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Noi migranti non siamo vittime, ma uomini dalla schiena dritta
SFIDE. Diario di un viaggio dal Ciad alla Sicilia di Abdelkadir Hissen Abdallah Alhilbawi, appena uscito per i tipi di Multimage, è il racconto del travagliato cammino intrapreso da un quattordicenne dal Ciad attraverso la Libia fino in Italia, percorso durato sette anni, a causa dei tentativi ripetutamente falliti di varcare il Mediterraneo e della necessità di racimolare ogni volta di nuovo i soldi per pagare i trafficanti, subendo prigionia e torture, lavorando anche in Tunisia e Marocco, ma incontrando pure persone generose e stringendo amicizie durature. Abdelkadir AlHilbawi ha oggi 23 anni e vive a Palermo, dove studia e lavora. La sua narrazione rivela una profonda capacità di introspezione ed un’autentica spiritualità. Non è suo intento svolgere un’accurata analisi politica dei problemi dell’Africa quanto piuttosto esprimere la sua sincera fede religiosa che lo ha indotto all’empatia e alla condivisione in tutti i suoi incontri, lo ha illuminato e sostenuto nei momenti di sconforto e che traspare nella sua visione del mondo e dei rapporti fra i generi. Lasciamo che sia lui a confidarci le motivazioni della sua scelta di scrivere. > Non ho scritto questo libro per amore della scrittura o per cercare la fama, > né il mio scopo era vantarmi o ostentare. Ci sono invece motivazioni più > profonde e gravi, ragioni che mi hanno imposto di intraprendere questa > difficile esperienza, con tutto il dolore che la rievocazione dei ricordi > porta con sé. > > La prima di queste ragioni nasce dalle domande ricorrenti degli europei: chi > sei? Da dove vieni? Come sei arrivato qui? Queste domande possono sembrare > semplici, ma in realtà sollecitano un dolore difficile da esprimere, come > fossero chiavi che aprono le porte di un passato pieno di sofferenza e lotte. > È difficile per chi ha vissuto esperienze dolorose essere costretto a > rievocarle, come se il sanguinamento delle ferite non fosse stato già > abbastanza. > > Non si può immaginare il peso che un migrante porta sulle spalle, né la sua > angoscia nel rispondere a interrogativi che per lui banali non sono. Non tutte > le anime sono in grado di raccontare il dolore passato senza riviverlo. Io > sono stato uno di quelli che hanno sofferto molto e l’ho capito chiaramente il > giorno in cui mi sono presentato in tribunale per richiedere i documenti di > protezione internazionale. Quel colloquio mi è sembrato un processo alla mia > anima, come se fossi accusato di un crimine che non avevo commesso e il mio > destino fosse nelle mani di persone che non sapevano nulla degli incubi delle > mie lunghe notti. La notte prima dell’udienza è stata la più lunga della mia > vita, come se aspettassi una condanna a morte o all’ergastolo. > > La seconda ragione è l’enorme flusso di dicerie e menzogne che ho sentito > sulla Libia da quando sono arrivato in Europa. Tutti parlano della Libia come > se fosse un inferno assoluto, dimenticando che la verità non è mai > completamente nera. Sì, ci sono sofferenza, oppressione e sfide > indescrivibili, e io stesso sono stato vittima di tortura, umiliazione e > ingiustizia, ma ho anche incontrato persone che mi hanno aiutato nei momenti > più difficili. È ingiusto negare il bene e sarebbe un’ingiustizia dimenticarlo > anche nel mezzo del dolore. Ho imparato che il vero successo è affrontare le > sfide e rialzarsi dopo le cadute, non dare la colpa agli altri e attribuire > loro il peso delle nostre tragedie. > > La verità che molti non comprendono è che noi migranti non possiamo > permetterci il lusso di rimanere nel ruolo di vittime, ma dobbiamo trovare il > coraggio di imparare dalle esperienze, per quanto dure possano essere, a > camminare a testa alta e con la schiena dritta. Uno dei più grandi errori che > commettiamo è ridurre i nostri vissuti al solo lato negativo, mentre la vita è > piena di lezioni che aspettano di essere valorizzate e apprezzate. > > La terza ragione, la più dolorosa, sono quegli incubi che non mi abbandonano: > le voci dei carcerati nei centri di detenzione mi perseguitano come un’ombra > costante. Ho cercato più volte di fuggire da esse, ma mi ritrovavo sempre > prigioniero di quei ricordi, ogni notte. Scrivere è stato il mio unico > rifugio, l’unico modo per sfogare i dolori che non osavo confessare nemmeno a > me stesso. Ho provato la terapia psicologica, ma non riuscivo ad esprimermi, > le lacrime erano sempre più veloci delle parole. > > Scrivere non è stato affatto facile, ho dovuto fermarmi per lunghi periodi > quando mi trovavo davanti a passaggi carichi di dolore, a volte per una > settimana o più. Ma ho capito che esprimersi, per quanto doloroso, è meglio > del silenzio che uccide l’anima lentamente. Forse non sono riuscito a rendere > pienamente giustizia alla storia in tutti i suoi dettagli, ma ho fatto del mio > meglio. Tappa dopo tappa il ragazzo Abdel aveva tenuto sui quaderni racchiusi nel suo zaino il resoconto quotidiano delle sue avventure; giunto finalmente in Italia, l’uomo Abdel ha rimesso mano agli appunti, stesi in arabo, e aiutato dal traduttore automatico (e un poco da me) ha dato forma a questo libro, che è innanzi tutto un documento e una testimonianza impareggiabile, ma che risulta anche una lettura gradevole e variegata. Troverete descrizioni di antiche città africane e di paesaggi sconfinati nel deserto, pagine buffe dedicate a scaramucce sul lavoro o all’apprendimento dei più diversi mestieri, momenti di tenera convivialità (persino con qualche ricetta) e pause di meditazione e di preghiera, episodi avventurosi come gli attraversamenti notturni delle frontiere o gli scontri con le milizie, spazi di riflessione filosofica e rievocazioni commoventi come quella della morte della madre. Si avverte talvolta, a fianco di un’ironia sorridente, una eco musicale del salmodiare dei versetti coranici. Questa è l’opera prima di Abdel, ma altre sorprese sono nel cassetto. Il libro sarà presentato in anteprima a Palermo nel pomeriggio di mercoledì 6 agosto a Moltivolti, centro sociale e culturale multietnico (e ottimo ristorante!) di Ballarò. Daniela Musumeci
Mezzo mondo come Gaza?
