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Pochi splendori e tante miserie. Il disastro degli impianti sportivi a Roma
(archivio disegni napolimonitor) C’è una pagina del libro di Galeano, Splendori e miserie del calcio, che tutti gli appassionati dovrebbero conoscere a memoria. Parla di quella volta in cui il suo amico e scrittore Osvaldo Soriano gli scrisse, raccontandogli di una strana passeggiata. Insieme a un famoso attaccante del San Lorenzo de Almagro degli anni Sessanta, José Sanfilippo, eroe della sua infanzia, Soriano si trovò a camminare in mezzo agli scaffali di un supermercato negli anni dell’espansione incontrollabile dei centri commerciali, verso la metà degli anni Novanta, nel momento forse di maggiore dominazione culturale del modello consumistico americano nel mondo. Tra detersivi e prodotti per i pavimenti, salsicce e formaggi, Soriano racconta come a un certo punto Sanfilppo, mentre la gente intorno cominciava a incuriosirsi e a osservare con la stessa attenzione dello scrittore argentino l’ex attaccante, lo invitò a fermarsi e osservare un punto in alto. «Pensa che proprio qui insaccai quel gran tiro di punta a Roma nella partita contro il Boca». Mentre il calciatore indicava il punto esatto in cui si era infilato un pallone alle spalle di Antonio Roma, portiere del Boca Juniors, in un famoso derby vinto dal San Lorenzo nel 1962, Soriano racconta che una donna avvicinandosi confermò: «Fu il gol più rapido della storia». Sanfilippo descrisse nei dettagli quel gol, come era maturato e quello che aveva suggerito di fare a un compagno: «Appena comincia la partita mandami una palla lunga in area». Quello era rimasto un po’ spiazzato, ma aveva eseguito la consegna. La palla arrivò proprio dove doveva. «Me la mise qui! Il pallone arrivò spiovente un po’ dietro i centrali, scattai ma andò a finire un po’ più in là, dove adesso c’è il riso, vedi?». Nonostante le scarpe eleganti e lo scomodo vestito blu, Sanfilippo si mise a correre come un coniglio in mezzo agli scaffali e poi disse a Soriano: «La lasciai cadere e… plum!». Fece finta di esplodere il sinistro e tutti voltarono lo sguardo seguendo quel pallone immaginario che, sorvolando lamette da barba, batterie stilo, e superando le casse, si insaccava come la prima volta. Cassiere e clienti celebravano intanto gridando e spellandosi le mani per quel gol, come se lo avessero visto realizzarsi di nuovo davanti ai loro occhi. Questo testo descrive bene il dolore che abbiamo vissuto in tanti, troppe volte, di fronte a cambiamenti urbanistici figli della speculazione e degli interessi economici dei grandi colossi multinazionali. Proprio nel punto dove si trovavano Sanfilippo e Soriano c’era infatti il campo storico del Club Atlético San Lorenzo de Almagro, il Viejo Gasometro chiuso nel 1979 e infine sostituito da uno dei primi e più grandi supermercati Carrefour di tutta Buenos Aires. Fu il sindaco dell’allora giunta militare, Osvaldo Cacciatore, a firmare l’ordine di esproprio del terreno, che sarebbe stato demolito poi nel 1983 e all’inizio degli anni Novanta, in piena epoca Menem (il Berlusconi d’Argentina), sostituito dal centro Carrefour. Erano ormai lontani i fasti degli anni Sessanta e i gol di Sanfilippo, l’infanzia di Soriano e il boato delle tribune gremite. Il Viejo Gasometro contava settantacinquemila posti ed era un luogo al quale i tifosi del San Lorenzo erano affezionatissimi. La sua demolizione creò molte proteste, che con il tempo non si sono placate. L’insistenza della tifoseria, che non ha mai accettato di essere stata allontanata dal quartiere di Boedo, ha dato in questo caso i suoi frutti: nel 2012 la hinchada azul-grana è riuscita a imporre al comune di Buenos Aires l’approvazione di una legge grazie alla quale Carrefour è stata costretta a restituire i terreni alla società del San Lorenzo, che ne ha recuperato la proprietà. Grazie alla pressione dei tifosi e all’amore per il luogo dove quella passione era nata, sta nascendo oggi un progetto di ricostruzione dell’antico impianto, parte di una vera e propria operazione di riappropriazione storica: “la vuelta a Boedo”. Se la ricostruzione di uno stadio al posto di un centro commerciale avviene a Buenos Aires, perché qualcosa di simile non dovrebbe poter accadere anche da noi, dove il numero di piccoli impianti abbandonati lasciati all’incuria e all’abbandono − si veda il caso dello storico campo della Roma a Testaccio − si moltiplica anno dopo anno? L’abbandono di vecchi impianti sportivi è sempre più evidente, ma lo è anche l’attacco a quelli ancora in uso, sui quali si rivolge lo sguardo rapace della speculazione. Poteva