La serie A emigra in Australia
Articolo di Andrea Ponticelli, Gabriele Granato
La notizia ha fatto rapidamente il giro del mondo: Milan e Como giocheranno una
partita ufficiale di Serie A in Australia, a Perth, nel febbraio 2026. Una
decisione senza precedenti nel calcio italiano, che segna un nuovo capitolo
nella strategia di internazionalizzazione del campionato.
Ufficialmente, la motivazione è tecnica: lo stadio di San Siro sarà
indisponibile per via dei lavori legati alle Olimpiadi Invernali di
Milano-Cortina. Ma nessuno si illude che sia davvero solo questo il motivo. Se
il problema fosse meramente logistico, esisterebbero soluzioni ben più razionali
e già sperimentate in passato.
Basti pensare che quando, in passato, alcune squadre si sono trovate con lo
stadio in ristrutturazione, non si è mai ipotizzato di trasferire partite
all’estero. Si è sempre cercato lo stadio più vicino e logisticamente
accessibile: una soluzione sportivamente sensata, rispettosa dei tifosi e della
competizione. Il Como, ad esempio, dopo il ritorno in Serie A, ha dovuto
affrontare il problema della probabile indisponibilità del proprio impianto. E
la Lega, in quell’occasione, non ha certo spedito la squadra a migliaia di
chilometri di distanza: ha semplicemente autorizzato il club a giocare
temporaneamente al Bentegodi di Verona, lo stadio più adatto e disponibile in
attesa della conclusione dei lavori di ristrutturazione del Sinigaglia.
È dunque evidente che la scelta di far disputare Milan-Como a Perth non è una
necessità tecnica, ma una scelta economica e simbolica. Serve a esportare il
brand, a offrire una vetrina globale alla Serie A, a compiacere sponsor e
broadcaster internazionali. Non è un caso che la stessa Lega abbia parlato di
opportunità strategica per espandere il mercato in Asia e Oceania.
Il calcio italiano, insomma, segue un copione ormai consolidato in Europa: il
tentativo di trasformare il campionato in un prodotto globale, allontanandolo
dai suoi territori naturali. Un problema che non è soltanto italiano poiché la
deriva è generale. Né è riprova il fatto che anche la Liga spagnola ha
annunciato e ufficializzato che una partita del campionato 2025/26, quella tra
Villarreal e Barcellona del 20 dicembre prossimo, si giocherà a Miami, negli
Stati uniti. E la motivazione come si può leggere nella nota pubblicata dalla
Liga è puramente economica: «l’obiettivo è promuovere la crescita
internazionale, ampliare la base globale di tifosi e rafforzare la posizione
della Liga come una delle competizioni più importanti al mondo, preservandone al
contempo l’integrità. L’iniziativa permetterà inoltre ai milioni di tifosi
statunitensi della Liga di vivere un’esperienza dal vivo». Siamo dunque di
fronte a una tendenza ormai strutturale: i campionati nazionali diventano
strumenti di marketing internazionale, laboratori di esportazione del
marchio-calcio. La globalizzazione del pallone, iniziata con tournée estive e
amichevoli internazionali, ora invade anche le competizioni ufficiali.
E se da un lato gli sponsor, le società, le Leghe e i broadcaster internazionali
esultano dall’altro c’è chi ha reagito in maniera decisamente meno entusiasta
alla notizia. L’Uefa ha concesso l’autorizzazione solo «in via eccezionale»,
specificando – con un comunicato ufficiale – che l’esperimento non dovrà
diventare un precedente: «la Uefa contribuirà attivamente al lavoro in corso
condotto dalla Fifa per garantire che le regole future sostengano l’integrità
delle competizioni nazionali e lo stretto legame tra i club, i loro tifosi e le
comunità locali». È un monito chiaro, ma che rischia di rimanere inascoltato.
Perché dietro a questa decisione non c’è soltanto un episodio isolato: c’è un
intero modo di concepire lo sport nel XXI secolo.