-------------------------------------------------------------------------------- Torre del Greco, foto di Gaza freeStyle -------------------------------------------------------------------------------- Come sarà il mondo di domani? Gran parte di esso, oltre la metà, sarà come è adesso Gaza e come era stata, ormai quasi un secolo fa e oltre, gran parte della comunità ebraica europea. Si sta avverando la tremenda profezia di Primo Levi: è successo, può succedere ancora. Intere popolazioni, giudicate superflue o dannose, si ritroveranno rinchiuse entro confini invalicabili, senza poter andare altrove perché nessuno le vuole, condannate allo sterminio con bombardamenti, cacce all’uomo, o per fame, sete, malattie non curate, accampate in territori lunari perché tutto quello che avevano deve essere distrutto per comprometterne la sopravvivenza. Gaza – come ha rilevato Ida Dominejanni – è un esperimento per abituare i popoli a convivere con lo sterminio altrui e ad accettarlo come inevitabile; proprio come i governi dell’Unione Europea e degli Stati Uniti stanno abituando anno dopo anno i loro cittadini – noi – a convivere e ad abituarsi allo stillicidio di rastrellamenti, deportazioni, annegamenti, morti, torture, violenze di ogni genere inflitte alla “genti in cammino” (people on the move) che cercano di abbandonare le loro terre di origine perché lì la vita è diventata impossibile, ma che nessun altro Paese accetta, se non per il tempo necessario a spremere dai loro corpi, dalle loro famiglie, dalle loro vite, tutto quello di cui è ancora possibile appropriarsi. Fantapolitica? No, semplice previsione di quello che non vogliono farci vedere i nostri governanti, i media che li assecondano, gli accademici e gli intellettuali che chiudono gli occhi. Entro la fine del secolo – ne abbiamo già consumato un quarto – più di metà della Terra sarà inabitabile: qualunque provvedimento venga preso oggi, i ghiacci delle calotte polari e dei ghiacciai continueranno a sciogliersi, il livello del mare a crescere e gran parte delle terre costiere, con il loro entroterra, verranno sommerse. I fiumi cesseranno di scorrere regolarmente, alternando piene devastanti a periodi di siccità, i raccolti continueranno a soffrirne, le foreste a bruciare senza acqua per spegnerle, le epidemie a imperversare. Crisi climatica e ambientale e migrazioni sono strettamente connesse: più si faranno sentire gli effetti della prima, destinati a crescere, più il numero dei profughi ambientali aumenterà in modo esponenziale. Ad accrescerne gli effetti concorrono poi le guerre a cui i governi di tutto il mondo stanno destinando i fondi che hanno negato e continuano a negare alla “transizione” (in realtà, alla conversione ecologica, che non è solo un processo tecnico ed economico, ma anche e soprattutto culturale, sociale, morale e democratico e che per questo viene osteggiata con sempre maggior ipocrisia). Gaia Vince (Il secolo nomade, Bollati Boringhieri, 2023) e Parag Khanna (Il movimento del mondo, Fazi, 2023), due studiosi che hanno cercato di guardare il futuro, concordano nel delineare un panorama come questo, ma loro sono ottimisti. Vince immagina che metà della popolazione mondiale, in fuga dalle terre di origine, troverà ospitalità nelle aree subartiche del pianeta, rese fertili e praticabili dal riscaldamento globale; le migrazioni giovano sia a chi le fa che a chi le accoglie, sostiene. Inoltre, tra un secolo la geo-ingegneria potrà restituire poco per volta vivibilità al pianeta devastato. Khanna, altrettanto fiducioso nei benefici della tecnologia, sostiene che essa – grazie soprattutto ad aria condizionata, colture idroponiche, desalinatori, energie rinnovabili e molto denaro – creerà isole vivibili anche in aree desertiche, énclave aperte alle persone dotate di professionalità e spirito di iniziativa, provenienti da tutte le parti del mondo. Per tutti gli altri, quelli non qualificati, la recuperata vivibilità delle aree subartiche offrirà comunque l’opportunità di una vita da schiavi. Nessuno dei due prende però in considerazione che l’alternativa possa essere invece uno scenario “alla Gaza”. Ma questo è. Come pensiamo che possano sopravvivere in territori devastati dalla catastrofe climatica e ambientale le popolazioni che li abitano oggi? Dove pensiamo che possano trasferirsi, senza essere respinti, tutti coloro che “a casa loro” non potranno più vivere? O addirittura che una casa loro non l’avranno più, perché sommersa dalle acque, o bruciata dalla siccità o dagli incendi? E come pensiamo che reagiranno i governi dei Paesi – “sviluppati” o no che siano – nei quali cercheranno rifugio quelle popolazioni tutte intere, se già ora, di fronte all’arrivo alla spicciolata delle avanguardie di quelle genti in cammino, i governi degli Stati forti mettono in atto politiche di respingimento basate sempre più sugli strumenti e le modalità della guerra? La vera guerra a cui ci stanno preparando. Se proiettate su uno scenario di lungo periodo – quello in cui, diceva Keynes, siamo tutti morti – le misure per respingere i migranti adottate oggi dai governi appaiono sì ciniche e spietate, ma anche risibili e inadeguate. Ma in realtà fungono da scuola per addestrare tutti noi ad accettare come normali quelle politiche di sterminio: esattamente come ci succede per Gaza. Ovviamente tutto questo ha delle ripercussioni anche sugli Stati che “si difendono dall’invasione” dei profughi: militarizzazione, sospensione o abolizione di diritti e welfare, violazione delle convenzioni, razzismo di Stato e fascismo. Gli Stati Uniti di Trump stanno aprendo la strada a tutti gli altri Stati, retti da tempo da governanti che aspettavano solo di dovergli “baciare il culo”. D’altronde la strada è quella anche senza Trump. Di fronte a prospettive del genere, purtroppo evidenti, l’inerzia nei confronti della crisi climatica e ambientale mostrata dai nostri governanti – tutti proiettati a combatterne le conseguenze e non le cause – ma anche quella dei popoli, cioè di noi tutti, sembra paradossale. Ma si spiega con il senso di impotenza che tutti – governi e forze politiche comprese – avvertono anche se cercano in tutti i modi di non prenderne atto. È la dismisura tra le dimensioni di questi processi e la capacità di agire di una popolazione atomizzata, senza riferimenti culturali, sociali e politici condivisi, se non quelli “di piccola e piccolissima taglia”: le mille associazioni e comitati a cui molti di noi partecipano senza trovare alcun riscontro nel mondo della politica. Potremmo però indirizzarle meglio, quelle pratiche, per costruire le ridotte da cui affrontare il futuro feroce che incombe: rendere il più possibile resilienti e vivibili i territori che abitiamo, mostrare che l’accoglienza – anche su scala ridotta – può tradursi in benefici per tutti, far conoscere e valorizzare le esperienze positive, battersi in tutti i modi per il disarmo. Troppo poco? E che altro, per ora? -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE QUESTO ARTICOLO DI RAUL ZIBECHI: > Create due, tre, molte arche -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Mezzo mondo come Gaza? proviene da Comune-info.
