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Il Tar dà ragione alla rete contro le zone rosse. Annullata l’ordinanza del prefetto di Napoli
(disegno di cyop&kaf) Il Tribunale Amministrativo Regionale della Campania ha annullato l’ordinanza del prefetto di Napoli che prorogava il divieto di stazionamento nelle cosiddette “zone rosse” cittadine, misura ispirata da una direttiva del ministro Piantedosi dello scorso dicembre. Il Tar ha giudicato “l’esercizio del potere prefettizio privo dei necessari presupposti, illegittimo e lesivo dei principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale”. La sentenza dichiara che non vi era alcuna emergenza eccezionale, né alcuna motivazione nuova a giustificare l’uso reiterato di poteri prefettizi straordinari. Si tratta di un piccolo grande colpo alla politica di trasformazione dell’eccezione in prassi, che si è concretizzato grazie a una rete di attivisti, tecnici, studenti e lavoratori che si è riunita in città negli ultimi mesi, autorganizzando una mobilitazione all’interno della quale il piano legale è solo uno dei livelli. Stella Arena e Andrea Chiappetta, gli avvocati che si sono occupati del ricorso, spiegano: “Il Tar ha riconosciuto che le ordinanze del prefetto erano illegittime e violavano principi costituzionali. Dopo mesi di contenzioso, viene sancito un principio fondamentale: il potere straordinario non può diventare regola ordinaria. Il diritto non può piegarsi a logiche di emergenza permanente. La decisione ristabilisce il primato della Costituzione sull’arbitrio amministrativo”. L’ordinanza del 31 dicembre 2024 prevedeva un divieto di stazionamento in determinate aree della città di Napoli per soggetti che erano stati destinatari di una segnalazione all’autorità giudiziaria per un certo tipo di reato (tra cui spaccio, rissa, occupazione di edifici) o che avevano assunto atteggiamenti minacciosi o molesti. Il team legale aveva invece denunciato che i provvedimenti “contingibili e urgenti” che l’articolo 2 dell’ordinanza consentiva, hanno come presupposto l’esistenza di “situazioni di carattere eccezionale e imprevisto non suscettibili di essere affrontate con gli strumenti ordinari previsti dall’ordinamento”. Devono però, in quanto atti extra ordinem, avere “un’efficacia temporanea e limitata nel tempo e risultare ragionevoli e proporzionati”. In ogni caso, il ricorso specifica che anche il provvedimento del dicembre 2024 (e non soltanto la sua proroga) non mira a far fronte a una situazione eccezionale e imprevista, ma a situazioni ordinarie, stratificate nel tempo o che si ripropongono ciclicamente; tanto l’ordinanza quanto la sua proroga, inoltre, non risultano giustificate da “alcuna recrudescenza in forme impreviste e particolarmente gravi, di fenomeni di degrado o illegalità in relazione alle cosiddette zone rosse individuate dall’amministrazione”. Viene infine rilevata l’irragionevolezza nell’individuazione dei soggetti destinatari del divieto: da un lato, per la scelta stessa dei reati, dall’altro per il fatto che la sola denuncia, in assenza di una condanna, “non può giustificare una presunzione di pericolosità sociale”. A ciò si aggiunge infine il carattere di indeterminatezza delle condotte, censurata per la discrezionalità che concede alla polizia nell’applicare il divieto e perché viola “i principi di tipicità e determinatezza che dovrebbero accompagnare il provvedimento amministrativo allorché vada ad integrare una norma penale”. La rete di associazioni e collettivi politici ha ribadito che “le libertà personali non possono essere compresse per ordinanza e che nessuna direttiva ministeriale può derogare, neanche di fatto, ai principi di uguaglianza, legalità, presunzione di innocenza e proporzionalità”. (redazione) 
Il modello Milano, oltre le inchieste
Articolo di Alessandro Coppola Le inchieste sulla  gestione dell’urbanistica e dell’edilizia a Milano hanno portato in primo piano il tema del governo delle trasformazioni urbane. È l’occasione per fare il punto criticamente, al di là dei risvolti giudiziari, sul cosiddetto «modello Milano» di governo urbano.  La riduzione giudiziaria dei fenomeni sociali e politici è fenomeno ormai consolidato in Italia e non è tanto funzione delle caratteristiche dell’azione giudiziaria, bensì soprattutto dei gravissimi deficit degli attori politici e culturali nel politicizzare questioni che, appunto, finiscono per politicizzarsi solo per via giudiziaria. Se invece la questione milanese intendiamo politicizzarla, possiamo muovere da diverse prospettive.  Prima di tutto, si tratta di capire chi ci ha guadagnato, da un modello di sviluppo basato sulla valorizzazione immobiliare, quali gruppi sociali sono stati coinvolti e quali esclusi. Per poi approfondire il modello di governo che ha reso possibile tutto ciò nella fase post–expo, e le possibili alternative in campo. VINCENTI E PERDENTI DEL MODELLO MILANO La prima prospettiva, ormai consolidata, è quella relativa al modello di sviluppo – o meglio dire di accumulazione – della città e degli squilibri distributivi che ha generato. Si tratta di un modello nel quale l’accumulazione per via fondiaria e immobiliare ha assunto un peso crescente fino a diventare il principale fattore strutturante dell’intera economia urbana (e più precisamente il fattore cui gli altri settori economici devono pagare un contributo crescente). Un modello che vede alcuni gruppi sociali vincenti, altri naturalmente perdenti, e nel mezzo una sempre più difficile definizione di cosa sia l’interesse pubblico, o meglio collettivo.  Fra i vincenti vi sono sicuramente le élite economiche e finanziarie che si sono riposizionate a presidio di quello che David Harvey definisce quale il secondo circuito del capitale, ovvero quello immobiliare, ma anche una parte cospicua di ceti medi e superiori che, in modi diversi, hanno potuto partecipare agli imponenti processi di valorizzazione immobiliare che si sono prodotti in questi due decenni. Infatti, il grande capitale organizzato non è come ovvio l’unico attore di questa fase dell’evoluzione di Milano, pensarlo è errore comune di rappresentazioni manichee di come si sia strutturata questa fase della traiettoria della città (e delle città). La proprietà diffusa, e in particolare quella di valore elevata concentrata fra i ceti medi e superiori che a Milano hanno un peso specifico ben più rilevante che altrove, rappresenta il lato tribunizio, di massa, di questo modello di accumulazione. Com’è ovvio, pensare che il 70% delle famiglie residenti in proprietà siano tutte parte dei vincenti, e soprattutto vincenti nello stesso modo, è infondato: fra gli stessi proprietari, a Milano e ancor di più fra questa e la sua area metropolitana, le diseguaglianze si sono allargate, complice anche un sistema fiscale che programmaticamente ignora le dinamiche di mercato. Tuttavia, non si può non considerare il vantaggio economico e simbolico che parte dei ceti medi e superiori locali hanno tratto da questa fase del capitalismo urbano. Al di là dei vantaggi finanziari, l’immaginario di una città moderna, di fatto tendenzialmente esclusiva ma simbolicamente attraente perché tecnologicamente avanzata, sostenibile alla micro-scala dell’alloggio o del vicinato, e che assicura una persistente valorizzazione degli investimenti ha avuto e tuttora esercita un forte carica egemonica su un ampio spettro di classi sociali. Ed è tale carica egemonica a rendere sempre complessa la visibilizzazione delle implicazioni negative di tale modello, anche per i ceti che ne traggono qualche vantaggio finanziario immediato.  Nel concreto, i gruppi sociali vincenti di questo ciclo li troviamo fra i proprietari di abitazioni in zone in via di forte valorizzazione – perché le avevano comprate prima, o perchè le hanno ereditate – o perché disponevano di redditi elevati o patrimoni cospicui, che hanno permesso loro di acquistare immobili che realisticamente andranno continuamente apprezzandosi nel tempo. Con un prezzo medio delle compravendite realizzate in città ormai arrivato a 400.000 Euro (Dato Omi-Agenzia delle Entrate, 2025), il disporre di un patrimonio cospicuo ha fatto di Milano – in una misura senza precedenti – la città che meglio illustra la centralità crescente dei patrimoni nella riproduzione sociale, tendenza che come noto coinvolge i capitalismi di tutto il Nord Globale ma che in Italia diventa estrema per via della stagnazione dell’economia e della dinamica dei salari.  Per restare a Milano oggi occorre essere parte dei ceti superiori oppure dei ceti medi patrimonializzati, ovvero i ceti medi che ereditano un alloggio oppure il capitale per acquistarlo: essere ceto medio dal punto di vista esclusivamente dei redditi o del capitale culturale non è più sufficiente per accedere alla proprietà. Tuttavia, e questo va sottolineato, la città proprietaria ha bisogno che vi siano popolazioni mobili per la sua stessa riproduzione e valorizzazione. E questa è la fonte principale del conflitto sociale, in gran parte implicito, fra rigidità del modello proprietario e l’altra dimensione essenziale del capitalismo urbano contemporaneo, ovvero la sua necessità strutturale sia di lavoro cognitivo sia di lavoro nei servizi a basso valore aggiunto. Lavoro che – considerate le sue condizioni di strutturale precarietà e i bassi redditi – vive invece prevalentemente in affitto. E anche, in quota consistente, non residente.  La democrazia locale quindi, non solo a Milano, è sempre più una democrazia proprietaria, che di fatto esclude centinaia di migliaia di abitanti, perché non residenti o irregolari, i quali sono prevalentemente in affitto (la base di legittimazione delle amministrazioni comunali a Milano corrisponde, fra forme di esclusione de jure e astensionismo di massa dei ceti popolari, a una frazione ampiamente minoritaria della città reale). In altre parole: tutti gli abitanti creano valore, solo una parte se ne appropria, e ancora meno decidono come governarne la creazione e distribuzione.   LA CAPITALE MORALE DELLA RIPRODUZIONE DI CLASSE PER VIA  IMMOBILIARE Su Milano si sono riversate grandi masse di investimenti immobiliari, sempre di più organizzati nella forma di tecnologie finanziarie avanzate – fra le quali, i Real Estate Investment Trust (Reit), che raccolgono capitali di diversa provenienza – ma, non dimentichiamolo, anche di una quota crescente del risparmio nazionale delle famiglie di ceto medio-superiore italiane. L’arrivo di quote crescenti di giovani qualificati ha portato con sé gli investimenti immobiliari aggregati delle loro famiglie: in un paese particolarmente familista come l’italia il cosiddetto brain-drain significa anche capital-drain intergenerazionale, da territori periferici a territori centrali. Quindi, dal punto di vista dei meri benefici finanziari che discendono dalla remunerazione dei patrimoni immobiliari, il blocco sociale del ciclo immobiliare espansivo di Milano è molto ampio e trans-scalare perché unisce una forte base locale che potremmo definire nativa, a una quota ovviamente minoritaria ma significativa di ceti medio-superiori del resto del paese e infine una serie di attori finanziari e immobiliari di medie e grandi dimensioni.  La città è diventata il terreno principale della riproduzione di classe per via immobiliare dei ceti medio-superiori dell’intero paese. Considerato il tradizionale policentrismo di quest’ultimo –  Roma, fino alla crisi del 2008, esercitava una capacità attrattiva pari o superiore a quella di Milano – si tratta di un grande fatto sociale. Sebbene, in relazione a questi ultimi, si faccia molta retorica su Milano porta degli investimenti globali, il dato forse più importante degli ultimi vent’anni è in realtà la nazionalizzazione di Milano, e in particolare della sua borghesia. Alzando lo sguardo alla scala nazionale, si capisce bene chi siano i perdenti di questo processo: gli altri territori urbani che hanno iniziato a soffrire questa sovra-polarizzazione su Milano (circostanza che spiega una crescente insofferenza, anche al Nord, fra i pezzi di borghesia che decidono di non milanesizzarsi). NON  C’È UN’UNICA STRADA PER GOVERNARE LE TRASFORMAZIONI URBANE  Se questo è vero non bisogna però commettere l’errore di sottovalutare l’impatto che i medi e grandi attori del capitale finanziario e immobiliare hanno avuto sul cambiamento del modello di governo della città.  