Il pallone discriminato
Articolo di Andrea Ponticelli, Gabriele Granato
In Svizzera sta andando in scena l’Europeo di calcio femminile, un torneo
decisamente in crescita rispetto all’edizione del 2022 che vide trionfare
l’Inghilterra, e che ci parla di un calcio femminile in continua espansione
sotto ogni punto di vista. Non a caso, già prima dell’inizio della competizione
i numeri erano da record: 600.000 biglietti venduti su una disponibilità totale
di circa 720.000; 22 partite già sold-out in prevendita (tutte quelle della fase
finale più diversi match della fase a gironi) e circa 500.000.000 potenziali
telespettatori da tutto il mondo. Numeri che assumono un valore ancora più
importante se messi a confronto con il recente Mondiale per Club, fortemente
voluto da Infantino, che ha fatto registrare stadi semivuoti e una media
spettatori di 39.500 nonostante la Fifa abbia ribassato il costo dei biglietti o
li abbia addirittura regalati.
Le partite delle azzurre sono state guardate da milioni di persone, con il
record di 2,3 milioni di telespettatori e telespettatrici in occasione dei
quarti di finale giocati – e vinti – contro la Norvegia. Numeri da capogiro che
assumono un valore ancora maggiore se si considera che il calcio femminile,
nonostante tutto, continua a scontrarsi con un ostacolo tanto antico quanto
radicato nella nostra società: il patriarcato. Nonostante l’aumento della
popolarità, la qualità del gioco e l’impegno delle atlete, il gender gap nel
mondo del pallone rimane sconcertante. Ed è ora di dirlo chiaramente: questo gap
non è frutto di minore talento o minore spettacolarità, ma del sistema
patriarcale che ha storicamente marginalizzato lo sport femminile.
UN SISTEMA COSTRUITO SUL MASCHILE
Il calcio, da sempre, è stato concepito come terreno di espressione della
virilità, dell’agonismo maschile, dell’identità patriarcale. Come sottolineato
da un’analisi pubblicata su Jacobin già nel 2015, la Fifa stessa, per decenni,
ha trattato il calcio femminile con aperto disinteresse, quando non con
disprezzo. Per esempio, nel 2004, Sepp Blatter suggeriva che le calciatrici
dovessero indossare «shorts più attillati» per attrarre più pubblico. Una
dichiarazione che riassume perfettamente la visione sessista dell’establishment
calcistico che perdura ancora oggi e che si riflette in un atteggiamento che ha
avuto conseguenze devastanti dal punto di vista della parità di genere in ogni
sua sfaccettatura.
Le atlete professioniste, pur dedicando le stesse ore di allenamento e
affrontando gli stessi rischi fisici dei colleghi uomini, guadagnano una
frazione dei loro stipendi. Secondo Social Media Soccer, durante la Coppa del
Mondo femminile 2023, le giocatrici hanno ricevuto premi pari a circa un quarto
di quelli maschili nel torneo del 2022. L’intero montepremi è passato dai 28
milioni di dollari del 2019 ai 105 del 2023, un aumento, sì, ma ancora lontano
dai 440 milioni riservati agli uomini in Qatar.
Durante la Coppa del Mondo femminile 2023 in Australia e Nuova Zelanda, i dati
di ascolto sono stati da record. In Australia, la semifinale tra le padrone di
casa e le Lioness inglesi è stata, ad esempio, seguita da 11,5 milioni di
persone. La finalissima tra Spagna e Inghilterra è stata, invece, vista da oltre
13 milioni di persone nel solo Stato Spagnolo; da circa 6 milioni in Inghilterra
e da circa 500 mila persone in Italia, nonostante qui sia stata trasmessa su Rai
Sport e non su una rete generalista come fatto dai principali paesi europei (e
comunque gli ascolti della partita hanno superato quelli delle reti generaliste
Rai2 e Rai3). Si è trattato di uno degli eventi sportivi più visti dell’anno.
Eppure, anche davanti a questi risultati, le differenze salariali e contrattuali
permangono. Secondo alcuni studi, le Federazioni nazionali mostrano resistenze
sistemiche all’equiparazione salariale, legandola ancora alla «sostenibilità
economica». Discorso simile per i presidenti delle società come dimostrato di
recente da Aurelio De Laurentiis, presidente del Napoli, che nel corso di un
talk al Giffoni Film Festival ha candidamente affermato che, se non ci sono i
soldi neanche per la serie A, B e C maschile, figuriamoci come si possano
trovare per quella femminile, dimostrando che si continua a ignorare l’impatto
del capitale culturale e simbolico che il calcio femminile sta accumulando. È la
riproduzione ideologica del patriarcato nel linguaggio manageriale.
IL CASO DEL CALCIO ITALIANO
In Italia, il calcio femminile ha fatto passi avanti importanti, soprattutto
negli ultimi anni e in particolar modo dal 2022 quando è stato introdotto il
professionismo per la Serie A. Ma il gender gap permane, come si può
immediatamente notare mettendo a confronto gli stipendi delle calciatrici e
quelli dei calciatori.
