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Fuori Israele dalla FIFA! Appello verso la partita Israele-Italia
Udine è con la Palestina: fuori Israele dalla FIFA! Appello alla mobilitazione per il 14 ottobre 2025 a Udine in vista della partita FIFA Italia – Israele PALESTINA, ADESSO – Mentre lanciamo questo appello il numero ufficiale dellз mortз a Gaza è salito ad almeno 59106, 17400 dellз quali bambinз. […] L'articolo Fuori Israele dalla FIFA! Appello verso la partita Israele-Italia su Contropiano.
“UDINE È CON LA PALESTINA: FUORI ISRAELE DALLA FIFA!”: APPELLO ALLA MOBILITAZIONE CONTRO LA PARTITA ITALIA – ISRAELE DEL 14 OTTOBRE 2025
“Udine è con la Palestina: fuori Israele dalla FIFA! Appello alla mobilitazione per il 14 ottobre 2025 a Udine in vista della partita FIFA Italia – Israele”: Comitato per la Palestina Udine, Comunità Palestinese FVG e Veneto, ODV Salaam Ragazzi dell’Olivo Comitato di Trieste, BDS Italia e Calcio e Rivoluzione hanno lanciato un appello alla mobilitazione contro la partita di calcio Italia – Israele valida per le qualificazioni alla Coppa del mondo 2026, in programma il 14 ottobre 2025 a Udine. L’iniziativa si inserisce nel contesto della campagna internazionale “Show Israel the red card”. Si tratta della seconda partita tra la nazionale di calcio italiana e quella israeliana che si disputa a Udine nel giro di un anno esatto. Già il 14 ottobre 2024, le realtà friulane solidali con la Palestina avevano organizzato un corteo contro la partita di andata. Tremila persone avevano manifestato contro il genocidio in Palestina, contro l’occupazione e per chiedere che la nazionale di Tel Aviv – utilizzata come potente mezzo di propaganda da governo ed esercito israeliani – venga esclusa dalle competizioni ufficiale internazionali così come accaduto per la Russia in seguito all’invasione dell’Ucraina. Sulle frequenze di Radio Onda d’Urto abbiamo presentato l’appello alla mobilitazione con Davide Castelnovo, del Comitato per la Palestina di Udine. Ascolta o scarica.  
Il pallone discriminato
Articolo di Andrea Ponticelli, Gabriele Granato In Svizzera sta andando in scena l’Europeo di calcio femminile, un torneo decisamente in crescita rispetto all’edizione del 2022 che vide trionfare l’Inghilterra, e che ci parla di un calcio femminile in continua espansione sotto ogni punto di vista. Non a caso, già prima dell’inizio della competizione i numeri erano da record: 600.000 biglietti venduti su una disponibilità totale di circa 720.000; 22 partite già sold-out in prevendita (tutte quelle della fase finale più diversi match della fase a gironi) e circa 500.000.000 potenziali telespettatori da tutto il mondo. Numeri che assumono un valore ancora più importante se messi a confronto con il recente Mondiale per Club, fortemente voluto da Infantino, che ha fatto registrare stadi semivuoti e una media spettatori di 39.500 nonostante la Fifa abbia ribassato il costo dei biglietti o li abbia addirittura regalati. Le partite delle azzurre sono state guardate da milioni di persone, con il record di 2,3 milioni di telespettatori e telespettatrici in occasione dei quarti di finale giocati – e vinti – contro la Norvegia. Numeri da capogiro che assumono un valore ancora maggiore se si considera che il calcio femminile, nonostante tutto, continua a scontrarsi con un ostacolo tanto antico quanto radicato nella nostra società: il patriarcato. Nonostante l’aumento della popolarità, la qualità del gioco e l’impegno delle atlete, il gender gap nel mondo del pallone rimane sconcertante. Ed è ora di dirlo chiaramente: questo gap non è frutto di minore talento o minore spettacolarità, ma del sistema patriarcale che ha storicamente marginalizzato lo sport femminile. UN SISTEMA COSTRUITO SUL MASCHILE Il calcio, da sempre, è stato concepito come terreno di espressione della virilità, dell’agonismo maschile, dell’identità patriarcale. Come sottolineato da un’analisi pubblicata su Jacobin già nel 2015, la Fifa stessa, per decenni, ha trattato il calcio femminile con aperto disinteresse, quando non con disprezzo. Per esempio, nel 2004, Sepp Blatter suggeriva che le calciatrici dovessero indossare «shorts più attillati» per attrarre più pubblico. Una dichiarazione che riassume perfettamente la visione sessista dell’establishment calcistico che perdura ancora oggi e che si riflette in un atteggiamento che ha avuto conseguenze devastanti dal punto di vista della parità di genere in ogni sua sfaccettatura.  