La capacità di tale capitale di plasmare i processi sociali e organizzativi, a partire da quelli istituzionali, è stato forse il principale fattore di cambiamento della politica della città. Il capitale finanziario-immobiliare implica rapidità, tempestività, permanente capacità di adattamento, e più questo si fa tendenzialmente transnazionale – come effettivamente capitato a Milano negli ultimi anni – e più, naturalmente, è definito dalla sua mobilità, o ancora più precisamente, dalla propaganda della sua mobilità e dalla conseguente minaccia di andare altrove. Di fronte a esso, sebbene in un quadro assai costretto e con capacità d’azione assai limitata, chi controlla le amministrazioni locali può percorrere varie strade. La prima è quella di lasciare che la logica di tale capitale sia fattore egemonico di governo sgombrando il campo da quasi qualsiasi mediazione, se non quelle rimovibili solo a condizione di un deciso e risolutivo cambiamento dell’ordine politico (è il motivo per cui le petro-monarchie costituiscono il contesto ideale per il grande capitale finanziario immobiliare). La seconda al contrario è mobilitare le istituzioni locali per fare l’opposto di quanto la mobilità del capitale richiederebbe, ovvero rallentare, selezionare e diversificare. Che significa, essenzialmente, condizionarne e quindi contenderne l’egemonia: promuovendo discussioni pubbliche al fine di imporre criteri di selezione degli investimenti privati; istituendo contro-poteri istituzionali che possano contrastarne il monopolio dei processi di trasformazione urbana; imponendo forme di forte prelievo pubblico sul valore generato dalle trasformazioni urbanistiche per impiegarlo in investimenti che vadano in direzioni opposte a quelle che la sua logica di accumulazione invetiabilmente preferisce. La terza e ultima strada consiste nell’impedire loro l’accesso, preservando il monopolio di attori immobiliari di vecchio tipo – quelli che potremmo definire palazzinari relativamente localizzati e non molto finanziarizzati – o percorrendo strade molto radicali, quali quelle del congelamento di qualsiasi attività edilizia. Questa terza strada può rivelarsi problematica, perché in quanto meramente difensiva può avere effetti distributivi paradossali: avere un sistema immobiliare dominato da palazzinari tradizionali, come è il caso di altre città italiane, non è garanzia di maggiore equità distributiva, e le politiche di decrescita attraverso il congelamento dell’attività edilizia – come dimostrano molti casi specie negli Usa – si sono spesso rivelate funzionali alle strategie di preservazione del valore immobiliare e dell’esclusività sociale di città e territori. Per questa ragione, quando forze progressiste hanno ottenuto il controllo di amministrazioni locali, hanno solitamente battuto la seconda strada, diversificando il campo degli attori immobiliari in direzione del rafforzamento di attori pubblici e cooperativi, e contrastando i comportamenti speculativi sul mercato attraverso nuove regolazioni. E, attraverso tutto questo, rendendo visibili all’opinione urbana i processi dell’economia immobiliare e quindi i processi di pianificazione, al fine di renderli contendibili. Come si vede, sono queste strategie eminentemente politiche in quanto istituenti, nel senso che intendono modificare il campo degli attori e trasformare gli istituti e le logiche attraverso le quali si realizzano le trasformazioni urbane. Sono quindi strategie che affermano anche un determinato modello di governo, contestualmente a un diverso modello di accumulazione. In altri tempi, questo tipo di strategia sarebbe stata definita riformista, ma oggi sarebbe definita – specie in Italia – con pseudo-concetti quali ideologica o massimalista, circostanza che dà la misura di come si sia ristretto il campo delle opzioni politiche percepite come politicamente accettabili. Mentre, a essere definito riformista, è bizzarramente la scelta della passività politica di fronte al dispiegarsi delle logiche del capitale, piccolo, medio e grande che sia. IL POST-EXPO. MODELLI DI ACCUMULAZIONE E MODELLI DI GOVERNO A Milano, il significato del post-Expo – spesso presentato quale spartiacque delle magnifiche e progressive sorti del ciclo immobiliare ascendente – risiede piuttosto nel suo costituire la giuntura critica nella quale si è risolutamente scartata l’ipotesi di un modello di governo riformista (nell’accezione che ne ho dato sopra).  In quel frangente critico, la città – e la classe dirigente che la governava – poteva prendere strade diverse, e scelse quella che più chiaramente riconosceva l’egemonia del capitale finanziario e immobiliare vedendovi il principale fattore di sviluppo e governo della città. Ma tale egemonia aveva necessità di un modello di governo sempre più verticale e sempre più latamente tecnocratico, e facente leva da una parte su network sempre più sofisticati di attori privati, e dall’altra su una crescente tecnicizzazione degli stessi esecutivi politici. Tecnicizzazione che ha raggiunto il suo apice nel corso di questo mandato consiliare, ma che era stata già avviata in modo deciso con l’elezione di Giuseppe Sala (a suo modo un «tecnico». Questo avveniva peraltro in un contesto nel quale negli anni precedenti l’enfasi francamente liberista sul mercato e la sussidiarietà, espressione di una destra molto coesa e culturalmente attrezzata quale quella lombarda degli anni Novanta e Duemila, aveva già devoluto quote crescenti di decisioni e politiche ad attori economici professionalmente assistiti.  In questo quadro, il salto di scala – sia nazionalizzazione sia internazionalizzazione – del capitale coinvolto in operazioni immobiliari a Milano ha condotto alla formazione di attori e network con capacità organizzative e competenze largamente superiori a quelle degli attori pubblici che, nel frattempo, né si rafforzavano né si innovavano. La massa enorme di investimenti arrivata a Milano, nel solco delle politiche di sostanziale dumping promosse sia a livello cittadino sia regionale, ha così largamente ecceduto la capacità dell’amministrazione comunale di trattarli. Ed è parso naturale che una parte crescente di questi fosse devoluta – attraverso l’espansione e diversificazione di strumenti di partenariato pubblico-privato – a dei meccanismi di pressoché totale esternalizzazione e automazione decisionale, che hanno contribuito all’ulteriore svuotamente dei poteri delle istituzioni locali.  Tale svuotamento ha contribuito a indebolire la legittimità e necessità di attori collettivi, a partire dai partiti: se gli oggetti che dovrebbe trattare, avendo devoluto una quota crescente di decisioni all’esterno, si assottigliano e restringono, la politica non dispone più di una funzione chiara e in particolare della sua funzione «istituente». Il sempre più largo ricorso a funzionari o professionisti senza partito nelle amministrazioni, circostanza apparentemente paradossale in presenza di un partito di maggioranza reputato forte e radicato (a Milano), è stata una manifestazione potente di queste evoluzioni. Inserendo tecnici, professionisti ed esperti di ogni tipo – che, diversamente dalla retorica che li disincarna, sono assai incarnati in legittimi sistemi di potere – gli esecutivi politici acquisiscono non solo degli individui competenti ma anche dei network di relazione e il capitale politico che ne deriva, che come evidente non deriva dall’attività politica ma da altri tipi di attività.  Nella microfisica degli interessi questi network e capitali diventano forze potenti, molto difficili da scalfire, specie se la politica le cede il posto e se nel resto della società vi sono pochi attori e processi che ne contendano il potere. Il dato forse più rilevante nelle vicende di Milano è la scomparsa degli attori politici organizzati e della loro capacità di intervenire in modo strutturato, organizzando l’opinione e la società da una parte e dando una forma accettabile agli interessi dall’altra, nel disegno delle politiche della città. A essersi manifestata è una forma di autopoiesi della società civile, nella versione liberista che abbiamo imparato a conoscere.  LA PARTECIPAZIONE DEBOLE   Questo processo, combinato con la crescente complessificazione e oscurità dei meccanismi e degli strumenti delle politiche pubbliche, contribuiscono peraltro a  una progressiva alienazione dell’opinione pubblica – e di certi ceti e gruppi sociali in particolare – dalle scelte urbane. Tutto questo può accadere mentre le stesse amministrazioni, anche a causa dell’indebolimento degli attori politici tradizionali, investono su politiche partecipative di cui tuttavia fanno un uso molto selettivo e strategico. Amministrazioni che possiamo considerare progressiste o municipaliste promuoveranno meccanismi di partecipazione proprio sulle poste in gioco più rilevanti, e nelle quali la riproduzione del potere dei network esistenti è particolarmente potente. Governi urbani che progressisti invece non lo sono, viceversa, apriranno questi canali su poste in gioco di minore rilevanza per l’economia politica delle città e per le quali i citati network sono scarsamente rilevanti e strutturati e quindi politicamente non molto contesi. In questa diarchia, in fondo, sta la natura insorgente o non insorgente del governo urbano, che per l’appunto risiede nell’aprire o viceversa chiudere campi e network degli attori urbani.  A Milano, nonostante il cambio politico del 2011 fosse stato espressione di una significativa mobilitazione popolare, è stata scelta la seconda strada, con politiche latamente partecipative che hanno riguardato non la posta in gioco principale (l’urbanistica, il modello di sviluppo e di accumulazione della città) bensì oggetti meno rilevanti (ad esempio, alcuni spazi pubblici) e che hanno coinvolto prevalentemente i ceti medi e superiori.  All’origine delle inchieste, oltre a mobilitazioni di comitati territoriali, vi sono state anche forme di mobilitazione di singoli proprietari che hanno visto negli interventi di densificazione edilizia una minaccia per il godimento dei loro diritti di proprietà e della qualità della vità in conflitto con i diritti di proprietà di chi sarebbe andato a vivere in quegli interventi. Certo, ci sono stati gli studenti con il loro accampamento per il diritto all’abitare, nonché l’emergere di nuovi attori e mobilitazioni sulla casa che non hanno precedenti recenti, tuttavia il campo degli attori in campo appare piuttosto limitato. Quindi, la domanda fondamentale che occorre farsi è quali siano i gruppi sociali e gli interessi di cui, in negativo, si nota l’assenza in tutta la questione Milano. E non sono i cittadini, genericamente intesi. Sono soprattutto alcuni gruppi sociali – i nuovi ceti popolari, nella loro varietà e articolazione – i cui livelli di partecipazione al governo urbano sono giunti a Milano al punto più basso dal 1945 a oggi. Non è sempre stato così, e non è un destino. Ma per fare in modo che non lo sia serve un lavoro sociale e politico di grande cura e di lungo periodo. E da cui dipende la possibilità che il governo delle città assuma caratteri insorgenti e non quelli tecnocratici. Il tema dell’abitare e del governo dei processi urbani in generale rappresenta un terreno di mobilitazione e partecipazione molto difficile a cui tuttavia va riconosciuto, oggi più che mai, inevitabile centralità. *Alessandro Coppola insegna pianificazione e politiche urbane presso il Dipartimento di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano. L'articolo Il modello Milano, oltre le inchieste proviene da Jacobin Italia.
