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Lo specchio dei tempi. Sulle reazioni all’irruzione a La Stampa di Torino
(disegno di martina di gennaro) È fecondo configurare l’attualità come storia contemporanea. In merito all’irruzione presso la redazione de La Stampa di Torino di venerdì 28 novembre, lo storico contemporaneo dovrebbe studiare la reazione mediatica, e spettacolare, che si è scatenata, e chiedersi perché in modo così unanime e accorato istituzioni, politici, intellettuali e organizzazioni di questo paese hanno condannato l’evento. Qual è l’origine materiale di un discorso tanto compatto, in apparenza inscalfibile? Il primo dicembre nelle pagine nazionali de La Stampa compare un articolo intitolato: “Stampa città aperta”. Si riportano le visite in solidarietà alla redazione e le dichiarazioni rilasciate per l’occasione. Appaiono l’editore Elkann, il presidente della regione Piemonte, un deputato del Pd, un ministro del governo; è annunciata la venuta del ministro della cultura e, forse, di Elly Schlein. Il sindaco della Città s’era già presentato in visita. Uno sguardo storico deve allora individuare le relazioni concrete fra un centro di emanazione dei discorsi e le classi dirigenti. E da qui discende una possibile mappatura delle forme del potere e della loro riproduzione simbolica. Ecco un esempio, forse marginale eppure peculiare. Una delle prime reazioni è stata quella di Jacopo Rosatelli, assessore alle politiche sociali della Città e membro di Sinistra Ecologista, la costola di Avs a Torino. Lo stesso venerdì pomeriggio dalle colonne blu di Facebook scriveva l’assessore: “Nel giorno in cui le e i giornalisti scioperano, un vile attacco squadrista colpisce la redazione de La Stampa. Nulla può giustificare questa violenza. Solidarietà al quotidiano e a tutta la comunità professionale dell’informazione torinese”. Durante il mandato di Rosatelli sono stati sgomberati i baraccati di piazza d’Armi e senza garantire degne soluzioni abitative. Di recente sono state create “zone a vigilanza rafforzata” per sottoporre a controlli di polizia persone potenzialmente destinate al Cpr e si è condotta una repressione sistematica di uomini senza dimora che vendono pochi oggetti in strada. Ancora, si è portata avanti una campagna di sgombero di famiglie occupanti di case Atc senza offrire soluzioni alternative e spesso lasciando in strada donne e bambini. In merito a questa violenza urbana contro poveri e subalterni La Stampa, come tutto il giornalismo cittadino, è silente o compiacente. Per quale ragione? Come spiegare il silenzio? Lo sgombero di piazza d’Armi avvenne per permettere il sereno svolgimento di Eurovision. Accanto alle zone a vigilanza rafforzata sorgono aree interessate da interventi di speculazione immobiliare, i presìdi di polizia riguardano spesso i distretti aperti ai sogni turistici e gli isolati pronti ad accogliere la nuova linea della metropolitana. E dopo la stagione di sgomberi degli alloggi occupati è recente la notizia della possibilità di privatizzare alcune unità delle case popolari torinesi. Qui lo storico può intravedere le connessioni tra istituzioni, poteri economici e funzionari della diffusione dell’informazione. Abbiamo in passato analizzato stile e contenuti del giornalismo torinese e di certo dovremo trovare il modo di persistere con più continuità e ostinazione. Ora ricordiamo le parole vivissime che Goffredo Fofi scriveva a proposito del quotidiano torinese. Era il 1964 e il libro – straordinario – è L’immigrazione meridionale a Torino. (redazione monitor) *     *     * Il monopolio a Torino ha costruito una sua catena d’influenza economica e politica, esercitata attraverso il controllo diretto o indiretto della vita pubblica. Questa influenza è determinante anche e specialmente all’interno della fabbrica, dove l’operaio è compresso e asservito da una politica paternalistica, e allo stesso tempo non meno oppressiva: da una parte la possibilità di arrivare al frigorifero, alla 600, alla televisione, e all’appartamento; dall’altra un progresso tecnologico che impone massacranti ritmi di lavoro e un comportamento da macchina, la impossibilità di processi di avanzamento nella qualifica al tempo stesso in cui cambia la mansione e il tipo di lavoro in conseguenza del processo tecnologico, l’impossibilità di un “rapporto tra la forza-lavoro incorporata nelle merci prodotte e l’ammontare delle paghe”. Al di fuori, essa si esercita innanzitutto con uno strumento formidabile di formazione e controllo dell’opinione pubblica, La Stampa. Il giornale della Fiat ha infatti un’influenza determinante nella vita e nelle opinioni dei torinesi. Esso sbandiera un antifascismo sterile e di ricordi, e una politica di “riforme sociali”, propone un paternalismo “illuminato” avallato anche sul piano nazionale grazie alle firme di rispettabili nomi della cultura e dell’antifascismo italiani, e sul piano torinese, con la seconda pagina e “Lo specchio dei tempi”, indirizza l’opinione pubblica su binari ben precisi. In essa trovano posto le “inchieste” e le “denunce” interessate (il costo della vita, le case che mancano e che lo Stato dovrebbe finanziare, e così via), le cronache della Torino-bene e dei suoi eroi con le loro mensili “opere buone”, i preti e gli assi della Juventus, la cronaca delle disgrazie, degli incidenti (narrati, sempre, in stile “Cuore”), i fattacci degli immigrati (con appariscenti titoli: “calabrese ruba…”, “meridionale uccide…”, “siciliano rapisce…”) ed infine le buone azioni quotidiane. Il tono è dato pur sempre dallo “Specchio dei tempi”. Questa rubrica epistolare, che si dice sia personalmente supervisionata dal direttore del giornale, è più una guida che uno specchio della pubblica opinione. In essa trovano posto regolarmente le recriminazioni antimeridionali, il patriottismo più vecchio (specialmente in occasione delle infinite rievocazioni risorgimentali), un’incredibile dose di richiami al “buon senso”, le piccole proteste (della vecchietta sui tranvieri scortesi, ad esempio, ma anche di Togliatti sugli chalet scomparsi dalla Valle d’Aosta o su “l’amore del prossimo”), e infine i “casi pietosi”. La soluzione miracolistica dei problemi più gravi, attraverso la sottoscrizione del “caro Specchio”, serve a contrabbandare il più vecchio dei paternalismi. Ma gli esempi più chiari sono sempre dati dalle lettere, accuratamente scelte e presentate con appropriati titoletti, che riguardano gli operai. L’esaltazione sfacciata del crumiro, condotta durante gli scioperi Fiat (e nella pagina di fronte, si trovava l’articolo di qualche noto scrittore o intellettuale di sinistra) col ricorso al patetico familiare o a quello della “libertà da difendere”; l’appoggio “fraterno” agli operai delle piccole fabbriche come ai tessili della valle di Susa, che guadagnano così poco, e che serve a ricordare agli operai Fiat la loro “condizione di privilegio”; la richiesta di un’automobile che un impiegato Fiat fa allo “Specchio” e che serve di pretesto per stimolare dozzine e dozzine di lettere che lo accuseranno di non volersi accontentare e lo inviteranno a ringraziare il cielo e Valletta del suo stato di privilegio – tutto questo mira al mantenimento di un clima di subordinazione passiva e addormentamento delle coscienze, mira alla conservazione di una Torino che si vorrebbe tranquillamente sottomessa e che non pensi da sé, ma si lasci guidare, accontentandosi di sentirsi blandita ed esaltata per il suo “buon senso”, le sue “tradizioni di civismo” e la sua “operosità”. Per gli immigrati il discorso viene ripetuto fino alla ossessione, alla nausea: la Torino dal buon cuore che li accoglie, nonostante i loro difetti e i loro demeriti, chiede delle condizioni. Si dice insomma, e con il tono del padrone: siete sporchi e incivili, sfaticati e violenti, analfabeti e disonesti, ma noi – così bravi! – vi lasciamo venire… ma, attenzione!, c’è un patto da seguire: dovete cioè diventare come noi vi diciamo, come il bravo torinese medio, il buon operaio o impiegato che non dà fastidio, il cittadino gentilmente egoista. Dovete “adattarvi” e adeguarvi: adattamento è una parola che si legge con estrema frequenza sulle pagine de “La Stampa” e si sente nelle relazioni e nei discorsi ufficiali sull’immigrazione, come nelle chiacchiere del tram o dell’osteria. I sociologi e gli psicologi – di fabbrica o no – ne fanno poi un uso superlativo, premurandosi tutt’al più di mascherare il concetto con il termine più intelligente di “integrazione”, ma intendendovi esattamente le stesse cose: tutta la tematica dell’immigrazione si riduce per loro, in fondo, a questo. Adattarsi vuol dire dunque inserirsi in uno stato di fatto accettandone in pieno le regole, non provocando scosse, non protestando per la propria condizione inferiore, seguendo i modelli offerti da chi comanda.
