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Il confine come gabbia. Storia di due migranti rinchiusi in un container nel porto di Napoli
(disegno di diego miedo) Come in tanti altri luoghi del sud Italia, anche a Bacoli, il piccolo paese che mi ha adottata, la prima domanda che segue l’arrivo di uno straniero (un furestiero) è: «Ma tu a chi si’ figlio?». Non si tratta di curiosità, quanto piuttosto di un tentativo di collocare l’altro in una rete di relazioni, di trovargli un posto, anche piccolo, nella comunità. Nel linguaggio giuridico questa domanda prende il nome di “identificazione”. Più specificamente, nella normativa sull’immigrazione, si traduce nel Verbale delle dichiarazioni del cittadino straniero, annotate nel cosiddetto Modello C3 previsto dal Decreto legislativo 25/2008. È qui che lo stato italiano annota, tra le altre cose, a chi sei figlio. Prima di poter rispondere, lo straniero entrato in Italia senza “autorizzazione” deve essere informato dalla polizia di frontiera dei suoi diritti, tra cui quello di chiedere protezione internazionale (a sancire quest’obbligo è una direttiva europea del 2013). Nei fatti, al confine, molto spesso i diritti soccombono insieme alle persone. Il 19 novembre due cittadini marocchini di circa venticinque anni sono stati chiusi a chiave in un container al porto di Napoli per diverse ore, colpevoli di essersi imbarcati a bordo di un mercantile in partenza da Casablanca senza avere una “autorizzazione” per entrare in Italia. Entrambi, in realtà, avevano con sé il passaporto, ma erano arrivati in Italia senza il timbro del privilegio sui documenti di viaggio. Per quattro giorni, allora, si sono nascosti nella stiva nella nave, viaggiando al buio e immobili, respirando fumi. A quel punto il comandante, che aveva sentito cattivi odori provenire dalla zona della stiva, li ha scovati, e ha informato la polizia. I medici saliti a bordo, intanto, appuravano che uno dei due giovani si trovava in stato di incoscienza e che entrambi avevano bisogno di esami specifici da effettuare in ospedale. La procedura prevista in questi casi dalla legge è precisa: trasporto in ospedale e informativa legale sui diritti legati alla protezione internazionale, da effettuare con l’ausilio di un mediatore linguistico-culturale. Per i due cittadini marocchini, invece, è scattato il trattenimento di fatto in altri container del porto di Napoli, quelli che le forze dell’ordine hanno in altre occasioni chiamato i container “dei tunisini” (attraverso una generalizzazione gergale e apertamente razzista riferita alle persone straniere che entrano in Italia senza autorizzazione al soggiorno, che ha reso in aree portuali la parola “tunisino” sinonimo di “clandestino”). Dal 19 al 22 novembre questi due giovani uomini, pur essendo fisicamente in Italia ­­– prima nei container e poi a bordo di una nave ormeggiata al porto di Napoli – non sono esistiti. La polizia di frontiera, intervenuta allo sbarco, ha redatto uno sbrigativo verbale di affido al comandante che, dietro minaccia di essere accusato di favoreggiamento dell’immigrazione irregolare, è stato incaricato di “restituirli” al paese di provenienza: è questa d’altronde la modalità di gestione dei confini della “roccaforte europea”, che mette al primo posto la loro protezione pur nell’essenza di bene giuridico astratto, burocratico, geografico ed evidentemente non umano. All’arrivo della nave a Gioia Tauro, però, dopo che questa aveva lasciato il porto di Napoli, i due giovani erano riusciti a mettersi in contatto con il numero di telefono di InLimine (progetto di Asgi – Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione) manifestando in lingua araba, alla mediatrice culturale, la volontà di chiedere protezione internazionale. Ai due richiedenti asilo non è stato comunque consentito di sbarcare, se non dopo circa otto ore, quando ormai non era più possibile alle istituzioni coinvolte mantenerli nell’invisibilità. Questa vicenda evidenzia come tanto il sistema legislativo quanto l’immaginario collettivo abbiano trasformato il diritto fondamentale a lasciare un territorio – consacrato dalla Dichiarazione universale dei diritti umani e dal Patto internazionale sui diritti civili e politici – in un atto criminale. La distorsione pubblica dell’immagine dello “straniero senza documenti” ha reso questo diritto, e chi lo esercita, sinonimo di pericolo, di illegalità, di minaccia, sebbene per esempio la legge italiana punisca questa condotta di reato solo con una sanzione pecuniaria. Fino al 1989 (anno di adozione del Testo Unico sull’Immigrazione), d’altra parte, l’attraversamento della frontiera non era previsto come reato: il Testo Unico sulle leggi di pubblica sicurezza del 1931 si limitava a prescrivere alcuni obblighi per il cittadino straniero, tra cui quello di presentarsi dinanzi alle forze dell’ordine entro tre giorni dall’arrivo, “per dare contezza di sé”. Allo straniero privo di documenti di soggiorno, in sostanza, si richiedeva di rendersi visibile, obbligo che ha oggi ceduto il posto a una dovuta disposizione verso le autorità di pubblica sicurezza, in centri di trattenimento amministrativo o magari in un container, dove è il confine a decidere se siamo criminali o invisibili. Ma il primo criminale, furestiero, e profugo di guerra sbarcato sulle coste a Bacoli, era figlio di una dea. Si chiamava Enea. (martina stefanile)