Cartografie del terzo settore e della innovazione sociale a Torino #8. Terra del Fuoco
(disegno di adriana marineo) Da mesi l’amministrazione comunale è impegnata a sgomberare con la forza persone e famiglie – rom e non rom – che occupano appartamenti di case popolari inagibili e lasciati vuoti. Donne, uomini e bambini finiscono in strada, senza ricevere assistenza e soluzioni alternative. Allo stesso tempo la Città e la Regione conducono una campagna di odio pressoché quotidiana contro famiglie rom – spesso sgomberate dalle stesse case occupate – che vivono in strada riparandosi in camper e furgoni. Non stupisce il razzismo delle istituzioni, ma inquieta la collettiva assenza di memoria: le famiglie braccate sono le stesse che furono cacciate dai campi formali e informali che si trovavano lungo la Stura, e non solo. La baraccopoli più ampia e abitata, quella di Lungo Stura Lazio, fu sgomberata nel 2015 grazie alla collaborazione di una cordata di enti del terzo settore fra i quali figurava Terra del Fuoco. *     *     * L’associazione Terra del Fuoco (TDF) nasce a Torino nel 2001 con l’obiettivo di promuovere il “protagonismo giovanile”. Appena nata, l’associazione ottiene in concessione dal comune di Torino una grande struttura dismessa nel quartiere San Paolo, dove un tempo aveva sede il dopo-lavoro degli operai Lancia. La nuova sede viene condivisa con altre due associazioni di giovani torinesi: una di queste è Acmos (Aggregazione, Coscientizzazione, MOvimentazione Sociale), da cui avrà origine Libera Piemonte, creazione di Luigi Ciotti ed emanazione del Gruppo Abele; l’altra è Non più da soli che si occupa di far incontrare studenti universitari interessati a dare sostegno a persone anziane a cambio di una stanza. Presto le tre realtà danno vita ad una associazione di secondo livello – Caraglio 101 – che apre il Centro di Protagonismo Giovanile Belleville. Da qui muoveranno i primi passi futuri esponenti della politica torinese e del privato sociale, garantendosi una carriera all’interno del terzo settore o sviluppando legami politici in vista di future tornate elettorali. Alcuni leader infatti finiranno per candidarsi in partiti nati dalle ceneri del Pci o eredi della Democrazia Cristiana. È il caso, fra gli altri, di Michele Curto, uno dei fondatori di Terra del Fuoco, di cui è presidente fino al 2011. Dal 2006 al 2011 Curto è anche referente dell’area europea di Libera e nel 2011 si candida in Sinistra Ecologia Libertà per appoggiare il Partito Democratico con la candidatura a sindaco di Piero Fassino. Il contesto nel quale TDF e la sua leadership muovono i primi passi è quello del progressivo smantellamento del welfare cittadino seguito alla crisi del 2008 e legato anche all’enorme debito lasciato dalle olimpiadi invernali del 2006 nelle casse comunali. Servizi che per decenni erano stati dati in appalto dal Comune a cooperative storiche della realtà torinese sono tagliati o fortemente ridimensionati: ha inizio l’era dei bandi e di chi vince al ribasso, con vecchie e nuove associazioni e cooperative sociali che si ritrovano a competere tra loro. Nel giro di pochi anni i grandi enti del terzo settore torinese si trasformano in imprese sociali attive in diversi campi di intervento per accedere a un maggior numero di bandi al fine di ottenere finanziamenti, complice anche un “marketing del bene” che coinvolge la società civile attraverso la creazione di un immaginario politicamente e socialmente impegnato, mentre parallelamente i soggetti più marginali e fragili da “utenti” diventano “clienti” dei loro servizi. Questa nuova generazione di enti che incarnano l’impegno civile e la ragione umanitaria gettano le basi del terzo settore che osserviamo oggi: sono vere e proprie “imprese del bene” che coltivano, attraverso azioni simboliche e narrazioni, un capitale politico e sociale in grado di garantire un ritorno economico. All’inizio TDF s’impegna nelle politiche giovanili ed educative e tra le varie attività spicca il Treno della memoria che dal 2005 promuove viaggi nei campi di Auschwitz e Birkenau per gli studenti delle scuole superiori. In seguito si specializza nel “settore migranti e politiche sociali”, all’interno del quale rientrano sia le persone rom che rifugiati e richiedenti asilo. A partire dal 2006 TDF inizia a lavorare con persone originarie della Romania che vivono in campi e baraccopoli di Torino o dei comuni limitrofi. TDF diventa capofila del progetto di “autorecupero” di un edificio nel Comune di Settimo Torinese, che verrà chiamato “il Dado”, adibito a social housing per persone e famiglie rom e italiane. All’origine del progetto Dado vi è un rogo accidentale che nel novembre 2006 distrugge un campo a Mappano dove vivono centinaia di persone originarie della regione di Timisoara. Le persone e famiglie rimaste senza casa sono costrette a vagare per mesi tra tendopoli e campi di “emergenza” gestiti da Croce Rossa e protezione civile. Mentre TDF inserisce alcune famiglie rimaste senza casa dopo l’incendio (otto in tutto) all’interno del social housing innovativo, per tutte le altre persone sfollate l’unica possibilità è cercare rifugio nella baraccopoli di Lungo Stura Lazio, il Platz. Gli ospiti del Dado devono seguire una serie di regole stabilite dall’associazione, pena l’espulsione dalla struttura. Gli ospiti non devono solo farsi carico di parte della ristrutturazione (secondo la pratica definita di “autorecupero”), ma devono anche firmare un “patto di cittadinanza” che impone loro il raggiungimento di diversi “obiettivi” come la frequenza scolastica dei minori e l’inserimento lavorativo degli adulti, in modo da stimolare l’“autoresponsabilizzazione” e “l’integrazione” delle famiglie coinvolte. L’esperienza del Dado verrà in seguito riconosciuta come “Best practice” dall’Unione Europea, accreditando TDF tra le associazioni e cooperative più autorevoli che storicamente si sono occupate di popolazioni romanì. Dal 2010 TDF ha avuto in gestione dal comune di Torino il campo informale di corso Tazzoli, in zona Mirafiori sud, abitato da circa tredici anni da oltre duecento persone povere, originarie della Romania, etichettate come “rom”. Anche in questo spazio, in linea con l’esperienza del Dado, vige un regolamento redatto dall’associazione su chi può o non può risiedere e accedere nel campo o intraprendere un viaggio, insieme ad altre forme di controllo e le relative sanzioni. Nella gestione del campo TDF collabora con il nucleo nomadi, un nucleo della polizia municipale apertamente di tipo etnico specializzato nella gestione dei “rom” e nato a Torino nei primi anni Ottanta. Nel 2009 per il comune di Torino è diventato troppo dispendioso e problematico gestire i numerosi campi rom definiti legali, creati cioè dalle stesse istituzioni a partire dagli anni Settanta. Così il comune affida la gestione dei campi autorizzati (quello in via Germagnano e quello in strada Aeroporto) alle cooperative Valdocco, Liberi Tutti, Stranaidea, all’associazione Aizo (Associazione Italiana Zingari Oggi) e alla Croce Rossa. Nel gennaio 2010 inizia il progetto Selarom (che significa “villaggio rom”) nel campo di via Germagnano e strada Aeroporto. Selarom è realizzato dalle stesse cooperative e associazioni strutturate in Rtc (Raggruppamento temporaneo di concorrenti). Alla fine del 2011 Terra del Fuoco entra ufficialmente nella cordata di associazioni. Nel 2010 TDF ha già iniziato alcune attività all’interno della più grande baraccopoli torinese che si trova in Lungo Stura Lazio, nella zona nord della città, dove vivono circa duemila persone povere, rom e non rom, originarie della Romania. Anche in questo caso istituzioni e forze dell’ordine etichettano tutti gli abitanti dell’insediamento come “rom”. A partire da agosto 2010 ha luogo una “bonifica” dei rifiuti presenti nella baraccopoli, promossa da TDF e inserita in una più ampia campagna di volontariato a cui fa capo Legambiente con il patrocinio del comune di Torino e della regione Piemonte. L’iniziativa, a cui viene dato particolare risalto mediatico, rappresenta al contempo un’operazione di polizia e una strategia per iniziare a separare i poveri “buoni” dai “cattivi”. In quest’occasione soci di TDF e volontari vengono immortalati mentre spalano rifiuti o addirittura li rimuovono a mani nude (come ricordano alcuni abitanti di Lungo Stura Lazio) e lo stesso Curto, presidente dell’associazione, dichiara a La Stampa che i partecipanti rom alla pulizia dimostrano «di volersi integrare» a differenza di «chi invece tende a vivere di espedienti a danno della collettività». Poco dopo la bonifica del campo Michele Curto lascia la presidenza di TDF per candidarsi con Sel e viene eletto in consiglio comunale. Nello stesso anno delle elezioni comunali si prospetta l’arrivo di un ingente finanziamento per la Città di Torino grazie ai fondi stanziati dal ministero dell’Interno per la cosiddetta “Emergenza nomadi”. Ha così inizio nel 2013 un mega-progetto di oltre cinque milioni di euro che il Comune affida al raggruppamento temporaneo d’impresa  formato dalle stesse organizzazioni del progetto Selarom. Questa volta gli enti del terzo settore hanno presentato il progetto La città possibile, il cui scopo dichiarato è ancora una volta “realizzare percorsi efficaci di integrazione e di cittadinanza” per le circa 1300 persone “rom” che abitano nei campi di Lungo Stura Lazio, corso Tazzoli, via Germagnano, strada Aeroporto. Nei fatti viene finanziata l’enorme macchina dello sgombero della baraccopoli di Lungo Stura Lazio dove in realtà vivono – a dispetto del censimento dei responsabili e della prefettura – oltre duemila persone. Gli abitanti classificati come “meritevoli” devono firmare un “patto di emersione” dall’illegalità e partecipare attivamente allo sgombero distruggendo la propria baracca. I “meritevoli” selezionati dalle organizzazioni umanitarie vengono collocati in case o strutture reperite dalle stesse associazioni e cooperative sul mercato privato degli affitti (come lo stabile di corso Vigevano 41, di proprietà del noto palazzinaro Giorgio Molino) o devono accettare il rimpatrio “volontario” in Romania. Nell’arco di pochi mesi, o al massimo di un anno, queste stesse persone e famiglie vengono sfrattate a causa della fine dei fondi del progetto che sostenevano i costi dell’affitto, mentre tutti gli altri sono costretti a costruire una nuova baracca in altri campi e baraccopoli della città. Quando la grande operazione militare di sgombero della baraccopoli è quasi giunta al termine, emergono alcune inchieste giudiziarie che di fatto non portano a nulla, ma che svelano alcuni aspetti interessanti sulla gestione dei fondi e sui costi sostenuti da cooperative e associazioni. Una delle inchieste si chiude nel dicembre 2017 con la sola accusa di “truffa aggravata” contestata agli esponenti di Valdocco