Mezzo mondo come Gaza?
Come sarà il mondo di domani? Gran parte di esso, oltre la metà, sarà come è adesso Gaza e come era stata, ormai quasi un secolo fa e oltre, gran parte della comunità ebraica europea. Si sta avverando la tremenda profezia di Primo Levi: è successo, può succedere ancora. Intere popolazioni, giudicate superflue o dannose, si ritroveranno rinchiuse entro confini invalicabili, senza poter andare altrove perché nessuno le vuole, condannate allo sterminio con bombardamenti, caccie all’uomo, o per fame, sete, malattie non curate, accampate in territori lunari perché tutto quello che avevano deve essere distrutto per comprometterne la sopravvivenza. Gaza – come ha rilevato Ida Dominejanni – è un esperimento per abituare i popoli a convivere con lo sterminio altrui e ad accettarlo come inevitabile; proprio come i governi dell’Unione Europea e degli Stati Uniti stanno abituando anno dopo anno i loro cittadini – noi – a convivere e ad abituarsi allo stillicidio di rastrellamenti, deportazioni, annegamenti, morti, torture, violenze di ogni genere inflitte alla “genti in cammino” (people on the move) che cercano di abbandonare le loro terre di origine perché lì la vita è diventata impossibile, ma che nessun altro Paese accetta, se non per il tempo necessario a spremere dai loro corpi, dalle loro famiglie, dalle loro vite, tutto quello di cui è ancora possibile appropriarsi. Fantapolitica? No, semplice previsione di quello che non vogliono farci vedere i nostri governanti, i media che li assecondano, gli accademici e gli intellettuali che chiudono gli occhi. Entro la fine del secolo – ne abbiamo già consumato un quarto – più di metà della Terra sarà inabitabile: qualunque provvedimento venga preso oggi, i ghiacci delle calotte polari e dei ghiacciai continueranno a sciogliersi, il livello del mare a crescere e gran parte delle terre costiere, con il loro entroterra, verranno sommerse. I fiumi cesseranno di scorrere regolarmente, alternando piene devastanti a periodi di siccità, i raccolti continueranno a soffrirne, le foreste a bruciare senza acqua per spegnerle, le epidemie a imperversare. Crisi climatica e ambientale e migrazioni sono strettamente connesse: più si faranno sentire gli effetti della prima, destinati a crescere, più il numero dei profughi ambientali aumenterà in modo esponenziale. Ad accrescerne gli effetti concorrono poi le guerre a cui i governi di tutto il mondo stanno destinando i fondi che hanno negato e continuano a negare alla “transizione” (in realtà, alla conversione ecologica, che non è solo un processo tecnico ed economico, ma anche e soprattutto culturale, sociale, morale e democratico e che per questo viene osteggiata con sempre maggior ipocrisia). Gaia Vince (Il secolo nomade, Bollati Boringhieri, 2023) e Parag Khanna (Il movimento del mondo, Fazi, 2023), due studiosi che hanno cercato di guardare il futuro, concordano nel delineare un panorama come questo, ma loro sono ottimisti. Vince immagina che metà della popolazione mondiale, in fuga dalle terre di origine, troverà ospitalità nelle aree subartiche del pianeta, rese fertili e praticabili dal riscaldamento globale; le migrazioni giovano sia a chi le fa che a chi le accoglie, sostiene. Inoltre, tra un secolo la geo-ingegneria potrà restituire poco per volta vivibilità al pianeta devastato. Khanna, altrettanto fiducioso nei benefici della tecnologia, sostiene che essa – grazie soprattutto ad aria condizionata, colture idroponiche, desalinatori, energie rinnovabili e molto denaro – creerà isole vivibili anche in aree desertiche, énclave aperte alle persone dotate di professionalità e spirito di iniziativa, provenienti da tutte le parti del mondo. Per tutti gli altri, quelli non qualificati, la recuperata vivibilità delle aree subartiche offrirà comunque l’opportunità di una vita da schiavi. Nessuno dei due prende però in considerazione che l’alternativa possa essere invece uno scenario “alla Gaza”. Ma questo è. Come pensiamo che possano sopravvivere in territori devastati dalla catastrofe climatica e ambientale le popolazioni che li abitano oggi? Dove pensiamo che possano trasferirsi, senza essere respinti, tutti coloro che “a casa loro” non potranno più vivere? O addirittura che una casa loro non l’avranno più, perché sommersa dalle acque, o bruciata dalla siccità o dagli incendi? E come pensiamo che reagiranno i governi dei Paesi – “sviluppati” o no che siano – nei quali cercheranno rifugio quelle popolazioni tutte intere, se già ora, di fronte all’arrivo alla spicciolata delle avanguardie di quelle genti in cammino, i governi degli Stati forti mettono in atto politiche di respingimento basate sempre più sugli strumenti e le modalità della guerra? La vera guerra a cui ci stanno preparando. Se proiettate su uno scenario di lungo periodo – quello in cui, diceva Keynes, siamo tutti morti – le misure per respingere i migranti adottate oggi dai governi appaiono sì ciniche e spietate, ma anche risibili e inadeguate. Ma in realtà fungono da scuola per addestrare tutti noi ad accettare come normali quelle politiche di sterminio: esattamente come ci succede per Gaza. Ovviamente tutto questo ha delle ripercussioni anche sugli Stati che “si difendono dall’invasione” dei profughi: militarizzazione, sospensione o abolizione di diritti e welfare, violazione delle convenzioni, razzismo di Stato e fascismo. Gli Stati Uniti di Trump stanno aprendo la strada a tutti gli altri Stati, retti da tempo da governanti che aspettavano solo di dovergli “baciare il culo”. D’altronde la strada è quella anche senza Trump. Di fronte a prospettive del