Adrien Rabiot, centrocampista francese del Milan, è stato tra i primi a
esprimere perplessità in un’intervista rilasciata a Le Figaro definendo
totalmente pazzesca la decisione. Rabiot ha spiegato che si tratta di una
trasferta insensata dal punto di vista sportivo e fisico, un viaggio di 17 ore
che spezza i ritmi del campionato e non tiene conto del benessere dei
calciatori. Ma soprattutto, ha denunciato la logica che sottintende la
decisione: «sono accordi economici affinché il campionato abbia una certa
visibilità, tutto questo è al di sopra di noi. È pazzesco fare così tanti
chilometri per far giocare una partita fra due squadre italiane in Australia.
Dobbiamo adattarci. Come sempre. Si parla molto dei calendari e della salute dei
giocatori, ma tutto questo sembra davvero assurdo». Parole dirette, spontanee,
che hanno scatenato un’ondata di polemiche. A rispondere al nazionale francese è
stato direttamente Luigi De Siervo, amministratore delegato della Lega Serie A,
con dichiarazioni di una durezza unica: «Rabiot si scorda, come tutti i
calciatori che guadagnano milioni di euro, che sono pagati per svolgere
un’attività, cioè giocare a calcio. Dovrebbe avere rispetto dei soldi che
guadagna e assecondare maggiormente quello che è il suo datore di lavoro, cioè
il Milan, che ha accettato e spinto perché questa partita si potesse giocare
all’estero».
Una frase che ha fatto il giro dei social e che, meglio di mille analisi,
racconta il modo di pensare di chi oggi gestisce il calcio come un’azienda
globale.
Perché, al di là del tono paternalistico, quella risposta contiene un messaggio
politico pericoloso: se vieni pagato, non puoi protestare. Non importa se lo
stipendio è alto o basso, se la decisione è giusta o sbagliata: chi detiene il
potere economico rivendica il diritto di decidere e chi lavora deve eseguire in
silenzio.
Un’idea autoritaria del lavoro che non è diversa da quella che troviamo in molti
altri settori dell’economia contemporanea. De Siervo ha, semplicemente, reso
evidente l’arroganza di chi oggi detiene il potere economico e mediatico nel
calcio e, per estensione, nella società. L’idea sottintesa è quella di cui
sopra: chi viene pagato (molto o poco che sia) non ha diritto di parola. Deve
limitarsi a «fare il suo lavoro». Il lavoratore, anche quando è un privilegiato,
come nel caso di Rabiot, viene ridotto a un semplice ingranaggio di una macchina
produttiva che non va in alcun modo fermata. Il lavoratore deve generare
plusvalore, far crescere il brand, rispettare la catena di comando. Se osa
criticare, viene accusato di ingratitudine. Se non peggio…
Ma la realtà è che senza i lavoratori, senza chi scende in campo, non ci sarebbe
alcun business. Né guadagno, né spettacolo, né prodotto. Che si tratti di una
fabbrica o di un campo da calcio, il capitale senza forza-lavoro non produce
nulla. E questo vale anche per un calciatore milionario: può essere
privilegiato, ma resta pur sempre un lavoratore e il fatto che guadagni milioni
non toglie nulla alla legittimità della sua critica: il diritto di esprimere
dissenso, del resto, non si dovrebbe misurare in base allo stipendio.
LA MERCIFICAZIONE DEL CALCIO
L’affaire Milan-Como in Australia è, però, solo l’ultimo tassello di un processo
lungo e profondo: la trasformazione del calcio da fenomeno sociale e popolare in
prodotto commerciale globale. Negli ultimi trent’anni, il calcio mondiale ha
conosciuto una rivoluzione silenziosa ma radicale.