e Terra del Fuoco contro cui lo stesso comune si costituisce parte civile. A fine progetto (novembre 2015) le ultime famiglie escluse da La città possibile, insieme a un gruppo di solidali e alle altre persone e nuclei che nel frattempo sono stati sfrattati dalle varie, insostenibili soluzioni abitative, decidono di occupare un lato dell’ex-caserma di via Asti, uno spazio enorme di circa ventimila metri quadrati nella precollina torinese. L’ex-caserma però è già stata “occupata” nell’aprile dello stesso anno da alcuni membri di TDF che, mossi da valori civici e democratici, dichiarano di voler utilizzare la struttura per chi si trova in condizioni di disagio abitativo e sociale. Qui nel corso dei mesi TDF organizza eventi sociali e culturali con la collaborazione di accademici, intellettuali e politici di sinistra o di orbita Sel. In questa fase il Comune assume direttamente il ruolo di mediatore tra TDF e la Cassa Depositi e Prestiti, proprietaria dell’edificio, avviando una trattativa segreta affinché la struttura resti ai giovani volenterosi dell’associazione. Quando giungono le famiglie rom rimaste senza casa e senza alcuna alternativa abitativa, le istituzioni decidono di agire con forza: prefettura, questura e Comune sgomberano in grande fretta tutti gli occupanti della vecchia caserma, compresi quelli di TDF. Lo sgombero dell’ex-caserma e l’inizio delle inchieste giudiziarie e amministrative legate al progetto La città possibile segnano per l’associazione un rapido declino d’immagine, accompagnato da difficoltà di ordine politico. Michele Curto ha iniziato da tempo un’attività imprenditoriale nel settore della produzione del caffè a Cuba e altri dirigenti e amministratori di TDF fondano una nuova cooperativa sociale, Babel, che partecipa a bandi pubblici e privati. La cooperativa Babel partecipa da subito al nuovo progetto di sgombero delle palazzine occupate dell’Ex-Moi nella zona sud di Torino, portato avanti da vari enti torinesi del terzo settore che si spartiscono gli ingenti fondi messi a disposizione da ministero dell’Interno e dalla Compagnia di San Paolo (2017-2019). Anche in questo caso l’obiettivo è sgomberare in modo “dolce” circa mille e cinquecento persone con la diretta partecipazione degli sgomberati che finiscono, in una minima parte, in progetti definiti di “terza accoglienza”. Questa, certo, è un’altra storia, parte di un più ampio, feroce, disegno complessivo. (voce a cura di manuela cencetti) ______________________________ QUI L’INDICE DELLA CARTOGRAFIA
Scugnizzo cup. Voci e immagini dal torneo dei quartieri di Napoli
Foto di Matteo Ciambelli Il prossimo settembre ricorrerà il decimo anniversario della riapertura degli spazi dell’ex carcere minorile Filangieri, oggi Scugnizzo Liberato, a Salita Pontecorvo. Una tra le attività che lo Scugnizzo ospita – teatro, laboratori, corsi, doposcuola, iniziative culturali – che ha avuto maggiore risalto mediatico negli ultimi anni è la Scugnizzo Cup, torneo di calcio a cinque che si svolge nel chiostro del complesso, con la folla accalcata ai margini del campo e centinaia di persone affacciate ai quindici balconi del primo piano. Fumogeni, cori, fuochi d’artificio si alzano dal cortile e dai terrazzi della struttura, in un’atmosfera che qualcuno paragona alle curve di alcune squadre marocchine. Prima della finale gli organizzatori sembrano volare basso, quasi giustificandosi: «Non sarà come gli altri anni, questa volta ci saranno meno persone, tutto più tranquillo». Semplicemente, all’inizio manca ancora un po’. Ai balconi ci sono bandiere della Palestina e striscioni contro il genocidio in corso a Gaza, accanto ai cartelloni dei tanti sponsor. Un allevamento di Pitbull, un’agenzia di scommesse, una ditta di fuochi d’artificio, una trattoria. Da un lato c’è la spinta popolare e autorganizzata, economica e organizzativa, dall’altro si intuisce il tentativo di qualche grande marchio (vedi Red Bull) di sfruttare l’immagine del torneo, che negli ultimi anni, soprattutto sui social network, ha avuto grossa diffusione. La Scugnizzo Cup è nata nel 2020 anche in risposta alle restrizioni del Covid sul mondo dello sport: una competizione fra amici dei quartieri del centro di Napoli. Ai presidenti delle squadre partecipanti sono imposti alcuni limiti nella composizione delle rose. Si cerca di limitare una tendenza che il torneo aveva rischiato di prendere nelle scorse edizioni, quando in alcune squadre erano stati inseriti troppi giocatori professionisti di calcio a 5, serie A compresa: il livello tecnico si era alzato a dismisura e gli spazi per gli amatori rischiavano di ridursi all’osso. Le due squadre arrivate in finale in questa edizione (Manchester City e Inter Miami) hanno trovato un equilibrio tenendo dentro giocatori che fanno parte di società semiprofessionistiche di calcio a 5 (soprattutto serieC1) e calcettisti completamente amatoriali, che sfuggono a tutte le ricerche Google. Alcuni arrivano fumando, in ciabatte, acclamati dalla folla e circondati dai bambini. Indossano maglie personalizzate con la data della finale della Scugnizzo Cup. A proposito di titoli, chiacchierando nel pre-partita viene fuori che sul gol più bello della storia del torneo concordano quasi tutti gli organizzatori: Emanuele Volonnino (ora al Benevento, serie A di calcio a 5), prima edizione del torneo. Volonnino è spalle alla porta, marcato. Muovendo la palla con la suola evita due difensori che lo fronteggiano mentre con le mani controlla chi gli è dietro. Un altro movimento con la suola, poi il colpo di tacco e il gol. Un esercizio di danza che complessivamente dura quattro secondi, tre difensori evitati in due metri quadrati. Il fischio di inizio si avvicina. Ogni mattonella del campetto è occupata. Tra linee laterali e muro c’è un metro e mezzo circa, e in questo metro e mezzo ci sono quattro file di persone lungo l’intero perimetro del campo. Il pallone esce quando tocca i piedi di qualche tifoso. L’arbitro è Vincenzo Caprio detto Tyson, circa sessant’anni, statuario, ex centravanti dilettante: «Sono l’arbitro più titolato dei tornei napoletani», dice. «Guarda la mia prestazione in campo, vedrai la mia personalità». Il suo sforzo, in realtà, sarà in buona parte per tenere i tifosi lontani dal campo. Luigi Iannone è il capitano del Manchester City, numero 9, capelli ossigenati. «Sono dei Quartieri Spagnoli. Per me questo torneo è come tornare a giocare per strada». Racconta di un pallonetto al River Plate, intorno a lui annuiscono: «Grande gol!». Iannone ha trentacinque anni, un lontano passato da calcettista semiprofessionista, ora è in cerca di lavoro e ha due figlie. La prima gli gira intorno, gioca molto bene a pallone con altri bambini. Prima dell’inizio della partita abbraccia il padre. La partita inizia alle 22:45, il presentatore ha dovuto chiedere più volte agli spettatori di uscire dal campo. «E ora incendiate la Scugnizzo Cup!»: le torce illuminano il chiostro e quando il fumo si dirada le squadre sono pronte per il calcio d’inizio. Il pubblico più rumoroso è a favore del Manchester City e lancia complicati cori contro l’Inter Miami. C’è un capo tifoso con un piccolo megafono rosso. Provoca i giocatori avversari, che non reagiscono mai. Nel primo tempo la partita è combattuta, poi il Manchester City passa in vantaggio con Del Pozzo. I tifosi invadono il campo e festeggiano. Nella ripresa l’Inter Miami è sopraffatta. Emerge il talento di Luca Orefice, che sarà poi votato miglior giocatore del torneo. Tre gol: punizione rasoterra, palla all’angolino dopo azione travolgente a sinistra, testata da corner. I tifosi lo portano in trionfo. Orefice ha ventiquattro anni, un viso da filosofo, Parmenide con i capelli rossi. Gioca a calcio a 5 per l’Mds di Marigliano (C1), probabilmente potrebbe giocare a livelli più alti. Su internet si trovano articoli su di lui: quando era a Scafati era seguito da alcune squadre importanti di serie A. La partita finisce 4-0, la Scugnizzo Cup è del Manchester City. Ultime scene: capitan Iannone indossa occhiali da sole da motociclista e un berretto all’indietro, sembra più giovane, sorride. I compagni di squadra lo sollevano e lo fanno volare per tre volte. Quando torna a terra viene abbracciato da sua figlia. È tempo di foto con la coppa, salti, medaglie, il cielo è illuminato dai fuochi d’artificio. (davide schiavon)
L’urbanistica milanese come stato d’eccezione
(disegno di adriana marineo) Si susseguono da giorni le notizie di indagini e arresti per personaggi noti della politica e dell’imprenditoria milanese, culminate questa mattina con quelle che riguardano il sindaco Beppe Sala, indagato nell’ambito della maxi inchiesta sull’urbanistica nella capitale lombarda, per la quale già sei arresti sono stati richiesti.  Per quanto concerne il primo cittadino, le ipotesi di reato sono di false dichiarazioni su qualità proprie o di altre persone (relativamente alla nomina del presidente della Commissione per il paesaggio del Comune, Giuseppe Marinoni) e di induzione indebita a dare o a promettere utilità (intorno al progetto del cosiddetto Pirellino, dell’architetto Stefano Boeri e dell’imprenditore Manfredi Catella, presidente del gruppo Coima). Proprio Manfredi Catella, costruttore e principale artefice dello sviluppo del nuovo profilo urbano milanese, era tra le persone per le quali era già stato chiesto l’arresto ieri. Gli altri sono l’assessore alla rigenerazione urbana del comune di Milano Giancarlo Tancredi, l’ex presidente della commissione paesaggio, Giuseppe Marinoni, Federico Pella della J+S spa, Alessandro Scandurra, della Commissione paesaggio ma anche consulente di Coima, e Andrea Bezziccheri, della società Bluestone.  