I loro confini
-------------------------------------------------------------------------------- unsplash.com -------------------------------------------------------------------------------- In questo mondo di ladri, profeticamente cantava Antonello Venditti prima della conclusione del millennio scorso. Ladri di limiti, confini e frontiere che, come ricorda il recente Indice Globale per la Pace, contribuiscono ad allontanare la pace. I conflitti armati diventano più internazionali e attualmente sono 78 i Paesi coinvolti in guerre oltre i loro confini. La frammentazione politica, ricorda il rapporto citato, ha fatto aumentare anche tra gli Stati meno importanti la competizione per il potere. Non ci sono limiti alle ruberie che continuano a perpetrarsi sulla gente indifesa delle campagne e delle città. Non esistono confini al furto del futuro tramite la violenza che si manifesta e spesso si banalizza nelle relazioni internazionali e in quelle del quotidiano. Non si organizzano frontiere per assicurare la protezione contro la sistematica erosione dei diritti umani dei poveri. In questo mondo di ladri i limiti sono posti all’umana mobilità che costituisce la realtà più consistente per rifondare il mondo. Si scavano fossi e si innalzano muri. Si coltivano fili spinati e si consacrano nuovi sistemi di controllo. Chi mette in esercizio il diritto a lasciare il proprio Paese è visto come un disertore, un avventuriero o un potenziale ‘criminale’. I limiti si trasformano in campi di internamento, identificazione e detenzione che hanno lo scopo di spegnere tutto quanto di umano ogni persona porta con sé. Ogni tipo di sogno sarà espunto o punito perché ogni potere che si rispetti nasce e si perpetua grazie alla soppressione di novità. Si giunge dunque alla contraddizione di uno Stato di diritto che da un lato limita la libertà di movimento delle persone e dall’altro non pone alcun limite alla propria arrogante violenza. In questo mondo di ladri i confini tra democrazia e dittatura del pensiero sfumano e talvolta sono resi inservibili. Tra bene o interesse pubblico, privato e comune i confini si fanno sottili e talvolta inesistenti. I confini tra politica, economia e partecipazione dei cittadini alle scelte che li riguardano sono variabili, mobili e adattabili a seconda della classe dominante. Invece, il confine tra chi banchetta copiosamente e indossa abiti di porpora senza fare caso ai ‘Lazzaro’ alla soglia del palazzo è ormai un abisso incolmabile. I confini dovrebbero comportare appunto fini comuni, con-fini in grado di trasformarsi in ponti o passerelle sulle quali dovrebbe poter camminare la giustizia. Il confine si è invece trasformato in una trappola per confinare poeti, santi, rivoltosi, sognatori di mondi inediti e, con tutta evidenza, minacciosi per chi è attaccato all’attuale iniqua disuguaglianza. In questo mondo di ladri saranno soprattutto le frontiere a costituire il baluardo essenziale per dividere, separare e regnare. Frontiere che mai sono creature naturali. Frontiere armate, militarizzate, barricate e luoghi dove la violenza si applica con competenza e metodicità. Frontiere come fronti dove si perpetuano le battaglie per la sovranità nazionale il cui prezzo sarà il sangue innocente offerto per la salute della bandiera. Frontiere che troppi escludono dalla comune appartenenza alla terra e alla destinazione dei beni. Frontiere di carta, di parole, di opinioni, di pelle sulle quali le religioni dovrebbero e potrebbero scavare delle feritoie dove passerebbe la luce di un futuro differente per tutti. Il segreto è quello di abitare le frontiere perché, come scrisse la poetessa statunitense Emily Dickinson … “non sapendo quando l’alba possa venire, lascio aperta ogni porta, che abbia ali come un uccello, oppure onde, come spiaggia”. -------------------------------------------------------------------------------- Inviato anche a ilfattoquotidiano.it -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo I loro confini proviene da Comune-info.