Secondo i dati più recenti, gli stipendi delle calciatrici italiane oscillano
tra i 14.400 euro lordi annui per le più giovani e un massimo di circa
30.000-40.000 euro lordi per le giocatrici più esperte e di vertice, con qualche
eccezione di top player che arriva a 200.000 euro. Cifre irrisorie se pensiamo
che un calciatore medio della Serie A maschile guadagna diverse centinaia di
migliaia di euro all’anno, con i top player che guadagnano milioni e milioni di
euro l’anno. Un gap enorme ma soprattutto inaccettabile. La visione patriarcale
della società e dello sport, però, non ha ripercussioni solo in termini di gap
salariale ma anche in tantissimi altri aspetti come sottolineato, ad esempio,
dall’ex campionessa della nazionale femminile Patrizia Panico: «penso che nel
calcio sia radicata una grave forma di maschilismo tale da escludere le donne,
non soltanto per quanto concerne il ruolo di allenatore, ma da tantissime altre
figure professionali quali: preparatore atletico, medico, direttore sportivo,
team manager, direttore generale, addetto stampa e molti altri ruoli. Nelle
squadre professionistiche ma anche, purtroppo, nelle dilettantistiche raramente
si trovano figure femminili, è questione di mentalità, di una cultura
retrograda. Personalmente conosco moltissime donne molto più competenti dei loro
colleghi uomini».
A rendere ancora più evidente la disparità tra calcio maschile e femminile, è la
sproporzione negli investimenti strutturali. I club maschili, soprattutto nelle
serie maggiori, possono contare su centri sportivi all’avanguardia, staff
tecnici multidisciplinari, strutture mediche e logistiche di altissimo livello.
Al contrario, molte squadre femminili, anche in Serie A, faticano a trovare
campi in buone condizioni per allenarsi. Mentre i diritti televisivi del
campionato maschile fruttano centinaia di milioni di euro l’anno – basti pensare
che la Serie A maschile ha sottoscritto contratti da oltre 900 milioni per il
triennio 2024-2027 – il calcio femminile italiano ha visto solo di recente una
timida apertura in questo senso, con i primi accordi televisivi arrivati nel
2022 e con cifre estremamente contenute. Secondo un’indagine dell’osservatorio
Figc, oltre il 70% dei club femminili non dispone di un centro sportivo proprio
e deve affittare spazi a ore. E non è un caso se più di recente due delle stelle
della Nazionale, Cantore e Caruso, hanno parlato proprio della necessità di
portare avanti una battaglia per la parità di genere che non si traduce solo in
uguaglianza di stipendi: «dobbiamo lavorare tutte insieme per ottenere le stesse
opportunità – non gli stipendi – dei colleghi. La parità è avere accesso alle
loro stesse strutture e a determinati diritti che non ci vengono ancora
riconosciuti».
Perché la discriminazione di genere non si manifesta solo in un divario
economico ma anche in uno simbolico: investire significa riconoscere valore e in
Italia – come altrove – il valore viene ancora assegnato secondo logiche
patriarcali che mettono al centro il maschile, e relegano il femminile ai
margini, considerandolo meno importante, meno «meritevole» di infrastrutture e
risorse.
NON È QUESTIONE DI QUALITÀ, MA DI POTERE
Il discorso che giustifica le enormi differenze tra calcio maschile e femminile
appellandosi ai «numeri del mercato» – come audience televisiva, introiti da
sponsor o vendite dei biglietti – è profondamente fuorviante e ideologico.
Questi numeri non sono neutri, ma il risultato di decenni di disinvestimento
strutturale, culturale e mediatico nel calcio femminile. Non sono il segnale di
uno scarso interesse «naturale», bensì le conseguenze concrete di precise scelte
politiche e culturali, dettate da un sistema patriarcale che ha deciso chi
merita la visibilità, il denaro e l’accesso ialle risorse, e chi invece deve
accontentarsi di briciole.
Come ha spesso ribadito la filosofa e attivista Silvia Federici, la svalutazione
del lavoro femminile – sia esso retribuito o domestico, professionale o sportivo
– è una strategia precisa attraverso cui il patriarcato mantiene il controllo
del potere economico e simbolico. Questa logica si ripropone con forza anche nel
mondo del calcio: quando una calciatrice professionista guadagna 20.000 euro
all’anno, mentre un calciatore di Serie B può arrivare tranquillamente a cifre
dieci volte superiori, non si tratta di una differenza basata sul «merito» o
sulla «resa economica». Si tratta di una gerarchia imposta, in cui il valore
delle donne viene sistematicamente svalutato e reso invisibile.
Il patriarcato non ha solo impedito alle donne di accedere al calcio ai massimi
livelli; ha anche costruito una narrazione secondo cui lo sport femminile
sarebbe «meno competitivo», «meno attraente» e, dunque, meno degno di essere
visto, seguito, pagato. È una forma di controllo sociale mascherata da analisi
economica, una giustificazione moderna per una disparità antica. E questa logica
non riguarda solo il calcio: la stessa struttura si ripete nel mondo del lavoro,
nell’arte, nella scienza, nella politica, ovunque le donne osino reclamare
spazio, voce e dignità. Il punto non è cosa producono o quanto «rendono»: il
punto è che, in un sistema di potere maschile, alle donne viene ancora negato il
diritto di valere quanto gli uomini.