Sulle vicende politico-giudiziarie dell’urbanistica milanese, di cui ampiamente abbiamo scritto, vi proponiamo l’ultimo articolo in ordine di tempo, scritto da Lucia Tozzi e pubblicato sul numero 14 (maggio 2025) de Lo stato delle città. *     *     *  La rilevanza politica delle vicende dell’urbanistica milanese – il particolare modello di turbocapitalismo immobiliare-finanziario che è stato messo in atto, le proteste prima sommesse poi sempre più incalzanti dei cittadini, le inchieste, la legge Salva Milano e gli eventi che si susseguono da allora – è, a gran torto, molto sottovalutata. La vera posta in gioco non è certamente quella di natura giudiziaria. Le eventuali condanne dei vari soggetti inquisiti – funzionari di diverso livello, professionisti, imprese, ma non i politici che hanno concepito e alimentato le politiche filo-immobiliari – faranno il loro corso, e forse costituiranno una spinta per mobilitare finalmente quella parte di popolazione che non riesce a leggere le ingiustizie sociali se non alla luce del discrimine tra legalità e illegalità. Tuttavia, le indagini hanno avuto una funzione importantissima: sono state il perno tra i confitti sollevati dai comitati e dai movimenti e una percezione più diffusa, a Milano e in Italia, del sostrato profondamente malsano e classista, in ultima analisi produttore di diseguaglianza, del cosiddetto Modello Milano. Scaturite da una serie di esposti presentati dagli attivisti, le inchieste dei giudici hanno contribuito a fornire le prove materiali non solo delle irregolarità di molti cantieri, ma soprattutto dell’iniquità strutturale della crescita urbana per come è oggi concepita. Un sistema modellato sulla massima valorizzazione della rendita fondiaria, che impone una trasformazione fisica non solo escludente perché orientata al lusso, ma anche slegata dalla reale necessità di crescere (esistono abbastanza edifici vuoti da soddisfare la domanda abitativa, lavorativa e per i servizi) e funzionale alla concentrazione della ricchezza nelle mani di gruppi sempre più ristretti: costruttori, ricchi proprietari, studi d’affari e consulenza, finanza immobiliare e non. I casi di questi palazzi o grattacieli spuntati in mezzo ai cortili o sul bordo dei parchi, al posto di piccoli box o magazzini, non sono eclatanti in quanto ecomostri (alcuni lo sono, ma non è la cosa più grave), bensì perché il modo in cui sono stati prodotti è l’avanguardia di un metodo che si sta tentando di generalizzare, di estendere a tutta Italia. In poche parole, si è costruito senza lunghi iter di approvazione, aggirando l’obbligo di realizzare i servizi per il quartiere che l’arrivo di nuovi abitanti richiede, cioè raccogliendo altissimi profitti in punti pregiati della città senza pagare quella parte di tasse e standard che la legge obbliga a restituire alla città stessa, e invadendo lo spazio urbano senza sottoporsi a quelle verifiche che il processo democratico e le norme vigenti obbligano ancora (per fortuna, e direi non abbastanza) a rispettare. Se si trattasse di una dozzina o poco più di edifici presunti abusivi sarebbe ancora un fatto insignificante, ma questi sono solo la punta dell’iceberg di una pratica di densificazione diffusa (si parla di centinaia di situazioni analoghe), e sono l’effetto non di singole trasgressioni, ma di un meccanismo che è stato politicamente incoraggiato e alimentato a più livelli. Sono stati pensati e applicati cavilli interpretativi degni della più perversa mentalità burocratica per distorcere leggi urbanistiche chiare e comprensibili e volgerle a favore degli immobiliaristi e della rendita, chiamando questi barocchi palinsesti giuridici “semplificazioni”. Prima sono stati attribuiti eccessivi sconti sulle tasse e premi in cubatura a lavori che ristrutturassero gli edifici esistenti, invece di abbatterli e sostituirli, teoricamente per la buona ragione di limitare le nuove costruzioni e il loro insostenibile impatto ambientale e sociale sulla città. E poi si è provveduto a estendere la definizione di ristrutturazione a operazioni di abbattimento e ricostruzione di edifici anche completamente diversi, molte volte più voluminosi di quelli precedenti. Con questi e altri strumenti si è creato quel paradiso fiscale, quello stato d’eccezione immobiliare che ha reso così facile e conveniente investire a Milano, a scapito sia dei territori concorrenti che dei cittadini milanesi che hanno perso, si calcola, almeno due miliardi di euro in mancati introiti. Il lavoro di disvelamento operato dalle indagini, quindi, è stato ed è fondamentale per portare allo scoperto non solo e non tanto gli episodi di corruzione e truffa che pure sono emersi, quanto le dinamiche complesse e le conseguenze materiali di quella facilitazione degli interessi privati che è incarnata nell’idea e nella pratica della “rigenerazione urbana alla milanese”. Il disagio abitativo, dall’epidemia di sfratti agli studenti con le tende, aveva già reso palpabile il lato oscuro che la neolingua delle politiche inclusive tentava di coprire. Ma fino a ora è stato abbastanza facile per la classe dirigente sostenere che si trattasse solo di esternalità negative di un processo di crescita virtuoso e insostituibile: la rigenerazione urbana, secondo la loro lettura, è lo strumento che serve per concretizzare il diritto alla città. Poi, purtroppo, l’eccesso di attrattività crea un desiderio troppo diffuso per la città rigenerata e alcuni restano fuori. Quello che è emerso mostra invece inequivocabilmente che gli effetti erano previsti, facevano parte delle premesse: Milano doveva diventare una città Alpha, competere nella gara globale per attrarre gli investimenti più succosi, strapparli a città come Hong Kong, Londra e Singapore. Doveva costruirsi una reputazione nuova, allontanare i poveri, costruire i primi edifici di lusso per poi rimpiazzare zona per zona case popolari, servizi pubblici, spazi aperti con ambienti pittoreschi che combinassero un’immagine smart, pseudo green e dedita al consumo. Una gigantesca sostituzione, una modifica del Dna urbano e delle vecchie regole urbanistiche e amministrative che garantivano ancora un regime moderatamente redistributivo, legato al welfare, alla manutenzione, all’accoglienza e al benessere dei cittadini. Rimuovere gli ostacoli di ordine giuridico a un nuovo modello di crescita urbana fondato sulla concentrazione della ricchezza nelle mani della finanza e del blocco immobiliare, sulla massimizzazione della rendita, è un punto cruciale dell’agenda neoliberale, come argomenta, tra gli altri, Antonio Calafati, commentando i fatti di Milano e mettendoli in relazione con un Manifesto for renewing liberalism pubblicato nel 2018 dall’Economist: “Nel Manifesto c’è in evidenza un tema che contraddistingue il paradigma neoliberale sin dalle origini, sin da quando nella Vienna degli anni successivi alla prima guerra mondiale gli economisti del Mises-Kreis iniziavano a definirlo: la pianificazione urbanistica deve essere sostituita dal mercato come dispositivo di regolazione della morfologia fisica della città”. La conferma che non si trattava di incidenti, eccezioni, ma della prima fase di un progetto politico più ampio, mirato a erodere quelle leggi urbanistiche che ancora impongono a livello nazionale dei processi di controllo democratico sulla trasformazione spaziale, è leggibile nelle reazioni scomposte alle indagini. Media, politici, costruttori e funzionari milanesi hanno immediatamente lanciato una ricattatoria campagna d’allarme per il rischio di una paralisi dei cantieri, degli investimenti e dell’economia in generale. Nello stesso tempo hanno elaborato, insieme alla presunta controparte governativa, una legge (la famigerata Salva Milano) che non condonava gli eventuali abusi, ma si poneva come “interpretazione autentica” del complesso di leggi urbanistiche e edilizie in vigore. Era un modo per negare ogni accusa di irregolarità e soprattutto per portare a termine con velocità insperata un colpo pazzesco: si sarebbe potuto estendere a tutta Italia la rigenerazione alla milanese, legalizzando questa forma di ingiustizia sociale e spaziale per l’intera cittadinanza. Per fortuna questa soluzione era talmente insostenibile da destare, finalmente, l’attenzione di costituzionalisti e urbanisti, attivisti, giornalisti e politici anche al di fuori di Milano. Ma se la possibilità di fare approvare la legge Salva Milano si è fortunatamente assottigliata, l’essenza dei suoi contenuti rischia di passare attraverso una vera e propria riforma urbanistica – la legge sulla Rigenerazione urbana – e una modifica al Testo Unico sull’edilizia. Una larga fetta del mondo professionale legato all’immobiliare, così come i sindaci e gli amministratori del resto d’Italia (anche per bocca del loro rappresentante Anci, Gaetano Manfredi, sindaco di Napoli) hanno dato il loro appoggio alla Salva Milano, mostrando di condividerne lo spirito e la sostanza. Non è difficile immaginare i motivi per cui una classe politica come quella che ci ritroviamo – sia a destra che a sinistra appiattita sull’orizzonte neoliberale – veda di buon occhio la fine della pianificazione pubblica e la dissoluzione delle ultime responsabilità della pubblica amministrazione. Più inspiegabile invece è la scarsa attenzione che la questione riceve nel mondo dell’attivismo, dei movimenti, persino quelli per la casa. Dovrebbe essere ormai evidente che, se il capitale finanziario impiega così tanta energia per cambiare le leggi che ostacolano la propria libertà di azione nell’appropriarsi delle città, allora difenderle è essenziale. Di sicuro non è sufficiente per trasformare una situazione che precipita verso la guerra e forme di diseguaglianza radicale, ma è un passaggio indispensabile per chi cerca di invertire i processi di distruzione climatica e territoriale, di mercificazione della cultura e del lavoro sociale. Se si cancellano i vincoli che ancora impongono alla trasformazione del territorio una funzione orientata all’interesse pubblico, l’impatto della rigenerazione sulle classi svantaggiate sarà sempre più violento. Gli sfratti, le espulsioni, la dissoluzione della dimensione pubblica e gratuita degli spazi aumenterà, mentre si ridurranno le condizioni anche fisiche per lottare ed esprimere il dissenso. La Milano di questi giorni sta assistendo incredula a due nuovi risvolti della crisi urbanistica: il primo è la svendita dello stadio di San Siro alle due società Milan e Inter, che il sindaco sta conducendo come una furia a dispetto del clima di sfiducia politica e di cinque anni di opposizione da parte di comitati e attivisti. Il secondo è la lacrimosa protesta delle centinaia di famiglie coinvolte nell’acquisto degli appartamenti di lusso o semi-lusso bloccati dalle inchieste giudiziarie, che invocano l’approvazione della legge Salva Milano per salvare i loro improvvidi investimenti. Due figure, quella del potere autoritario che persegue il progetto del capitale fino al suicidio, e quella dell’interesse proprietario che non vede altro all’infuori di sé, che lavorano in combutta per richiudere in fretta la finestra di conflitto, critica, ragionevolezza che si è aperta contro la rigenerazione urbana. Le forze che tramano per il ritorno al business as usual, alla cura dell’immagine, a quell’ottimismo crudele che ci distrae mentre chi comanda lavora indisturbato alla nostra rovina, sono molte: i grandi eventi come giubilei, olimpiadi, giù giù fino alle biennali, i saloni, i festival e le città della cultura; la ruota del criceto dell’economia turistica; i fondi che ci stanno spogliando del welfare, dello spazio vitale, delle risorse e delle leggi che ci tutelano; gli intellettuali venduti alla guerra e allo squallore delle loro miserabili quote di prestigio; l’esercito della comunicazione, che non sopporta l’emersione nelle coscienze del piano materiale e si adopera per offuscare la vista e contaminare il linguaggio appena un lembo del velo si solleva. Non lasciamoglielo fare.
