproporre alcune riflessioni di Simone Weil, per la quale la capacità di avere ATTENZIONE per gli altri e i loro bisogni, e per la realtà che ci circonda, debba considerarsi fondamentale per avere coscienza di sé e per trovare i giusti valori per interagire col Mondo di cui siamo parte. Questo concetto di attenzione, proprio per l’importanza che assume innanzitutto nell’età della formazione, sarebbe dovuto diventare per la Weil l’obiettivo primario di ogni istruzione scolastica. Naturalmente non sono in grado di tradurre questa impostazione generale, con la quale concordo pienamente, in concrete proposte o in misure istituzionali, col pericolo sempre incombente che le buone intenzioni facciano una cattiva fine. Quello che certamente so è che questa attenzione per i nostri simili e per il nostro mondo era quella che portava noi studenti degli anni Sessanta e Settanta, a fare sit in di protesta di fronte all’ambasciata Usa contro la guerra in Vietnam, ed è la stessa che ci avrebbe portato oggi ad occupare scuole e università in tutto il paese contro il genocidio che si sta perpetrando contro i palestinesi, da parte di Israele. Se tutto questo oggi non succede, o non succede con la stessa forza del passato, e se le manifestazioni di solidarietà con la Palestina, vanno in parallelo con gesti di protesta individuali e attenzionati, del tutto legittimamente, innanzitutto verso se stessi e la propria condizione, non è per una qualche ragione metafisica, ma perché quella “speranza di futuro” che animava i tempi passati è stata delusa e non si è più saputo o potuto ricostruirla. Ripartiamo allora dalle proteste del presente contro la retorica nozionistica e il sistema (falsamente) meritocratico e (realmente) competitivo che supporta il nostro sistema scolastico praticamente da sempre. Accettiamone i limiti, e aiutiamo i giovani a valorizzare quel bisogno di attenzione, per sé e per gli altri, che essi comunque e in vari modi esprimono. È in ogni caso fondamentale cercare di piantare i semi per un diverso futuro, nella speranza che quando noi giovani “di ieri” non ci saremo più, i giovani di oggi ne sappiano raccogliere i frutti. Antonio Minaldi