
La distopia concreta della Venezia di Bezos
Jacobin Italia - Saturday, June 28, 2025
Quando Jeff Bezos ha scelto Venezia per il suo matrimonio, in pochi hanno creduto alla narrazione del sogno romantico. Nessuno, almeno, tra coloro che ancora cercano di viverci. Perché da almeno un decennio la città è diventata il laboratorio vivente di una distopia concreta: una metropoli svuotata dai residenti, colonizzata dai turisti, gestita come un fondo immobiliare da una classe politica subalterna dell’élite globale. «Non si tratta solo di un matrimonio – ha spiegato Tommaso Cacciari, attivista veneziano – È un messaggio in codice, un atto di dominio, un tentativo di occupazione. E Venezia, come spesso accade nella storia, ne diventa il campo di battaglia».
Da qualche settimana e fino al 28 giugno, Venezia sembra militarizzata. Non ci sono i carri armati, ma l’effetto è lo stesso: accessi vietati, trasporti deviati, spazi pubblici blindati. La Basilica di San Giorgio Maggiore, luogo sacro, è stata trasformata in una cattedrale privata. La Scuola Grande della Misericordia – di proprietà del blind trust riconducibile al sindaco Luigi Brugnaro, già coinvolto in un’inchiesta per conflitto d’interessi che ha portato al suo rinvio a giudizio –, avrebbe dovuto essere una delle location principali dell’evento. A fronte delle proteste annunciate dalla cittadinanza e dalla piattaforma No Space for Bezos, il multi miliardario è stato costretto a spostare le celebrazioni all’Arsenale, un tempo cuore della potenza navale veneziana, ora adibita a sala da ballo per un’élite tecnocratica. Tutto pagato? Forse. Tutto legittimo? Formalmente sì. Ma una città intera è stata sospesa, per celebrare il potere privato del terzo uomo più ricco del pianeta.
E così, Venezia si è svegliata come sempre, avvolta nella sua bellezza ferita, ma questa volta sotto i riflettori del mondo per un evento privato che è diventato pubblico ancor prima di cominciare: il matrimonio di Jeff Bezos e Lauren Sánchez. Una celebrazione sontuosa, con poco più di duecento ospiti selezionati: magnati della Silicon Valley, celebrità hollywoodiane, lobbisti, per citarne alcuni. Per tre giorni, spazi vitali della città sono stati sottratti all’uso collettivo: dalla Basilica di San Giorgio Maggiore chiusa e presidiata insieme al Chiostro della Chia, varie linee del trasporto pubblico modificate, alcuni accessi regolati da forze dell’ordine e vigilanza privata. In Laguna, invece, una pioggia di jet privati, superyacht, cortei acquei esclusivi. Un matrimonio? No, una performance del potere, una dimostrazione pubblica di accesso illimitato ai beni comuni del mondo.
Non è la prima volta che Venezia viene utilizzata come passerella simbolica per le élite globali: dal G20 del 2021 ai matrimoni di Bollywood, fino agli eventi collaterali della Biennale che spesso oscurano la manifestazione stessa. Ma questa volta la sproporzione è apparsa evidente anche agli osservatori più moderati. Una città di 49.000 residenti, in calo costante, ha ospitato un evento da milioni di euro a fronte di una vita quotidiana che scompare sotto i colpi del turismo, della speculazione e dell’esclusione sociale.
Bezos non ha «affittato» Venezia formalmente, ma è come se l’avesse fatto. Il Comune e le autorità hanno collaborato con zelo. Nessuno dei rappresentanti istituzionali ha posto un dubbio etico sulla trasformazione di luoghi storici in scenografie privatizzate per cerimonie elitarie. Anzi, si è parlato di ritorno economico, visibilità, donazioni. Si mormora di una cifra simbolica – fonti giornalistiche parlano di circa un milione di euro come contributo privato per iniziative ancora da definire – destinata al patrimonio culturale veneziano, una mancia rispetto a quanto lo stesso Bezos guadagna in pochi minuti. Eppure per l’amministrazione comunale è stato un successo. La visibilità, dicono, è una forma di investimento. Ma per chi?
Per molti veneziani il punto non è la cifra, né il fasto in sé: è la natura del messaggio implicito. Una città intera può essere affittata per una festa? È giusto che spazi pubblici vengano sottratti all’uso collettivo per trasformarsi in location esclusive?
Le proteste non si sono fatte attendere. Il movimento No Space for Bezos, insieme a collettivi ecologisti e gruppi di base veneziani, ha denunciato apertamente la privatizzazione della città. Gli slogan sui ponti – «Una città non si affitta», «Venezia non è vostra» – come le iniziative in Piazza San Marco o lo striscione di «benvenuto» calato dal campanile di San Giorgio, hanno riportato al centro della scena un problema che la retorica dello sviluppo turistico cerca costantemente di eludere: la cancellazione progressiva del diritto alla città. Questo fenomeno ha un nome e una ratio precisa, risponde al nome di «colonialismo economico» ed è ciò che sta cannibalizzando diverse città lungo tutta la Penisola.
