La geografia sa da che parte stare?
Articolo di Gaia Florese Gambase
Di solito si pensa che lo studio della geografia sia limitato a memorizzare le
capitali internazionali e a identificare le coltivazioni di barbabietole da
zucchero. Nonostante, sin dai banchi di scuola, la disciplina venga presentata
perlopiù in questo modo, a livello scientifico la geografia si occupa in realtà
di temi diversi e complessi, come le relazioni fra i fenomeni sociali e i
territori, l’educazione ambientale, le catene globali del valore, le
disuguaglianze socio-spaziali, le riconfigurazioni urbane e rurali nei processi
globali, o il ruolo delle dinamiche economiche e geopolitiche. Tuttavia, come
disciplina moderna, la geografia è stata soprattutto uno strumento coloniale e
militare per l’Occidente, sia attraverso la ragione cartografica, sia attraverso
la costruzione di una visione egemonica del mondo, per il controllo e il dominio
dei territori. Se da una parte esiste un’ampia produzione scientifica di
geografie critiche e decoloniali, dall’altra, la relazione tra geografia, potere
e disegno del mondo continua a godere di ottima salute – un esempio, tra altri,
gli accordi fra il Politecnico di Torino e l’agenzia europea Frontex per la
produzione di materiale cartografico utile per monitorare le rotte migratorie.
Questi approcci differenti alla disciplina sono entrati in conflitto tra loro
durante il XXXIV Congresso Geografico Italiano, svoltosi a Torino tra il 3 e il
5 settembre. Se di solito questi eventi hanno carattere perlopiù istituzionale,
questa edizione del Congresso è stata caratterizzata da una mobilitazione contro
le scelte del comitato scientifico e organizzativo, che ha deciso di aprire il
Congresso lasciando parola, tra altri, a Michael Storper, geografo esperto di
disuguaglianze socio-spaziali che negli ultimi anni ha fatto parlare di sé per
le sue posizioni in merito al genocidio a Gaza e alla solidarietà verso la
Palestina.
L’ASSEMBLEA «NO COMPLICITY IN GENOCIDE»
È il 2024, il campus dell’Ucla (University of California – Los Angeles), viene
occupato dalle acampadas animate dalle mobilitazioni studentesche in solidarietà
alla Palestina. Un gruppo di oltre 300 persone del corpo docente afferenti
all’Università statunitense, incluso Storper, firma una lettera che esprime una
ferma condanna delle occupazioni studentesche, definendole terroristiche e
«pro-Hamas». La stessa lettera contiene attacchi espliciti anche alla componente
del corpo docente solidale con il movimento studentesco, e una netta critica al
movimento Bds (Boycott, Disinvestment, and Sanctions), presentato come
intrinsecamente violento, antisemita e lesivo della libertà di parola e di
pensiero. Lo stesso docente risultava già firmatario di un appello del 2023 in
cui si chiedeva all’Ateneo di prendere misure contro le prime iniziative in
supporto alla Palestina, con argomentazioni simili a quelle appena elencate.
Agosto 2025. A poche settimane dal XXXIV Congresso Geografico Italiano, un
gruppo di geografi e geografe – perlopiù persone precarie – venute a Torino per
l’evento, vengono a conoscenza di queste informazioni. Il gruppo si riunisce
sotto il nome di Assemblea Geografa per chiedere chiarimenti al comitato
organizzatore del Congresso, sottolineando che affidare l’apertura dell’evento
al professor Storper, durante il perpetuamento di un genocidio, rischia di
trasmettere un messaggio politicamente e moralmente problematico. Lo stesso
gruppo nota che, fra le Università di provenienza dei relatori e relatrici delle
presentazioni, figura anche un’affiliazione alla Hebrew University of Jerusalem,
nota per la sua complicità con il complesso militare-industriale israeliano.