Rome for Climate Justice – evento #3: Migrare nei cambiamenti climatici
Siccità, alluvioni, uragani, innalzamento dei mari e delle temperature… I cambiamenti climatici, causati dagli effetti del sistema capitalista sull’atmosfera, stanno rendendo meno ospitali o inabitabili vaste zone del mondo. Con sempre più frequenza le cause delle migrazioni umane sono dovute alle conseguenze che la crisi ecologica sta avendo sulle vite delle persone, anche se nella narrazione mainstream queste storie sono spesso invisibili o raccontante solamente in modo sensazionalistico. Anche dal punto di vista giuridico, in Italia il riconoscimento del diritto alla protezione internazionale non è quasi mai riscontrato nei casi di persone che hanno dovuto lasciare la propria casa a causa di eventi atmosferici estremi. Eppure le alluvioni in Toscana e in Emilia-Romagna che si sono succedute negli scorsi anni e che hanno portato nel 2023 a circa 30mila sfollati interni, ci mostrano che gli effetti della crisi ambientale si stanno già manifestando nelle nostre vite. Giovedì 6 novembre, nello spazio sociale Communia (Via dello Scalo S.Lorenzo, 33), parleremo di clima e migrazioni nel terzo evento del progetto “Rome for Climate Justice”, che ha l’obiettivo di approfondire la questione delle migrazioni climatiche sia a livello locale che internazionale. All’iniziativa parteciperanno: * Cristina Cecchini, Associazione studi giuridici sull’immigrazione * Maria Marano, curatrice del report “Le Rotte del Clima” del programma Migrazioni climatiche di A Sud * Chiara Salvini, Sportello Infomigrante SCOPRI TUTTI I PODCAST E GLI EVENTI DEL PROGETTO L’evento è realizzato nell’ambito del progetto “Rome for Climate Justice”, un’iniziativa promossa da Esc Atelier Autogestito e DINAMOpress con il contributo della Città metropolitana di Roma Capitale. La copertina è a cura di DINAMOpress SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress si può donare sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo Rome for Climate Justice – evento #3: Migrare nei cambiamenti climatici proviene da DINAMOpress.
