La serie A emigra in Australia

Jacobin Italia - Wednesday, October 15, 2025
Articolo di Andrea Ponticelli, Gabriele Granato

La notizia ha fatto rapidamente il giro del mondo: Milan e Como giocheranno una partita ufficiale di Serie A in Australia, a Perth, nel febbraio 2026. Una decisione senza precedenti nel calcio italiano, che segna un nuovo capitolo nella strategia di internazionalizzazione del campionato.

Ufficialmente, la motivazione è tecnica: lo stadio di San Siro sarà indisponibile per via dei lavori legati alle Olimpiadi Invernali di Milano-Cortina. Ma nessuno si illude che sia davvero solo questo il motivo. Se il problema fosse meramente logistico, esisterebbero soluzioni ben più razionali e già sperimentate in passato.

Basti pensare che quando, in passato, alcune squadre si sono trovate con lo stadio in ristrutturazione, non si è mai ipotizzato di trasferire partite all’estero. Si è sempre cercato lo stadio più vicino e logisticamente accessibile: una soluzione sportivamente sensata, rispettosa dei tifosi e della competizione. Il Como, ad esempio, dopo il ritorno in Serie A, ha dovuto affrontare il problema della probabile indisponibilità del proprio impianto. E la Lega, in quell’occasione, non ha certo spedito la squadra a migliaia di chilometri di distanza: ha semplicemente autorizzato il club a giocare temporaneamente al Bentegodi di Verona, lo stadio più adatto e disponibile in attesa della conclusione dei lavori di ristrutturazione del Sinigaglia.

È dunque evidente che la scelta di far disputare Milan-Como a Perth non è una necessità tecnica, ma una scelta economica e simbolica. Serve a esportare il brand, a offrire una vetrina globale alla Serie A, a compiacere sponsor e broadcaster internazionali. Non è un caso che la stessa Lega abbia parlato di opportunità strategica per espandere il mercato in Asia e Oceania.

Il calcio italiano, insomma, segue un copione ormai consolidato in Europa: il tentativo di trasformare il campionato in un prodotto globale, allontanandolo dai suoi territori naturali. Un problema che non è soltanto italiano poiché la deriva è generale. Né è riprova il fatto che anche la Liga spagnola ha annunciato e ufficializzato che una partita del campionato 2025/26, quella tra Villarreal e Barcellona del 20 dicembre prossimo, si giocherà a Miami, negli Stati uniti. E la motivazione come si può leggere nella nota pubblicata dalla Liga è puramente economica: «l’obiettivo è promuovere la crescita internazionale, ampliare la base globale di tifosi e rafforzare la posizione della Liga come una delle competizioni più importanti al mondo, preservandone al contempo l’integrità. L’iniziativa permetterà inoltre ai milioni di tifosi statunitensi della Liga di vivere un’esperienza dal vivo». Siamo dunque di fronte a una tendenza ormai strutturale: i campionati nazionali diventano strumenti di marketing internazionale, laboratori di esportazione del marchio-calcio. La globalizzazione del pallone, iniziata con tournée estive e amichevoli internazionali, ora invade anche le competizioni ufficiali.

E se da un lato gli sponsor, le società, le Leghe e i broadcaster internazionali esultano dall’altro c’è chi ha reagito in maniera decisamente meno entusiasta alla notizia. L’Uefa ha concesso l’autorizzazione solo «in via eccezionale», specificando – con un comunicato ufficiale – che l’esperimento non dovrà diventare un precedente: «la Uefa contribuirà attivamente al lavoro in corso condotto dalla Fifa per garantire che le regole future sostengano l’integrità delle competizioni nazionali e lo stretto legame tra i club, i loro tifosi e le comunità locali». È un monito chiaro, ma che rischia di rimanere inascoltato. Perché dietro a questa decisione non c’è soltanto un episodio isolato: c’è un intero modo di concepire lo sport nel XXI secolo.

Adrien Rabiot, centrocampista francese del Milan, è stato tra i primi a esprimere perplessità in un’intervista rilasciata a Le Figaro definendo totalmente pazzesca la decisione. Rabiot ha spiegato che si tratta di una trasferta insensata dal punto di vista sportivo e fisico, un viaggio di 17 ore che spezza i ritmi del campionato e non tiene conto del benessere dei calciatori. Ma soprattutto, ha denunciato la logica che sottintende la decisione: «sono accordi economici affinché il campionato abbia una certa visibilità, tutto questo è al di sopra di noi. È pazzesco fare così tanti chilometri per far giocare una partita fra due squadre italiane in Australia. Dobbiamo adattarci. Come sempre. Si parla molto dei calendari e della salute dei giocatori, ma tutto questo sembra davvero assurdo». Parole dirette, spontanee, che hanno scatenato un’ondata di polemiche. A rispondere al nazionale francese è stato direttamente Luigi De Siervo, amministratore delegato della Lega Serie A, con dichiarazioni di una durezza unica: «Rabiot si scorda, come tutti i calciatori che guadagnano milioni di euro, che sono pagati per svolgere un’attività, cioè giocare a calcio. Dovrebbe avere rispetto dei soldi che guadagna e assecondare maggiormente quello che è il suo datore di lavoro, cioè il Milan, che ha accettato e spinto perché questa partita si potesse giocare all’estero».