Le atlete professioniste, pur dedicando le stesse ore di allenamento e affrontando gli stessi rischi fisici dei colleghi uomini, guadagnano una frazione dei loro stipendi. Secondo Social Media Soccer, durante la Coppa del Mondo femminile 2023, le giocatrici hanno ricevuto premi pari a circa un quarto di quelli maschili nel torneo del 2022. L’intero montepremi è passato dai 28 milioni di dollari del 2019 ai 105 del 2023, un aumento, sì, ma ancora lontano dai 440 milioni riservati agli uomini in Qatar.  Durante la Coppa del Mondo femminile 2023 in Australia e Nuova Zelanda, i dati di ascolto sono stati da record. In Australia, la semifinale tra le padrone di casa e le Lioness inglesi è stata, ad esempio, seguita da 11,5 milioni di persone. La finalissima tra Spagna e Inghilterra è stata, invece, vista da oltre 13 milioni di persone nel solo Stato Spagnolo; da circa 6 milioni in Inghilterra e da circa 500 mila persone in Italia, nonostante qui sia stata trasmessa su Rai Sport e non su una rete generalista come fatto dai principali paesi europei (e comunque gli ascolti della partita hanno superato quelli delle reti generaliste Rai2 e Rai3). Si è trattato di uno degli eventi sportivi più visti dell’anno. Eppure, anche davanti a questi risultati, le differenze salariali e contrattuali permangono. Secondo alcuni studi, le Federazioni nazionali mostrano resistenze sistemiche all’equiparazione salariale, legandola ancora alla «sostenibilità economica». Discorso simile per i presidenti delle società come dimostrato di recente da Aurelio De Laurentiis, presidente del Napoli, che nel corso di un talk al Giffoni Film Festival ha candidamente affermato che, se non ci sono i soldi neanche per la serie A, B e C maschile, figuriamoci come si possano trovare per quella femminile, dimostrando che si continua a ignorare l’impatto del capitale culturale e simbolico che il calcio femminile sta accumulando. È la riproduzione ideologica del patriarcato nel linguaggio manageriale. IL CASO DEL CALCIO ITALIANO In Italia, il calcio femminile ha fatto passi avanti importanti, soprattutto negli ultimi anni e in particolar modo dal 2022 quando è stato introdotto il professionismo per la Serie A. Ma il gender gap permane, come si può immediatamente notare mettendo a confronto gli stipendi delle calciatrici e quelli dei calciatori.  Secondo i dati più recenti, gli stipendi delle calciatrici italiane oscillano tra i 14.400 euro lordi annui per le più giovani e un massimo di circa 30.000-40.000 euro lordi per le giocatrici più esperte e di vertice, con qualche eccezione di top player che arriva a 200.000 euro. Cifre irrisorie se pensiamo che un calciatore medio della Serie A maschile guadagna diverse centinaia di migliaia di euro all’anno, con i top player che guadagnano milioni e milioni di euro l’anno. Un gap enorme ma soprattutto inaccettabile. La visione patriarcale della società e dello sport, però, non ha ripercussioni solo in termini di gap salariale ma anche in tantissimi altri aspetti come sottolineato, ad esempio, dall’ex campionessa della nazionale femminile Patrizia Panico: «penso che nel calcio sia radicata una grave forma di maschilismo tale da escludere le donne, non soltanto per quanto concerne il ruolo di allenatore, ma da tantissime altre figure professionali quali: preparatore atletico, medico, direttore sportivo, team manager, direttore generale, addetto stampa e molti altri ruoli. Nelle squadre professionistiche ma anche, purtroppo, nelle dilettantistiche raramente si trovano figure femminili, è questione di mentalità, di una cultura retrograda. Personalmente conosco moltissime donne molto più competenti dei loro colleghi uomini». A rendere ancora più evidente la disparità tra calcio maschile e femminile, è la sproporzione negli investimenti strutturali. I club maschili, soprattutto nelle serie maggiori, possono contare su centri sportivi all’avanguardia, staff tecnici multidisciplinari, strutture mediche e logistiche di altissimo livello. Al contrario, molte squadre femminili, anche in Serie A, faticano a trovare campi in buone condizioni per allenarsi. Mentre i diritti televisivi del campionato maschile fruttano centinaia di milioni di euro l’anno – basti pensare che la Serie A maschile ha sottoscritto contratti da oltre 900 milioni per il triennio 2024-2027 – il calcio