LA RIFORMA DI EUROPOL
Il 5 novembre, mercoledì, lə eurodeputatə della Commissione LIBE (Commissione Libertà civili, giustizia e affari interni) voteranno una nuova proposta di regolamento su Europol, che mira ad ampliare la sorveglianza di massa in nome della lotta al “traffico di migranti”. Come avverte Leila Beladj Mohamed in un articolo scritto su questo tema, “dietro la formula […]
Il nuovo patto EU Migrazione e Asilo: un'analisi
Negli ultimi decenni l'Unione Europea ha progressivamente costruito un sistema di governo della mobilità che funziona come un apparato di selezione, contenimento e morte. Il Mediterraneo è divenuto la frontiera più letale del mondo: dal 2014 oltre 60.000 persone hanno perso la vita tentando di attraversare il mare. Il Nuovo Patto EU Migrazione e Asilo, approvato nell'aprile del 2024, che verrà attuato integralmente entro giugno 2026, non ha nulla di nuovo ma rappresenta un continuum con quell'architettura neoliberale della frontiera già vista, consolidando un regime di disuguaglianza e disciplinamento. In studio con le compagne di Campagne in Lotta, riflettiamo sull'impianto del patto che prevede un ulteriore attacco alle possibilità di ingresso in Europa per le persone in movimento che vengono subordinate a forme di controllo sempre più pervasive attraverso screening, anche biometrici, estesi in maniera coatta addirittura a minori a partire dai 6 anni. Il patto prevede inoltre procedure accelerate per la richiesta di asilo, soprattutto per persone migranti provenienti da cd. "paesi sicuri".  In ogni caso, la tendenza espressa dal patto è quella della progressiva negazione delle possibilità di asilo e dell'esternalizzazione del processamento delle richieste, insieme a una ulteriore torsione in termini di repressione e controllo nel campo delle politiche migratorie. Parliamo poi del ruolo delle tecnologie biometriche nelle politiche di controllo delle persone migranti e della funzione di Eurodac, database istituto nei primi anni 2000 in concomitanza con gli accordi di Dublino. Nella parte conclusiva, ci focalizziamo sulla situazione italiana, in particolare sul tema delle deportazioni di persone migranti in Albania, oggi diventati centri di espulsione, gestiti in maniera del tutto opaca.
Patto per il Mediterraneo: un piano per un ‘cortile di casa’ dell’imperialismo europeo
L’Alta rappresentante per gli Affari Esteri dell’Unione europea, Kaja Kallas, e la Commissaria europea per il Mediterraneo, Dubravka Šuica, il 16 ottobre hanno presentato il ‘Patto per il Mediterraneo’, risultato di un anno di lavoro. Un piano per una maggiore integrazione dell’altra sponda del Mediterraneo nei meccanismi europei, o per […] L'articolo Patto per il Mediterraneo: un piano per un ‘cortile di casa’ dell’imperialismo europeo su Contropiano.
La delicata fase delle frontiere UE, usata per accusare la Russia di ‘guerra ibrida’
In questi giorni ci sono stati alcuni eventi che hanno evidentemente irrigidito ulteriormente il quadro che, per ciò che riguarda la gestione delle frontiere europee, è stato denunciato da più parti e più volte: la UE è una gabbia che ha ‘esternalizzato’ a governi dal pugno di ferro, a milizie […] L'articolo La delicata fase delle frontiere UE, usata per accusare la Russia di ‘guerra ibrida’ su Contropiano.
Le madri tunisine: «Aiutateci a trovare i nostri figli dispersi nel Mediterraneo»
Incontro Latifa a San Lorenzo, a Roma. È la sua prima volta in Italia e lo sottolinea con cura, come a dare peso a ogni passaggio di questo viaggio. È qui su invito di A Buon Diritto, associazione che tutela e sostiene le persone migranti. Latifa nomina una per una le persone che l’hanno accolta – Marina, Rita, Camilla – quasi a rendere quel gesto parte integrante del racconto, un riconoscimento necessario. Mi colpisce il modo in cui la sua voce sia sempre intrecciata a una rete di relazioni e alleanze che ne rafforzano il significato politico. Siamo sedute in una stanza raccolta e silenziosa: io, Latifa e il nostro interprete Anis. Il fratello Ramzi è il punto di partenza di tutto. «Il primo marzo 2011 è scomparso in mare. Lui è il motivo di quello che sto facendo adesso, della mia vita come attivista». Da lì, Latifa rievoca il senso di abbandono degli anni successivi alla scomparsa: «In Tunisia esistevano già associazioni che dicevano di volerci aiutare, ma ci hanno sfruttate. Hanno preso finanziamenti sul tema dei dispersi, ma senza darci un vero sostegno. Così, dopo cinque anni, mia mamma e altre madri hanno deciso di creare la nostra associazione, per un attivismo serio e diretto, davvero dalla parte delle famiglie». Nasce così l’esperienza dell’associazione, con