genere, purtroppo evidenti, l’inerzia nei confronti della crisi climatica e ambientale mostrata dai nostri governanti – tutti proiettati a combatterne le conseguenze e non le cause – ma anche quella dei popoli, cioè di noi tutti, sembra paradossale. Ma si spiega con il senso di impotenza che tutti – governi e forze politiche comprese – avvertono anche se cercano in tutti i modi di non prenderne atto. E’ la dismisura tra le dimensioni di questi processi e la capacità di agire di una popolazione atomizzata, senza riferimenti culturali, sociali e politici condivisi, se non quelli “di piccola e piccolissima taglia”: le mille associazioni e comitati a cui molti di noi partecipano senza trovare alcun riscontro nel mondo della politica. Potremmo però indirizzarle meglio, quelle pratiche, per costruire le ridotte da cui affrontare il futuro feroce che incombe: rendere il più possibile resilienti e vivibili i territori che abitiamo, mostrare che l’accoglienza – anche su scala ridotta – può tradursi in benefici per tutti, far conoscere e valorizzare le esperienze positive, battersi in tutti i modi per il disarmo. Troppo poco? E che altro, per ora? Guido Viale
“PIANTEDOSI STRINGE LA MANO A UN CRIMINALE LIBICO”: LA DENUNCIA DI MEDITERRANEA DOPO LA VISITA UFFICIALE DI SADDAM HAFTAR A ROMA
“Piantedosi stringe la mano a un criminale libico“. Lo denuncia Mediterranea Saving Humans dopo la visita ufficiale di Saddam Haftar, mercoledì 11 giugno 2025, al Ministro dell’Inteno italiano Matteo Piantedosi. “Il figlio del generale Khalifa Haftar, Saddam Haftar – spiega il comunicato di Mediterranea – è a capo della famigerata brigata Tarek Ben Zayed, dotata tra le altre cose di un supply vessel con il quale opera catture di profughi in mare e li deporta nei lager della Cirenaica. Anche la giustizia statunitense lo cerca dal maggio di quest’anno: è accusato di rapimenti, omicidi, deportazioni di massa anche nei confronti di cittadini libici. È inoltre segnalato dalle Nazioni Unite come uno dei più influenti trafficanti libici“. “La Libia – denuncia Mediterranea – è consegnata nelle mani di questi capi mafia, da governi senza scrupoli che pur di ottenere il ‘blocco degli sbarchi’ da poter rivendere nella campagna elettorale permanente, sono disposti a sacrificare i principi e i valori di rispetto dei diritti e della dignità umana. Le mani che ha stretto Piantedosi, sono sporche di sangue innocente“. Ai microfoni di Radio Onda d’Urto è intervenuta Laura Marmorale, presidente di Mediterranea Saving Humans. Ascolta o scarica. Qui il comunicato integrale di MSH.
“Per un comunismo della cura”. A Milano incontro con Gian Andrea Franchi
Per i lettori di Pressenza il nome di Gian Andrea Franchi, da dieci anni in prima linea con Lorena Fornasir nell’accoglienza dei migranti che approdano dopo inenarrabili sofferenze lun go la rotta balcanica nella Piazza del Mondo di Trieste, suonerà sicuramente familiare. Parecchi gli articoli che salteranno fuori dai nostri archivi digitando il suo nome, in particolare quelli (febbraio 2021) che denunciavano l’incredibile accusa di ‘favoreggiamento dell’immigrazione clandestina’, per aver ospitato una famiglia curdo-iraniana un paio d’anni prima. Indagine poi archiviata, ma che in quei mesi (si era nel dentro&fuori dalla pandemia) riempì di indignazione i tanti che da anni seguivano questa coppia di attivisti non più giovanissimi, nella loro instancabile, quotidiana, mirabile professione di cura, a cominciare dalle parti più martoriate di quei corpi in transito: i piedi. Piedi ridotti a zeppe di bolle e piaghe, chiusi dentro scarpe senza neppure i lacci, per non dire tutto il resto: l’esperienza dei respingimenti, il terrore accumulato in mesi o anni di viaggio, la realtà del trauma dentro gli occhi. In risposta a quell’accusa, Gian Andrea si limitò alle seguenti righe: “Rivendico il carattere politico, e non umanitario, del mio impegno con i migranti. Impegno umanitario è un impegno che si limita a lenire la sofferenza senza tentare d’intervenire sulle cause che la producono. Impegno politico, nell’attuale situazione storica, è prima di tutto resistenza nei confronti di un’organizzazione della vita sociale basata sullo sfruttamento degli uomini e della natura, portato al limite della devastazione (come la pandemia ci ha dimostrato). È inoltre tentativo di costruire punti di socialità solidale che possano costantemente allargarsi e approfondirsi.” Parole che da sole basterebbero a sintetizzare i contenuti e le intenzioni di questo bel libro, che per l’appunto si intitola Per un comunismo della cura recentemente pubblicato da DeriveApprodi, che Gian Andrea Franchi sta presentando ovunque si presenti l’occasione – e l’occasione per Milano è stata qualche giorno fa alla Libreria delle Donne, con la conduzione di Silvia Marastoni. Incontro emozionante, anche grazie all’intervento di apertura di Lorena Fornasir, che non potendo essere presente di persona ci ha regalato una decina di minuti in diretta dalla “sua” Piazza del Mondo, con i ragazzi che arrivavano alla spicciolata… e quel monumento che per anni era stato il naturale punto d’incontro al centro della Piazza, ormai transennato da tutti i lati… e il vecchio porto austriaco in lontananza che per anni era stato il miserrimo rifugio per tanti, non più agibile, tombato pure quello d’ordinanza. “In questa piazza approdano i figli dei figli del nostro colonialismo, delle nostre guerre umanitarie, i disastri che produciamo esportando guerra anche quando la chiamiamo pace” ci ha detto Lorena con l’urgenza imposta da quello che per lei era un momento di lavoro. “Percorsi