Il caso Bezos è un’esemplificazione brutale di un meccanismo che lavora da anni: la trasformazione delle città d’arte in asset finanziari, la riduzione dello spazio urbano a contenitore di rendita, la sostituzione della cittadinanza con il consumo. Venezia è il paradigma perfetto. Oggi, secondo la stima dall’Osservatorio civico sulla casa e la residenza, il 70% delle abitazioni del centro storico è utilizzato per affitti brevi, spesso su piattaforme come Airbnb. Le famiglie giovani se ne vanno perché non trovano casa, i residenti anziani muoiono in silenzio, le case rimangono sfitte. I servizi si riducono, le botteghe chiudono, le scuole restano semivuote. Al loro posto: boutique, gelaterie, megastore di lusso e la smodata ricerca dell’esclusiva instagrammable da dare in pasto al web. L’equilibrio è stato rotto da tempo, ma eventi come questo lo rendono più visibile.
E c’è di più: il discorso dominante continua a parlare di Venezia come «fragile», «unica», «da salvare». Ma da chi? Il ticket d’ingresso introdotto nel 2024 – 5 euro per entrare in città durante l’alta stagione e ora aumentato a 10 euro – non serve a regolamentare i flussi, ma a legittimarli. Paghi ed entri. Paghi di più e la prendi in affitto. Paghi moltissimo e la trasformi in un set nuziale.
La logica è quella dell’economia dell’estrazione applicata alla cultura. Venezia non è più una città: è una risorsa da sfruttare, un marchio, una location. Chi la vive – o prova ancora a viverla – è un ostacolo da gestire, da contenere. I comitati che si battono per la residenzialità – come Asc (Assemblea Sociale per la Casa) che ha continuato anche in questi giorni a bloccare degli sfratti –, per una moratoria sugli affitti brevi, per la regolamentazione del turismo, vengono ignorati o ridicolizzati. Ma sono l’unico argine rimasto.
Il matrimonio di Jeff Bezos non è uno scandalo mondano. È un atto politico. È la celebrazione pubblica di un ordine economico in cui i miliardari possono disporre liberamente di città intere, mentre la cittadinanza viene spinta ai margini. È l’immagine del tardo capitalismo che, privo di legittimità culturale, si rappresenta con la sua opulenza: yacht, recinti, elicotteri. È un monumento all’esclusione, innalzato nel cuore di una città nata come spazio di scambio, convivenza, acqua condivisa – oggi trasformata in vetrina del privilegio e simbolo delle contraddizioni di un mondo in crisi.
Heather Jane Johnson, ex libraia del Massachusetts ora veneziana di adozione, confessa di essersi sentita tradita e più impotente che mai, come se la decisione di Bezos fosse l’ennesima conferma del potere ingiustificato e opprimente di pochi, capaci di piegare intere comunità alle loro esigenze. «Amazon anni fa mi ha portato via il lavoro. Oggi Bezos mi toglie anche la città. Non è più solo commercio. È colonialismo».
Questa protesta locale, però, va letta anche in una chiave più ampia, inserita in un contesto geopolitico segnato da conflitti e crisi. Mentre in Medio Oriente si combatte una guerra che ridisegna gli equilibri internazionali, e mentre Elon Musk distribuisce assegni da milioni di dollari come se fossero meri strumenti di potere, il matrimonio di Bezos diventa il simbolo di un’élite globale sempre più lontana dalla realtà delle persone comuni. Il capitalismo digitale e il tecnocapitalismo, come sottolinea il politologo Robin Piazzo in un articolo del Guardian, si stanno fondendo con forme di autoritarismo e fascismo, trasformando la ricchezza in un potere strutturale e invasivo.
Ma il punto non è il lusso. Il punto è la convergenza tra potere economico, guerra e controllo. Jeff Bezos non è solo un uomo d’affari: è uno degli architetti della guerra del futuro. Amazon Web Services (Aws) è il principale fornitore di cloud militare per il Pentagono, per l’Nsa e – fatto documentato – per le forze armate israeliane durante le operazioni su Gaza. Aws ha fornito l’infrastruttura cloud per operazioni di sorveglianza e supporto ai sistemi militari. Una parte del potere tecnologico connesso al conflitto è passato da lì.
Bezos guadagna con la logistica, ma costruisce potere con la tecnologia bellica. In parallelo, Donald Trump – riapparso sulla scena con le mani sull’Iran – ripropone il modello dell’esportazione della democrazia con le bombe. Le due figure, apparentemente lontane, sono facce complementari del nuovo tecno feudalesimo: uno costruisce l’infrastruttura, l’altro la strategia.