La libertà non è un’opinione. Per la liberazione di Mohamed Shahin
(disegno di sam3) Mohamed Shahin, imam della moschea Omar Ibn al-Khattab di via Salluzzo a Torino, si trova al Cpr di Caltanissetta dopo aver ricevuto un decreto di espulsione, firmato dal ministro degli interni Matteo Piantedosi. A Mohamed è stato revocato il permesso di soggiorno come lungo soggiornante e rischia il rimpatrio nel suo paese d’origine, l’Egitto di Al Sisi, dove prima dell’arrivo in Italia, vent’anni fa, era oppositore al regime. In Egitto, rischia la tortura e la morte. Le ragioni della revoca del permesso sono legate al suo pensiero ed al fatto di averlo espresso sulla pubblica piazza: parlare di Gaza e del genocidio in corso, prendere posizione senza censure equivale a condannarsi, soprattutto se sei musulmano. In questi anni Mohamed non è stato il solo a ricevere la revoca del permesso di soggiorno con successivo trattenimento in Cpr per aver parlato di Palestina. Noto è anche il caso del cittadino algeino Saif Bensouibat, trattenuto al Cpr di Ponte Galeria e poi liberato. Negli anni passati anche diversi palestinesi sono stati rinchiusi in centri per il rimpatrio: a Ponte Galeria, Brindisi, Palazzo San Gervasio. Le ragioni risultano perverse: tra queste la pubblicazione di foto “sospette”, o valutazioni discrezionali delle forze dell’ordine relativamente alle interviste rilasciate alla commissione per la protezione internazionale. Rinchiusi in Cpr per il solo fatto di essere gazawi o per aver parlato a favore della Palestina, questi uomini sono stati prelevati, imprigionati, in un attimo resi nulla e deprivati di ogni diritto, un trauma che ancora oggi segna le loro vite. La situazione negli ultimi mesi continua a peggiorare, con un attenzionamento feroce verso chi continua a portare in piazza la questione palestinese. Una spirale repressiva che sembra non aver fine e che lede la libertà di espressione soprattutto verso chi osa promuovere una narrazione alternativa a quella dominante, complice dello stato genocida di Israele. Questi tempi distopici richiedono grande  coraggio per continuare a mobilitarsi. Lo ha fatto Mohamed Shain che per questo rischia ora, concretamente, la morte. La negazione del genocidio e dei crimini di Israele, nonostante le testimonianze quotidiane dei palestinesi sotto assedio, dei giornalisti uccisi, delle immagini che arrivano attraverso canali social, delle accuse della Corte penale internazionale e dele relazioni e dichiarazioni dei rapporteurs o della relatrice speciale Onu per i territori palestinesi Francesca Albanese, rappresenta una delle più grandi vergogne della storia, di cui parleranno le future generazioni, pari alla violenza che continua a proseguire a Gaza e in Cisgiordania. Tante sono le realtà ed i gruppi che hanno espresso solidarietà nei confronti di Mohamed, mostrando la sua forza, evidenziando la sua capacità di promuovere dialogo tra realtà diverse, dialoghi che hanno innescato processi di  pacificazione e collaborazione con la comunità ebraica torinese e con le chiese valdesi, come dichiarato in un comunicato firmato circa un mese fa dove Mohamed viene lodato come esempio di dialogo interreligioso e promotore di una convivenza pacifica. Non solo, al fianco di Mohamed vi è anche il gruppo per il dialogo cristiano-islamico di Torino, che ha presentato una lettera al capo dello stato, Mattarella, in difesa di Mohamed e che così riferisce rispetto alla moschea di cui è imam: “Come la maggior parte dei centri culturali islamici della Città di Torino, la moschea di via Saluzzo è sempre stata aperta e collaborativa, ospitando iniziative che hanno coinvolto tutte le comunità, laiche e religiose, testimoniando concretamente e giorno dopo giorno l’impegno sincero della sua direzione, dell’imam e di tutti i fedeli nel senso del rispetto delle leggi, della pace e della cooperazione civile e inter-culturale. Auspichiamo perciò che il sig. Shahin possa essere rilasciato, che gli possa essere concesso di riprendere la sua permanenza in Italia e così la sua opera di dialogo e di solidarietà”.  In questi giorni numerosi sono stati i presidi di piazza a Torino, Caltanissetta, Milano, che hanno solidarizzato con Mohamed cui nel frattempo è stato convalidato il trattenimento e per il quale sono a lavoro gli avvocati Gianluca Vitale e Fairus Ahmed Jama, contro l’espulsione e l’incredibile diniego della commissione per la protezione internazionale. Una rete di docenti universitari e ricercatori e ricercatrici ha presentato un appello per Mohamed oggi: potete leggerlo a seguire e firmarlo a questo link. Per sottoscrivere la petizione promossa su Change.org invece si può cliccare qui. È nostro dovere rafforzare queste posizioni e continuare a chiedere che Mohamed venga immediatamente liberato, torni alla sua famiglia e nella sua comunità, a Torino, il prima possibile. (yasmine accardo)
Il cemento è fatto per sgretolarsi. Dentro il quadrilatero di Rozzol Melara a Trieste
(disegno di irene servillo) Sono a Trieste per lavoro. Alle persone dico che mi occupo dell’accoglienza per un noto festival cinematografico, ma in sostanza faccio l’autista. Devo trasferire gli ospiti in vari teatri e poi assicurarmi che non perdano il volo di ritorno. Non è un lavoro difficile, forse stancante, ma di positivo ha il metterti alla prova in varie situazioni. La principale difficoltà è quella di trovare parcheggio, soprattutto in una città piccola e ricca come questa. Ovunque mi giri vedo suv, berline e macchine costose, sembra che nessuno guidi utilitarie. Ogni volta che torno in questa città il pensiero va al tenore di vita. Le persone sono ben vestite, solitamente hanno una shopper di qualche boutique tra le mani. I palazzi sono bassi, curati, con bellissimi infissi colorati e piante verdeggianti dietro grandi finestre-balcone. Dopo giorni in continuo movimento i miei occhi si abituano a quella realtà fatta di pellicciotti, cappellini, caffè in vetro e attese ai semafori. Finisco per assuefarmi e neanche mi chiedo più dove siano finiti tutti gli altri: quelli che non parcheggiano e non vanno in boutique. Incontro Emanuela, una giornalista che trasporto dal lussuoso e centralissimo Hotel Modernist alla periferica e abbandonata Rozzol Melara. Deve fare una presentazione di un libro nella sede di un’associazione. Percorro i tornanti che dal centro portano verso il limite nord della città. Superata la zona residenziale mi si para davanti un gigantesco complesso brutalista: due scatoloni in cemento collegati da ponti in ferro e costellati da piccole finestre intervallate da giganteschi oblò. Percepisco una sensazione già nota. Sono attratto da quella struttura come da un morto in autostrada, che vuoi vedere e non vuoi vedere. Accompagno Emanuela e decido di addentrarmi. Ho poco tempo prima del prossimo pick-up. Mi rendo conto che quel tipo di complesso è qualcosa di contemporaneamente familiare e inedito. Il cemento delle pareti sta iniziando a macchiarsi e a formare lunghe lingue verdastre. Molte vetrate sono spaccate, i graffiti ricoprono le superfici interne, c’è un’intensa puzza di urina e pochissime persone: un’anziana con un carrello, un uomo con un cane. Mi addentro ancora di più, arrivo fino ai garage. Si accende automaticamente la luce generale, attivata da un qualche sensore. Ci sono molte macchine costose in fila: suv, berline, ecc. Un uomo in tuta e scarpe da ginnastica mi taglia la strada, a tracolla ha delle racchette da tennis. Entra in una Bmw e parte. Salgo la rampa di scale, passo in una delle uscite di emergenza che permettono l’ingresso nei palazzi dal garage. Mi ritrovo in un lungo tunnel con il pavimento in gomma, ai lati file di attività abbandonate. Un gruppo di ragazzi fumano una canna. Li supero e finisco in una piazza coperta all’incrocio di quattro vie. Seduti su un cubo in cemento, utilizzato come panchina, ci sono due anziani. Il signor Michele e il suo amico Giovanni. Chiedo se sono del posto e intanto mi accendo una sigaretta. «Noi sì, siamo nati qua – dice il signor Michele –. Qua l’ha fatta l’Atar, sarebbe l’azienda territoriale per l’edilizia. Ha fatto seicentoquaranta appartamenti, hanno cominciato nel ’69, hanno fatto mezza ala, poi hanno fatto l’altra, ci abitavano milleseicento persone in quasi novantamila metri quadri. Ma adesso sono cambiate le cose. Prima c’era un ufficio postale, c’erano un sacco di cose. L’hanno costruito gli architetti di Trieste, era un Ordine intero… trenta tra architetti e ingegneri. Il coordinatore era Celli, che aveva anche uno studio importante a Trieste. Doveva essere un paese nel paese, ma hanno fatto una cazzata. Il cemento è fatto per sgretolarsi, e qui si sta sgretolando tutto. L’idea di partenza era anche buona, i primi vent’anni ha funzionato. Adesso mi sembra solo un mostro di cemento, non c’è un cazzo». «Qui ci vive un po’ di tutto – continua Giovanni, l’amico –. Lo chiamano “il quadrilatero” quando parlano di cose ufficiali, ma è conosciuto anche come Bronx. Ci sono cose che non vanno bene, mettono gente che si dovrebbe recuperare. Non sanno dove metterla e la mettono qua, extracomunitari e zingari. Gira un po’ di tutto. Qua per fare politica costruiscono casone, palazzoni e se ne fottono di quelle vecchie, qualcuno gli dovrebbe dire: “Dio bono, sistema quello che c’era prima”, no? Lo fanno perché così possono dire che hanno costruito». Ora capisco la sensazione provata inizialmente. Quel richiamo che mi ha portato a scendere dall’auto, che mi ha fatto immergere nel quadrilatero di Rozzol Melara: come trovarsi davanti un sogno disatteso, una visione rimasta incompleta. L’idea di una schiera di ingegneri e architetti influenzati dalle teorie socio-architettoniche di Le Corbusier che hanno creduto di poter costruire una città fatta su misura dei cittadini, con tutto ciò che sarebbe servito, trascurando i fattori dell’identità e del rapporto con la “dimensione umana” che impallidisce all’ombra di un colossale blocco di cemento. Domando al signor Michele e al signor Giovanni come si vive oggi nel “quadrilatero”. «Qua aprono solo cose di comunità e associazioni, non ci sono attività. Provano a fare qualcosa per le persone, hanno aperto una biblioteca per i ragazzi un anno fa – risponde Michele –. Poi c’è un bar e basta, manco un panettiere, bisogna andare fuori, non c’è neanche una banca. Almeno c’è l’autobus che ti porta a Trieste, sono dieci minuti. Poi qua spendono un mare di soldi, stanno a spendere per cambiare gli ascensori, quindi bene, perché qui ci stanno dei vecchi come noi che capirà, come salgono su sti palazzoni? Ma sono cinquanta ascensori, strutture enormi… Quindi qualcosa la fanno. Ma poi è tutto pisciato. Gli extracomunitari, che per carità io non voglio giudicare, ma non si possono integrare, fanno le cose a cazzo e magari non hanno lavoro…». «C’era anche un’altra passerella, ma l’hanno tirata giù – ricomincia