I disoccupati organizzati e la trappola del click day. Corteo, scontri e arresti a Napoli
(disegno di escif) Da più di dieci anni uomini e donne organizzati nel Movimento Disoccupati 7 Novembre, a cui si sono poi uniti quelli del Cantiere 167 di Scampia, lottano a Napoli per una formazione qualificata e per un posto di lavoro stabile e dignitoso. Dopo tanto battagliare, e dopo una serie di rinvii, passi falsi e soluzioni fatte saltare dalle istituzioni all’ultimo momento, era previsto per stamattina l’avvio delle procedure – il cosiddetto “click day” – per l’assunzione delle platee di disoccupati storici nell’ambito di lavori di pubblica utilità. Il finanziamento dell’operazione era stato conquistato grazie a un lungo lavoro di pressione, fatto di manifestazioni, cortei e iniziative spesso conflittuali portate avanti dai disoccupati in questi anni, che hanno causato anche numerosi procedimenti giudiziari agli appartenenti ai due gruppi, talvolta fondati su bizzarre indagini come quella per associazione a delinquere: il tutto, per conquistarsi il diritto a partecipare a ottocento tirocini di un anno, pagati seicento euro al mese, che avrebbero dovuto poi comportare l’immissione in organico in aziende, anche private, che si occupano per conto del comune di Napoli di manutenzione e gestione del verde pubblico e di beni culturali. L’assegnazione di questi tirocini, però, non teneva conto dei lunghi e tortuosi percorsi svolti finora, né dei passaggi intermedi effettuati dalle centinaia di persone appartenenti ai due gruppi: corsi di formazione ministeriali nell’ambito del programma GOL (Garanzia di Occupabilità dei Lavoratori); altri programmi statali per gli over trentacinque; esperienza volontaria nell’ambito dei servizi pubblici, della pulizia delle spiagge, della manutenzione del verde. «Il vero punto – commenta uno dei disoccupati del Movimento 7 Novembre – è la mancata assunzione di una responsabilità politica da parte delle istituzioni, locali e nazionali, che con la scusa di una presunta trasparenza, che sembra una presa in giro quando ci sono centinaia di persone che per un proprio diritto hanno lottato più di dieci anni, non hanno voluto dare conclusione a un processo di emancipazione individuale e collettiva. Una scelta ancora più assurda se l’alternativa è passare attraverso uno strumento informatico farraginoso e di fatto inutilizzabile come il portale che è stato costruito». Stamattina, in effetti, il sistema informatico si è bloccato subito dopo l’avvio della piattaforma, rendendo per ore impossibile l’accesso, e lasciando poi fuori definitivamente una buona parte dei disoccupati organizzati (considerando anche il fatto che dopo un certo numero di tentativi il sistema Click Campania bloccava l’utente, il quale non riusciva ad accedere per colpe non proprie, ed era costretto a ricominciare la procedura partendo da un cambio di credenziali). Nulla di fatto, insomma, per le centinaia di persone che si erano date appuntamento all’esterno della prefettura per affrontare la procedura, e che altro non hanno potuto fare che prendere atto del fatto che l’ennesima possibilità stava rischiando di svanire: «Ci siamo organizzati per vederci fuori la prefettura – continua M. – per espletare tutti insieme, nella massima trasparenza, l’iter che dava il diritto di accedere a un progetto che ci eravamo conquistati con anni di dura lotta. Lo abbiamo fatto perché non ci fidavamo, viste le stranezze già registrate nel corso della notte sulla piattaforma, e alla luce di come è andata evidentemente non avevamo torto». Una volta chiuse le iscrizioni, quando anche chi era finalmente riuscito a completare il processo si ritrovava sul cellulare nulla più che una ricevuta con indicazioni poco chiare per il futuro, la frustrazione si è tramutata in rabbia. Un corteo improvvisato ha cominciato a muoversi per le strade del centro città, ma è stato caricato dalla polizia che ha arrestato tre manifestanti. Subiranno un processo per direttissima domani mattina, mentre un’altra decina di persone sono state ferite. Con una serie di comunicati diffusi in giornata, i disoccupati e le disoccupate dei 7 Novembre e del Cantiere 167 hanno chiesto ai media di raccontare questa assurda giornata, e di partecipare domani mattina alla manifestazione, con conferenza stampa finale, che si svolgerà partendo dalla questura centrale di via Medina alle nove e mezza. (redazione)
Cos’è veramente la Coppa America? Politici, imprenditori e loro lacchè lo spiegano meglio di tutti
(disegno di mario damiano) 15 maggio: il governo italiano e la Emirates Team New Zeland annunciano che la trentottesima edizione della America’s Cup Louis Vuitton si svolgerà a Napoli nell’estate 2027. Il centro nevralgico sarà il litorale di Bagnoli. La politica nazionale e locale si affanna a rivendicare un grande successo, ma in realtà le altre contendenti a ospitare la manifestazione si erano ritirate per la poca convenienza e gli eccessivi esborsi di denaro pubblico. Fratelli d’Italia piazza per le strade della municipalità giganteschi cartelloni con scritto “Grazie Giorgia!” e sullo sfondo una barca a vela. Il sindaco Manfredi, commissario per Bagnoli, sostiene che una delle cose più importanti della Coppa a Napoli è che accelererà la bonifica e rigenerazione del Sin Bagnoli-Coroglio. Un paio di mesi prima, Manfredi e Meloni avevano modificato con una sospetta fretta le leggi che obbligavano a rimuovere la colmata a mare. Quando si ricominciò a parlare della sua permanenza, commentammo: va bene, volete lasciarla lì? Allora blindatela e scrivete da qualche parte che sarà utilizzata esclusivamente per l’accesso al mare libero e gratuito dei napoletani. Nessuna risposta, anzi sì: dopo un paio di mesi viene fuori che ci costruiranno il villaggio per i velisti della Coppa. 6 giugno: Altreconomia pubblica un articolo di Lucia Tozzi sulla competizione che smonta la retorica della “convenienza per tutti” di una iniziativa di questo genere, richiamando il caso Barcellona, molto contestato nella stessa città catalana. Sul periodico La Directa è emerso che il numero dei visitatori è stato calcolato contando chiunque passasse sul lungomare nei due mesi dell’evento, ed è quindi ben lontano dai 2,5 milioni preventivati e dai circa 1,8 milioni dichiarati. Del resto, per l’edizione del 2013 a San Francisco erano stati previsti 2,6 milioni di visitatori ma quelli effettivi furono 182mila, mentre ad Auckland nel 2021 se ne contarono 52mila a fronte di 860mila annunciati. Inoltre, l’audience televisiva globale dell’edizione di Barcellona non è stata, come viene spacciato, di 941 milioni di persone ma di 64,8, circa un quindicesimo. I finanziamenti pubblici a fondo perduto hanno raggiunto i 58,8 milioni di euro, mentre le autorità portuali hanno dovuto ammettere che la Coppa ha prodotto perdite per 3,5 milioni di euro. I post nella piattaforma “No a la Copa América”, che riunisce più di 145 comitati e associazioni, testimoniano che il lavoro […] è diventato più precario, e che mentre i team coinvolti si sono portati i loro lavoratori specializzati, ai catalani è stato chiesto di fare volontariato. Giovanni Squame intanto risponde su Repubblica Napoli a un intervento dell’ex vicesindaco Marone, che ancora attaccava, a trent’anni di distanza, il piano esecutivo per Bagnoli, che tra le altre cose prevedeva la nascita di un grande parco verde e il ripristino della linea di costa, con una grande spiaggia per tutti. Attribuire la responsabilità del mancato decollo alle scelte di piano è operazione ingenerosa. Non si sottolinea invece abbastanza che quelle scelte presupponevano un intervento tutto pubblico: è razionale, un grande servizio pubblico esige un grande investimento pubblico. […] Lo stesso criterio potrebbe essere allargato alla gestione della grande spiaggia che, ricordiamo, già è limitata dalla prevista realizzazione di un porticciolo per circa settecento barche. […] La Coppa America coi suoi soldoni può essere la soluzione? Qualcuno ci spera e la invoca, bando alle ideologie. Si ricompongono i rimorsi e i pentimenti e come con una bacchetta magica si risolve un problema fermo da venticinque anni. Tutti ne ricaveranno benefici e i napoletani, quelli che non hanno le barche per solcare i mari verso i paradisi vacanzieri, dovranno continuare ad affollarsi tra Rotonda Diaz, Vigliena e un poco di Posillipo. 11 giugno: Luigi Roano firma un articolo sul Mattino in cui attacca la rete di associazioni e gruppi politici che il giorno prima si era incontrata all’ex Asilo Filangieri per avviare un percorso collettivo di opposizione alla competizione. Roano sostiene che dietro quest’incontro ci sia un tentativo di destabilizzare il “modello Napoli” e la sinergia tra comune e governo. Secondo la fantasiosa ricostruzione la rete strizzerebbe l’occhio a una alleanza in fieri tra de Magistris (basta, ancora lui!) e l’uscente non candidabile governatore De Luca. Secondo Roano i “centri sociali” sarebbero stati i più attivi partecipanti all’assemblea: in realtà (Roano non era presente, noi sì) c’erano pochissimi militanti della sinistra “antagonista”. C’erano invece molti professori universitari, esperti di diritto, urbanisti, membri della società civile. Roano magnifica Manfredi e Meloni per aver portato turisti e Coppa a Napoli, e attacca il piano De Lucia, per contestare l’idea del parco pubblico e della spiaggia libera.  Lo stesso giorno il Corriere del Mezzogiorno pubblica un articolo di Fabrizio Geremicca che racconta dell’assemblea, ma anche un pezzo, con annesso titolone, sui “numeri da record” della Coppa America. La fonte è uno studio del ministero del turismo sulla base di dati forniti da Unimpresa; il rapporto è stato presentato dalla ministra Santanchè al convegno di Confindustria Nautica. Nel documento le cifre sono approssimative, e si comincia a capire: che il governo metterà un sacco di soldi in questa cosa; che si arricchiranno solo albergatori e ristoratori; che nessun elemento attendibile esiste su quello che chiamano impact value, tra i cui “potenziali beneficiari” ci sarebbero studenti, associazioni sociali e ambientali. Senza alcuna base reale, Santanchè sostiene che “ogni euro investito nella manifestazione raddoppierà il suo valore sociale per stakeholder e territorio e, nel lungo periodo, lo potrebbe addirittura quadruplicare”. 