di dolore di cui siamo testimoni da quando, nel 2015, abbiamo cominciato questa pratica di cura a Pordenone. Da allora a oggi il cambiamento è stato solo in peggio per la ferocia che si è compiuta su queste persone, che si presentano con i loro corpi torturati, seviziati dalle polizie ai vari confini (…) Ciononostante  noi qui siamo, perché riteniamo che non sia possibile voltare la faccia dall’altra parte, perché come diceva Max Frish pensiamo che il ‘silenzio delle pantofole sia molto più pericoloso del rumore degli stivali’ e questo ci sostiene nella nostra resistenza quotidiana, contro queste politiche di morte, in cui la vita umana non vale più nulla. (…) Una sera è arrivato alla nostra ‘panchina della cura’ un uomo che avrà avuto 30 anni ma ne dimostrava il doppio, tanto il suo corpo era devastato, ed è stato difficile per me intervenire su quelle ferite che non riesco nemmeno a descrivere; non osavo incrociare il suo sguardo e quando alla fine l’ho fatto ho capito che ciò che non osavo guardare era il mio stesso trauma, sapendo che a 100 km da qui nella bellissima Croazia (vi invito a boicottare la Croazia), ci sono ragazzi che muoiono annegati. I morti di cui non si saprà mai nulla e di cui noi ricamiamo i nomi su questo ‘lenzuolo della memoria’: sono soprattutto i ragazzi migranti che li ricamano…”. E sul primo piano dei nomi ricamati in rosso sul bianco del lenzuolo, Lorena si scusa ma deve proprio andare: “Stanno arrivando sempre più persone, la Piazza mi chiama…” Il microfono può quindi passare a Gian Andrea, che a 89 anni ha ancora l’energia dell’attivista che in effetti è sempre stato. Ex professore di liceo in città diverse, ricorda con particolare entusiasmo quegli anni “a cavallo tra i 60 e 70, aperti alla speranza, in cui ci si sentiva parte di un movimento, di lotte, di tentativi di costruzione di forme nuove di vivere insieme… Fu in quell’epoca che decisi di entrare nel PCI e ne uscii dopo tre anni, deluso nell’assistere alla ritirata del Partito di fronte a quella che a me sembrava una fioritura, con le scuole occupate, gli studenti che si ponevano e ci ponevano delle domande, richieste di presenza, partecipazione, senso della vita… le stesse che si ponevano gli operai in sciopero nelle fabbriche, che senso aveva passare tutta la vita a una catena di montaggio… erano domande anche filosofiche, che finalmente circolavano a livello di massa. Poi nel 1969 c’è stata la strage di Piazza Fontana, ed è stato il segnale che il potere avrebbe reagito con inimmaginabile ferocia. E poi c’è stata l’involuzione, la lotta armata, ne ho conosciuti parecchi che si sono persi in quei percorsi. Io mi sono chiesto perché è finita così e una delle risposte che mi sono data è che lottare, in un certo senso, è più facile che costruire. Noi abbiamo lottato, ma non siamo stati capaci di costruire qualcosa che durasse veramente, come anni dopo ci avrebbe insegnato il movimento zapatista: per lottare bisognava avere qualcosa in grado di durare, altrimenti rimane solo la lotta, in cui è l’avversario che decide anche per te, e tu ti definisci in rapporto all’avversario, rispondi ai suoi attacchi o schemi. (…) E quindi appunto in questo libro ho cercato non solo di spiegarmi la complessità di ciò che è successo, ma anche di inquadrare il fenomeno della migrazione nella sua realtà: sia in prospettiva, perché secondo i calcoli dell’IOM (International Organization for Migration, che fa parte dell’ONU) i migranti potrebbero essere un miliardo e mezzo entro vent’anni, e addirittura quattro miliardi entro la fine del secolo, sia come opportunità, per un cambio di rotta quanto mai necessario. E quindi ecco il riferimento al comunismo, nel suo significato più fondamentale, come ‘messa in comune della cura’, creazione di nuove forme di comunità, antidoto alla malattia mortale delle nostre società che è l’individualismo, in cui ognuno guarda solo alla propria cerchia, famiglia, territorio. Essendo andato a sbattere contro questo fenomeno migratorio, ho capito che in questo confronto con situazioni estreme poteva esserci una chiamata a cui rispondere: non solo per cercare di aiutare loro nei loro bisogni e aspirazioni, ma come indicazione di futuro per tutti noi. Perché come non capire che il motivo fondamentale di questi flussi migratori è un problema che ci riguarda tutti come esseri viventi, ovvero l’alterazione degli equilibri biologici che regolano il pianeta terra, la vita stessa? Come non capire che questi giovani che arrivano soprattutto dall’Asia del sud, ma anche dall’Africa, sono solo un’anticipazione di un fenomeno ben più grande che molto presto riguarderà i nostri figli e nipoti? E allora cerchiamo di ripartire appunto dal cuore, ovvero dalla Piazza del Mondo, dall’accoglienza di queste persone, dalla fecondità degli incontri e riunioni, dal ritrovarsi nella soluzione delle esigenze più fondamentali e vitali, nella sperimentazione di resistenze creative. Per costruire dal basso qualcosa che abbia senso, a partire da quel concetto di Disperata speranza del giovane filosofo ebreo Carlo Michelstaedter, su cui ho scritto la mia tesi di laurea e continuato a lavorare per il resto della mia vita. Gian Andrea Franchi, Per un comunismo della cura, Ed DeriveApprodi 2025, 172 pag. € 18 Daniela Bezzi
Il referendum sulla cittadinanza per contrastare la “guerra ai migranti”