femminile italiano ha visto solo di recente una timida apertura in questo senso, con i primi accordi televisivi arrivati nel 2022 e con cifre estremamente contenute. Secondo un’indagine dell’osservatorio Figc, oltre il 70% dei club femminili non dispone di un centro sportivo proprio e deve affittare spazi a ore. E non è un caso se più di recente due delle stelle della Nazionale, Cantore e Caruso, hanno parlato proprio della necessità di portare avanti una battaglia per la parità di genere che non si traduce solo in uguaglianza di stipendi: «dobbiamo lavorare tutte insieme per ottenere le stesse opportunità – non gli stipendi – dei colleghi. La parità è avere accesso alle loro stesse strutture e a determinati diritti che non ci vengono ancora riconosciuti». Perché la discriminazione di genere non si manifesta solo in un divario economico ma anche in uno simbolico: investire significa riconoscere valore e in Italia – come altrove – il valore viene ancora assegnato secondo logiche patriarcali che mettono al centro il maschile, e relegano il femminile ai margini, considerandolo meno importante, meno «meritevole» di infrastrutture e risorse. NON È QUESTIONE DI QUALITÀ, MA DI POTERE Il discorso che giustifica le enormi differenze tra calcio maschile e femminile appellandosi ai «numeri del mercato» – come audience televisiva, introiti da sponsor o vendite dei biglietti – è profondamente fuorviante e ideologico. Questi numeri non sono neutri, ma il risultato di decenni di disinvestimento strutturale, culturale e mediatico nel calcio femminile. Non sono il segnale di uno scarso interesse «naturale», bensì le conseguenze concrete di precise scelte politiche e culturali, dettate da un sistema patriarcale che ha deciso chi merita la visibilità, il denaro e l’accesso ialle risorse, e chi invece deve accontentarsi di briciole.  Come ha spesso ribadito la filosofa e attivista Silvia Federici, la svalutazione del lavoro femminile – sia esso retribuito o domestico, professionale o sportivo – è una strategia precisa attraverso cui il patriarcato mantiene il controllo del potere economico e simbolico. Questa logica si ripropone con forza anche nel mondo del calcio: quando una calciatrice professionista guadagna 20.000 euro all’anno, mentre un calciatore di Serie B può arrivare tranquillamente a cifre dieci volte superiori, non si tratta di una differenza basata sul «merito» o sulla «resa economica». Si tratta di una gerarchia imposta, in cui il valore delle donne viene sistematicamente svalutato e reso invisibile.  Il patriarcato non ha solo impedito alle donne di accedere al calcio ai massimi livelli; ha anche costruito una narrazione secondo cui lo sport femminile sarebbe «meno competitivo», «meno attraente» e, dunque, meno degno di essere visto, seguito, pagato. È una forma di controllo sociale mascherata da analisi economica, una giustificazione moderna per una disparità antica. E questa logica non riguarda solo il calcio: la stessa struttura si ripete nel mondo del lavoro, nell’arte, nella scienza, nella politica, ovunque le donne osino reclamare spazio, voce e dignità. Il punto non è cosa producono o quanto «rendono»: il punto è che, in un sistema di potere maschile, alle donne viene ancora negato il diritto di valere quanto gli uomini. QUALE VIA D’USCITA? La lotta per l’equiparazione salariale e di trattamento nel calcio femminile non può limitarsi ai soli confini dello sport. Il calcio è riflesso fedele della società in cui viviamo, che resta profondamente patriarcale e maschilista. Per cambiare il calcio, bisogna cambiare la società, e viceversa. Il patriarcato si manifesta in modo sistemico in molteplici aspetti della vita quotidiana: dalle discriminazioni salariali nel mondo del lavoro alle difficoltà di accesso ai ruoli apicali, dalla violenza di genere alle norme sociali che ancora relegano le donne al ruolo di caregiver primarie, limitando la loro libertà e autonomia economica. In Italia, ad esempio, la differenza salariale di genere supera ancora il 20% e soltanto il 35% delle posizioni manageriali è occupato da donne. Questo svantaggio strutturale si ripercuote anche nello sport, dove il riconoscimento economico e mediatico delle atlete resta minimo. Angela Davis, filosofa e attivista afroamericana, sottolineava come la discriminazione di genere non sia un fenomeno isolato, ma una struttura di potere che intreccia razza, classe e