richieste chiare e puntuali. > «Prima di tutto – spiega Latifa – vogliamo sapere la verità. Qualsiasi essa > sia: se i nostri familiari sono morti, vogliamo che vengano cercati i loro > corpi; se sono vivi, vogliamo che vengano riconosciuti i loro diritti, umani, > pieni e inalienabili». Queste rivendicazioni si inseriscono però in un quadro politico che da oltre un decennio relega la questione delle persone disperse ai margini dell’agenda istituzionale. Nel 2011, mentre migliaia di tunisini arrivavano via mare sulle coste italiane, Roma e Tunisi firmavano i primi accordi bilaterali per il controllo delle partenze e i rimpatri forzati. Da allora quelle intese sono state rinnovate, facendosi sempre più stringenti, saldando la cooperazione tra i due governi sul terreno della sicurezza e del contenimento, piuttosto che su quello della tutela dei diritti umani. A questo livello bilaterale si è presto aggiunta la dimensione europea: fondi, equipaggiamenti, programmi di “rafforzamento delle capacità” delle autorità tunisine, tutti finalizzati a bloccare le partenze esternalizzando la frontiera mediterranea. È dentro questa architettura politica che le famiglie delle persone scomparse si trovano a chiedere verità e giustizia. Una ricerca che, in un sistema costruito per fermare corpi e cancellare movimenti, diventa un atto politico tanto necessario quanto ostacolato. di Mohamad Cheblak Nei rapporti con le istituzioni, spiega Latifa, le differenze sono nette. «In Tunisia il ministero degli Affari esteri ci riceve, ci dice che lavora sui dossier, che serve tempo, ma almeno il canale è aperto». Con l’Italia, invece, la situazione resta bloccata. «Lo Stato italiano non collabora, il sostegno arriva per lo più dalla società civile e dalle associazioni». La prima richiesta che l’organizzazione pone ai due governi riguarda la libertà di movimento: eliminare l’obbligo di visto, che costringe i giovani tunisini a partire irregolarmente, alimentando i trafficanti e aumentando i rischi di morte in mare. Accanto a questo, si richiede un’assunzione di responsabilità congiunta: che Italia e Tunisia lavorino insieme non per fermare le partenze, ma per garantire diritti alle persone migranti e verità alle famiglie dei dispersi. Latifa fa subito riferimento al sistema dei CPR, i Centri di permanenza per il rimpatrio, diffusi in diverse città italiane, che trattengono persone migranti in attesa di espulsione. «In Tunisia sappiamo che in Italia esistono dei centri dove vengono portati i nostri familiari. Vogliamo trovarli, capire perché sono stati detenuti e assicurarci che vengano garantiti i loro diritti». I CPR non sono carceri in senso stretto, perché la detenzione non è legata a un illecito penale, ma di fatto questi centri riproducono condizioni carcerarie: privazione della libertà, isolamento, opacità nelle procedure. Per le famiglie tunisine diventano luoghi di sospetto e di angoscia, dove l’assenza di informazioni alimenta l’idea di una sparizione che prosegue anche oltre il mare. Parlare con le famiglie dei dispersi è complesso. Alcune trovano la forza di raccontare, altre non riescono nemmeno a nominare i propri familiari. > «Tante madri non vogliono o non possono parlare. È un dolore troppo grande». > La frase che ritorna più spesso è secca, quasi un grido: «Trova mio figlio. > Portami mio figlio». Non importa il resto, i passaggi burocratici. «Vogliono > solo i loro figli». Le conseguenze non sono solo emotive. «Tante madri si ammalano» dice. Nomina sua madre, Fatma, che oggi ha quasi perso la vista; altre colpite da depressione, disturbi cronici. «Una madre addirittura si è data fuoco per la disperazione. Questo dolore ti logora dentro e fuori». Quando non trova voce, aggiunge, la sofferenza si sposta sul corpo, sulla salute, sulle relazioni. Poi si ferma un momento e conclude: «Il dolore di una sorella non è quello di una madre. Non trovo le parole per descriverlo». L’attività dell’associazione non si limita alla Tunisia. Negli anni Latifa ha intrecciato contatti con realtà di altri Paesi di partenza e di transito. Attraverso la rete di Alarm Phone – un’organizzazione con sede in Germania che monitora le chiamate di soccorso dal Mediterraneo e sostiene le famiglie delle persone scomparse – ha conosciuto famiglie in Senegal, in Camerun e in altri Paesi del Maghreb. «Sono andata in Senegal, in Camerun, ho incontrato le madri, le sorelle, ho condiviso con loro la nostra esperienza. In Senegal la situazione è più simile alla Tunisia: le famiglie riescono a parlare tra loro, a mantenere contatti con i familiari. In Camerun invece è diverso: non hanno lo stesso spazio di parola, non possono organizzarsi