Le proteste contro Bezos non sono quindi semplici azioni di disturbo, ma la manifestazione di un rifiuto verso un sistema che compra spazi, influenza governi, manipola mercati e piega le istituzioni. È una lotta che attraversa i temi ambientali, sociali e politici. Amazon non è solo un colosso del consumo, ma un modello di sfruttamento che sottrae risorse idriche in regioni già aride, che alimenta l’inquinamento e la crisi climatica, e che si appoggia su un sistema di lavoro sempre più precario e alienante. La crisi ambientale è intimamente connessa a questa concentrazione di potere: le stesse risorse che sostengono questi imperi economici sono quelle di cui le comunità locali si vedono private, in un meccanismo che sembra inarrestabile.
Il matrimonio di Bezos a Venezia si inserisce dunque in un quadro di conflitto globale, dove le disuguaglianze si acuiscono e dove il potere dell’élite si scontra con la crescente richiesta di giustizia sociale e ambientale.
Al Laboratorio Occupato Morion – il quartier generale della «resistenza» – si accumulano striscioni che non lasciano scampo: No Space for Bezos non è uno slogan, è un grido che taglia la superficie lucida della città-museo, lì dove il turismo di massa e i ricchi provano a sfondare ogni confine. Gli attivisti sanno bene che bloccare una festa esclusiva può sembrare poco, ma è invece qualcosa di potente. È la rivendicazione di un diritto all’esistenza. A Venezia, una città sospesa tra il barocco e l’abisso, si gioca la partita della dignità umana contro il potere dell’1%. Gli attivisti bloccano ponti, resistono contro la polizia e gli ex marines che Bezos ha portato con sé, perché sanno che la battaglia non è solo per un matrimonio ma per l’anima stessa di una società che sta cedendo al ricatto della ricchezza estrema.
Le lotte per bloccare Bezos sono quindi un atto di ribellione contro una realtà che sembra aver perso ogni limite: una ricchezza che si compra tutto, che si arricchisce con la distruzione del pianeta e delle persone. Eppure, in mezzo a questa tempesta, c’è chi sceglie di resistere, di mettere il proprio corpo davanti al potere, di affermare che non tutto può essere comprato.
Non importa che Amazon «promuova una cultura del consumo estremo ed esagerato», dice Stella Faye, del comitato No Space For Bezos, «poichè rappresenta un modello di sfruttamento delle persone e della natura. Dipende da un sistema di trasporti altamente inquinanti, e da un consumo spropositato di energia elettrica e risorse idriche per il mantenimento dei server che lo alimentano, per non parlare dei territori distrutti per fare spazio ai magazzini».
«Venezia ha una sua dignità e non ci interessa raccogliere le briciole che cadono dalla tavola del re – spiega Federica Toninello anche lei tra i volti più conosciuti del comitato No Space For Bezos – Non siamo contro le nozze di persone famose nella nostra città. Qui si è sposato George Clooney, tanto per fare un esempio, e non c’è nulla di male. Ma Bezos è un’altra faccenda. Non siamo di fronte solo all’arroganza del super ricco che trasforma un’intera città nel suo parco giochi. Bezos è uno dei maggiori protagonisti del cosiddetto complesso industriale militar-digitale che costruisce profitto sulla guerra e sulla morte di centinaia di migliaia di innocenti. Per questo il 28 giugno ci mobiliteremo con pacifica determinazione per gridare ‘No Space for Bezos, No space For War!’».
No space for Bezos arriva mentre a New York vince le primarie del Partito Democratico un musulmano socialista, che promette «una città che ti puoi permettere»], contro il carovita e la turistificazione. Bezos, nel frattempo, è accusato da più parti di condizionare il profilo editoriale del Washington Post in linea con il governo statunitense, e di aver sostenuto posizioni vicine all’amministrazione Trump. Ma soprattutto, a Venezia come a New York, la guerra è sempre guerra alle moltitudini sfruttate. La campagna del candidato socialista Zohran Mamdani fondava su due temi: una città sostenibile e la solidarietà alla Palestina, due istanze solo in apparenza distanti ma, invece, legate dalla stessa domanda cruciale: chi può gestire lo spazio urbano? Abitarlo? Usarlo? Il capitalismo predatorio ha come obiettivo primario ridurre lo spazio a disposizione delle moltitudini caricando su di loro i costi della crisi climatica, giusto per citarne una.
Venezia non muore solo sotto il peso del turismo. Muore sotto il peso del privilegio. Se non cambia rotta, il futuro non sarà quello di una città da salvare, ma di una città definitivamente svenduta. E non ci sarà sistema Mose che tenga.
*Anna Irma Battino è giornalista free lance con una grande passione per il cinema, ma scrive soprattutto di giustizia sociale, transfemminismo e politica. Ha partecipato a diverse carovane in Palestina, Brasile, Messico, Argentina e Kurdistan.
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