Come ampiamente documentato da numerose organizzazioni, l’Università ha infatti
una storia profondamente intrecciata con l’occupazione militare israeliana. Il
suo campus principale, sul Monte Scopus, si trova a Gerusalemme Est – territorio
palestinese occupato illegalmente anche secondo il diritto internazionale – e
parte del campus è stato ampliato dopo il 1967 su terre espropriate a famiglie
palestinesi. Per questi motivi è stata indicata dalla Palestinian Campaign for
the Academic and Cultural Boycott of Israel (Pacbi) come una delle istituzioni
attivamente complici del sistema di occupazione, colonizzazione e apartheid.
A questa richiesta di chiarimenti, il Comitato organizzatore risponde
confermando l’invito al professor Storper e raddoppiando la sua presenza, con
l’aggiunta della tavola rotonda Political activism and academic freedom in times
of crisis, a cui invita una persona – preferibilmente precaria – in
rappresentanza dell’Assemblea Geografa. Il processo collettivo, forte
dell’adesione all’appello di oltre 100 persone partecipanti al Congresso,
rifiuta la proposta di prendere parte alla tavola rotonda, ritenuta non
orizzontale, squilibrata dal punto di vista delle relazioni di potere e fuori
fuoco rispetto ai temi politici sollevati dal programma dell’evento. Ecco
perché, in alternativa, si decide di disertare l’apertura del Congresso e la
plenaria con la presenza di Storper convocando l’assemblea «No complicity in
genocide».
L’intento di questa assemblea, introdotta da un intervento sui rapporti profondi
e sempre più chiari tra Università e militarizzazione e da contributi di
rappresentanti della campagna Bds, è stilare una mozione, in linea con altre
associazioni scientifiche, affinché l’A.Ge.I (Associazione dei Geografi
Italiani) applichi le linee guida del boicottaggio accademico e si dissoci da
ogni complicità con il genocidio. Nel corso dell’assemblea, partecipata da oltre
150 persone, alcune di queste decidono di andare ad ascoltare la plenaria in cui
era presente Storper e riportano, indignate, alcuni contenuti. In quell’aula,
interrotto da qualche fischio, Storper rilascia dichiarazioni gravi. Come
testimoniano alcune registrazioni, l’accademico ribadisce la sua adesione al
contenuto delle lettere sopracitate; critica l’ossessione da parte
dell’Occidente per i crimini di Israele, menzionando un doppio standard; tenta
di delegittimare la solidarietà alla causa palestinese con argomentazioni
deliranti riguardo al trattamento riservato da parte di Hamas alle persone
queer. Queste dichiarazioni scatenano l’indignazione dell’Assemblea Geografa
che, in modo spontaneo, chiama un’azione di contestazione nelle fasi conclusive
del suo intervento. Alcune persone con striscioni irrompono nell’aula: al grido
di «Palestina Libera» e «Fuori i sionisti dall’Università» si pone fine a un
momento vergognoso.
GEOGRAFIE CRITICHE E BOICOTTAGGIO ACCADEMICO
Ma perché l’Associazione dei Geografi Italiani e il comitato scientifico del
Congresso più importante della disciplina in Italia non sono riusciti a prendere
una chiara e netta posizione rispetto al genocidio? Perché è servito un gruppo
di persone, in maggioranza vulnerabili dal punto di vista lavorativo, per
avanzare la richiesta minima di riconoscere come un genocidio ciò che avviene in
Palestina per mano di Israele?
Gli strumenti epistemologici non mancano. Tra questi, le numerosissime
pubblicazioni e prese di posizioni scientifiche in merito, come quella
dell’International Association of Genocide Scholars (Iags) che, con una
risoluzione di agosto 2025, ha dichiarato che le politiche israeliane e le
azioni a Gaza ricadono nella definizione legale di genocidio. Considerati i
molteplici posizionamenti in merito, continuare a sostenere che la parola
genocidio sia divisiva e possa generare opinioni contrastanti è grave e rimanda,
in realtà, a nodi politici e di accumulo di potere all’interno dell’accademia
contemporanea che si estendono ben oltre questo evento scientifico. In questo
modo, la complicità accademica al genocidio non si esplica soltanto con il
sostegno materiale, ma anche nella validazione epistemica di posizioni e figure
come quella di Storper, cui si è deciso di affidare l’apertura di un congresso
scientifico.