liberamente. Se provano a rivendicare il diritto di cercare i loro figli, rischiano repressione e prigione». Durante uno di questi viaggi, insieme ad altre famiglie tunisine e senegalesi, Latifa ha incontrato nuclei camerunesi che vivono la stessa assenza: figli e figlie partiti nel 2012, 2013, 2014 e mai tornati. «Abbiamo proposto di creare canali di comunicazione comuni, così da restare in contatto, condividere informazioni e sostenerci a vicenda». Da questi incontri è nata una rete reale, che cerca di superare confini e paure. > «È difficile, soprattutto in Tunisia, dove il contesto politico rende > complicato organizzarsi. Ma il contatto con altre famiglie aiuta a non > sentirsi isolati, a capire che questo dolore attraversa più Paesi, più > comunità». Latifa racconta di incontrare spesso i giovani della sua zona e di fermarsi a parlare con loro. «Quando li incontro chiedo sempre: perché volete partire, sapendo che c’è un rischio enorme e una possibilità minima di arrivare in Italia?». Le risposte sono sempre simili: vogliono vedere l’Europa, vivere meglio, costruire un futuro che in Tunisia appare irraggiungibile. La situazione economica del Paese lascia pochi margini: disoccupazione diffusa, precarietà, mancanza di prospettive. «Tanti giovani non trovano lavoro, non hanno possibilità di realizzare nulla, e allora scelgono di tentare la traversata, anche se sanno che la probabilità di arrivare può essere vicina allo zero». Il caso di Ramzi, suo fratello, è emblematico. Dopo il diploma aveva studiato giurisprudenza, ma senza esiti. Si era poi formato come tornitore di rame e argento, conseguendo un diploma professionale. Anche così, non aveva trovato un’occupazione. C’è però una storia che, racconta Latifa, l’ha segnata profondamente. È la vicenda di Wissem Ben Abdellatif, un giovane tunisino morto nel 2021 dopo essere stato trasferito da un CPR a un reparto psichiatrico italiano, in circostanze mai del tutto chiarite. «Ho conosciuto i suoi genitori», dice «e da allora seguo la procedura legale che si è aperta su questa morte. Ho sempre paura che mio fratello abbia fatto questa stessa fine». Il timore si lega anche a una serie di indizi che hanno attraversato gli anni. Ramzi era partito nel 2011 e, poco dopo, un reportage diffuso in Italia mostrava immagini in cui, secondo la famiglia, compariva anche lui. L’anno successivo, nel 2012, un’attivista italiana dichiarò di averlo incontrato all’interno di un CPR. Per Latifa, questi frammenti alimentano la speranza e allo stesso tempo la determinazione. E aggiunge: > «Anche se un giorno scoprissi la verità su mio fratello, continuerò con > l’attivismo. È una responsabilità. Tante persone vengono da me e mi dicono: > “Trova mio figlio, pensa che sia tuo fratello, fa come se fosse tuo fratello”. > E questo è ciò che sento di dover fare» Questa affermazione segna il passaggio dal dolore individuale alla responsabilità collettiva: una trasformazione che accomuna le organizzazioni delle madri in molte parti del mondo. Sono soggetti politici che, a partire dal lutto, producono forme di resistenza capaci di mettere in discussione sistemi di potere. La loro forza sta nel trasformare la vulnerabilità in mobilitazione, nel collocare la perdita in uno spazio pubblico e transnazionale. La storia recente ne offre esempi chiari: dalle Madres de Plaza de Mayo in Argentina, alle madri di Srebrenica, fino alle madri palestinesi che resistono all’occupazione e all’annientamento della loro cultura. Rivendicazioni che contestano regimi militari, pratiche di genocidio, politiche di annientamento. In ciascun caso, la domanda di verità e giustizia rompe il silenzio e smaschera logiche di impunità. L’associazione delle madri tunisine si colloca in questa genealogia. Le loro richieste – protocolli di identificazione dei corpi, riconoscimento dei diritti dei sopravvissuti, verità sulla sorte dei dispersi – rappresentano un atto di accusa contro l’impianto delle politiche migratorie europee, fondate sul contenimento, sui rimpatri e sull’esternalizzazione delle frontiere, che producono scomparsa e invisibilità. Il lavoro di Latifa e delle altre madri riguarda la Tunisia e l’intero Mediterraneo, ma interroga soprattutto l’Europa. Mette in luce la contraddizione tra la proclamata tutela dei diritti umani e la produzione sistematica di vite precarie, sacrificabili, non riconosciute. L’immagine di copertina è di Mohamad Cheblak SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress si può donare sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo Le madri tunisine: «Aiutateci a trovare i nostri figli dispersi nel Mediterraneo» proviene da DINAMOpress.