20 giugno: viene approvato in consiglio dei ministri un decreto che assegna l’onore e onere dell’organizzazione della Coppa a Sport e Salute. L’azienda, che fa capo al ministero dello sport, avrà sette milioni e mezzo di euro per le prime spese. Il decreto sollecita la Cabina di regia dell’ente commissariale per Bagnoli a “rimodulare gli interventi già previsti nell’ambito del programma di risanamento ambientale al fine di individuare quelli prioritari necessari alla realizzazione dell’evento”. Un comitato tecnico di undici componenti, di cui sei nominati dagli organizzatori, tre dal governo, uno da Sport e Salute e uno solo dal comune di Napoli, prenderà le decisioni. È il primo caso al mondo di un commissario governativo commissariato da un ministero (in cambio, come “contentino”, il Comune potrà spendere, per favorire gli interventi necessari alla competizione, novanta milioni in deroga alle regole di bilancio – questa cosa è da ricordare ogni qual volta da palazzo San Giacomo ci diranno: “Eh, ma non ci sono i soldi per fare questo intervento”). Manfredi ci mette qualche giorno a riorganizzare le idee, ma alla fine chiede poteri speciali (per lui) e strumenti di semplificazione per gli interventi sul molo San Vincenzo e la terrazza a mare di San Giovanni a Teduccio, per i posti barca a Nisida e al Molosiglio, al fine di eludere le autorizzazioni ambientali (lo dice chiaramente, senza giri di parole). Il consiglio comunale è confinato a una specie di assemblea di condominio, anzi meno, perché nel merito delle questioni non può neppure discuterne. 24 giugno: scendono in campo gli imprenditori napoletani con un documento di “visione strategica” scritto dall’Unione Industriali, che propone una “collaborazione istituzionale rinnovata tra pubblico e privato”. In realtà, è una proposta a stravolgere i piani esistenti, peraltro ormai già ampiamente stravolti, “basati su scelte ideologiche fatte più di trent’anni fa”. Il testo ha il pregio di parlare chiaro e mostrare la posizione dei possibili investitori locali, preoccupati dal piano Manfredi-Meloni che strizza invece l’occhio al grande capitale internazionale. Le proposte? No al parco verde, al suo posto “resort per ospiti con alto potenziale di spesa”, ristoranti, centri congressi, e affidamento ai privati delle aree dedicate allo sport. 1 luglio: manifestazione organizzata dagli abitanti del Borgo Coroglio, che con l’ente commissariale stanno gestendo una complicata procedura di esproprio. Paola Minieri, rappresentante del comitato di residenti, denuncia l’assenza di dialogo con Invitalia rispetto ai tempi, sfida le istituzioni “a presentarsi con le ruspe”, comunica le imbarazzanti cifre delle valutazioni immobiliari fatte dall’ente commissariale (cinquantamila euro per una casa all’ultimo piano con vista mare, una cifra con cui non acquisti nemmeno un monolocale a sessanta chilometri dalla città). “La gente del Borgo ha sopportato l’inquinamento della fabbrica, il caos delle discoteche e adesso che viene un po’ di benessere ci cacciano via pretendendo di darci quattro spiccioli?” Al momento è noto che gli inquilini avranno una prelazione sul riacquisto degli immobili, che però, rigenerati, costeranno quattro o cinque volte tanto rispetto all’indennizzo. Minieri chiude il suo intervento: “Bloccheremo la Coppa America, diremo a tutto il mondo quello che sta succedendo qui”. 8 luglio: Repubblica Napoli pubblica un intervento di Michelangelo Russo, direttore del dipartimento di Architettura della Federico II. Russo scrive dell’importanza del mare per la città, un mare che è “cultura, storia, paesaggio, identità collettiva, memoria e possibilità” e si entusiasma per l’assegnazione della Coppa America che dà allo stesso “una rinnovata centralità”. Non si capisce se sia ingenuità, cerchiobottismo, o una candidatura a essere coinvolto nelle operazioni, ma nello stesso articolo Russo prima accoglie con soddisfazione la richiesta di poteri speciali avanzata dal sindaco (“segno di profonda sensibilità”) e poi avanza richieste per un miglioramento delle condizioni di accesso al mare per i napoletani. Più sincera e convincente appare la proposta dei comitati per il mare libero e della rete di opposizione alla Coppa (e a tutto quello che avete letto in questo articolo): “Dopo aver informato la cittadinanza dei progetti speculativi del potere, lanciamo la mobilitazione nazionale di domenica 13 luglio a Bagnoli, che consisterà nella presa della battigia per affermare che l’unica grande opera che vogliamo è una vera bonifica e la rimozione della colmata, il ripristino dell’intera linea di costa per la libera, gratuita e pulita balneazione, oltre che la nascita di un grande parco urbano. Non possiamo permettere che dopo decenni di devastazione la baia di Bagnoli diventi una zona esclusiva per ricchi con resort, alberghi e yacht di lusso, che distruggerebbe per sempre la promessa di recuperare la costa per il mare e per il verde”. (riccardo rosa)
L’assalto finanziario alle città europee: come i fondi di investimento stanno ridisegnando il futuro urbano
L’ascesa dei fondi di speculazione prende avvio dalla seconda metà degli anni ottanta dello scorso secolo con il forte ridimensionamento dei sistemi di welfare pubblico, quando prende avvio negli Stati Uniti una privatizzazione totale o parziale di beni e servizi. … Leggi tutto L'articolo L’assalto finanziario alle città europee: come i fondi di investimento stanno ridisegnando il futuro urbano sembra essere il primo su La Città invisibile | perUnaltracittà | Firenze.
La “rigenerazione urbana” non risparmia nessuno. Il caso del giardino San Leonardo a Bologna
(disegno di otarebill) I protagonisti di questa storia sono un piccolo giardino, una prestigiosa università statunitense e un’amministrazione comunale. Cominciamo, come è giusto, dal giardino. TRACCE DI STORIA Da qualche anno porta il nome di don Tullio Contiero, un prete poco amato dalle gerarchie ecclesiastiche, chiamato a Bologna agli inizi degli anni Sessanta dal cardinale Giacomo Lercaro per occuparsi degli studenti universitari, per i quali organizzava ogni anno viaggi in Africa per far conoscere loro il sud del mondo e metterli di fronte alle responsabilità e alle contraddizioni dell’Occidente. Ma in realtà nessuno lo conosce con questo nome. Tutti continuano a chiamarlo come prima: giardino San Leonardo, dal nome della strada che lo costeggia. È nel centro di Bologna, nella zona universitaria, ma defilato rispetto ai grandi flussi che, a poche centinaia di metri, ne caratterizzano la vita quotidiana. È di piccole dimensioni (circa 1.500 mq), ma è molto amato dagli abitanti e dai frequentatori della zona, che se ne sono presi cura, nel tempo, anche attraverso comitati o gruppi informali. Non ha nulla di particolare, se non il fatto di rappresentare la “normalità”: uno spazio verde e tranquillo, dove le persone trascorrono del tempo in modo informale, senza essere attratti da attività o da luoghi di consumo. Troppo normale per resistere alla febbre della “rigenerazione” che sta dilagando in tutta la città. Ma prima di descrivere qual è la minaccia che incombe su questo piccolo lembo di terra, è bene ricordare qual è il contesto urbanistico e sociale in cui si trova. Si tratta, innanzitutto, di un esercizio di memoria che ci riporta al 1973, anno in cui il comune di Bologna, con la regia dell’architetto Pier Luigi Cervellati – all’epoca assessore all’urbanistica – adottò una variante al Piano per l’edilizia economica e popolare (Peep) che estese al centro storico gli interventi per quella tipologia abitativa, fino ad allora destinata alla periferia. Il piano coinvolse cinque comparti del centro e portò al risanamento – per iniziativa pubblica – di circa settecento alloggi, dove tornarono ad abitare gli stessi nuclei familiari che li occupavano in precedenza, quando erano fatiscenti. Furono anche realizzati centri civici, studentati, spazi per attività di quartiere, recuperando complessivamente circa 120 mila mq di superficie. (Per un approfondimento si rinvia a questo articolo dell’architetto Carlo De Angelis, che fu tra i protagonisti del piano). Era ben chiaro che i ceti popolari sarebbero stati progressivamente espulsi dal centro, e il piano mirava – al contrario – a farli rimanere dove erano sempre vissuti. Via San Leonardo era una delle strade comprese nel piano. ‘NA TAZZULELLA ‘E CAFE’ Finora – come è facile immaginare – non c’è stato grande dialogo tra questa strada che ancora oggi conserva un tessuto popolare e la limitrofa Johns Hopkins University, i cui master costano – come si può ricavare dal sito – tra 65 mila e 89 mila euro all’anno. Ma il muro che divide la strada e il suo giardino dalla sede bolognese della rinomata università che ha la casa madre a Baltimora sta per cadere, non solo metaforicamente. Ad aprire la breccia sarà una caffetteria. Questo è, infatti, il succo di una proposta avanzata dalla Johns Hopkins University, elaborata dallo studio Betarchitetti. Il Comune la accoglie nella cornice dei “patti di collaborazione”, una delle articolazioni del sistema di partecipazione costruito dall’amministrazione comunale con grande enfasi retorica che ne nasconde l’essenza: imbrigliare la partecipazione entro forme istituzionalizzate e centralizzate e distoglierla dalle questioni cruciali, discusse e decise al di fuori delle sedi istituzionali, al riparo da qualsiasi dibattito pubblico e rese note solo a cose fatte. Nel caso specifico si tratta di una evidente forzatura: come è possibile utilizzare questo strumento per autorizzare un intervento urbanistico su un intero comparto? Si tratta di una corsia preferenziale? O di un esperimento per introdurre senza far rumore una ulteriore forma di deregolamentazione? Ma torniamo alla caffetteria della Johns Hopkins. Il succo della proposta è tutta qui: l’università chiede di poterla espandere aprendola verso il giardino, in cambio si farà carico delle spese per la sua ristrutturazione. Come da copione, anche stavolta non mancherà l’abbattimento di alberi (in questo caso tre esemplari tutelati), un elemento che caratterizza tutti i progetti di “rigenerazione” in corso o in previsione in tutta la città e che sta assumendo dimensioni enormi e intollerabili, i cui effetti non saranno mitigati dalle promesse di “compensazione” tramite nuove piantumazioni. Ovviamente una richiesta del genere – che comporta la modifica della configurazione di uno spazio pubblico a favore di un interesse privato – va addolcita con qualche zolletta di zucchero. Ecco allora che si prospettano “eventi e festival” (in un fazzoletto di terra!). E poi la formula magica: “riconfigurazione del margine”. Abbassando il muro di contenimento del giardino – secondo i promotori – si otterrà una maggiore “permeabilità” rispetto al comparto oggetto dell’intervento, “favorendone il presidio sociale”. Per supportare queste affermazioni generiche e prive di sostanza non poteva mancare il richiamo alla “sicurezza”: la “permeabilità” servirebbe infatti a “far fronte all’annoso problema della mala frequentazione durante le ore notturne”. Quindi un bar, un muro più basso, una migliore illuminazione e – non poteva mancare – un impianto di videosorveglianza. Certi