Giovanni –, hanno tolto dei ponti perché una decina si sono buttati giù. Sai, qui c’è gente che ha problemi, non c’è psicologo, non c’è niente, e si sono buttati giù dal ponte. Queste sono case popolari. I giovani non possono lavorare e magari si trovano i debiti o si sentono falliti. Io il mio l’ho fatto, prendo mille e quattro di pensione, non mi lamento. Sono del ’54, ho lavorato quarantadue anni e cinque mesi. Mi dispiace per loro. I giovani stanno impazzendo per questo, si fanno patologie, disturbi, io non riesco a fregarmene anche se sono vecchio». «Io ho fatto un po’ di tutto – continua Michele –. Sono andato in alto e poi sono andato in basso, nelle fabbriche sempre qua in zona. Poi sono andato in “mamma Rai”, mi ha mandato l’ufficio del lavoro. Però sempre meglio di quelli di adesso: un ragazzetto che era perito in telecomunicazioni doveva riparare una radio e non sapeva fare un cazzo. Ma dio bono, dico io, che si studiano questi? A che serve? Io sono radioamatore. Sono entrato in Rai con la terza media, sono andato a lavorare con le camere e con i registratori. Ma ci mandavano in posti a cazzo, sui campi minati… Eravamo in tre, giornalista, operatore e uno che segue per portare il necessario. Io portavo le cose, che sembrava avessi addosso un’armatura, quindici chili pesava quella roba là. Era faticoso, in due anni dieci persone se ne sono andate. Uno che è andato dove dovevo andare anch’io, qua vicino in Bosnia, gli è arrivato un missile ed è morto. Ho fatto bene ad andarmene, mi sono salvato, altro che. Gli davano dei soldi, ma ti sparavano, col cazzo che ci andavo, già normalmente camminavo sulle bombe…». Guardo l’orologio, è tardissimo. Ringrazio il signor Michele e il signor Giovanni e procedo a ritroso: passo dalla piazza al tunnel, discendo le scale di uno dei palazzi, taglio per un parchetto con delle giostrine, arrivo sulla strada ed entro in auto. Metto in moto e discendo i tornanti a velocità sconsiderata. Prima dell’ultima curva guardo lo specchietto retrovisore. Vedo i palazzoni in cemento scomparire dietro la montagna. (fabrizio ferraro)
Rischio idrogeologico, il caso Genova
Articolo di Claudio Marciano L’Italia è una repubblica fondata sul rischio idrogeologico. Sette milioni di persone vivono in zone esondabili, e circa due terzi delle frane censite a livello europeo si trovano nel nostro paese. Nelle sole città con più di 50.000 abitanti, Legambiente ha censito negli ultimi dodici anni 336 alluvioni, 1.346 allagamenti urbani e un numero imprecisato di frane non sistematicamente registrate. In questo quadro già fosco, c’è un caso che spicca per il suo lugubre primato: Genova. Qui, eventi estremi che altrove si manifestano sporadicamente avvengono con cadenza quasi annuale da almeno trent’anni. Questi eventi non hanno prodotto solo vittime e devastazioni, ma hanno accelerato il declino di leader politici locali, stimolato innovazioni organizzative e tecnologiche nella protezione civile, ispirato la nascita di associazioni e movimenti civici, e trasformato il modo in cui gli abitanti percepiscono il territorio. Genova, esposta ripetutamente allo stesso tipo di shock, è diventata – suo malgrado – un campo di osservazione privilegiato delle tensioni politiche e sociali che modellano la gestione del rischio naturale. Il caso genovese parla non solo di perché le alluvioni accadono spesso e causano danni rilevanti, ma anche di perché si prendono (o non si prendono) decisioni per affrontarne le cause. Inoltre, l’approfondimento del caso genovese è significativo perché mostra come la governance del rischio naturale sia un campo dove si manifestano i conflitti politici e sociali dell’adattamento ai cambiamenti climatici. Questo concetto, veicolato nell’arena delle policy come se fosse neutro, descrive, all’atto pratico, visioni politiche e interessi materiali divergenti che attengono le scelte su cosa finanziare, dove intervenire, come e chi includere nei processi decisionali.  Lo scorso 15 novembre la città è stata investita da una perturbazione particolarmente violenta: si sono registrati 62 allagamenti urbani, 14 frane e l’esondazione di un torrente. Dal mare è arrivata anche una tromba d’aria che ha sradicato dodici alberi e sollevato il tetto di un’officina del gestore dei rifiuti, causando danni a edifici e arredi pubblici. Questo episodio è stato il più grave, finora, del 2025, ma risulta di entità moderata rispetto a quelli che l’hanno preceduto. Dopo la tragica alluvione del 1970, in cui persero la vita 44 persone, le alluvioni hanno colpito nuovamente nel 1992 e nel 1993 i quartieri di Sturla e Prà, causando complessivamente sette vittime. Nel 2010 alcuni torrenti del Ponente hanno trascinato in mare un operaio, provocando danni per decine di milioni di euro. Nel 2011 l’esondazione del rio Fereggiano ha causato sei vittime, tra cui due bambine e la loro madre. Nel 2014 si è registrata una sola vittima, ma i danni provocati dall’esondazione del Bisagno sono stati nuovamente devastanti. La maggior parte di questi eventi ha determinato la dichiarazione dello stato di emergenza nazionale. Dal 2010, nella sola Genova, sono stati censiti danni ad abitazioni e imprese per oltre 240 milioni di euro, dei quali solo circa il 20% ha ricevuto ristori statali. La maggior parte di questi eventi ha cause simili. Le precipitazioni intense non sono solo episodi di «mal tempo», ma l’effetto più visibile e distruttivo dell’aumento delle temperature medie. Un’atmosfera più calda trattiene più vapore acqueo e, quando questa massa d’aria calda e umida incontra correnti più fredde, scatena fenomeni convettivi di violenza inaudita. Questi nubifragi si abbattono su un territorio reso vulnerabile dall’urbanizzazione: i numerosi corsi d’acqua che attraversano il Comune di Genova – oltre 150 – sono stati in gran parte tombati per far spazio a edifici, impianti produttivi e infrastrutture. Nelle aree collinari, l’abbandono dei terrazzamenti agricoli ha favorito la ricolonizzazione spontanea da parte del bosco, che non sempre garantisce stabilità sui versanti più ripidi. L’interazione di questi fattori riduce drasticamente il tempo di corrivazione dei bacini, ovvero l’intervallo tra l’inizio della pioggia e il raggiungimento della piena. Sociologi e psicologi dell’organizzazione sostengono che le strutture apprendono, quando riconoscono di aver fallito. Per anni, a Genova la risposta politica ai disastri è stata di naturalizzare le cause, negando o minimizzando le responsabilità antropiche, e di tecnicizzare le soluzioni, presentandole come dati di fatto derivanti da un sapere scientifico neutro. Quest’approccio ha iniziato a cambiare dopo l’alluvione del 2011, quando il 4 novembre persero la vita due bambine con la madre, una ragazza di 19 anni e altre due persone nello stesso tratto di via Fereggiano, strada che corre sopra il torrente tombato omonimo. La tragedia, la quarta in meno di dieci anni, ha profondamente scosso la città. Agli «angeli del fango», sono seguite manifestazioni e contestazioni. In una sentenza che ha fatto molto discutere ma anche creato un pesante precedente, la magistratura ha inquisito e poi condannato in sede penale l’allora sindaca Marta Vincenzi per non aver adottato provvedimenti adeguati malgrado l’allerta diramata. Il conflitto si è esteso anche sulle azioni di mitigazione. Nel 2012, associazioni e comitati della Val Bisagno hanno contestato la demolizione di un ponte settecentesco ritenuto un fattore di rischio idrogeologico, mettendo in evidenza l’assurdità di tale provvedimento quando, al contempo, il Comune autorizzava la costruzione di un centro commerciale nei pressi del torrente. In modo più o meno coercitivo, questi eventi hanno prodotto un apprendimento nel sistema locale di protezione civile, che ha portato all’introduzione di routine orientate a ridurre esposizione e vulnerabilità agli impatti delle alluvioni. Il Piano comunale e le mappe delle zone esondabili sono state aggiornate; sono stati potenziati mezzi e personale dedicato alle emergenze; è stato organizzato un presidio territoriale sui torrenti più a rischio; sono state censite le abitazioni al piano terra o interrate in aree esondabili ed è stato attivato un servizio di chiamata a chi vi risiede in caso di allerte rosse; sono stati elaborati piani di evacuazione nelle scuole e organizzate campagne di sensibilizzazione.  Le alluvioni di Genova sono state un fatto nazionale e hanno prodotto un apprendimento più ampio rispetto a quello locale. Dopo il 2011, il Dipartimento di Protezione Civile ha accelerato sull’attuazione del metodo Augustus per l’organizzazione dei Centri Operativi Comunali (Coc), e dopo il 2014 ha introdotto i sistemi di allerta a colori. Qualcosa avvenne anche sul finanziamento del rischio idrogeologico: dopo il 2011, il governo Monti stanziò 25 milioni di euro per la realizzazione dello scolmatore del Fereggiano, anche se per completare l’opera il Comune dovette aggiungere altri 15 milioni. Solo dopo l’alluvione del 2014, il governo Renzi creò Italia Sicura, che destinò a Genova circa 400 milioni di euro per la messa in sicurezza del Bisagno e la realizzazione dello scolmatore. La filosofia che ha ispirato quest’intervento, e più in generale il programma di Italia Sicura, è quella delle grandi opere idrauliche che agiscono sugli effetti a valle delle alluvioni (ovvero l’esondazione), anziché sulle cause a monte (abbandono dei terreni e restringimento degli argini). Il rifacimento della copertura del Bisagno alla Foce e l’abbassamento di due metri del torrente in quella sezione hanno aumentato i litri al secondo che il bacino può reggere. Tuttavia, i corsi d’acqua che richiederebbero interventi simili sono molti, e la trasferibilità di opere di questa scala è finanziariamente impossibile. Lo scolmatore del Bisagno, progettato a metà anni Duemila e finanziato nel 2015, è ancora lontano dall’essere completato, e le tempistiche più ottimistiche datano la fine lavori a dicembre 2027. Perché si investe a valle invece che a monte, pur essendo quest’ultimo l’intervento più efficace? A questa domanda decine di tecnici e amministratori rispondono essenzialmente in due modi: l’orizzonte breve dei cicli politici, che spinge verso soluzioni visibili rapidamente; e il diverso valore economico dell’esposto. Alla prima risposta si può credere fino a un certo punto: oltre a offrire un’interpretazione cinica della politica locale, è poco accurata, poiché queste opere risaputamente richiedono decenni per essere realizzate. La seconda risposta sembra cogliere degli aspetti più profondi. Il rischio idrogeologico non fa franare solo i versanti, ma anche i valori immobiliari. Per decenni, la principale linea di disuguaglianza della città è stata quella orizzontale, Levante/Ponente. Negli ultimi anni, la forbice più evidente si è aperta in senso verticale, tra centro e alture, tra costa e versanti