Una frase che ha fatto il giro dei social e che, meglio di mille analisi, racconta il modo di pensare di chi oggi gestisce il calcio come un’azienda globale.

Perché, al di là del tono paternalistico, quella risposta contiene un messaggio politico pericoloso: se vieni pagato, non puoi protestare. Non importa se lo stipendio è alto o basso, se la decisione è giusta o sbagliata: chi detiene il potere economico rivendica il diritto di decidere e chi lavora deve eseguire in silenzio.

Un’idea autoritaria del lavoro che non è diversa da quella che troviamo in molti altri settori dell’economia contemporanea. De Siervo ha, semplicemente, reso evidente l’arroganza di chi oggi detiene il potere economico e mediatico nel calcio e, per estensione, nella società. L’idea sottintesa è quella di cui sopra: chi viene pagato (molto o poco che sia) non ha diritto di parola. Deve limitarsi a «fare il suo lavoro». Il lavoratore, anche quando è un privilegiato, come nel caso di Rabiot, viene ridotto a un semplice ingranaggio di una macchina produttiva che non va in alcun modo fermata. Il lavoratore deve generare plusvalore, far crescere il brand, rispettare la catena di comando. Se osa criticare, viene accusato di ingratitudine. Se non peggio…

Ma la realtà è che senza i lavoratori, senza chi scende in campo, non ci sarebbe alcun business. Né guadagno, né spettacolo, né prodotto. Che si tratti di una fabbrica o di un campo da calcio, il capitale senza forza-lavoro non produce nulla. E questo vale anche per un calciatore milionario: può essere privilegiato, ma resta pur sempre un lavoratore e il fatto che guadagni milioni non toglie nulla alla legittimità della sua critica: il diritto di esprimere dissenso, del resto, non si dovrebbe misurare in base allo stipendio.

La mercificazione del calcio

L’affaire Milan-Como in Australia è, però, solo l’ultimo tassello di un processo lungo e profondo: la trasformazione del calcio da fenomeno sociale e popolare in prodotto commerciale globale. Negli ultimi trent’anni, il calcio mondiale ha conosciuto una rivoluzione silenziosa ma radicale.

Le logiche del profitto hanno sostituito quelle della partecipazione. I bilanci hanno preso il posto dei sogni. Gli stadi sono diventati veri e propri centri commerciali. I club, un tempo radicati nelle loro città, oggi si comportano come multinazionali. Un tempo la squadra era espressione della comunità: il Torino, ancor più della Juventus, era Torino, il Napoli era Napoli, il Milan e l’Inter erano Milano, la Fiorentina era Firenze e così via.Oggi, invece, la squadra è un brand da esportare, un logo da monetizzare, un contenuto da vendere su piattaforme globali.

Karl Marx scriveva che nel capitalismo il «valore di scambio» tende a soffocare il «valore d’uso» delle cose. Applicato al calcio, questo significa che la funzione sociale e identitaria dello sport – il suo valore d’uso, appunto – viene oscurata dal suo valore economico, dal profitto che può generare. La squadra non è più simbolo di una città, ma un marchio da monetizzare; la partita non è più rito collettivo, ma contenuto da esportare; il tifoso non è più parte di una comunità, ma un cliente. Il risultato è un calcio alienato, dove i protagonisti – tifosi, giocatori, città – perdono centralità. Il tifoso non è più un soggetto attivo, ma un cliente da fidelizzare. Il calciatore non è più un interprete, ma un prodotto da valorizzare. Il club non è più un simbolo, ma una società commerciale con sede legale chissà dove.

Questa deriva capitalistica dello sport produce profitti, ma svuota il calcio del suo significato più profondo. Il legame tra squadra e territorio, che per più di un secolo è stato il cuore del calcio, si spezza. Si rompono i legami identitari, quelli che trasformavano la domenica allo stadio in un rito collettivo, una festa popolare, un linguaggio comune tra generazioni. Il calcio smette di funzionare, per dirla con le parole dell’antropologo francese Marc Augé, come un fenomeno religioso in cui numerosi individui provano gli stessi sentimenti che esprimono attraverso il ritmo e il canto.

Da supporter a customer

Il tifoso, nel modello economico neoliberista del calcio, è stato trasformato in cliente. Un tempo partecipava alla vita del club: ne condivideva i successi e le sconfitte, ne custodiva la memoria, ne tramandava l’identità. Oggi è un consumatore di contenuti: abbonato a piattaforme, acquirente di maglie, follower sui social. Le società non cercano più di coinvolgerlo, ma di vendergli esperienze. Questo cambio di paradigma è emblematico: si passa dal calcio come appartenenza e identità al calcio come intrattenimento. E come ogni forma di intrattenimento contemporaneo deve essere redditizia, scalabile, globalizzata.