che la parola magica – “sicurezza” – rappresenti la chiave che apre tutte le porte (e non hanno tutti i torti, dal loro punto di vista, considerando il clima culturale e politico dominante, anche a livello locale), i redattori del progetto non si preoccupano delle evidenti contraddizioni. Se la “mala frequentazione” riguarda le ore notturne, come può la caffetteria garantire un presidio per scongiurarla? Se, come è scritto in un passaggio del progetto, “il rigido protocollo di sicurezza dell’università ha reso impensabile fino a ora favorire una permeabilità incontrollata degli accessi verso lo spazio pubblico”, cosa è cambiato ora? Forse la caffetteria non sarà aperta al pubblico (e quindi addio “presidio”?). Oppure dobbiamo aspettarci una caffetteria con “rigidi protocolli di sicurezza”? Una versione precedente del progetto conteneva una proposta lasciata cadere nella versione definitiva, che merita però di essere citata: “Si propone inoltre la possibilità di trasformare l’attuale unità abitativa di proprietà comunale [che si affaccia sul giardino, ndr] in una attività ristorativa a carattere sociale che possa fornire una cucina interculturale di tipo kosher. Questa attività sociale consoliderebbe il carattere interculturale del comparto […]. Tale operazione potrà essere effettuata previo ricollocamento della famiglia ospitata nell’immobile”. È un passaggio significativo, che illustra la protervia del soggetto privato che si spinge fino a invocare lo spostamento di un nucleo familiare insediato in un alloggio popolare per ricavarne un ristorante, e svela la vera natura del progetto. Il fatto che questa richiesta sia stata accantonata, infatti, non ne muta il significato: si tratta di un interesse privato su suolo pubblico. Tutto il resto è scenografia. PICCOLO E GRANDE Colpisce che nella relazione tecnica, nel paragrafo dedicato all’inquadramento storico e urbanistico, manchi qualsiasi riferimento al piano di edilizia popolare realizzato nel 1973. In sostanza, l’intervento proposto ignora completamente il contesto sociale nel quale va a incidere. Colpisce anche che il Comune non rilevi questa mancanza, che riguarda un aspetto di grande rilievo. Evidentemente l’amministrazione comunale ne ha perso la memoria, o forse non sa che farsene di una cultura urbanistica attenta ai bisogni sociali, al disegno complessivo della città e all’equilibrio tra interessi privati e interessi pubblici. Del nuovo giardino San Leonardo il Comune è molto soddisfatto. I toni del comunicato con cui lo annuncia alla città (senza alcun confronto preliminare con il quartiere e i suoi abitanti) sono entusiasti: “Il progetto punta ad aprire il giardino verso la città, mettendolo in relazione con le attività e i servizi circostanti, attraverso la riqualificazione dei margini, la riorganizzazione degli accessi e la valorizzazione delle connessioni urbane […]. Gradini, sedute, rampe e gradoni ridisegneranno il perimetro del giardino per renderlo più accessibile, vivibile e connesso al tessuto urbano, trasformandolo in uno spazio di relazione e incontro per residenti, studenti e cittadini”. Questo passaggio illustra bene quella che potremmo definire la neolingua della rigenerazione urbana. Si prende qualche termine dal lessico specialistico (riqualificazione, margini, connessioni…), lo si combina con qualche aggettivo comparativo che metta un po’ di enfasi nel discorso (più accessibile, più vivibile) e con qualche verbo che evoca il cambiamento (riorganizzare, trasformare), si condisce il tutto con una formula buona per tutti gli usi (spazio di relazione e incontro), e il gioco è fatto. Ma se si gratta sotto la superficie, quella frase non significa nulla. Dietro al vuoto del discorso pubblico, però, ci sono processi rilevanti che stanno trasformando il volto della città. Da questo punto di vista la vicenda del giardino San Leonardo non è importante solo di per sé, per chi ne ha cura e lo frequenta, per chi abita nei dintorni, ma è anche una spia estremamente significativa delle tendenze in atto. Nella dimensione micro si possono leggere con chiarezza le distorsioni in atto nella dimensione macro. I 1.500 mq del giardino non sono diversi – per esempio – dalle decine di ettari delle grandi caserme dismesse, né meno importanti. La logica che regola la loro trasformazione è la stessa, e il suo nucleo è la profonda alterazione del rapporto tra pubblico e privato. In questo passaggio d’epoca, che ha inizio almeno trent’anni fa e che ora giunge a piena maturazione, i poteri pubblici hanno abdicato al loro ruolo di regolazione delle trasformazioni urbane in relazione ai bisogni della collettività. Non sanno né vogliono indirizzare gli interessi privati verso una funzione sociale, anzi, li assecondano al punto di modellare gli spazi pubblici sulla base delle loro esigenze. Bologna è ricca di esempi di questa sistematica distruzione dello spazio pubblico – che assume forme diverse a seconda dei contesti. Il caso del giardino San Leonardo aggiunge a questo quadro un elemento specifico. Si tratta del fatto che – nella strategia dell’amministrazione comunale – la “rigenerazione” intesa nella sua accezione distorta deve riguardare anche le piccole aree, le zone interstiziali. Nulla deve sfuggire a questa ridefinizione dello spazio che è anche, necessariamente, una ridefinizione delle relazioni. I luoghi liberi, informali, dove non succede nulla di particolare perché vivono della ricchezza della quotidianità risultano d’intralcio a una visione dello spazio pubblico in cui i fattori dominanti sono il consumo, il controllo, l’organizzazione centralizzata di ciò che in quello spazio deve accadere. Ecco perché è così importante preservare la “normalità” di quel piccolo giardino. Se – partendo da lì – allarghiamo lo zoom, c’è la città intera, che vive ovunque le stesse tensioni. (mauro boarelli)
Rewind Roma, giugno 2025 # Il comune rimpasta, la regione cala il cemento
(disegno di peppe cerillo) Il 1 giugno il Giro d’Italia raggiunge la capitale: sia a Roma che a Ostia la popolazione accoglie i ciclisti israeliani sventolando bandiere della Palestina. Il 2 le frecce tricolori sorvolano il centro della capitale, e le parate annunciano la nuova militarizzazione della vita pubblica, l’entrata in guerra, l’aumento della spesa militare, la difesa di uno stato genocida. Il 5, mentre in Senato si approva il Decreto Sicurezza (poi fortemente messo in discussione dalla Corte di Cassazione), c’è un tentativo di sgombero nel residence per l’emergenza abitativa di Val Cannuta: le famiglie che lo abitano occupano la strada e affrontano la polizia. Il 7 giugno scende in piazza per Gaza addirittura il Pd: è la più grande manifestazione dall’inizio del genocidio, ma dal palco parla anche chi si definisce “orgogliosamente sionista”. Nel frattempo, a Villa Pamphili viene trovato il cadavere di una bambina neonata, e il corpo di una donna rinchiuso in un sacco nero. Referendum dell’8 e 9, al seggio si presentano meno del venticinque per cento dei votanti romani, anche se le periferie danno miglior prova del centro. Lunedì 9 dei picchetti fermano due sfratti a Cinecittà Don Bosco e a Casalbruciato. Pomeriggio al Pantheon: presidio di solidarietà con la Freedom Flotilla, bloccata da Israele in acque internazionali. Il 10 il Comune annuncia l’acquisto futuro di ben mille e trecento case, di cui mille da Enasarco, ente previdenziale privatizzato che ne aveva più di diciassettemila a Roma. L’11 grande manifestazione antisionista a Garbatella. Nel frattempo, la giunta regionale approva l’ennesimo piano di sblocco della cementificazione. Sabato 14 un corteo di centinaia di migliaia di persone, forse un milione, sfila per il Pride, da piazza della Repubblica a Terme di Caracalla, anche con tante bandiere palestinesi: alle cinque si sospende la musica per cinque minuti, in ricordo delle vittime del genocidio. Nel pomeriggio c’è un presidio di solidarietà di alcune decine di persone davanti all’ambasciata iraniana a Roma, dopo i bombardamenti israeliani sull’Iran. Circa cinquecento persone manifestano per la Palestina anche in Tuscia, a Orvieto. Il 17 un nubifragio si abbatte su tutta Roma. Il 19 a Ostia va a fuoco il Village, lo stabilimento “sottratto ai clan”. Sempre a Ostia c’è un incidente mortale tra una moto, una smart e un motorino: i familiari delle persone coinvolte aggrediscono i medici dell’ospedale Grassi. Il 20 bruciano otto macchine sul lungotevere in zona Marconi. Sciopero generale: proteste sotto la sede di Leonardo sulla Tiburtina. Sabato 21 due grandi cortei contro guerra e riarmo, uno da piazza Vittorio, l’altro da Porta San Paolo. Il 23, alla vigilia di San Giovanni, cade una banda di trafficanti marocchini che spacciava il fumo per le strade di San Lorenzo: la banda contava sulla complicità di ben sette poliziotti del commissariato di zona, che da anni restituivano loro l’hashish sequestrato, falsificavano i documenti, e naturalmente incassavano i proventi. Due sono arrestati e gli altri cinque indagati. Il 24 il sindaco annuncia un “rimpasto di giunta” che riequilibra le varie correnti Pd: a guidare i progetti Pnrr per Torbellamonaca e Corviale mette una vecchia guardia del partito; l’assessore al personale diventa vice-capo di gabinetto; una consigliera (e presidente del Pd romano) si dimette per diventare capa della segreteria del sindaco, in barba a chi l’aveva votata per esercitare un altro ruolo. La notte un ragazzo di trentacinque anni in scooter viene travolto e ucciso da un’auto rubata, su viale Kant. Il 25 notte una bomba carta devasta una palestra di boxe a Ostia, forse una ritorsione dopo la sentenza del processo dell’ultrà Diabolik. Il 26 inizia il caldo estremo, e con il caldo gli incendi: brucia il pratone di Torrespaccata, una grossa area verde della periferia est, su cui ci sono forti mire speculative. Due incidenti durante la notte: muoiono un cinquantenne sullo scooter a Torvaianica e un motociclista di quarant’anni sulla Lauentina: diciassette morti sulle strade dall’inizio di giugno. Il 27 il Comune annuncia l’installazione di una ruota panoramica sul lungomare di Ostia. La Regione intanto approva una variazione del bilancio di oltre dodici milioni di euro, che però andranno solo all’efficientamento energetico delle proprietà Ater (non si sa se le case popolari, o solo gli uffici), per il trasporto disabili su gomma, e per la partecipazione all’iniziativa “Vie e cammini di San Francesco”. Il 28 pomeriggio un ragazzo del Bangladesh di ventisette anni viene accoltellato e ucciso durante un picnic, forse da un ladro, al parco della Montagnola. In tutto ciò, in Vaticano si continua a giubilare: tra il 23 e il 28 si celebrano il giubileo dei seminaristi, dei vescovi, dei presbiteri e delle Chiese Orientali. (stefano portelli)