L’8 e il 9 giugno 2025 l’elettorato italiano si esprimerà su un quesito che può modificare sensibilmente l’accesso alla cittadinanza per chi risiede stabilmente in Italia. Il referendum con il quesito n. 5 propone infatti la riduzione del periodo di residenza legale necessario per poter richiedere la cittadinanza italiana dagli attuali 10 a 5 anni. A oggi la legge prevede che la cittadinanza italiana possa essere concessa per naturalizzazione agli stranieri che abbiano risieduto legalmente e continuativamente in Italia per almeno dieci anni, come previsto dalla Legge 91/1992 (un termine più che doppio rispetto a quelli vigenti nei principali Paesi europei). Con alcune eccezioni: i cittadini dell’Unione Europea possono fare richiesta dopo quattro anni di residenza; il termine è di cinque anni per i rifugiati politici e gli apolidi, ma si deve sapere che decorre dalla data di riconoscimento dello status (il cui ottenimento può richiedere anche due o tre anni dall’arrivo in Italia); infine sono sufficienti tre anni per gli stranieri con ascendenza italiana fino al secondo grado, o per chi è nato in Italia da genitori stranieri anch’essi nati nel territorio nazionale. > Il quesito riguarda quei 2,5 milioni circa di persone che in Italia sono > presenti da molto tempo e faticano a ottenere il pieno riconoscimento di > quella cittadinanza che nei fatti vivono ogni giorno della propria esistenza > nel nostro Paese, ma che non prevede per loro il riconoscimento dei diritti a > essa connessi. Una prevalenza del “SÍ” a fronte del raggiungimento del quorum non cambierebbe soltanto la vita a molte persone presenti sul territorio nazionale, ma costituirebbe anche un segnale politico estremamente forte a fronte di politiche dell’immigrazione che – al contrario – fanno di tutto per limitare la presenza in Italia (e in Europa) di persone di origine straniera a basso reddito. Un percorso a ostacoli che è bene ricordare a grandi linee. Il Vecchio Continente respinge soprattutto giovani donne e uomini straniere e stranieri anche installandosi nei loro Paesi di transito, se non di partenza, verso l’Occidente nostrano. Oppure deportandovi le persone in fase di richiesta di protezione internazionale, come mostrano fuori dall’Ue il caso inglese del Rwanda o dentro l’Unione quello italiano dell’Albania. E così sulle sponde Est e Sud del Mar Mediterraneo, i governi locali di Turchia e Tunisia collaborano attivamente in cambio di denaro con l’Ue e/o alcuni loro Paesi membri a ciò delegati, sulla base di accordi di dubbia o inesistente legittimità giuridica internazionale. > Con altri governi, non sempre internazionalmente riconosciuti , non c’è > nemmeno bisogno di stipulare accordi formali, come con la Libia. Quanto invece potrebbe rappresentare un ulteriore incubo per chi riesce ad approdare sulle nostre coste non è solo rappresentato da un sistema di “accoglienza integrata”, quel già virtuoso SPRAR-SAI sempre più volutamente depotenziato dagli ultimi governi, certamente insufficiente ad accogliere tutti i richiedenti asilo in arrivo, “parcheggiati” invece nei Centri di Accoglienza che poco o nulla fanno in funzione della loro presenza sul territorio; ma anche dalla possibilità di essere deportati in altri Paesi per l’espletamento della domanda di protezione internazionale. Se anche si superassero tutti questi ostacoli, se pure si riuscisse a fare ingresso nel Paese con quegli ormai rarissimi permessi di soggiorno per motivi di lavoro che vengono rilasciati con il contagocce da governi di ogni colore, ecco iniziare per chi ne sia interessato il countdown verso la cittadinanza che – a seconda dello status riconosciuto dal permesso di soggiorno – può portare anche al passaggio di un decennio prima di ottenere l’agognato riconoscimento dei pieni diritti civili e politici garantiti sulla carta a chi gode della cittadinanza italiana. Meglio infatti lasciare i cittadini e le cittadine straniere in una situazione dove il loro permesso di soggiorno – che spesso dipende dal rapporto di lavoro – possa essere prima o poi anche revocato a causa della perdita dell’occupazione, entrando a ingrassare quell’“esercito di clandestini di riserva” tanto utile sia all’imprenditoria grande e piccola, fino a quella familiare, ma anche al continuo rilancio politico dello spauracchio dell’”immigrato”, a celare la sottrazione di reddito pubblico a tutte le fasce deboli della popolazione che è tipico del linguaggio e dell’azione delle destre politiche e non solo. > Il referendum sulla cittadinanza si pone dunque come un vero e proprio atto di > obiezione e contrasto alla “guerra ai migranti” che caratterizza le più > complessive politiche di guerra che oggi permeano sempre di più le scelte dei > governanti occidentali. Nel documento Per uscire dalla guerra che avanza e costruire un fronte comune per la pace recentemente prodotto da Attac Italia, nel capitolo dedicato a “guerra e immigrazione”, si legge – tra l’altro – che è «guerra all’umanità anche quella che viene combattuta per impedire la libera circolazione degli esseri umani, mentre quella delle merci viene permessa e protetta a ogni latitudine». Da una parte, la guerra all’ecosistema, la guerra del debito, la guerra guerreggiata creano, per centinaia di milioni di persone, condizioni di vita insostenibili, al punto che un numero crescente di uomini e di donne decide di emigrare e di lasciare la propria terra. Dall’altra parte, gli strumenti utilizzati per respingere i/le migranti sono gli stessi che si usano nella guerra combattuta. Contro il nemico esterno: con sistemi d’arma sempre più sofisticati per il controllo delle frontiere; con “Paesi gendarme” ai confini del mondo ricco che, in cambio di denaro, respingono o bloccano i/le migranti, traendo il massimo profitto dal “proibizionismo migratorio”, anche attraverso la prigionia prima, e il trasporto