interni. Il rischio idrogeologico colpisce entrambi, ma la gran parte degli interventi ha finora protetto soprattutto il valore delle aree costiere, lasciando più vulnerabili e svalutate le zone collinari. La governance del rischio naturale è attraversata da questa e altre fratture in cui interessi e valori si spingono in direzioni contrapposte, generando ritardi, timidezze e conflitti. Un’altra frattura è quella tra applicazione rigorosa delle misure di prevenzione e sostenibilità sociale. È un discorso simile a quello della Just Transition: l’auto-protezione è virtuosa, ma chi paga? In caso di allerta rossa, chi tiene i bambini a casa se le scuole chiudono? Chi sostiene lavoratrici e lavoratori precari che perdono lo stipendio? Quale credibilità hanno le istituzioni che chiedono ai cittadini di assicurare le proprie attività e abitazioni, ma al tempo stesso autorizzano interventi edilizi controversi vicino agli argini dei fiumi o alleggeriscono vincoli urbanistici per opere private? Su questo versante si collocano anche le «buone ragioni» di chi ha micro-interessi contrapposti alle opere di mitigazione del rischio. La geografa Sara Bonati ha mostrato come lavori finanziati da Italia Sicura – strade chiuse, cantieri di escavo, movimentazione di terre – abbiano generato conflitti anche tra i presunti beneficiari delle opere. Qui si posiziona una frattura che è ben nota a chi si occupa di DRM, quella tra i cittadini che contestano e le autorità che impongono. È la tragedia della non partecipazione. Politiche pubbliche efficaci solo sulla carta,  ma mai concordate e concertate con chi dovrebbe attuarle o esserne oggetto, innestano conflitti laceranti. Agli estremi, si coagulano due schieramenti: cittadini incazzati che arrivano a negare le ragioni degli interventi, amministratori e tecnici indignati, che rifiutano di confrontarsi con «gli ignoranti». L’apprendimento organizzativo è spesso legato all’esperienza diretta, ma può avvenire anche attraverso l’osservazione delle esperienze altrui. Nel campo del rischio naturale questo «apprendimento indiretto» sarebbe quanto mai auspicabile, ma si verifica raramente. La storia di Genova, e quella di tanti altri luoghi esposti al rischio naturale, dimostra infatti che l’apprendimento segue quasi sempre le catastrofi, e che spesso non ne basta una, ma devono ripetersi, perché qualcosa cambi. Questo deficit di apprendimento indiretto non riguarda solo il rischio idrogeologico. Nel 1995 a Chicago – come ha raccontato magistralmente il sociologo Eric Klinenberg – in cinque giorni morirono oltre 700 persone per una grave ondata di calore. Nel 2003, a Genova (e in tutta Italia) si è verificato qualcosa di molto simile: la combinazione di caldo e umidità per tre settimane di fila ha aumentato il tasso di mortalità (ad Agosto 2003 a Genova morirono 1.020 persone, rispetto alle 650 della media annuale), in particolare fra gli anziani poveri e socialmente isolati, e il tutto è emerso solo quando i servizi funerari sono entrati in crisi per l’assenza di bare. Vent’anni dopo, malgrado le ondate di calore costituiscano ormai una norma delle estati mediterranee, una policy strutturata contro il rischio da caldo non esiste ancora: le misure per proteggere i lavoratori più esposti sono recentissime, dipendono da ordinanze contingenti e rimangono labili; la cura delle vulnerabilità continua a essere delegata all’«auto-protezione». Ci sono però eccezioni, che mostrano come si possa apprendere anche senza pagare il prezzo di perdite e danni. Ad esempio, il sistema di presidio territoriale implementato a Genova dopo le alluvioni, basato su monitoraggio in tempo reale dei torrenti tramite sensori, telecamere e squadre di volontari, ha ispirato una direttiva nazionale della Protezione Civile ed è stata replicata da altri Comuni. Dopo le tremende alluvioni dell’Emilia-Romagna del 2024, alcuni dirigenti del Comune di Bologna hanno cercato attivamente scambi di esperienza con Genova. Probabilmente, osservando da vicino la vita quotidiana dei sistemi locali di protezione civile, si scoprirebbe un certo «sperimentalismo» in azione. Ciò che manca è, forse, una cornice strutturale: non un semplice osservatorio di buone pratiche, ma una governance sperimentalista – sul modello teorizzato da Charles Sabel per la transizione energetica – in cui un’autorità sovralocale, come il Dipartimento di Protezione Civile Nazionale, fissi obiettivi vincolanti e ambiziosi, lasciando agli attori locali la libertà di trovare le soluzioni migliori, ma imponendo momenti pubblici di revisione e l’obbligo di adottare i metodi più efficaci.  *Claudio Marciano è ricercatore in sociologia dell’ambiente e del territorio presso il Dipartimento di Scienze politiche e internazionali dell’Università di Genova. Una parte delle riflessioni proposte in questo articolo sono il frutto di un lavoro di ricerca collettivo, tuttora in corso, condiviso con le colleghe Cecilia Paradiso, Giusy Imbrogno, Margherita Rago, Sergio Lagomarsino e Andrea Pirni. L'articolo Rischio idrogeologico, il caso Genova proviene da Jacobin Italia.
Maltrattamenti ai disabili nel centro Stella Maris. Per i giudici i dirigenti non hanno responsabilità
(disegno di andrea nolè) Il processo di primo grado per i maltrattamenti nei confronti degli ospiti della struttura per persone con disabilità di Montalto di Fauglia, gestita dalla fondazione Stella Maris in provincia di Pisa, si è concluso, dopo sette anni di dibattimento, il 4 novembre scorso con dieci condanne agli operatori e alle operatrici e cinque assoluzioni. Due operatori sono stati assolti. Assolti anche il direttore sanitario e le due dottoresse responsabili della struttura. Il dispositivo sposa quasi a pieno la tesi che la Stella Maris aveva caldeggiato sin dall’inizio, tanto che la giudice Messina ha condannato penalmente solo gli esecutori materiali delle violenze. Evidentemente non poteva farne a meno: le immagini degli abusi e dei maltrattamenti erano e restano inequivocabili. L’assoluzione dei dirigenti medici, figure apicali dell’organizzazione, vorrebbe rappresentare un segnale chiaro: i piani alti non si toccano. Alla Stella Maris è stata però riconosciuta una responsabilità civile da quantificare in un futuro processo civile, qualora lo decideranno le famiglie. E questo non è poco. Innanzitutto, perché per molti mesi si è rischiato che il processo rimanesse impantanato sino alla prescrizione, tanto era stata lenta, e rallentata scientemente in una prima fase, la successione delle udienze. Poi perché, almeno in primo grado, una forma di responsabilità, anche se solo civile, è stata riconosciuta alla Stella Maris. Alla Fondazione spetta infatti il pagamento delle spese processuali, anche di quelle spettanti agli operatori condannati, qualora questi non fossero in grado di sopperire autonomamente. Il “noi non c’entriamo nulla” che trapela dal conciliante comunicato del presidente della Fondazione (che si conclude con uno goffo appello al “Bene” con la B maiuscola) andrebbe pertanto riconsiderato in questa prospettiva. Rimane lì, infatti, a testimoniare un malcelato imbarazzo nei confronti di una vicenda che ha gettato non poco discredito sulla sbandierata “eccellenza” dell’“istituto di ricovero e cura a carattere scientifico”. La sentenza, tuttavia, non soddisfa la richiesta di giustizia che le famiglie si sarebbero aspettate dopo anni di attesa. La tesi del pubblico ministero, che assegnava alle dottoresse la responsabilità maggiore per le violenze perpetrate all’interno della struttura, è stata ribaltata. Colpevole non è chi aveva assunto personale non qualificato, chi deteneva la gestione della struttura, chi doveva vigilare. Colpevole è, ancora una volta, solo chi agiva in prima linea e lì si è “sporcato le mani”. Rimangono impuniti i responsabili, assolto è chi doveva occuparsi della formazione del personale, non colpevoli penalmente sono state considerate tutte le rappresentanze della filiera di gestione e organizzazione che avrebbe dovuto occuparsi della presa in carico e della cura dei ragazzi con disabilità. Il primo a uscire di scena è stato il direttore generale Roberto Cutajar: dapprima condannato con rito abbreviato a due anni e otto mesi, poi assolto in appello con la motivazione che “le responsabilità della gestione e delle assunzioni andavano ricercate altrove”, una motivazione fondata sul fatto che Cutajar era il responsabile dell’intera Stella Maris e non solo del presidio di Montalto. Le responsabili effettive della sede Stella Maris di Montalto sono state in seguito individuate quindi nelle due dottoresse, ma anche loro, alla fine, sono state ritenute non condannabili (si attendono sul punto le argomentazioni nella motivazione della sentenza). Rimane inevasa una domanda cruciale: ma allora, chi decideva a Montalto? Chi ne presiedeva la gestione e il controllo? Un velo di omertà ha coperto sin dall’inizio le vicende di un processo di per sé clamoroso, che avrebbe dovuto avere una ribalta nazionale. Si è trattato infatti del più grande processo per maltrattamenti a persone con disabilità nella storia d’Italia, eppure le telecamere sono state tagliate fuori sin dalla prima udienza. Secondo la giudice non sussisteva alcuna rilevanza sociale per un evento di questa portata: ventiquattro famiglie, diciassette imputati, oltre duecentottanta episodi di violenza registrati dalle impietose microcamere (posizionate esclusivamente negli spazi comuni) in tre mesi. Coerentemente con questa impostazione, la giudice ha pensato bene di emettere la sentenza a porte chiuse, in presenza di soltanto alcune famiglie, come se per i sette lunghi anni della durata del processo l’aula fosse stata assediata da orde di parenti scomposti e irrispettosi. In realtà, mai un urlo di sdegno, mai un commento sopra le righe si è levato nell’aula. Non davanti alle immagini delle sevizie dei propri cari, quando qualche genitore ha preferito uscire dall’aula piuttosto che inveire; non di fronte alle testimonianze di chi con arroganza parlava di “buffetti di simpatia”, “linguaggio colorito”, “strumenti inadeguati di relazione” da parte degli operatori; non di fronte a un consulente di parte che impunemente affermava che “quelle persone non sono neanche in grado di provare dolore”; e neppure quando, come se fosse una cosa normale, è venuta a galla l’aberrazione dei “tappeti contenitivi”, comprati all’Ikea e spacciati come un “presidio di civiltà”, per “evitare i lividi sui pazienti” prodotti dai consueti strumenti di contenzione fisica (strumenti di contenzione che intanto continuavano a essere utilizzati, producendo fratture e traumi vari). Di fronte a questa galleria degli orrori il pubblico e i parenti hanno mantenuto un atteggiamento fin troppo rispettoso: lacrime e dolore soffocato, nel rispetto di chi avrebbe dovuto assicurare loro una parvenza di giustizia. Solo al termine della requisitoria del pm Pelosi, nella quale erano state individuate motivazioni e responsabilità di tanta violenza a partire dalle figure apicali, si è levato dai banchi in fondo (luogo di costante presenza delle parti civili) un applauso lungo e liberatorio. Ciò che emerge dal processo, ma non dalla sentenza, è che la Stella Maris sapeva. Risultano agli atti violenze compiute nella struttura sin dal 2002. Nel 2009 un altro operatore aveva mandato al pronto soccorso un ospite per una ecchimosi e una frattura a un dito. Nel 2014 lo stesso avrebbe schiaffeggiato e schiacciato con le ginocchia un adolescente (davanti a questa denuncia il direttore Cutajar avrebbe sospeso il responsabile, senza licenziarlo). Dalle intercettazioni telefoniche, le dottoresse responsabili della struttura lamentavano di aver denunciato più volte i dipendenti violenti: “Questi quattro stronzi dovevano essere mandati via illo tempore perché noi abbiamo fatto tutte le segnalazioni all’istituzione, la quale si è ben guardata dal procedere…”. Ancora più inquietanti i messaggi dei genitori alla giornalista della Rai Maria Elena Scandaliato, che provava a intervistarli: “Io ho paura. Me lo dico da sola che è una cosa sbagliata, ma io c’ho mio figlio lì dentro…”. D’altronde anche il tono degli scambi telefonici tra i dirigenti della Stella Maris, era questo: “I genitori sono ambigui, però io voglio dimettere tre persone, per dare un segnale ai genitori eh… Perché loro devono stare attenti!”