Gaza e il clima
Nei molti articoli di “geopolitica” sul futuro di Israele, della Palestina, dell’Ucraina, della Russia, dell’Europa, dell’Occidente che ho avuto occasione di leggere manca un dato di fondo: come sarà il mondo dal punto di vista fisico, climatico, sociale, di qui a 10-20 anni? Avremo tempo e risorse per continuare a fare guerre, fabbricare armi sempre più micidiali, promuovere conflitti, oppure ci dovremo occupare di salvare le nostre case, le nostre città, i nostri territori dai disastri ambientali che si verificheranno sempre più spesso, sempre più intensamente, sempre più diffusamente, con conseguenze, anche economiche, sempre più gravi? Tutti, compresi i negazionisti climatici – e quelli che prestano fede o si lasciano ingannare da loro – sanno che il pianeta tutto e i singoli territori in cui ciascuno di noi vive non saranno più quelli di ora, ma non vogliono occuparsene perché lo considerano un problema troppo grande o troppo difficile da affrontare. Alcuni di noi, abitanti di questo pianeta, ne risentiranno in modo drammatico (alluvioni, tornado, incendi, siccità, ondate di calore, crisi idriche e di approvvigionamenti, innalzamento del livello dei mari e delle temperature, ecc.), altri in modo più lieve, ma alcuni in misura tanto forte da costringerli a cercare la propria sopravvivenza altrove: secondo le previsioni più accreditate, nel corso del secolo, ma a partire da ora (la deadline, quando ancora se ne parlava, era stata posta intorno al 2030…) e dai prossimi decenni, circa la metà degli abitanti del pianeta – 4-5 miliardi di esseri umani – dovrà emigrare verso altri territori, per lo più verso l’emisfero settentrionale, liberato dai ghiacci e dal gelo dal riscaldamento globale. Siamo pronti ad affrontare queste migrazioni epocali? E in che modo? Questo è ciò che manca dalle mappe dei futurologi di governo e dei media, ma che è ben presente nelle menti dei pochi membri dell’élite – soprattutto militari, soprattutto del Pentagono – che si misurano con i dati di fatto. Gli stessi che stanno imponendo una svolta radicale ai bilanci degli Stati, trasferendo quantità sterminate, e apparentemente insensate, di risorse dal sostegno all’esistenza delle rispettive popolazioni alle armi, alla guerra, allo sterminio. Quelle risorse economiche e “umane” oggi indirizzate al “ riarmo” (come se non fossimo già abbastanza armati), ma soprattutto alla militarizzazione delle istituzioni e della società, e composte in misura crescente da strumenti di sorveglianza dual-use, domani saranno utilizzate per cercare di fermare i flussi incontrollati di migranti in cerca della propria sopravvivenza in altre regioni del pianeta. Che fare? Gaza ci ha mostrato tutta la determinazione con cui si è cercato di eliminare da un territorio piccolissimo come “la Striscia”, con una politica di sterminio programmato, una popolazione giudicata superflua o nemica, ma quello era, e forse è ancora, solo un laboratorio. Domani quegli stessi mezzi, sempre più sofisticati e micidiali, potranno essere impiegati per cercare di fermare il flusso dei migranti ambientali e sociali in fuga dalle aree del nostro pianeta diventate invivibili. Se il genocidio del popolo di Gaza ha suscitato l’indignazione e una reazione di massa in molti Paesi, ha dimostrato però di lasciare indifferenti, anzi, accondiscendenti, i loro governi. Ed è di questo che dobbiamo preoccuparci. Per questo c’è