in Occidente di migranti dopo, reso illegale dalle normative dei Paesi di destinazione. Contro il nemico interno: con una repressione che passa dal lasciare pochissimi spiragli per la presenza ‘regolare’ sul territorio; prevedendo prigione e deportazione forzata per chi non soggiace alle ferree regole del rinnovo del permesso di soggiorno; prevedendo sempre minori opportunità di integrazione nel tessuto sociale ed economico. Ed è proprio in quest’ultimo comparto che si collocano i lunghi termini di ottenimento della cittadinanza del Paese di destinazione. > La connessione della battaglia referendaria – nel suo complesso, date le > implicazioni per la stabilità delle persone immigrate di un rapporto di lavoro > non intermittente; ma in particolare relativamente al quesito sulla > cittadinanza – con le lotte in atto contro le guerre sul territorio nazionale > e continentale sono molto evidenti. Per questo motivo e molti altri è pensabile che nel mese della grande mobilitazione europea “Stop Rearm Europe”, che culminerà in Italia nella manifestazione del 21 giugno a Roma una tappa importante sia rappresentata anche dalla partecipazione attiva alla campagna referendaria per i “5 sì”, che riporti a unità e a “ripartire da qui” tutto quel variegatissimo arcipelago di persone, associazioni, sindacati, cooperative e istituzioni che ancora immaginano un mondo “no border” fatto di libera circolazione e diritto di cittadinanza universale per ogni essere umano. L’autore, da 30 anni attivo nelle politiche migratorie, fa parte di Attac Italia L’immagine di copertina è Lisa Capasso SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress abbiamo attivato una nuova raccolta fondi diretta. 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L’imperativo della frontiera. Sull’udienza preliminare del processo per la morte di Wissem Ben Abdellatif
(disegno di malov) Sono trascorsi più di due anni e mezzo da quando ho visto Henda Benali e Kamel Abdellatif per la prima volta, nella loro casa di Kebili, una città della Tunisia interna. Il nostro incontro più recente risale invece a questa primavera, nella sala del Kif Kif, un locale che è anche punto di ritrovo per la sinistra araba a Roma. Rispetto a quanto percepito quella mattina del settembre 2022, Henda e Kamel mi sono sembrati stavolta più forti e agguerriti. Come se lottare per la verità sulla morte del loro primogenito li avesse in qualche modo, forse loro malgrado, costretti alla vita. Le lacrime c’erano sempre, ma non era il dolore sordo di Kebili. Era un dolore rumoroso. Henda e Kamel avevano attraversato il paese, da Roma a Bologna, con il comitato Verità e Giustizia per Wissem Ben Abdellatif, per raccontare la storia di un giovane uomo che chi legge questo giornale conosce bene. Wissem che giocava bene a calcio. Wissem che ascoltava Bob Marley e aveva perso il lavoro. Wissem che sorrideva, con gli amici, girando video sulla barca che lo portava in Italia. Wissem che è morto, in seguito alla detenzione nel Cpr di Ponte Galeria e a una contenzione fisica durata centotré ore, quaranta all’ospedale Grassi di Ostia, poi sessantatré al San Camillo di Roma. Legato per centotré ore. «Wissem ha detto chiaramente di aver ricevuto delle manganellate in testa nel Cpr di Ponte Galeria, e anche i suoi compagni di detenzione hanno confermato questa cosa», ha raccontato il padre durante l’incontro pubblico. Magro, provato dai problemi di salute, tremava. Ha smesso di parlare, Kamel, ma una scritta in inglese sul suo cappellino diceva per lui: “No Fear”. Niente Paura. «Perché ucciderlo in quel modo?». Si è chiesta invece, ancora una volta “perché?”, Henda, la madre. Spera che suo figlio sia un esempio per tutte e tutti. Wissem aveva voluto denunciare la situazione sua e dei suoi compagni di detenzione, girando video nel Cpr e diffondendoli in rete. Wissem, Henda ne è sicura, ora è in Paradiso. Tradotta a braccio da un giovane tunisino, commosso anche lui, conclude: «Se fosse stata una morte normale l’avremmo accettata». L’avvocato Romeo ha spiegato che la procura di Roma ha richiesto l’archiviazione per la denuncia per sequestro di persona contro il primario del reparto psichiatrico del San Camillo, che poi è lo stesso del Grassi di Ostia, e contro gli altri medici coinvolti nella lunga contenzione fisica di Wissem: «Sebbene avessimo chiesto di essere informati nell’eventualità di una richiesta di archiviazione, la notizia di quest’ultima è arrivata solo al momento dell’udienza preliminare, che si è tenuta ad aprile nei confronti dell’unica persona ancora indagata, l’infermiere che ha somministrato una dose di farmaci non prevista dalla scheda terapeutica di Wissem». La prossima udienza si terrà a Roma il 10 settembre: i genitori si sono costituiti parte civile, e i loro legali hanno ottenuto che venga chiamata in causa anche l’Asl Roma 3, nella cui giurisdizione si trova il reparto psichiatrico dove Wissem ha trascorso le sue ultime ore. In generale, fanno sapere ancora dal comitato, “ci si aspetta che la controparte punti a far passare la morte di Wissem, una morte di Stato, come morte naturale”. Come in altri casi si tenderà in effetti a punire solo le ultime violenze subite da Wissem, normalizzando la lunga catena di abusi che le hanno precedute. L’ingiustizia subita dal ventiseienne di Kebili, però, non sta solo in un sovradosaggio di farmaci. Sta nella lunghissima contenzione fisica. Nella detenzione in Cpr, esperienza vicina a quella del carcere più duro e che sanziona per di più un semplice illecito amministrativo come la permanenza irregolare su un territorio nazionale. Anche