genere in modo indissolubile. Per Davis, la lotta delle donne contro il patriarcato dev’essere necessariamente una lotta contro tutte le forme di oppressione, e la conquista di pari diritti economici e sociali rappresenta un passaggio fondamentale verso una società più giusta. Nel calcio, questo significa che la battaglia per salari equi, investimenti strutturali e visibilità non può essere una rivendicazione esclusivamente sportiva: è parte di una più ampia lotta contro quei sistemi che definiscono il valore delle donne come inferiore a quello degli uomini. Bisogna combattere dentro lo spogliatoio come nelle federazioni, ma anche sui posti di lavoro, nelle scuole, nelle redazioni giornalistiche così come nel mondo della politica e dell’attivismo. Il patriarcato si manifesta, infatti, in maniera tangibile e quotidiana: le donne vengono discriminate a livello di salario e spesso costrette ad accettare contratti precari o part-time, anche quando possiedono le stesse qualifiche e competenze degli uomini; sono quasi sempre le donne a sobbarcarsi il lavoro di cura dei figli e degli anziani, un impegno che limita le possibilità di carriera e la piena autonomia economica; la loro rappresentanza politica ed economica è insufficiente, con pochi accessi ai ruoli decisionali. Si pensi che su 18 membri del Consiglio Federale della Figc, ad esempio, solo tre sono donne. In ambito sportivo, poi, persistono forti stereotipi di genere che dipingono le donne come meno competitive o meno interessate allo sport, rafforzando così l’idea che il calcio femminile sia un prodotto di serie B.  Contrastare tutte queste dinamiche significa smontare i meccanismi di potere che mantengono tali disuguaglianze. Come affermava Bell Hooks, la liberazione delle donne è inseparabile dalla trasformazione delle strutture sociali in cui vivono. Nel calcio femminile, questo si traduce nella necessità di investimenti seri e duraturi, che non si limitino a campagne di facciata utili più alla Federazione per mostrarsi al passo con i tempi che a una reale lotta alle disparità di genere; nella realizzazione di politiche federali capaci di eliminare i tetti salariali ingiusti e favorire la parità; nella creazione di un racconto mediatico che presenti il calcio femminile come uno sport di alto livello, non come un prodotto «minore»; e infine in un’educazione di genere diffusa, capace di cambiare mentalità fin dalla giovane età ed evitare, ad esempio, che si ripetano episodi come quello occorso qualche giorno fa a Pedro Rodríguez, calciatore della Lazio, inondato di insulti sessisti e omofobi sotto al post della foto con la moglie e il figlio che per festeggiare il suo ottavo compleanno ha indossato una tiara e un vestitino con le spalline. Superfluo aggiungere che nessun rappresentante della Figc né tanto meno della Lega Calcio ha espresso solidarietà al calciatore o condannato gli insulti. Solo in questo modo la battaglia per eliminare il gap salariale e le discriminazioni di genere nella loro totalità potrà essere veramente efficace e duratura. Il calcio femminile può allora diventare non solo un simbolo di emancipazione, ma anche un motore di trasformazione culturale in una società ancora troppo dominata da logiche patriarcali. * Andrea Ponticelli, attivista da più di dieci anni nelle lotte di Napoli e provincia, è tra i principali promotori del progetto Calcio&Rivoluzione. Gabriele Granato, attivista sociale, frequentatore di stadi e collezionista di t-shirt da gioco, è appassionato di sport e politica ed è tra i fondatori di Calcio&Rivoluzione. L'articolo Il pallone discriminato proviene da Jacobin Italia.
Le strane coppie: Radio Neanderthal al Ponte Radio del 11 luglio 2025
Ogni venerdì dalle 13 alle 15 su Radio Onda Rossa e su Radio Wombat, Eustachio, Quar, Neanderthal, Spore, Blackout va in onda Ponte Radio, spazio di collegamento tra radio autorganizzate. Venerdì 11 luglio è il turno di trasmettere di Radio Neanderthal di Napoli con una puntata intitolata Le strane coppie, una trasmissione divisa in due sezioni di cui la prima parlerà di calcio, olimpiadi soprattutto anticolonialismo, la seconda di musica melodica napoletana. Segue una breve presentazione di Radio Neanderthal che potete conoscere meglio e ascoltare dal loro sito: https://radioneanderthal.noblogs.org/
CALCIO – BUSINESS: CELLINO NON PAGA, IL BRESCIA CALCIO SPARISCE DOPO 114 ANNI ININTERROTTI DI STORIA.