Le logiche del profitto hanno sostituito quelle della partecipazione. I bilanci
hanno preso il posto dei sogni. Gli stadi sono diventati veri e propri centri
commerciali. I club, un tempo radicati nelle loro città, oggi si comportano come
multinazionali. Un tempo la squadra era espressione della comunità: il Torino,
ancor più della Juventus, era Torino, il Napoli era Napoli, il Milan e l’Inter
erano Milano, la Fiorentina era Firenze e così via.Oggi, invece, la squadra è un
brand da esportare, un logo da monetizzare, un contenuto da vendere su
piattaforme globali.
Karl Marx scriveva che nel capitalismo il «valore di scambio» tende a soffocare
il «valore d’uso» delle cose. Applicato al calcio, questo significa che la
funzione sociale e identitaria dello sport – il suo valore d’uso, appunto –
viene oscurata dal suo valore economico, dal profitto che può generare. La
squadra non è più simbolo di una città, ma un marchio da monetizzare; la partita
non è più rito collettivo, ma contenuto da esportare; il tifoso non è più parte
di una comunità, ma un cliente. Il risultato è un calcio alienato, dove i
protagonisti – tifosi, giocatori, città – perdono centralità. Il tifoso non è
più un soggetto attivo, ma un cliente da fidelizzare. Il calciatore non è più un
interprete, ma un prodotto da valorizzare. Il club non è più un simbolo, ma una
società commerciale con sede legale chissà dove.
Questa deriva capitalistica dello sport produce profitti, ma svuota il calcio
del suo significato più profondo. Il legame tra squadra e territorio, che per
più di un secolo è stato il cuore del calcio, si spezza. Si rompono i legami
identitari, quelli che trasformavano la domenica allo stadio in un rito
collettivo, una festa popolare, un linguaggio comune tra generazioni. Il calcio
smette di funzionare, per dirla con le parole dell’antropologo francese Marc
Augé, come un fenomeno religioso in cui numerosi individui provano gli stessi
sentimenti che esprimono attraverso il ritmo e il canto.
DA SUPPORTER A CUSTOMER
Il tifoso, nel modello economico neoliberista del calcio, è stato trasformato in
cliente. Un tempo partecipava alla vita del club: ne condivideva i successi e le
sconfitte, ne custodiva la memoria, ne tramandava l’identità. Oggi è un
consumatore di contenuti: abbonato a piattaforme, acquirente di maglie, follower
sui social. Le società non cercano più di coinvolgerlo, ma di vendergli
esperienze. Questo cambio di paradigma è emblematico: si passa dal calcio come
appartenenza e identità al calcio come intrattenimento. E come ogni forma di
intrattenimento contemporaneo deve essere redditizia, scalabile, globalizzata.
Una partita in Australia non serve ai tifosi del Milan o del Como: serve a chi
investe nella Lega, a chi compra i diritti Tv, a chi vuole far crescere il
marchio in Oceania.
Ma il prezzo di questa trasformazione è altissimo. Alienare la squadra dal
proprio territorio significa spezzare il legame che ha reso il calcio il
fenomeno popolare più potente del Novecento. Eduardo Galeano lo aveva capito
bene. Per lui il calcio rappresentava la casa del popolo, una casa che perde la
sua magia quando viene strappata via dal suo habitat.
Spostare una partita come Milan-Como a migliaia di chilometri dai suoi tifosi
significa rompere quel legame costruito in decenni di storia, di appartenenza,
di identità.
Significa dire a chi va allo stadio ogni settimana che la sua presenza non è poi
così importante, che conta molto di più un nuovo mercato televisivo o un
contratto con uno sponsor che la sua presenza sugli spalti. E infatti, ogni
volta che un club gioca lontano dalla sua gente, un pezzo di quella anima se ne
va. Ogni volta che una società cambia logo per sembrare più internazionale, o
che uno stadio viene demolito per fare posto a un centro commerciale, il calcio
si svuota un po’ di più.
IL CAPITALISMO SPORTIVO E LA LOGICA DEL PROFITTO
La Serie A, in questo contesto, non è un’eccezione: segue la strada tracciata da
Premier League, Liga e Ligue 1, risultando per certi versi apripista.