Nel panorama dell’accademia contemporanea, infatti, si nota una profonda
reticenza a sostituire – o trasformare – i termini del potere scientifico con
quelli del posizionamento politico. Se da una parte abbiamo assistito
all’emergere di «saperi critici» e al loro affermarsi dentro i quadri di
finanziamento del ministero nazionale e comunitario, dall’altra questa
dimensione critica rimane estremamente vuota di contenuti quando si tratta di
prendere un posizionamento politico, o di trasformare le modalità e i luoghi
stessi attraverso i quali si costruisce conoscenza. Quindi, nonostante
l’impianto accademico di stampo conservatore, positivista e neutrale sia stato
superato a livello scientifico, l’impianto istituzionale che supporta la ricerca
piega questi concetti a logiche di mercato, in linea con la crescente
aziendalizzazione dell’Università neoliberale che delegittima i saperi critici,
soprattutto fra le scienze sociali, seguendo l’agenda militare e industriale che
co-finanzia tali progetti in linea con le agende internazionali sul riarmo.
Ecco perché non è un caso che la maggior parte delle mobilitazioni sul
boicottaggio accademico emerga da chi rifiuta un modello di università antico e
«critico» soltanto quando questo non significa perdere privilegi, sodalizi e
finanziamenti. Il genocidio diventa allora un’opinione di cui dibattere attorno
a una tavola rotonda, e chi porta avanti forme di boicottaggio e prese di
posizioni radicali un promotore della censura della «libertà accademica».
Invece, in questo momento storico, il boicottaggio è uno degli strumenti più
potenti che, come accademiche, possiamo utilizzare per fare emergere i nodi di
accumulo della militarizzazione progressiva della società, e per contestare la
complicità del sapere accademico nel legittimare morte, guerra e colonialismi
contemporanei.
Ciò che è avvenuto a Torino è uno spartiacque importante, di certo all’interno
della disciplina geografica. Ha fatto emergere le gerarchie di potere, gli
strumenti collettivi possibili per prendere posizione, ma anche il tipo di
saperi e di Università che vogliamo costruire, vivere e attraversare in questo
momento storico. Di certo, l’Assemblea Geografa non è sola in questo processo.
Mentre la Global Sumud Flottilla sta percorrendo lo spazio marittimo costruendo
contro-geografie di solidarietà e attraversamento, il 13 settembre si è tenuta a
Roma l’assemblea «La conoscenza non marcia» per contrastare la militarizzazione
di Università e scuole, a cui hanno aderito moltissime associazioni e
collettività scientifiche che non vogliono rendersi complici del genocidio in
corso.
Il duo di geografe Gibson-Graham si chiedeva: «In che modo il nostro lavoro può
aprire nuove possibilità? Che tipo di mondo vogliamo contribuire a costruire?
Quali possono essere gli effetti di un avanzare teorizzazione piuttosto che
un’altra?» Di che tipo di Università vogliamo essere parte? Nel contesto del
Congresso Geografico Italiano, chi ha preso parte alla mobilitazione ha deciso
da che parte stare: quella del sapere critico e libero, ma soprattutto
posizionato contro il genocidio.
*Gaia Florese Gambase è l’anagramma di Assemblea Geografa, una firma collettiva
scelta da chi scrive, da una parte per incorporare le forme di distribuzione
collettiva di co-autorialità, dall’altra per scorporare forme di
individualizzazione nel contesto accademico, e dai testi, e dai processi.
L'articolo La geografia sa da che parte stare? proviene da Jacobin Italia.