Brescia: dopo quasi 114 anni di storia, il Brescia Calcio – squadra della città da cui trasmettiamo, nata il 17 luglio 1911 dalla fusione di Gimnasium, Victoria e Unione Sportiva Bresciana – va verso il fallimento tecnico e la perdita della matricola sportiva, per la prima volta in oltre un secolo di storia, “grazie” alla gestione targata Massimo Cellino. Una parabola, quella dell'(im)prenditore sardo, iniziata nel 2017. Pochi mesi prima, lo stesso Cellino era stato (caldamente) “accompagnato” alla porta, dalla guida del club inglese del Leeds, dove era rimasto solo tre anni, tra non pochi problemi – dalla natura più che disparata – fin dal turbolento acquisto, avvenuto nel 2014. Tornando a Brescia: alle ore 15 di oggi, venerdì 6 giugno, sono scaduti i termini per pagare dipendenti, contributi e la prima rata dei debiti col fisco, vicenda che era già costata a fine maggio la retrocessione in serie C alle Rondinelle (in primo grado sportivo). Cellino non ha versato i circa 3 milioni di euro necessari a iscrivere la squadra la prossima stagione, di fatto mandando tutto gambe all’aria, sia per i calciatori che per i dipendenti e collaboratori. A Brescia le prime proteste: già in mattinata in via Ferramola, la sede celliniana da giorni presidiata da Polizia e funzionari Digos, e nel pomeriggio in Loggia, sede del Comune, che cercherebbe – ma il condizionale è d’obbligo – di capire se una delle tre squadre della provincia bresciana di serie C (Feralpi Salò, Lumezzane e Ospitaletto) sia disposta a trasferisi al Rigamonti, cambiando – seppur non immediatamente, viste le regole federali – nome e residenza, pur senza la continuità sportiva con le storiche Rondinelle. L’unica certezza, per ora, è la fine della storia biancoblu, almeno così come conosciuta dal 1911 a oggi: un patrimonio sportivo e sociale di proprietà di un’intera tifoseria (seppur nella sua complessità e diversità di posizioni), a ora senza una risposta su quale sarà il futuro delle Rondinelle, tanto per la prima squadra professionista quanto per i bambini e ragazzi del settore giovanile, già completamente desertificato durante la gestione celliniana. Su Radio Onda d’Urto il confronto a due voci tra Diego Piccinelli, portavoce del gruppo ultras “Brescia 1911 Ex Curva Nord” e Alessandro Lucà, tifoso biancoblu, già candidato sindaco alle elezioni amministrative 2023 per Unione Popolare, M5S e Pci oltre che animatore, esattamente dieci anni fa, dell’associazione “Tifosi PER il Brescia”, nata per favorire la partecipazione popolare e dal basso, caldeggiando metodi come l’azionariato popolare per il club. Ascolta o scarica      
CALCIO BUSINESS: BRESCIA, (PRIMO) GIORNO DEL GIUDIZIO PER CELLINO. “BRESCIA 1911” IN DELEGAZIONE A ROMA PER L’UDIENZA SUL RISCHIO PENALIZZAZIONE
(Primo) giorno del giudizio per il Brescia Calcio, la società biancoblu i cui titoli sportivi sono in mano, dal 2017, all’imprenditore Massimo Cellino. Oggi, giovedì 22 maggio 2025, si tiene la prima udienza davanti al Tribunale federale nazionale (Tfn, il “primo grado” della giustizia sportiva), chiamato a decidere sulla possibile penalizzazione delle Rondinelle legata all’accusa  di “debiti fiscali e previdenziali per novembre e dicembre 2024, gennaio e febbraio 2025, attraverso l’utilizzo di crediti di imposta risultati inesistenti”. L’eventuale penalizzazione comporterebbe, per il Brescia Calcio, la retrocessione in Serie C, vista la salvezza acciuffata per un soffio sul campo, grazie alla vittoria negli ultimi minuti dell’ultima giornata contro la Reggiana, meno di una decina di giorni fa. Oltre al rischio concreto di lasciare la Cadetteria, sulla società calcistica fondata il 17 luglio 1911 come “Foot Ball Club Brescia” dalla fusione tra Victoria, Unione Sportiva Bresciana e Gimnasium si addensano