¹.[1] Il tutto, mentre la struttura di Montalto di Fauglia propagandava sé stessa con queste parole, tratte dalla sua Carta dei servizi: “La nostra filosofia di intervento è ‘prenderci cura’ oltre che curare, ascoltare e coinvolgere sia il paziente che i familiari. […] La nostra organizzazione è centrata sul modello del piccolo gruppo di pazienti condotto da educatori professionali e da assistenti con funzioni educative, che fungono da ‘io ausiliario’ o ‘compagni adulti’ dei pazienti, che li supportano concretamente e psicologicamente in ogni atto della vita quotidiana. I programmi di trattamento sono differenziati sia sulla base dei protocolli che sulla base delle caratteristiche individuali di ogni ragazzo che è visto come portatore di affetti, bisogni emotivi, aspirazioni, competenze”. HANNO VINTO I POTENTI Medici e sanitari dei reparti psichiatrici hanno avuto la conferma di quella sorta di scudo penale che spesso li protegge nell’esercizio delle loro funzioni. Troppe volte come Collettivo Artaud abbiamo assistito alla cerimonia inconcludente della giustizia dei tribunali. Questa sentenza assolutoria è solo l’ennesima di una lunga serie, con la conseguenza che all’aumento della presunzione di intoccabilità corrisponde un incremento del ricorso agli strumenti più controversi della pratica psichiatrica di derivazione manicomiale: elettroshock, contenzioni, Tso. La Fondazione (privata) Stella Maris continuerà a ricevere contribuzioni di milioni di euro dalla Regione Toscana, che intanto si era guardata bene dal costituirsi parte civile al processo. Al contrario, si era anzi premurata di premiare l’eccellenza Stella Maris con il Gonfalone d’argento, massima onorificenza toscana, nello stesso 2021 in cui il processo era nelle sue fasi più calde. D’altronde, Stella Maris continua a investire: 27.830 metri quadri su quattro livelli, quarantaquattro camere per la degenza, altrettanti ambulatori, cinquanta sale per l’osservazione terapeutica, ventiquattromila metri quadri di parco. Sono queste le cifre del nuovo ultramoderno ospedale che sorgerà a Pisa, zona Cisanello. L’inizio dei lavori è stato inaugurato in pompa magna da sindaco, vescovo e autorità varie, compreso il presidente della Regione, quelle stesse autorità che non hanno rivolto nemmeno una parola alla famiglie, di fronte allo scempio del dolore e delle immagini dei maltrattamenti e di un processo che è andato avanti per anni. Certo, non si può sospettare di chi agisce per conto del Bene: “Nei nove anni che sono trascorsi dai fatti di Montalto di Fauglia ­– afferma ancora il comunicato di Stella Maris emesso dopo la sentenza ­– abbiamo impegnato tutte le nostre energie per migliorare sempre più le nostre attività riabilitative. Il nostro compito è sempre quello di dare il meglio con professionalità e soprattutto con il cuore, imparando dagli errori”. A Marina di Pisa, intanto, la struttura che sostituisce Montalto di Fauglia da quando è stata chiusa, il personale è sì cambiato, ma non vi può entrare nessun visitatore, neanche i genitori o i parenti dei ragazzi (gli ospiti vengono accompagnati all’esterno quando i familiari vanno a prenderli). Nel frattempo, all’interno di altre strutture, dove nessuno entra e dove non è previsto alcun tipo di controllo, storie simili a quelle della Stella Maris continuano a ripetersi, riproponendo i dispositivi delle istituzioni totali. Imperia (Villa Galeazza), Manfredonia (Stella Maris), Foggia (Opera Don Uva), Como (Comunità Sacro Cuore), Cuneo (Cooperativa Per Mano), Ivrea (Ospedale di Settimo Torinese), Siracusa (strutture per disabili e anziani), Bologna (Villa Donnini), Perugia (Centro Forabosco), Decimomannu (Centro AIAS), Brescia (Comunità Shalom), tanto per citare solamente i casi più recenti: botte, violenze, contenzioni meccaniche, maltrattamenti, insulti, umiliazioni. Giustizia insomma non è fatta: le pratiche manicomiali sopravvivono intatte e, malgrado le promesse della legge 180, continuano a seminare dolore; le strutture che le utilizzano, continuano a presentarsi all’esterno come paradisi di accoglienza e cura, mentre la giustizia dei tribunali volge lo sguardo altrove, di fronte ad abusi perpetrati da un modello di psichiatria obsoleto e fallimentare (collettivo antipsichiatrico antonin artaud) ______________________ ¹ La Storia di Mattia in una puntata di Spotlight (Rai News 24)
Contronarrazioni urbane: quando il linguaggio diventa strumento di resistenza
Il seminario Comunicare politiche urbane. Pratiche e metodi di contronarrazione urbana ha messo al centro della discussione il ruolo delle narrazioni nella costruzione della città contemporanea. Le narrazioni, per loro stessa natura, non possono essere neutre, e, nella città neoliberista, … Leggi tutto L'articolo Contronarrazioni urbane: quando il linguaggio diventa strumento di resistenza sembra essere il primo su La Città invisibile | perUnaltracittà | Firenze.
Emergenza sanitaria e sovraffollamento. Il carcere di Matera visto da dentro
(archivio disegni napolimonitor) La scorsa estate, a seguito di ripetute tensioni createsi all’interno del carcere di Matera, una certa attenzione mediatica si concentrava sul funzionamento dell’istituto e sulle sue criticità. Dopo una visita alla casa circondariale, la garante regionale per i detenuti Tiziana Silletti denunciava una situazione insostenibile in termini di sovraffollamento, con 197 detenuti a fronte di 132 posti (dato coerente con quello di tutte le strutture della regione Basilicata, che si attesta sul 144 per cento). Poche settimane dopo, l’associazione Luca Coscioni, che aveva lavorato a un report sulla situazione sanitaria delle carceri della regione, comunicava che l’azienda sanitaria materana non aveva fornito alcuna documentazione a dispetto della richiesta di accesso civico agli atti. Con il passare dei mesi, a dispetto di una situazione rimasta pressappoco immutata, l’interesse per le condizioni del corpo detentivo dell’istituto materano sembra essersi sopito. Nel tentativo di rialzare il livello di attenzione su quanto accade in quel carcere, e ovviamente in tanti altri istituti del paese, pubblichiamo a seguire un resoconto della dottoressa Maria Clara Labanca, medico penitenziario e membro dell’associazione Yairaiha. *     *     *  Celle sovraffollate, personale sanitario insufficiente e accesso alle cure estremamente limitato: questa è la realtà quotidiana del carcere di Matera. La struttura, progettata per centotrenta posti, ospita stabilmente oltre centosettanta detenuti, con punte superiori alle duecento unità. In questo contesto, il diritto alla salute dei detenuti risulta sistematicamente compromesso. Il presidio sanitario funziona in maniera frammentaria. La mattina non è presente alcun medico, e a volte il peso della gestione di casi clinici complessi ricade sugli infermieri, costretti a intervenire senza supervisione diretta. Le visite mediche, effettuate nel pomeriggio, si svolgono in modo molto concitato a causa della carenza di personale di polizia che limita gli spostamenti dei detenuti. Questo comporta un aumento del rischio di diagnosi incomplete, visite superficiali e ritardi nella presa in carico di patologie rilevanti. Di notte, tutte le emergenze ricadono su un unico medico, senza supporto infermieristico, compromettendo ulteriormente la capacità di intervento tempestivo. La salute mentale dei detenuti è un ambito particolarmente critico. Lo psichiatra effettua interventi solo due ore a settimana, a fronte di un numero elevato di soggetti con disturbi psichici spesso associati a problemi di tossicodipendenze. In assenza di percorsi terapeutici strutturati, molti di essi vengono trattati con psicofarmaci senza adeguato inquadramento diagnostico, aumentando il rischio di effetti collaterali e senza risolvere le problematiche esistenti. Inoltre, alcuni agenti penitenziari esercitano pressioni indebite sui medici affinché somministrino sedativi o ipnotici, trasformando il trattamento psichiatrico in strumento di controllo piuttosto che in intervento terapeutico. Non sono neanche infrequenti episodi di tensione tra personale sanitario e di polizia penitenziaria, di fronte a un rifiuto da parte del medico nella prescrizione di questa tipologia di farmaci. La carenza di supporto psicologico e di personale qualificato determina un peggioramento dei disturbi psichici, con ricadute sulla sicurezza interna e sul benessere dei detenuti. Le visite specialistiche rappresentano un ulteriore fattore di criticità. Consultazioni come quelle gastroenterologiche, infettivologiche o oculistiche possono richiedere mesi di attesa, talvolta oltre un anno. Le carenze nell’ambito del Nucleo Traduzioni, incaricato di accompagnare i detenuti agli appuntamenti esterni, provoca rinvii sistematici. Anche quando l’azienda sanitaria fissa regolarmente gli appuntamenti, questi spesso non vengono rispettati perché non viene presa visione delle comunicazioni e delle prenotazioni, privando i detenuti delle cure pianificate. Molti detenuti si trovano in condizioni di grave criticità clinica a causa di patologie acute o croniche, ma la presa in carico è frequentemente ritardata o inadeguata. Il trasferimento verso strutture idonee è subordinato alla produzione di documentazione che attesti l’incompatibilità con il regime detentivo, determinando ritardi nell’accesso a interventi sanitari appropriati e, in alcuni casi, esiti clinici sfavorevoli. Le strutture e le attrezzature sanitarie risultano insufficienti. Mancano cartelle cliniche informatizzate, dispositivi diagnostici e terapeutici adeguati e personale specializzato in grado di utilizzarli. La combinazione di infrastrutture carenti e organico ridotto compromette la tempestività nell’identificazione e nel trattamento delle patologie, riducendo significativamente la qualità della presa in carico sanitaria. Il sovraffollamento e la carenza di personale di sicurezza aggravano ulteriormente la situazione. Le quattro sezioni della struttura – Accoglienza, Giudiziario, Sirio e Pegaso – ospitano centinaia di persone in spazi inadeguati e obsoleti. Le carenze di personale complicano la gestione dei piantonamenti ospedalieri e delle udienze, spesso impossibili da svolgere tramite collegamento da remoto. Tuttavia, il carcere di Matera è solo l’emblema di un sistema penitenziario in crisi. Sovraffollamento, carenze di personale e un presidio sanitario inadeguato espongono quotidianamente i detenuti a rischi clinici significativi. Senza interventi strutturali urgenti, la detenzione rischia di trasformarsi in un tempo sospeso, in cui i diritti fondamentali, primo fra tutti quello alla salute, restano sistematicamente negati. (maria clara labanca)