L’obiettivo, ad ogni modo, è sempre lo stesso: aumentare i ricavi.
I diritti televisivi sono il vero motore economico del calcio moderno:
rappresentano oltre il 60% degli introiti dei principali campionati europei. Ma
questi ricavi dipendono da un mercato globale sempre più competitivo, dove la
visibilità diventa moneta. Chi non cresce, retrocede. Chi non esporta, muore. La
Lega Serie A, nel tentativo di rincorrere i colossi inglesi e spagnoli, ha
imboccato la stessa strada: giocare ovunque, a qualsiasi ora, per chiunque, pur
di vendere il proprio prodotto. Ma questa rincorsa ha un costo umano e sociale.
Le società investono miliardi per attirare nuovi fan in Asia, mondo arabo o
America, ma nel frattempo perdono contatto con i loro tifosi storici, con i
settori popolari degli stadi, con i quartieri, con i bambini e le famiglie che
non possono più permettersi un biglietto.
È la logica del capitalismo declinata nello sport: il profitto prevale sul
valore comunitario. Ogni decisione è giustificata in nome del «mercato», anche
quando distrugge ciò che rendeva unico questo sport. E così, nel nome della
crescita economica, il calcio rischia di suicidarsi. Perché come diceva Galeano
«la storia del calcio è un triste viaggio dal piacere al dovere. A mano a mano
che lo sport si è fatto industria, è andato perdendo la bellezza che nasce
dall’allegria di giocare per giocare».
IL CALCIO COME BENE COMUNE
E allora, di fronte a questa deriva, non basta lamentarsi o costruire falsi
miti, supposte età dell’oro del calcio facendo leva su un generico senso di
nostalgia. Bisogna, piuttosto, riaffermare che il calcio è un bene comune e non
un segmento delle economie nazionali e internazionali. E come ogni bene comune,
ha bisogno di regole che ne garantiscano l’equilibrio, che proteggano chi lo
detiene per diritto e lo vive. Le istituzioni calcistiche dovrebbero riconoscere
che il valore del calcio non è solo economico, ma soprattutto sociale,
culturale, affettivo e identitario.
Restituire voce ai tifosi, coinvolgerli nelle scelte strategiche, reinvestire
una parte dei profitti nei vivai, nei campi di periferia, nelle comunità locali:
sono solo alcuni passi possibili. Come dicevamo non si tratta di essere
nostalgici, ma di difendere la natura intrinseca del calcio: quella di
linguaggio universale, di spazio d’incontro, di identità collettiva. Perché un
calcio che si gioca a 17.000 chilometri da casa, davanti a un pubblico piuttosto
casuale (non provate a chiamarli tifosi), è un calcio che ha perso la sua anima.
E quando il calcio perde la sua anima, non resta che un prodotto spurio da
vendere sul mercato. Se vogliamo che resti qualcosa di più, dobbiamo ricordarci
che il calcio, prima ancora di essere business, è un fatto umano e sociale. Un
gioco nato per unire, per far sognare, per far emozionare, non per fatturare.
E se oggi qualcuno come De Siervo pensa di poter ridurre tutto a una questione
di stipendi e contratti, allora il problema non è Rabiot che alza la voce ma un
sistema e una società che hanno dimenticato cosa significa davvero giocare.
Perché il calcio, come la vita, non è solo questione di denaro: è questione di
appartenenza, di memoria, di libertà. E quella libertà, come ogni libertà, va
difesa.
*Andrea Ponticelli, attivista da più di dieci anni nelle lotte di Napoli e
provincia, fa parte del progetto di Calcio&Rivoluzione di cui è tra i principali
promotori. Gabriele Granato, attivista sociale, frequentatore di stadi e
collezionista di t-shirt da gioco, è appassionato di sport e politica ed è tra i
fondatori del progetto Calcio&Rivoluzione.
L'articolo La serie A emigra in Australia proviene da Jacobin Italia.