ulteriori nubi nere; entro giugno tra stipendi mancanti, contributi e altre uscite, servono – riferisce la stampa cittadina e quella specializzata nell’informazione sportiva – circa 7 milioni di euro, pena l’incubo fallimento, con ripartenza solo dalle categorie dilettantistiche. Per rimanere in serie B ed evitare così uno scenario che si profila decisamente cupo, la società guidata da Cellino ha preferito affidarsi a una corposa memoria difensiva scritta, già depositata alla Procura Federale, senza quindi andare in Aula a Roma. Nella Capitale c’è invece una delegazione di ultras del gruppo Brescia 1911 – Ex Curva Nord, già intervenuti pochi giorni fa ai microfoni di Radio Onda d’Urto per prendere posizione su quanto sta – nuovamente – accadendo alla squadra di calcio cittadina. Da Roma Diego Piccinelli, portavoce del gruppo ultras Brescia 1911 – Ex Curva Nord. Ascolta o scarica
Sipikat e assassini: quando il polar fa tappa in Senegal
SIPIKAT E ASSASSINI: QUANDO IL POLAR FA TAPPA IN SENEGAL Vita a spirale ✏ Abasse Ndione 19 Settembre 2021/di Eleonora Salvatore CATEGORIE: Libreria  / Narrativa  / Romanzo Tempo di lettura: 6 minuti * Vita a spirale, Abasse Ndione, e/o Edizioni, 2011, traduzione dal francese di Barbara Ferri. Vita a spirale, romanzo polar del senegalese Abasse Ndione, ha conosciuto un notevole successo sin dalla sua prima pubblicazione a cura delle Nouvelles Éditions Africaines du Sénégal nel 1984, anno in cui il maliano Modibo Sounkalo Keïta riceveva il Grand prix littéraire dell’Afrique Noire per L’Archer bassari, archetipo del romanzo polar africano in lingua francese. LA FORTUNA DEL ROMANZO POLAR Il genere polar, che cuce le strategie narrative proprie del romanzo poliziesco su personaggi che sono incarnazione ed espressione della cultura delle classi popolari, nella galassia letteraria dell’Africa francofona, è stato spesso considerato uno scarto di “sotto-letteratura”, tacciato dall’intelligentia africana di essere un “passatempo borghese”, come ha scritto Fanny Brasleret. In realtà il largo successo di pubblico che ha baciato questa costellazione così particolare nell’ambito dei generi narrativi, è legato a molteplici fattori. In primis il mutato contesto politico di produzione della letteratura stessa. Dal ritiro francese dal Senegal alla pubblicazione de La vie en spiral, infatti, sono trascorsi appena ventiquattro anni. La letteratura senegalese attraversa questa congiuntura storica interrogandosi su nuovi temi: l’atmosfera politica del post-indipendenza e il ruolo della religione in una società che si scopre meno secolarizzata del previsto eppure animata dalle controculture giovanili che picconano perfino i totem della fede. Altro fattore importante fu l’avvento di una letteratura di massa che parla la stessa lingua dei suoi lettori e che è allo stesso tempo immersione e radicamento in una società chiamata a fare i conti con la corruzione, l’incremento del tasso di criminalità e lo sfaldamento dei valori comunitari. In ultimo, una certa plasticità del genere polar a incrociare registri linguistici differenti – il francese amministrativo dell’autorità e del potere, e il wolof popolare non di rado declinato secondo uno slang criminale  – e a farsi interprete di un bisogno di comprensione del reale non intercettato dalle altre forme del romanzo. UNA TRAMA ROCAMBOLESCA Le pagine iniziali dell’opera si aprono col racconto ironico della sconfitta dei Gaïndé, i giocatori della nazionale di calcio del Senegal, impegnati nella partita di ritorno contro la selezione ivoriana nel girone di qualificazione alla fase finale della XIII Coppa d’Africa delle Nazioni. In un hotel di Abidjan, alcuni degli astri della nazionale senegalese, la sera stessa del loro arrivo nella capitale ivoriana, sono scoperti a fumare yamba e