Riarmo e propaganda. In gita al Villaggio Esercito di Napoli
(disegno di otarebill) Venerdì 15 novembre, rotonda Diaz, le dieci del mattino circa. Da lontano si può vedere un caccia che taglia il cielo alle spalle di Castel Sant’Elmo, mettendo in fuga i gabbiani. Sono a Villaggio Esercito, un’iniziativa promossa dall’esercito italiano, patrocinata dal comune di Napoli e dalla regione Campania. Per la celebrazione dei suoi duemila e cinquecento anni, la città ha scelto di raccontare la propria storia con diciassettemila metri quadri di potenza militare: un parco tematico della difesa dove il soft power si mimetizza nella fiera promozionale. «Buongiorno a tutti! Siamo in diretta su Radio Esercito da una Napoli che ci accoglie sempre calorosamente, vero Benito?», apre uno dei radio conduttori.   «Assolutamente, guarda quanta gente! Ricordiamo gli appuntamenti della mattinata…». In realtà, solo pochi e sparuti avventori si accostano alla quindicina di stand, ben distanziati uno dall’altro. L’area è delimitata da due grandi porte gonfiabili su cui si legge “ESERCITO ITALIANO”. Tra gli avventori c’è qualche scolaresca elementare e superiore. Le giacche di generali, ammiragli e colonnelli sono tutte una gara di coccarde, medagliette e gradi militari. Per l’inaugurazione sono presenti l’assessore alla legalità ed ex prefetto Antonio De Iesu, il generale di corpo d’armata Gianpaolo Mirra ed il viceministro degli affari esteri Edmondo Cirielli. Quest’ultimo, impegnatissimo a stringere mani, è in corsa per la presidenza regionale a capo della coalizione di centrodestra, con la lista civica “Moderati e Riformisti”. Qualcuno si ricorderà di lui per il tentativo di istaurare un “principato di Salerno”, altri per la lunga militanza in Alleanza Nazionale e poi in Fratelli d’Italia, o ancora per le polemiche suscitate da alcune sue dichiarazioni in odore di apologia di fascismo (Cirielli ha sostenuto che “il tratto distintivo più profondo [del fascismo] era uno spirito di libertà straordinario”). Ad eccezione della rappresentanza istituzionale, le persone si muovono con circospezione negli spazi allestiti. C’è un’aria tesa, forzosamente bonaria. Gli stand presentano i modelli più aggiornati di macchine da guerra, robot, i droni più disparati. Mi raccontano che lo Strix‑DF può operare come “occhi volanti”: può identificare obiettivi, sorvegliare aree sensibili, controllare movimenti e inviare dati. Il Raven DDL è un micro‑UAV tattico progettato per fornire sorveglianza ravvicinata e in tempo reale alle unità sul terreno. Ci sono poi i cosiddetti droni “anti-contagio” CBRN, velivoli senza pilota progettati per monitorare e campionare minacce chimiche, biologiche e nucleari in aree contaminate. Nella rotonda intanto sfilano i pachidermici veicoli tattici blindati (VTMM) “Orso” e “Lince”. Il messaggio è chiaro: la “difesa” si espone al grande pubblico. Un investimento di immagine in cui la celebrazione civica si confonde con una fiera campionaria del business bellico. Secondo il Documento Programmatico Pluriennale il bilancio della Difesa per il 2025 è di circa 35,5 miliardi di euro. Alcune stime che considerano anche le spese “in chiave NATO” (Borsa Italiana/Radiocor/ TGCOM) arrivano a 45,3 miliardi per lo stesso anno, comprendenti armamenti, ammodernamenti e investimenti strutturali per le Forze Armate. In tutto, l’incidenza delle spese militari sul Pil italiano raggiunge l’1,5 per cento, non così distante in fondo dal 3,9 investito in istruzione (la media Ocse per quest’ultima voce è di 4,7).  Gran parte di questi fondi è destinata all’acquisto dei caccia F‑35 della statunitense Lockheed Martin, partner di Leonardo Spa, che sponsorizza l’evento. È una flotta di novanta aerei, per un costo complessivo tra i quattordici e i sedici miliardi di euro, la cui manutenzione e operatività nel tempo impegnerà ulteriori risorse. Il vero boom riguarda però i droni: circa seicentosettanta milioni di euro per gli MQ-9B Sky Guardian, anche detti “Mietitori”, e oltre settecento per i Piaggio Hammerhead. Cifre che evidenziano una scelta politica di campo, con implicazioni concrete per la collettività in termini di gestione della spesa pubblica. All’improvviso, un cane robot verde militare fa capolino sull’asfalto della rotonda, alle sue spalle c’è la banda che scandisce le prime note di una fanfara. Mi avvicino a due insegnanti che accompagnano una classe delle superiori, chiedo perché abbiano scelto quest’iniziativa per una gita scolastica: «È stata una scelta della dirigente», mi risponde con scoramento una di loro, l’altra fa spallucce. Per attraversare il piazzale passo accanto a un gigantesco elicottero nero, l’A129 “Mangusta”, col mitragliatore puntato. Alle sue spalle due militari mettono gli elmetti a quattro studentesse per visitare un anticarro. Una passante fuma una sigaretta, affacciata sullo spicchio di spiaggia antistante alla rotonda. L’aria è  quella di una calda mattinata autunnale, tre signori prendono il sole, mentre una donna fa il bagno. I tre mettono un po’ di musica da una radiolina, i gabbiani sono in acqua. Mi avvicino al banchetto del reclutamento dove presenziano le accademie militari locali e nazionali. La marescialla illustra le differenti modalità di ingaggio, mette l’accento sulla semplicità e l’accessibilità dei percorsi occupazionali a tutti i livelli, “con o senza laurea”. Mi mostra i due chat-bot dal sito dell’esercito, si chiamano Atena ed Ettore e mi possono aiutare nelle procedure e con la modulistica. Una ventina di bambini col berretto giallo delle gite si avvicina. Io invece mi allontano dal centro della fiera, schivando un paio di piccoli automi a quattro ruote, che scorrazzano sul cemento. Il cane robot balla impacciato sulle note di O’ Surdato ‘Nnammurato cantata da Massimo Ranieri e passata da Radio Esercito. (edoardo benassai)
Bagnoli, Coppa America e colmata. Dal disastro politico a quello ambientale
(archivio disegni napoli monitor) Gli articoli sulla “questione Bagnoli” pubblicati da Monitor nei suoi vent’anni di attività editoriale hanno dovuto necessariamente addentrarsi in diversi ambiti di analisi: le trasformazioni urbane (quelle pianificate e quelle spontanee), l’indecente spreco di risorse pubbliche (si parla di circa novecento milioni di euro), le carriere di amministratori e politici che da lì sono partite o lì si sono fermate (Bassolino, Fico, de Magistris), le condizioni di vita degli abitanti, i fenomeni sociali come la gentrificazione e la turistificazione del quartiere, l’intersezione di tutte queste questioni tra loro, e persino con i recenti accadimenti generati dalla incapacità (o non volontà) nel gestire fenomeni naturali come la crisi bradisismica.  Difficilmente per nostra attitudine, e perché crediamo ci siano altri luoghi e persone più titolate a farlo, abbiamo ritenuto di pubblicare articoli che entravano nel dettaglio dei contenuti scientifici, che pure, in relazione alla mancata o parziale bonifica del sito ex industriale, nonché al futuro sviluppo dell’area, hanno una certa importanza. Quando l’abbiamo fatto è stato sempre in un’ottica divulgativa, provando a semplificare le questioni senza azzerarne le complessità, utilizzando un linguaggio e uno stile comprensibile.  È per questo che pubblichiamo oggi quest’articolo scritto da Benedetto De Vivo e Maurizio Manno (rispettivamente professori ordinari di geochimica ambientale e di medicina del lavoro) già comparso ieri su Anteprima24. Ci pare importante, pur nel suo registro scientifico, per la capacità di spiegare quanto sta succedendo in queste settimane a Bagnoli, e come il disastro politico in atto (la modifica di leggi che imponevano il ripristino della morfologia della costa a uso balneare, la mancata rimozione della colmata a mare, la pericolosa “velocizzazione” di alcuni interventi per permettere lo svolgimento della Coppa America di vela) possa contribuire a creare un disastro ambientale se possibile ancora maggiore di quello già esistente sul territorio. *     *     * Sul tema della bonifica di Bagnoli, anche alla luce delle recenti informazioni comunicate dal sindaco Manfredi in consiglio comunale (24 settembre 2025), abbiamo discusso in un capitolo di carattere tecnico-scientifico su libro internazionale in pubblicazione da Elsevier (De Vivo et al., 2026, in stampa). Ovviamente non spetta a noi entrare nel merito di decisioni di carattere politico, e tantomeno in quelle, a esse collegate, di carattere economico. Ci focalizziamo, invece, nella sintesi che segue, solo sugli aspetti tecnico-scientifici della vicenda in corso, in particolare sulle metodiche più sicure ed efficaci da utilizzare per la bonifica e sui potenziali rischi per la salute dei cittadini che si potrebbero determinare a seguito di scelte tecnico-scientifiche non ottimali circa la metodica da utilizzare. In precedenti nostri interventi sono state illustrate le due migliori tecnologie oggi disponibili a livello internazionale. Quella del desorbimento termico in-situ (Istd) e quella ex-situ (Estd), tecniche che operano sostanzialmente allo stesso modo: entrambe riscaldando i contaminanti organici fino a quando non si volatilizzano, separandosi così dal suolo (per una descrizione esaustiva di Istd e Estd rimandiamo a: Baker & Kuhlman, 2002; Khan et al., 2004; The United States Environmental Agency, 2017; Zhao et al., 2019; Xu & Sun, 2021; De Vivo, 2024b; 2025a, b). Nel sopracitato consiglio comunale, il prof. Manfredi, ha dichiarato che la necessità tecnica impone la non rimozione della colmata (in violazione della legge n.582 del 18 novembre 1996, che ne avrebbe invece imposto la