Solo una partita di calcio?
Articolo di Andrea Ponticelli, Gabriele Granato
Il 19 agosto scorso l’Associazione Italiana allenatori di calcio (Aiac), guidata
da Renzo Ulivieri, ha inviato una potente lettera-appello al presidente della
Figc, Gabriele Gravina, chiedendo di proporre a Uefa e Fifa la sospensione
temporanea di Israele dalle competizioni internazionali. Una presa di posizione
che non è solo simbolica ma, come si legge nel testo, «una scelta necessaria che
risponde a un imperativo morale, condivisa da tutto il gruppo dirigente
dell’Aiac».
Il documento si apre con una domanda esplicita: «Una partita di calcio,
preceduta dagli inni nazionali, può essere considerata solo una partita di
calcio?». Si affronta il contesto della Striscia di Gaza e delle conseguenze
devastanti in Cisgiordania e Libano, chiedendo se possano essere trattate come
uno dei tanti conflitti «ordinari». E spunta subito la domanda cruciale: «il
massacro terroristico compiuto da Hamas il 7 ottobre 2023 […] può giustificare
la feroce rappresaglia genocida di Israele […] fino ad annunciarne la
deportazione?». Ovviamente no!
Nella lettera si ribadisce, senza reticenze, che valori come l’umanità,
fondamento dello sport, impongono una risposta chiara: «l’indifferenza non è
ammissibile», dice il vicepresidente, in quota preparatori, Francesco Perondi.
Si cita, inoltre, lo statuto federale (art. 2, comma 5): «la Figc promuove
l’esclusione dal gioco del calcio di ogni forma di discriminazione sociale, di
razzismo, di xenofobia e di violenza». Quando in gioco ci sono «stragi
quotidiane» e vittime tra atleti e dirigenti, escludere Israele diventa
«legittimo, necessario, anzi, doveroso».
Il calcio, del resto, nonostante il potere mediatico provi a dire il contrario,
non è mai stato neutro, tanto meno in un momento storico dove appare sempre più
evidente come lo sport sia un terreno decisivo di battaglia politica per imporre
la propria visione del mondo. Lo dimostra la scelta dell’Uefa di portare in
campo a Udine alcuni bambini palestinesi e di mostrare lo striscione «Stop
killing children, stop killing civilians»; lo ha dimostrato Mohamed Salah con il
suo post che denunciava la rimozione della verità da parte dell’Uefa sulla morte
del «Pelé palestinese» Suleiman al-Obeid; lo dimostrano le crescenti voci che –
da diversi settori del calcio – chiedono apertamente la sospensione di Israele
da ogni competizione.
Una frattura che in Italia si fa più evidente: qui, dove il 14 ottobre a Udine è
in programma la partita di qualificazione ai Mondiali tra Italia e Israele, le
mobilitazioni popolari hanno raccolto la rabbia e la determinazione di chi non
accetta la normalizzazione del genocidio. Il Comitato per la Palestina di Udine,
insieme a Saalam Ragazzi dell’Olivo di Trieste, Bds Italia e al collettivo
Calcio&Rivoluzione, ha lanciato un appello a scendere in piazza quel giorno con
un messaggio chiaro: «Udine è con la Palestina, fuori Israele dalla Fifa». Non
si tratta di una protesta astratta, ma della consapevolezza che in quella
partita non ci sono in palio solo i tre punti, che quella partita non
rappresenta una semplice competizione sportiva, bensì un palcoscenico
internazionale che rischia di legittimare uno Stato responsabile di crimini di
guerra e di genocidio.
In questo contesto la lettera dell’Associazione Italiana Allenatori di Calcio
rappresenta un fatto politico di enorme portata. Non è un documento di facciata
né una presa di posizione generica: gli allenatori, con Renzo Ulivieri in prima
fila, hanno scritto alla Figc chiedendo di farsi promotrice in Uefa e Fifa della
sospensione di Israele. Un atto che ha la forza di chi parla dall’interno del
mondo del calcio e non dall’esterno. La lettera mette in fila questioni che
spesso la politica evita: l’impossibilità di chiamare «partita» ciò che si gioca
sotto il peso di un genocidio, l’urgenza di affermare che l’indifferenza non è
più possibile, la necessità di riconoscere che lo sport è parte della società e
che, quando la società è attraversata dal genocidio, non può fingere neutralità.
E il richiamo alla parte di statuto federale che parla di lotta alla
discriminazione e violenza, all’interno dell’appello, serve proprio a mostrare
come la stessa struttura istituzionale del calcio fornisca le basi giuridiche e
morali per un atto di esclusione che non sarebbe eccezione ma coerenza. In un
periodo storico in cui Uefa e Fifa hanno già escluso paesi per guerre o
apartheid, non c’è giustificazione per mantenere Israele al tavolo delle
competizioni.