QUALE VIA D’USCITA?
La lotta per l’equiparazione salariale e di trattamento nel calcio femminile non
può limitarsi ai soli confini dello sport. Il calcio è riflesso fedele della
società in cui viviamo, che resta profondamente patriarcale e maschilista. Per
cambiare il calcio, bisogna cambiare la società, e viceversa. Il patriarcato si
manifesta in modo sistemico in molteplici aspetti della vita quotidiana: dalle
discriminazioni salariali nel mondo del lavoro alle difficoltà di accesso ai
ruoli apicali, dalla violenza di genere alle norme sociali che ancora relegano
le donne al ruolo di caregiver primarie, limitando la loro libertà e autonomia
economica. In Italia, ad esempio, la differenza salariale di genere supera
ancora il 20% e soltanto il 35% delle posizioni manageriali è occupato da donne.
Questo svantaggio strutturale si ripercuote anche nello sport, dove il
riconoscimento economico e mediatico delle atlete resta minimo. Angela Davis,
filosofa e attivista afroamericana, sottolineava come la discriminazione di
genere non sia un fenomeno isolato, ma una struttura di potere che intreccia
razza, classe e genere in modo indissolubile. Per Davis, la lotta delle donne
contro il patriarcato dev’essere necessariamente una lotta contro tutte le forme
di oppressione, e la conquista di pari diritti economici e sociali rappresenta
un passaggio fondamentale verso una società più giusta.
Nel calcio, questo significa che la battaglia per salari equi, investimenti
strutturali e visibilità non può essere una rivendicazione esclusivamente
sportiva: è parte di una più ampia lotta contro quei sistemi che definiscono il
valore delle donne come inferiore a quello degli uomini. Bisogna combattere
dentro lo spogliatoio come nelle federazioni, ma anche sui posti di lavoro,
nelle scuole, nelle redazioni giornalistiche così come nel mondo della politica
e dell’attivismo. Il patriarcato si manifesta, infatti, in maniera tangibile e
quotidiana: le donne vengono discriminate a livello di salario e spesso
costrette ad accettare contratti precari o part-time, anche quando possiedono le
stesse qualifiche e competenze degli uomini; sono quasi sempre le donne a
sobbarcarsi il lavoro di cura dei figli e degli anziani, un impegno che limita
le possibilità di carriera e la piena autonomia economica; la loro
rappresentanza politica ed economica è insufficiente, con pochi accessi ai ruoli
decisionali. Si pensi che su 18 membri del Consiglio Federale della Figc, ad
esempio, solo tre sono donne.
In ambito sportivo, poi, persistono forti stereotipi di genere che dipingono le
donne come meno competitive o meno interessate allo sport, rafforzando così
l’idea che il calcio femminile sia un prodotto di serie B.
Contrastare tutte queste dinamiche significa smontare i meccanismi di potere che
mantengono tali disuguaglianze. Come affermava Bell Hooks, la liberazione delle
donne è inseparabile dalla trasformazione delle strutture sociali in cui vivono.
Nel calcio femminile, questo si traduce nella necessità di investimenti seri e
duraturi, che non si limitino a campagne di facciata utili più alla Federazione
per mostrarsi al passo con i tempi che a una reale lotta alle disparità di
genere; nella realizzazione di politiche federali capaci di eliminare i tetti
salariali ingiusti e favorire la parità; nella creazione di un racconto
mediatico che presenti il calcio femminile come uno sport di alto livello, non
come un prodotto «minore»; e infine in un’educazione di genere diffusa, capace
di cambiare mentalità fin dalla giovane età ed evitare, ad esempio, che si
ripetano episodi come quello occorso qualche giorno fa a Pedro Rodríguez,
calciatore della Lazio, inondato di insulti sessisti e omofobi sotto al post
della foto con la moglie e il figlio che per festeggiare il suo ottavo
compleanno ha indossato una tiara e un vestitino con le spalline. Superfluo
aggiungere che nessun rappresentante della Figc né tanto meno della Lega Calcio
ha espresso solidarietà al calciatore o condannato gli insulti.
Solo in questo modo la battaglia per eliminare il gap salariale e le
discriminazioni di genere nella loro totalità potrà essere veramente efficace e
duratura. Il calcio femminile può allora diventare non solo un simbolo di
emancipazione, ma anche un motore di trasformazione culturale in una società
ancora troppo dominata da logiche patriarcali.
* Andrea Ponticelli, attivista da più di dieci anni nelle lotte di Napoli e
provincia, è tra i principali promotori del progetto Calcio&Rivoluzione.
Gabriele Granato, attivista sociale, frequentatore di stadi e collezionista di
t-shirt da gioco, è appassionato di sport e politica ed è tra i fondatori di
Calcio&Rivoluzione.
L'articolo Il pallone discriminato proviene da Jacobin Italia.