rimozione, con relativa ricostruzione della spiaggia pubblica). Si tratta di una decisione politica, non tecnica. La colmata potrebbe in realtà essere facilmente rimossa (come previsto dalla legge) dopo aver eliminato ipa, pcb e idrocarburi totali con trattamento di desorbimento termico in-situ (Istd) e utilizzando poi i terreni bonificati per la copertura delle aree interne. Se, d’altra parte, decisioni politiche dovessero imporre che la colmata non debba venir rimossa, sia le aree interne che i sedimenti marini antistanti la colmata potrebbero anch’essi essere  bonificati utilizzando l’Istd. In ogni caso, sulla base delle dichiarazioni del sindaco, sembra che non verrà effettuata alcuna bonifica nell’area della colmata, ma solo la messa in sicurezza, coprendola con una platea impermeabile su cui è prevista la costruzione di strutture necessarie per l’America’s Cup. Sembra quindi che la bonifica della colmata stessa verrà effettuata dopo la fine dell’America’s Cup. Questa scelta appare tuttavia incomprensibile. Se la decisione di mettere in sicurezza l’area della colmata è stata già presa, perché non fare un intervento definitivo? Successivamente all’impermeabilizzazione permanente della sua superficie (prevista attualmente solo come misura temporanea) e poi all’”isolamento-tombamento” dell’intera area, sarebbe infatti possibile costruire sul lato mare una barriera fisica permanente (palancole) per impedire la migrazione in mare e, quindi, nei sedimenti marini, degli inquinanti organici presenti. Una volta “tombata” la colmata, i sedimenti marini potrebbero essere bonificati mediante Istd, una tecnica già utilizzata a questo scopo in Danimarca. Per quanto riguarda in particolare la tecnica di bonifica da utilizzare, sembra tuttavia che sia già stata programmata l’Estd (non siamo a conoscenza delle stime dei costi) per tutti i suoli di Bagnoli. Una società internazionale, specializzata in tecnologia di Istd e Estd, ha indicato un costo totale approssimativo, per la tecnologia Istd, di circa centoventi milioni di euro: sessanta per l’area della colmata e sessanta per i sedimenti marini a fronte della colmata. Per i suoli a monte e per sedimenti marini più a largo della colmata fino al golfo di Pozzuoli sempre con Istd, si potrebbe fare solo una valutazione, prendendo a riferimento, i costi indicati per la superficie dell’area della colmata. Pensiamo sia, in questa fase, un esercizio inutile. CONSIDERAZIONI SU RISCHIO TOSSICOLOGICO E SANITARIO PER I RESIDENTI L’area di Bagnoli, su cui si pianifica di procedere con Estd (e non con Istd) e per cui è prevista una massiccia movimentazione di terreni pesantemente inquinati da ipa e ocb, è adiacente al mare del golfo di Pozzuoli. È facilmente prevedibile, che ipa e pcb, attualmente relegati nei suoli e nei sedimenti marini, se mobilizzati in area prospiciente il mare, possano diffondervisi. Gli ipa, combinandosi con il cloro (Cl), producono dei derivati, gli ipa clorurati, che sono più tossici dei composti d’origine. In particolari condizioni (combustione incompleta) possono formarsi diossine, sostanze notoriamente cancerogene-mutagene. Inoltre, gli stessi ipa e pcb, se si combinano con lo stagno (Sn) o il mercurio (Hg), formano sostanze altamente tossiche: rispettivamente il dibutil- e tributil-Sn e il metil-Hg. Lo stagno, un elemento di per sé dotato di bassa tossicità, è sempre presente nelle rocce del vulcanismo napoletano, unitamente al berillio (Be) e al tallio (Tl), mentre il mercurio è più legato a processi di idrotermalismo (è il caso dei Campi Flegrei). Circa vent’anni fa uno degli autori di questa nota (B. De Vivo), ha riscontrato nei sedimenti marini antistanti i cantieri navali di Castellammare la presenza di dibutil- e tributil-Sn (lo stagno è presente nelle rocce vulcaniche sia del Vesuvio che dei Campi Flegrei). Gli effetti tossici per l’uomo conseguenti l’inquinamento marino è un’eventualità ben documentata in letteratura. Ricordiamo un caso classico, negli anni Cinquanta e Sessanta, di grave inquinamento ambientale prodotto dalla combinazione di composti organici con mercurio, nella Baia di Minimata, Giappone. L’inquinamento, di origine industriale, provocò la malattia di Minamata, scoperta per la prima volta nel 1956, determinò gravi intossicazioni negli abitanti e fece incrementare notevolmente l’incidenza di decessi per cancro nella popolazione della baia (Timothy, 2001). Fu causata dal rilascio, dal 1932 al 1968, di metilmercurio nelle acque reflue da parte dell’industria chimica Chisso Corporation. Il metil-Hg, altamente tossico e cancerogeno, si accumulò nei molluschi, nei crostacei e nei pesci della baia, entrando nella catena alimentare e causando così l’avvelenamento degli abitanti del luogo, inclusi numerosi decessi. Si intervenne sulle sorgenti dei composti organici, chiudendo l’industria chimica Chisso Corporation e vietando del tutto la pesca nella baia di Minamata. I danni ambientali e sulla salute della popolazione sono persistiti per decenni e continuano ancora oggi ad avere effetti, anche sociali, sulle comunità locali. La rilevanza di queste considerazioni rispetto ai programmi di bonifica del sito di Bagnoli, pur oggettivamente distanti, nello spazio e nel tempo rispetto al contesto di specie, risiede nel fatto, oggi consolidato, che il patrimonio di conoscenze tossicologiche acquisite dai disastri ambientali pregressi fanno parte del bagaglio di informazioni utili e necessarie per conseguire scelte lungimiranti e prudenti, oltre che rispettose della legge. La valutazione del rischio sanitario per la popolazione residente o lavorativa e, quindi, per definizione, potenzialmente esposta, per motivi residenziali e/o occupazionali, all’assorbimento di livelli di contaminanti tossicologicamente rilevanti impone, prima di qualsivoglia decisione operativa, di considerare tutti i possibili scenari di rischio, anche i più improbabili, ancorché possibili. A tal riguardo assumono particolare significato le diverse modalità di esposizione compatibili con le attività residenziali, commerciali e balneari presenti e future sul sito di Bagnoli, ovvero quelle per inalazione, ingestione ed esposizione cutanea. Sia Istd che Estd possono potenzialmente produrre inquinanti atmosferici secondari, come le diossine che si formano durante la distruzione termica dei gas di scarico contenenti molecole organiche come ipa e pcb in presenza di cloro. La tecnologia Estd è più versatile e può trattare contaminanti meno volatili, ma richiede scavi e trasporto del terreno, che comportano un rischio maggiore di inquinamento atmosferico (formazione di diossine, per i cittadini che vivono nelle aree circostanti il sito contaminato se non vengono progettati e implementati adeguati controlli ingegneristici e sanitari). La pratica ingegneristica di bonifica richiede un’attenta pianificazione e giudizio, soprattutto quando si bonificano discariche di rifiuti, come la colmata, situate in prossimità di un’area densamente popolata e adiacenti alla costa. Tale rischio è comunque molto più elevato durante gli scavi e i movimenti del terreno necessari per Estd. Negli ultimi 20 anni, l’Estd è quasi ovunque vietato se i siti da bonificare sono in prossimità di aree urbanizzate. Nel caso di Bagnoli, il sito industriale dismesso è parte integrante della città di Napoli, con l’aggravante di essere localizzato in riva al mare (con conseguente incremento di rischi per la salute umana a seguito di balneazione). Nelle aree urbanizzate viene infatti generalmente privilegiato l’Istd. Per determinare quale opzione sia più conveniente per la colmata, sarebbe necessario sviluppare prima progetti concettuali per ciascuna delle due opzioni, Istd e Estd, ciascuno concepito per raggiungere gli stessi obiettivi di bonifica, garantendo però al contempo adeguati livelli di sicurezza per la salute umana e dell’ambiente durante e dopo la bonifica. Una soluzione assolutamente da non tentare è, comunque, il dragaggio di sedimenti marini, fortemente contaminati da ipa, pcb e pesticidi organoclorurati (Ocp) (Minolfi et al., 2018). Le dichiarazioni del sindaco Manfredi indicano tuttavia che il dragaggio sia già programmato sul fronte della colmata. Il dragaggio di sedimenti marini, fortemente contaminati da ipa, pcb e ocp, causerebbe l’amplificazione del disastro ambientale in tutta la baia di Bagnoli, fino al golfo di Pozzuoli, dove sono registrati comunque elevati superamenti delle soglie limite di legge (Dm 56/09) per ipa totali, 15 congeneri e per pcb totali – con plumes di dispersione immediatamente al largo della colmata che sono da cento volte (nel golfo di Pozzuoli) a mille volte (nella baia di Bagnoli) più elevati, (Minolfi et al., 2018); il rischio è quello di dover vietare del tutto la pesca sia nella baia di Bagnoli che nel golfo di Pozzuoli. Nella baia di Bagnoli, oltre che per ipa e pcb, si registrano poi valori elevati per ventiquattro congeneri di ocp (pesticidi)¹. Sulla phytoremediation, una tecnica sperimentale basata sull’uso di piante per la decontaminazione di suoli inquinati, presentata come una innovazione ma in realtà ben nota nell’esplorazione mineraria da decenni, non c’è molto da dire. Riguarda solo alcuni specifici metalli e con ben precise limitazioni. Non esiste comunque alcuna specie vegetale che possa assorbire tutti i contaminanti, siano essi inorganici o organici. In più, ipa e pcb sono recalcitranti, alias non vanno in soluzione, quindi sono assolutamente non “estraibili” con phytoremediation, e comunque certamente non con piccoli arbusti con radici di pochi centimetri, visto che ipa, pcb, e idrocarburi totali, nel sito di Bagnoli, si trovano fino a cinque metri di profondità (De Vivo, 2025b). Ciò detto, il problema di inquinamento da metalli non esiste a Bagnoli (De Vivo et al., 2021; 2024). I metalli (non esiste chimicamente la categoria dei metalli pesanti!) sono naturali (da sorgenti idrotermali, vedi Lima et al, 2001, 2003) oppure industriali (da loppe e scorie di altoforni). Quelli naturali, da sorgenti termali, non sono bonificabili: si tiene semplicemente conto dei valori background, naturali. Quelli di origine industriale sono invece ossidati, alias non sono bio-disponibili, quindi di scarsa rilevanza per la salute umana (rimandiamo a De Vivo et al., 2026, in stampa). Concludendo, sulla base dell’evidenza disponibile in letteratura e di quella raccolta sul campo, nell’arco ormai di un trentennio dalla dismissione degli impianti industriali a oggi, il desorbimento termico in-situ appare la metodica più indicata per la bonifica o, per meglio dire, ribonifica del sito di Bagnoli (De Vivo et al., 2021), e in particolare dell’area relativa alla colmata. ____________________________ ¹La campionatura e le analisi, da cui sono derivate le mappe di distribuzione in Minolfi et al (2018) furono eseguite fra novembre 2004 e marzo 2005, da Icram/Ispra.