Questa presa di posizione rompe l’isolamento delle piazze e conferma che la
mobilitazione dal basso è in grado di generare fratture, costringendo anche chi
opera dentro le istituzioni sportive a schierarsi. La forza della lettera
dell’Aiac sta proprio in questo: mostra che l’appello dei movimenti non è
marginale né settario, ma intercetta un sentimento di giustizia che attraversa
diversi settori sociali. È un tassello che si aggiunge al mosaico delle
resistenze, dalle manifestazioni popolari alla voce dei giocatori, dalle denunce
delle Ong alle prese di posizione dei rappresentanti e delle rappresentanti
dell’Onu.
Di fronte a questo movimento crescente, non può non colpire l’atteggiamento del
Partito Democratico. Un partito che in Italia pretenderebbe di rappresentare il
progressismo di sinistra e che si è limitato a lanciare una petizione online per
chiedere l’annullamento della partita Italia-Israele. Nessuna mobilitazione
reale, nessuna scelta di campo netta, nessuna volontà di rompere la normalità.
Solo la comoda distanza della politica digitale, che si accontenta di
dichiarazioni formali senza mettere in discussione la complicità dello Stato
italiano con il genocidio. È l’ennesima prova dell’ipocrisia di un partito che
parla di diritti ma tace quando si tratta di scontrarsi con i poteri sportivi ed
economici, che preferisce la politica dell’equidistanza al coraggio di azioni
concrete. Quello stesso partito che esattamente un anno fa, per mano del sindaco
di Udine, Felice De Toni, concedeva il patrocinio alla partita, allora valida
per la Nations League, tra Italia e Israele e che oggi ne chiede il
boicottaggio. Quello stesso partito che conta decine e decine di
europarlamentari, parlamentari e amministratori locali e agisce come non avesse
qualsivoglia peso e potere istituzionale. Piuttosto che usare strumentalmente la
questione palestinese per occupare uno spazio politico e mostrarsi come
sensibili alle «questioni umanitarie», potrebbero, invece, chiedere la
cessazzione dei rapporti istituzionali con lo Stato sionista in quanto occupante
illegittimo di terre palestinesi e siriane (alture del golan); potrebbero
presentare, nei luoghi da loro presidiati, proposte di boicottaggio nei
confronti delle entità israeliane; potrebbero soprattutto prendere le distanze e
cacciare dal partito personaggi come Marco Minniti in quanto presidente della
fondazione MedOr della Leonardo, fondazione di osservazione sul medioriente di
una delle aziende coinvolte nella produzione di armi che Israele utilizza per
sterminare il popolo palestinese. Invece nulla, solo un atteggiamento che
svilisce la politica e la consegna all’irrilevanza, lasciando che siano i
comitati, le piazze e oggi persino gli allenatori a incarnare la voce della
coscienza collettiva.
La battaglia per l’esclusione di Israele dalle competizioni Uefa e Fifa, in
questo contesto, non è quindi un dettaglio tecnico, ma un passaggio fondamentale
di una strategia politica più ampia: costruire pressione internazionale, rompere
la vetrina di normalità dietro cui si nasconde Israele mentre porta avanti un
genocidio, usare anche lo sport come terreno di boicottaggio. Così come il
Sudafrica dell’apartheid fu escluso e così come la Russia è stata estromessa
dopo appena quattro giorni dallo scoppio del conflitto con l’Ucraina (caso sul
quale la rapidità di azione restituisce il peso politico del Calcio per
l’occidente, dimostrando definitivamente che la Fifa è strettamente connessa con
il potere occidentale), Israele non può continuare a giocare come se nulla
accadesse mentre devasta Gaza e massacra civili. Ogni partita di Israele è
propaganda, ogni volta che risuona l’inno israeliano è legittimazione delle sue
politiche, ogni stretta di mano in campo è normalizzazione. Per questo la
mobilitazione a Udine, le parole di Salah, la lettera dell’Aiac e la rabbia che
attraversa le piazze in Italia e nel mondo convergono verso un obiettivo comune:
rompere il silenzio, colpire Israele anche sul terreno simbolico e visibile
dello sport, trasformare lo stadio in un campo di battaglia per l’egemonia
culturale e politica.
Chi scenderà in piazza il 14 ottobre non lo farà solo contro una partita, ma
contro l’ipocrisia delle istituzioni che fingono di non vedere. E lo farà
sapendo che la forza delle mobilitazioni dal basso è l’unico strumento capace di
incrinare l’apparente compattezza di chi sostiene Israele. È questo che rende
importante ogni corteo, ogni striscione, ogni appello: costruire un fronte che
attraversa società, sport e politica e che afferma una cosa semplice e radicale,
che oggi vale più di mille discorsi istituzionali: il genocidio del popolo
palestinese non può essere normalizzato, né nei palazzi del potere né tanto meno
negli stadi di calcio.
*Andrea Ponticelli, attivista da più di dieci anni nelle lotte di Napoli e
provincia, fa parte del progetto di Calcio&Rivoluzione di cui è tra i principali
promotori. Gabriele Granato, attivista sociale, frequentatore di stadi e
collezionista di t-shirt da gioco, è appassionato di sport e politica ed è tra i
fondatori del progetto Calcio&Rivoluzione.
L'articolo Solo una partita di calcio? proviene da Jacobin Italia.