A Leopoli suona la sirena, poi la vita riprende nella sua apparente normalità
Ieri mattina mi sono svegliato presto e mentre stavo andando in bagno ha
iniziato a suonare la sirena. Non era la mia prima volta: l’ho sentita anche
negli altri miei due viaggi a Kiev, Odessa e Mykolaïv.
Nessuno sembrava curarsene, neppure a Mykolaïv che pure è abbastanza vicino al
fronte, anche se non è tra le città devastate, abbandonate da quasi tutti, in
pratica delle città fantasma. Non ho avuto né paura né fretta, anche perché
dubito che nei rifugi ci siano i bagni.
Intanto da potenti trombe poste sulla torre del municipio una voce stentorea
sembra dare ordini che io ho immaginato di tradurre più o meno così: “Sbrigatevi
ad andare nei rifugi, teste di cavolo, sono dieci minuti che suona la sirena:
cosa aspettate? Che vi cada in testa un missile russo?”.
Finalmente esco dall’albergo, pensando che potrei scrivere un articolo sulla
vita nei rifugi. Appena fuori vedo un uomo che sta sistemando un vaso di fiori.
“Dov’è il rifugio dell’albergo?” chiedo.
Alza le spalle: non c’è.
“Il rifugio più vicino?” chiedo ancora.
Mi indica un percorso a zig zag che subito dimentico.
Tra il suono della sirena e la voce stentorea che ordina di andare nei rifugi
c’è un silenzio irreale. Inizio a preoccuparmi. Vedo una barista fuori dal
locale che parla concitata al telefono e con il traduttore automatico le chiedo
dov’è il rifugio. Sul cellulare scrive e cancella febbrilmente, poi me lo
riconsegna. Sono in ansia, non so dove andare.
Chiedo a una giovane donna che beve un caffè seduta. Alza le spalle. A questo
punto la cosa più saggia mi sembra entrare in uno dei pochi bar aperti per fare
colazione. Evito il primo, che espone una bandiera con un mitra e un serpente
attorcigliato e finalmente ne trovo uno normale.
La barista non ha l’aria spavalda: tiene aperto perché non sa dove andare.
Prendo il cappuccino maxi, servito in una tazza che sembra una scodella e una
fetta di torta deliziosa. Mi pare davvero improbabile che un missile russo possa
interrompere la mia colazione.
Una ragazza entra e si siede con aria serena. Ho un’idea e le porgo il
cellulare, ovviamente con la traduzione in ucraino: “Sono un reporter italiano
di un’agenzia stampa internazionale che si chiama Pressenza. Vorrebbe scrivere
una frase su come vede la situazione attuale in Ucraina – guerra, crisi
economica, corruzione… ?”
Con mia grande sorpresa si mette a scrivere: si chiama Sofia e ha circa
vent’anni. Sembrerebbe ancora convinta della necessità di difendere in armi il
suo Paese, ma non sono sicuro di questo, perché non esplicita il tipo di aiuto
che si aspetta dal mondo. Da notare che non parla di vincere la guerra o di
riconquistare i territori del Donbass e la Crimea. Parla di difendere il suo
Paese senza esternare sentimenti di odio verso gli aggressori.
Sofia scrive dunque: “Questo è il periodo più difficile per l’Ucraina. Mio
fratello è in prima linea.
Vorrei avere più opportunità per difendere il nostro mondo, affinché il mondo
non pensi che questo sia solo un altro conflitto facilmente risolvibile.
Spero che la gente in Ucraina dimentichi finalmente cosa siano i bombardamenti e
che le famiglie possano riunirsi.
Gli uomini sono molto grati per l’aiuto del mondo e saremo grati per un
ulteriore supporto“.
Non si sono sentite esplosioni, neppure in lontananza e la vita a Leopoli
riprende nella sua apparente normalità. E’ l’unico modo per resistere al
quotidiano orrore della guerra, combattuta soprattutto lungo il confine a
centinaia di chilometri da qui, ma da fratelli, figli, padri, fidanzati, mariti,
amanti: una ferita aperta, che a volte sprofonda nel dolore più grande, la
perdita di un proprio caro.
Mauro Carlo Zanella