Una partita in Australia non serve ai tifosi del Milan o del Como: serve a chi investe nella Lega, a chi compra i diritti Tv, a chi vuole far crescere il marchio in Oceania.

Ma il prezzo di questa trasformazione è altissimo. Alienare la squadra dal proprio territorio significa spezzare il legame che ha reso il calcio il fenomeno popolare più potente del Novecento. Eduardo Galeano lo aveva capito bene. Per lui il calcio rappresentava la casa del popolo, una casa che perde la sua magia quando viene strappata via dal suo habitat. 

Spostare una partita come Milan-Como a migliaia di chilometri dai suoi tifosi significa rompere quel legame costruito in decenni di storia, di appartenenza, di identità.

Significa dire a chi va allo stadio ogni settimana che la sua presenza non è poi così importante, che conta molto di più un nuovo mercato televisivo o un contratto con uno sponsor che la sua presenza sugli spalti. E infatti, ogni volta che un club gioca lontano dalla sua gente, un pezzo di quella anima se ne va. Ogni volta che una società cambia logo per sembrare più internazionale, o che uno stadio viene demolito per fare posto a un centro commerciale, il calcio si svuota un po’ di più.

Il capitalismo sportivo e la logica del profitto

La Serie A, in questo contesto, non è un’eccezione: segue la strada tracciata da Premier League, Liga e Ligue 1, risultando per certi versi apripista. L’obiettivo, ad ogni modo, è sempre lo stesso: aumentare i ricavi.

I diritti televisivi sono il vero motore economico del calcio moderno: rappresentano oltre il 60% degli introiti dei principali campionati europei. Ma questi ricavi dipendono da un mercato globale sempre più competitivo, dove la visibilità diventa moneta. Chi non cresce, retrocede. Chi non esporta, muore. La Lega Serie A, nel tentativo di rincorrere i colossi inglesi e spagnoli, ha imboccato la stessa strada: giocare ovunque, a qualsiasi ora, per chiunque, pur di vendere il proprio prodotto. Ma questa rincorsa ha un costo umano e sociale. Le società investono miliardi per attirare nuovi fan in Asia, mondo arabo o America, ma nel frattempo perdono contatto con i loro tifosi storici, con i settori popolari degli stadi, con i quartieri, con i bambini e le famiglie che non possono più permettersi un biglietto.

È la logica del capitalismo declinata nello sport: il profitto prevale sul valore comunitario. Ogni decisione è giustificata in nome del «mercato», anche quando distrugge ciò che rendeva unico questo sport. E così, nel nome della crescita economica, il calcio rischia di suicidarsi. Perché come diceva Galeano «la storia del calcio è un triste viaggio dal piacere al dovere. A mano a mano che lo sport si è fatto industria, è andato perdendo la bellezza che nasce dall’allegria di giocare per giocare». 

Il calcio come bene comune

E allora, di fronte a questa deriva, non basta lamentarsi o costruire falsi miti, supposte età dell’oro del calcio facendo leva su un generico senso di nostalgia. Bisogna, piuttosto, riaffermare che il calcio è un bene comune e non un segmento delle economie nazionali e internazionali. E come ogni bene comune, ha bisogno di regole che ne garantiscano l’equilibrio, che proteggano chi lo detiene per diritto e lo vive. Le istituzioni calcistiche dovrebbero riconoscere che il valore del calcio non è solo economico, ma soprattutto sociale, culturale, affettivo e identitario.

Restituire voce ai tifosi, coinvolgerli nelle scelte strategiche, reinvestire una parte dei profitti nei vivai, nei campi di periferia, nelle comunità locali: sono solo alcuni passi possibili. Come dicevamo non si tratta di essere nostalgici, ma di difendere la natura intrinseca del calcio: quella di linguaggio universale, di spazio d’incontro, di identità collettiva. Perché un calcio che si gioca a 17.000 chilometri da casa, davanti a un pubblico piuttosto casuale (non provate a chiamarli tifosi), è un calcio che ha perso la sua anima. E quando il calcio perde la sua anima, non resta che un prodotto spurio da vendere sul mercato. Se vogliamo che resti qualcosa di più, dobbiamo ricordarci che il calcio, prima ancora di essere business, è un fatto umano e sociale. Un gioco nato per unire, per far sognare, per far emozionare, non per fatturare.

E se oggi qualcuno come De Siervo pensa di poter ridurre tutto a una questione di stipendi e contratti, allora il problema non è Rabiot che alza la voce ma un sistema e una società che hanno dimenticato cosa significa davvero giocare. Perché il calcio, come la vita, non è solo questione di denaro: è questione di appartenenza, di memoria, di libertà. E quella libertà, come ogni libertà, va difesa.

*Andrea Ponticelli, attivista da più di dieci anni nelle lotte di Napoli e provincia, fa parte del progetto di Calcio&Rivoluzione di cui è tra i principali promotori. Gabriele Granato, attivista sociale, frequentatore di stadi e collezionista di t-shirt da gioco, è appassionato di sport e politica ed è tra i fondatori del progetto Calcio&Rivoluzione.

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