messi in prigione. La notizia dell’arresto riecheggia sdegnosamente nel Paese della teranga: esercito, polizia e guardia costiera ricevono l’ordine di radere al suolo i campi di canapa, nella striscia di terra compresa tra Géjawaay e Saint-Louis, e sgominare le reti di produzione e commercializzazione del “tabacco dei geni”. Due sono gli elementi interessanti che emergono da questa particolare ambientazione. Il primo è il riferimento, da “prosa del reale”, alla XIII Coppa d’Africa effettivamente disputata in Libia e vinta dalla nazionale ghanese nel 1982, anno in cui nelle radio senegalesi spopolerà Omar Pene con la sua band, la Super Diamono, per la canzone Jaraaf dedicata all’omonimo club di calcio di Dakar. Il secondo elemento è strettamente intrecciato al primo. La costruzione di un racconto calcistico che apre il romanzo aiuta a stabilire una “connessione sentimentale” tra l’autore ed il suo pubblico di lettori. Il calcio, “la felicità degli uomini semplici”, per riprendere il fortunato titolo della raccolta di storie brevi composte da narratori africani e curata dal congolese Alain Mabanckou per la casa editrice 66thand2nd, diventa un rito letterario per la gioventù del continente. Sullo sfondo di questa caccia alla streghe contro i sipikat, gli spacciatori, e i fumatori di yamba, scorrono la vita e la morte di un gruppo di giovani amici del villaggio di Sambey Karang fustigato dalla calura e dall’assenza di piogge che vengono propiziate con una cerimonia espiatoria e l’immolazione di un toro perché «A SAMBEY KARANG, LE TRADIZIONI ANIMISTE ERANO ANCORA SALDE, MALGRADO L’ISLAMIZZAZIONE TOTALE.» Amuyaakar Ndooy, narratore interno e protagonista principale del romanzo, Laay Goté, Yaba Xanca, Bukari e Badara sono soliti fumare spinelli e s’ingegnano per sopperire all’interruzione della filiera dell’erba proibita. Provano prima con lo xompaay, la pianta degli spiriti maligni, ma finiscono in ospedale in preda a febbri deliranti e convulsioni. Una volta guariti dall’intossicazione da stramonio entrano in contatto con Ameth Ndaw, allievo della Scuola Ufficiali dell’Esercito che procura loro lo yamba ormai introvabile. Dopo un mese e mezzo di astinenza, i cinque amici rollano canne nel loro rifugio segreto, un blockhaus immerso nella boscaglia di Amsondeng. Mentre nell’edificio l’odore della carne grigliata si mescola con quello resinoso dell’erba bruciata, Amuyaakar Ndooy matura il proposito di diventare sipikat acquistando lo yamba direttamente dagli stessi contadini della Casamance da cui si rifornisce l’allievo ufficiale. Coi cervelli arrostiti dai fumi, «LA CONVERSAZIONE SI FECE RICCA, BRILLANTE, CONTRADDITTORIA: LA VITA INCERTA E LA MORTE ANCORA PIÙ INCERTA, LA LETTERATURA, I COLPI DI STATO, LE RELIGIONI RIVELATE, LA DEMOCRAZIA TRASFORMATA IN CORRENTE DI PENSIERO, BOB MARLEY, LA PROSTITUZIONE, I MARABUTTI, GLI INTERVENTI STRANIERI IN AFRICA, I RAPPORTI SESSUALI, L’APARTHEID.» Se lo yamba scioglie e libera parole impronunciabili, è altrettanto vero che accelera, per Amuyaakar Ndooy, il turbinio di sogni imprenditoriali nel mondo del crimine. Amuyaakar Ndooy, tassista abusivo, sceglie il rischioso mestiere del sipikat per mero calcolo economico. L’elemento hippy ed anticonformista del libero uso di cannabis si intreccia con una sorta di connotato yuppie di un giovane uomo che rompe le regole del villaggio di nascita per avventurarsi nel mondo scintillante e conturbante della città e costruire una carriera professionale nell’imbuto di un vortice criminoso che gli frutterà cospicui guadagni e una vita matrimoniale in cui ci sarà spazio per più di una moglie, ma che gli costerà la perdita degli amici. Dai campi di canapa della Casamance fino ai locali alla moda di Dakar, Amuyaakar Ndooy incontrerà un universo popolato da poliziotti