stata, e dovrà continuare a esserci, una mobilitazione così ampia per Gaza, soprattutto da parte di una generazione, quella di Greta, già impegnata con alterne vicende nella difesa del clima: una generazione che, a differenza di quelle precedenti, percepisce qual è la posta in gioco di questa tremenda aggressione. Grottesco quindi utilizzare la presenza di uno striscione che inneggiava al 7 Ottobre per attribuirne la condivisione alle decine e centinaia di migliaia di ragazze e ragazzi che si sono mobilitati contro il genocidio in atto. Ancora più grotteschi gli autodafè dei giornalisti che fino a ieri irridevano i giovani attaccati tutto il giorno ai cellulari e che oggi si accorgono che in tutto il mondo quei giovani i cellulari li usano per informarsi su ciò di cui i massmedia non parlano e per convocare le loro manifestazioni. A novembre si svolgerà a Belém la COP30 per il clima: nient’altro che una sfilata di decine di migliaia (fino a 100mila, come a Sharm-El-Sheikh tre anni fa) di “delegati” – molti della grande industria del petrolio e affini, molti diplomatici ignari dei problemi, ma anche molti esperti della materia resi impotenti dai primi – per fare finta di occuparsi del clima. Ma se non metteranno all’ordine del giorno quello che è il problema centrale dei prossimi decenni, prendendo innanzitutto una netta posizione contro le guerre e le armi che hanno offuscato l’urgenza della lotta per i clima,  quell’incontro sarà nient’altro che una stanca ripetizione delle inutili COP che l’hanno preceduto. Il fatto è che i governi di tutto il mondo si sono dimostrati incapaci di prendere sul serio la minaccia climatica che incombe su tutta l’umanità. Minaccia che può essere affrontata – all’inizio sicuramente in modo inadeguato, ma via via in modo sempre più drastico, e replicabile, mano a mano che i disastri ambientali lo imporranno – solo se verrà presa in mano dalle popolazioni che ne sono colpite: con misure di adattamento alle condizioni sempre più ostiche in cui si verranno a trovare, come si è visto nel corso di molti dei disastri climatici che hanno colpito un territorio negli ultimi tempi. Ma poi anche con misure di prevenzione: tutte – dalla generazione energetica da fonti rinnovabili e diffuse all’alimentazione e all’agricoltura di prossimità, dall’edilizia all’assetto del territorio, dalla mobilità condivisa al contenimento del turismo e dello sport-spettacolo – che potranno avere effetti positivi anche sulla mitigazione, cioè sulla riduzione del ricorso ai combustibili fossili che i governi – e chi li governa – non sanno accettare. E chi, di quelle popolazioni, potrà o si vedrà costretto a prendere l’iniziativa? Sicuramente le nuove generazioni: quelle solo l’altro ieri mobilitate per il clima e oggi per Gaza, ben consapevoli delle ragioni di fondo che le spingono a farlo. Guido Viale
Da "Le Ceneri di Moria" al memorandum d'intesa Italia - Libia
Con le compagne di Seasters parliamo della presentazione del docufilm "The ashes of Moria" prevista per questa sera alle ore 18 presso lo Sweet Bunch in via casilina 283/A oltre a fare il punto sulla campagna f.Lotta e sul rinnovo di altri tre anni del Memorandum d’intesa Italia - Libia, previsto per il 2 novembre 2025, attraverso il quale Roma finanzia e con tutta probabilità continuerà a finanziare il sistema di abuso delle persone in movimento messo in atto dalle autorità, ufficiali o meno, di Tripoli.