queste violenze sono dettagli accidentali, effetti collaterali della grande ingiustizia di un ampio e capillare regime di frontiera basato su razza e classe. Se Wissem ha dovuto attraversare il mare, finire a Lampedusa, essere chiuso in una nave quarantena ad Augusta e poi in Cpr, è perché non ha avuto, come centinaia di migliaia di altre persone, nessuna opportunità di attraversare legalmente il Mediterraneo. Sarebbe bastato un visto turistico, una borsa lavoro, una borsa di studio, come quella che chi scrive ha ottenuto qualche anno fa, senza particolari meriti accademici peraltro, proprio per la Tunisia, proprio a ventisei anni. La grande violenza normalizzata, che si colloca nel livello antecedente a quella individuale subita da Wissem, sta nel fatto che i visti Schengen agli africani, e in generale alle persone non bianche, siano un’eccezione. Eppure, anche se divenuto marginale nei dibattiti sulla migrazione, il muro della burocrazia e dell’esclusione dalla libertà di movimento è il più pervasivo e strutturale fondamento di questo sistema. A rafforzare questo muro ci sono le decine di barriere che impediscono le vite dei migranti: non solo quella del Mediterraneo o del deserto, non solo i lager libici e quelli europei, ma anche le interdizioni che molto spesso rendono impossibile lavorare al di fuori del bracciantato agricolo sottopagato, dello spaccio, della prostituzione. Fino al carcere, che spesso consegue a tutto questo. Solo nel 2023, secondo i dati di Schengen Visa Statistics, settecentomila persone di varie nazionalità africane hanno perso ottanta euro, una cifra pari alla metà di uno degli ultimi stipendi di Wissem, per fare la domanda di un visto europeo che non hanno mai ottenuto. I dinieghi dei paesi europei verso le persone di nazionalità africane che chiedono il visto hanno rappresentato il 43% del totale dei visti negati in tutto il mondo. Del resto, tante persone non ci hanno nemmeno provato, a entrare legalmente, perché non avevano le migliaia di euro di fideiussione bancaria necessarie a farlo. Sono quindi le nostre frontiere blindate, l’unica causa profonda della “migrazione irregolare”, espressione abusata da tanti governi, italiani e non solo. Fanno qualcosa di male – è il sottinteso decisivo – le persone che non si spostano “a causa” di una forza maggiore, ma perché, semplicemente, lo desiderano. Ora seguito dall’ipocrita corollario del “Piano Mattei”, l’assioma dominante ripete: “fermiamo la migrazione irregolare”, “aiutiamoli a casa loro”. Ma per chi subisce l’oppressione e la repressione non esiste un loro da “aiutare” o “salvare” che sia diverso dal “noi”. L’imperativo della frontiera, il non vi muovete che ha dilaniato il corpo di Wissem, è sempre più pressante sul corpo di chiunque, come lui, voglia migrare; e poi manifestare, occupare, protestare. Accertare la verità sulla dinamica della sua morte, a cominciare dalla prossima udienza è quindi, come dice l’avvocato Romeo, “una prima forma di giustizia”. L’ultima è l’intero orizzonte verso cui guardare e tendere, perché, come insiste Henda, la morte di Wissem serva a impedire che casi come il suo si ripetano ancora. (giulia beatrice filpi)
[2025-05-08] Altri Mondi, Altre Voci @ Zazie nel metrò
ALTRI MONDI, ALTRE VOCI Zazie nel metrò - Via Ettore Giovenale 16, Roma (giovedì, 8 maggio 19:30) ALTRI MONDI, ALTRE VOCI INCHIESTE, REPORTAGE E SGUARDI CONDIVISI SU GEOGRAFIE INVISIBILI Quattro appuntamenti dedicati alla presentazione e al confronto con gruppi di giornalismo indipendente e collettivi di freelance: Fada Collective, IrpiMedia, Centro di Giornalismo Permanente e Rivista Corvialista. Con Altri Mondi, Altre Voci vogliamo dare spazio a chi ogni giorno cerca nuovi modi di raccontare il mondo, sporcandosi le mani con la realtà, attraversandola con cura, passione e senso critico. Crediamo in un’informazione che non si limiti a osservare da lontano, ma che scelga da che parte stare, assumendo uno sguardo dichiaratamente partigiano: schierato con i corpi, le lotte e le comunità che si muovono ai margini, contro le narrazioni imposte dal potere. Un giornalismo che non rincorre la neutralità come forma di equidistanza, ma che prende posizione, costruendo ponti tra chi racconta e chi resiste. Gli incontri si svolgeranno a Zazie nel Metrò alle 19.30 in queste date: • GIOVEDÌ 8 MAGGIO, CENTRO DI GIORNALISMO PERMANENTE. Repressione in Nord Africa: il filone tunisino e marocchino della lotta senza confine ai dissidenti (Matteo Garavoglia). Istituzioni totali e diritto all'informazione: come il giornalismo indipendente può raccontare i luoghi di privazione della libertà personale (Marica Fantauzzi) • GIOVEDÌ 15 MAGGIO, FADA COLLECTIVE L’attacco dell'industria petrolifera all'Iraq: una lunga inchiesta sugli impatti degli impianti estrattivi di Eni, BP e Shell nel sud iracheno, in particolare sull'accesso all'acqua e sulla salute. • GIOVEDÌ 22 MAGGIO, RIVISTA CORVIALISTA Presentazione del numero 1 della "Rivista Corvialista”: Come raccontare e dare voce alle periferie invisibili o stigmatizzate delle grandi cittá? Quali le metamorfosi del "serpentone" di Corviale? Partecipano i redattori e le redattrici della rivista, che diventa trimestrale. • GIOVEDÌ 29 MAGGIO, IRPIMEDIA DesertDumps: In Nord Africa esiste un sistema per espellere nel deserto i migranti che provengono da Paesi schiacciati tra il Sahara e l’Equatore. Lo scopo è impedire loro di raggiungere l’Europa, principio-guida del lungo processo di esternalizzazione delle frontiere condotto dall’Unione europea negli ultimi vent’anni.
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