Scampia, una scuola occupata per Gaza (e non solo)
(disegno di francesca ferrara) Oltre il cancello del civico 255 di viale della Resistenza, a Scampia, proprio di fronte al parco dedicato a Ciro Esposito, c’è un edificio grigio e imponente, con appena qualche murales a regalare un po’ di colore. In queste giornate d’ottobre c’è però qualcosa di diverso. Si respirano adrenalina e tensione, e a dar vita al Melissa Bassi sono gli striscioni alle ringhiere, i cartelloni a sostegno della Palestina, le scritte che chiedono giustizia e pace. Nei corridoi della scuola occupata si intrecciano voci, passi, risate e discussioni: ogni angolo sembra trasformato. Agli studenti e alle studentesse è stato ricordato in tutti i modi che stanno facendo “qualcosa di illegale”, ma la determinazione che li guida rende la loro azione più di una semplice protesta. Da decenni in Palestina le bombe distruggono case, ospedali e scuole. I luoghi dell’educazione e dell’istruzione, dove si dovrebbero formare le generazioni del futuro, vengono oggi rasi al suolo, proprio come i sogni di chi li abitava. È anche pensando ai loro coetanei, distanti solo qualche migliaio di chilometri, che nasce la scelta degli studenti di occupare. Per reagire a una ingiustizia, spiegano, e per dire che il diritto all’esistere non è mai scontato. Da quasi quarant’anni nessuno occupava l’istituto. Eppure, dal 27 ottobre al primo novembre, le studentesse e gli studenti si sono riappropriati degli spazi della scuola: assemblee permanenti, turni di vigilanza e per le pulizie; discussioni, mani che si alzavano, voci che si sovrapponevano e trovavano, pian piano, un accordo: «Abbiamo ritenuto doveroso far sentire la nostra voce – dice una delle studentesse protagoniste dell’occupazione – e utilizzare la scuola in modo da farci eco». I muri dell’edificio sono i primi testimoni delle loro intenzioni: striscioni e cartelloni rendono visibile ogni richiesta e ogni denuncia. Su uno, scritto a mano con vernice rossa, si legge: “Per Mimì, Dario e Francesco: giustizia!”, in un richiamo alla carcerazione di tre attivisti che sono stati per tre giorni e tre notti in prigione dopo aver interrotto una fiera a cui partecipava una multinazionale del farmaco israeliana, coinvolta nel genocidio. Sebbene nei talk show e sui giornali si racconti un’altra storia, quella che alcuni chiamano “guerra” non è mai finita: le ripetute infrazioni del governo sionista al cessate il fuoco continuano a provocare la morte di centinaia di civili palestinesi. «Studiare è un diritto, non un privilegio di pochi», si continua a dire nelle assemblee e nei laboratori dell’occupazione, accomunando le condizioni di chi vive in questi territori e quelle di chi a scuola non può andarci perché gliel’hanno distrutta. Nei sei giorni di occupazione al Melissa Bassi si sono susseguiti incontri con l’Unione degli Studenti di Napoli, con la rete Liberi di Lottare, con realtà del territorio come Chi rom e… chi no! o come il MOSS (Ecomuseo Diffuso di Scampia), oltre che un confronto con Mirella La Magna del Gridas, storica voce del quartiere. Visibile, era, la sua emozione, nel poter parlare a ragazzi e ragazze di Scampia, in un luogo che per anni aveva sperato di vedere vivo e partecipato. Ha parlato con discrezione, ricordando le lotte per ottenere le prime scuole nel quartiere e invitando a non fermarsi, a costruire una rete capace di andare oltre le mura scolastiche. «Non dobbiamo dividere il mondo in buoni e cattivi — ha detto — ma capire le cause, le responsabilità, e restituire qualcosa di ciò che, per caso, abbiamo avuto in più rispetto agli altri». Ogni incontro è diventato occasione per provare a tenere insieme il tema della scuola con quelli del lavoro, della guerra diffusa, dei diritti delle persone. Anche Dario, quando è uscito dal carcere di Poggioreale, è passato per Scampia: una chiacchierata semplice ma intensa, con le ragazze e i ragazzi, per parlare di solidarietà e repressione, e di come sia importante in certi momenti non sentirsi soli. Eppure proprio la scuola, troppo spesso, tende a reprimere invece di accogliere, a uniformare invece di valorizzare le differenze. Molti studenti hanno raccontato la difficoltà, ogni anno, di affrontare le spese per libri, i materiali, i contributi economici cosiddetti “volontari” ma invece sempre più obbligatori, che diventano fonte prima di soggezione e poi di esclusione per molti e molte. «La scuola dovrebbe insegnarci a conoscerci e a capire gli altri, non solo a prepararci al lavoro», ha detto una di loro, facendo riferimento ai Pcto, i percorsi per le competenze trasversali e l’orientamento, una volta chiamati “alternanza scuola-lavoro”. L’idea è semplice: far sperimentare agli studenti il mondo del lavoro, integrare l’esperienza pratica a quella teorica. Nella realtà, però, questi percorsi nascondono rischi concreti. In Italia, negli ultimi anni, non sono mancati incidenti durante tirocini e stage: ragazzi e ragazze hanno perso la vita per carenze nella sicurezza. Al tempo stesso, molte scuole sembrano trasformarsi in centri per l’impiego, dove la formazione rischia di ridursi a semplice addestramento al lavoro, senza spazio per la conoscenza. Già nel primo giorno di occupazione, il collettivo della scuola aveva diffuso un comunicato chiaro e diretto, che allarga lo sguardo oltre le mura del Melissa Bassi: un testo che parla di periferie e precarietà, di abbandono scolastico e marginalizzazione, del sapere come frontiera di classe e del silenzio complice degli adulti: “Occupiamo anche per denunciare la condizione materiale e simbolica in cui versa la scuola pubblica, in particolare nelle periferie come Scampia, dove tantə ragazzə sono costrettə al precariato, al lavoro nero e all’abbandono scolastico. Non perché manchi la voglia di studiare, ma perché il carolibri trova rifugio dietro le mura del privilegio”. D’altronde quest’occupazione non nasce dal nulla, è il frutto di un fermento che, da mesi, attraversa un quartiere in cui l’impegno civile e la solidarietà hanno radici profonde. Le tante associazioni e realtà politiche del territorio rivendicano un posizionamento chiaro sul genocidio dei palestinesi, ribadendo che la questione non è iniziata il 7 ottobre, ma nei decenni di occupazione che l’hanno preceduto. A partire da settembre, anche tra la comunità docente è cresciuta la necessità di ribadire la propria posizione: come formatori e formatrici del pensiero critico delle nuove generazioni, in molti hanno sentito il dovere di unirsi in un coordinamento di insegnanti dell’area nord di Napoli, con l’obiettivo di sensibilizzare studenti e studentesse che, in un contesto periferico, spesso non sono pienamente consapevoli di ciò che li circonda. Il coordinamento ha organizzato laboratori, ha aperto spazi di discussione all’interno del quartiere, ha incentivato la partecipazione di studenti e studentesse, pratiche in qualche modo in relazione con ciò che è accaduto dopo qualche tempo a scuola. Lo stesso preside del Melissa Bassi ha scelto di non rispondere con la chiusura, ma con l’ascolto: «L’importante è comunicare – ha spiegato – perché se non comunichi “l’altro” diventa “il nemico”.  L’obiettivo di noi adulti non dev’essere punire, ma capire: costruire un dialogo, anche faticoso, per trasformare il conflitto in un’occasione di crescita». L’occupazione si è conclusa il primo novembre. Nei corridoi sono rimaste domande più che risposte, ma anche la sensazione che la scuola possa ancora essere un luogo di partecipazione e conflitto. Nei giorni seguenti, alcuni docenti hanno raccontato che, tornati in classe, studenti e studentesse hanno chiesto il loro aiuto per capire meglio cosa stesse accadendo in Palestina e nel mondo. Forse la scuola può ancora produrre pensiero, quando viene attraversata collettivamente. (pasquale frattini)