e giudici corrotti, faccendieri bianchi misteriosi e contadini custodi di un sapere magico e al tempo stesso intriso di razionalità. RELIGIONE E MAGIA La piccola comunità di Sambey Karang non vede di buon occhio il consumo di cannabis ritenuto contrario ai precetti della religione islamica. Gli anziani convocano una riunione nel corso del quale Bukari prende la parola sferzandoli con una sequela di invettive: «VOI ANZIANI VI PREOCCUPATE SOLTANTO DEL VOSTRO ROSARIO E DELLA VOSTRA PELLE DI PECORA.» Nell’ammonimento pronunciato da Bukari si cela una profonda insoddisfazione nei confronti del posto che la religione è venuta ad occupare in una società che imbriglia qualsiasi possibilità di autodeterminazione in nome di un’adesione totale, a tratti ipocrita, alla fede musulmana. Non è in discussione l’Islam ma l’uso che se ne fa per prescrivere comportamenti sociali che nessuno rispetta sino in fondo. La costanza della presenza dell’elemento magico è tipico di questo polar. La carriera di sipikat di Amuyaakar Ndooy, infatti, prende avvio con la consegna allo stesso di un talismano da parte di Fa Kébuté, marabutto amico di Jombiku, il primo contadino che aiuta Ndooy a sfondare come procacciatore di yamba di altissima qualità. Il bracciale che riceve in dono è un gri-gri di cuoio che prima di essere bracciale era stato un serpente nero bicefalo. Il segreto di questa vita a spirale è tutto qui: nel precario equilibrio tra due spiriti, entrambi a forma di serpente, uno buono e l’altro malvagio.✎ INCIPIT «Il DC 10 della compagnia Air Afrique che riportava i Gaïndé s’immobilizzò in fondo alla pista. Bigé Pay, il commissario tecnico, lanciò un’occhiata dall’oblò e vide che ad aspettare c’erano i membri della Federazione nazionale calcio e alcuni giornalisti. In tutto una dozzina di persone. “L’accoglienza non è proprio la stessa di quattro giorni fa” disse, voltandosi verso i giocatori e i dirigenti della squadra seduti dietro di lui. Si sganciò la cintura di sicurezza e si alzò, un sorriso beffardo sulle labbra. “Avanti, ragazzi, si scende. Dovremo spiegare al popolo perché abbiamo perso la battaglia!”». Tags: Abasse Ndione, afro-polar, calcio, Casamance, Edizioni E/O, evidenza, francese, polar, Senegal CORRELATI SIPIKAT E ASSASSINI: QUANDO IL POLAR FA TAPPA IN SENEGAL 19 Settembre 2021 / 0 Commenti Continua a leggere https://www.afrologist.org/wp-content/uploads/2021/09/Abasse-Ndione_Vita-a-spirale-slider.jpg 1152 2048 Eleonora Salvatore https://afrologist.org/wp-content/uploads/2019/02/Logo-bozza-Letture-afropolitane-con-libro-tutta-scritta-con-A-bis-1030x202.png Eleonora Salvatore2021-09-19 16:53:502021-09-19 16:53:50Sipikat e assassini: quando il polar fa tappa in Senegal TRA YEMANJÀ E AGUDA. IL GRANDE AZZURRO, AYESHA HARRUNA ATTAH 25 Aprile 2021 / 0 Commenti Continua a leggere https://www.afrologist.org/wp-content/uploads/2021/04/Ayesha-Harruna-Attah-Il-grande-azzurro_slider2.jpg 844 1500 Maria Antonietta Maggio https://afrologist.org/wp-content/uploads/2019/02/Logo-bozza-Letture-afropolitane-con-libro-tutta-scritta-con-A-bis-1030x202.png Maria Antonietta Maggio2021-04-25 09:12:492021-07-19 10:18:07Tra Yemanjà e aguda. Il grande azzurro, Ayesha Harruna Attah 20 CITTÀ AFRICANE TRA VIAGGI E FOTOGRAFIA. A STRANGER’S POSE, EMMANUEL IDUMA 12 Novembre 2019 / 0 Commenti Continua a leggere https://www.afrologist.org/wp-content/uploads/2019/10/AStrangersPose_banner.jpg 1440 2560 Veronica Sgobio https://afrologist.org/wp-content/uploads/2019/02/Logo-bozza-Letture-afropolitane-con-libro-tutta-scritta-con-A-bis-1030x202.png Veronica Sgobio2019-11-12 21:15:362021-07-19 15:52:5720 città africane tra viaggi e fotografia. A Stranger’s Pose, Emmanuel Iduma L'articolo Sipikat e assassini: quando il polar fa tappa in Senegal proviene da Afrologist.