finire molto male, per esempio, l’esperienza di una delle realtà di sport popolare della città di Roma, l’Atletico San Lorenzo. Nel cuore del quartiere resiste però ancora oggi, quasi unico nel suo genere, un bellissimo e ambitissimo campo di pozzolana. Il pericolo del suo smantellamento a favore di una serie di campi di padel, per fortuna, è stato scongiurato, e l’Atletico ha potuto continuare a svolgere la sua attività sul vecchio campo. Non corre immediati pericoli di questo genere la Borgata Gordiani, che da qualche anno investe in un progetto di sport popolare molte energie, fronteggiando ostacoli di vario genere ben noti a chi prova a rimettere al centro dell’attenzione la mancanza di spazi di socialità, sportivi o di altro tipo, e si autorganizza sulla base di principi come quelli della solidarietà e del mutualismo, costruendo percorsi politici capaci di disertare le violente e ingiuste regole del mercato. La disattenzione nei confronti dei dati su questo tema stupisce: non dovrebbe destare molta preoccupazione il fatto che, nel nostro paese, la quantità di metri quadrati di spazio pubblico a disposizione dei minori per l’attività fisica sia tra le più basse in Europa? Secondo una recente ricerca di OpenPolis e Con i bambini, a fronte di una superficie totale di circa ventisei milioni di metri quadrati, i ragazzi nel nostro paese possono usufruire di uno spazio di dieci metri a testa. A Roma, in particolare, così come nella maggior parte delle città medio-grandi (da Bologna a Genova, da Milano a Reggio Calabria) lo spazio garantito è di soltanto due metri quadrati, un numero clamorosamente più piccolo, per esempio, rispetto a quello dei sessantasei di Ferrara, tra le città più virtuose. Ecco, più che dannarsi l’anima per costruirne uno nuovo, di stadio, forse l’amministrazione capitolina dovrebbe mostrare uguale determinazione nel cercare di restituire alla cittadinanza tutti quegli spazi sportivi oggi inaccessibili, incoraggiando la pratica spontanea senza la quale il calcio non avrà altro futuro se non quello di mero strumento di business. A discapito peraltro, sul lungo periodo, di tutti quei progetti che faticosamente resistono e che provano a dimostrare come sia possibile fare diversamente. (giovanni castagno)
Il mercato immobiliare degli studenti USA e lo spopolamento del centro di Firenze
Il flusso dei giovani nordamericani che giungono a Firenze per un periodo di studio all’estero, è in costante aumento. Si crea così un mercato parallelo che risulta inarrivabile sia agli studenti “normali” sia ai residenti, e contribuisce a spopolare il … Leggi tutto L'articolo Il mercato immobiliare degli studenti USA e lo spopolamento del centro di Firenze sembra essere il primo su La Città invisibile | perUnaltracittà | Firenze.
Gaza Riviera: genocidio come governance. Ma arriva l’Onda – di Maresa Lippolis e Sergio Tringali
Il piano G.R.E.A.T Trust* (Gaza, Reconstitution, Economic Acceleration and Transformation Trust), diffuso dal Washington Post alla fine dell’estate 2025, non è soltanto un documento geopolitico. È il sintomo di un immaginario di governo che prende forma da tempo: un miscuglio di tecnocrazia autoritaria, privatizzazione della sovranità e ingegneria sociale. L'ideologia alla base di queste [...]
Se Israele blocca la Sumud, noi blocchiamo l’Europa – di Effimera
I portuali di Genova hanno capito tutto. E noi dovremmo seguirli, senza pensarci due volte, cogliendo lo spirito del tempo. I centri sociali del Nord Est hanno boicottato la Mostra del Cinema di Venezia, chiedendo l’esclusione dal programma di due star sioniste conclamate: il Lido è stato preso d’assalto da più di diecimila attivisti. [...]
Rewind Roma, agosto 2025 # Contare i morti
(disegno di peppe cerillo) Il mese inizia con un milione di giovani pellegrini affastellati sotto il sole di agosto a Tor Vergata per il “Giubileo dei Giovani”: il Papa descrive l’evento come il segno che “un altro mondo è possibile”, forse riferendosi all’esistenza del regno dei cieli (tuttora non provata dalla scienza). Due pellegrine muoiono tornando a casa, una ad Artena, l’altra a Madrid. Intanto, il 3 agosto un detenuto viene trovato morto nella sua cella nel carcere di ReginaCoeli. Il 5 notte un’auto prende fuoco mentre era ferma a un distributore Gpl: si teme una nuova esplosione come quella del 4 luglio sulla Casilina. Il 6 il Comune sgombera venticinque persone che abitavano in un centro sportivo di Mostacciano abbandonato da dieci anni, senza alcuna alternativa abitativa: grande soddisfazione tra fascisti e leghisti. Due incidenti mortali sulle strade: un cinquantenne perde il controllo dello scooter al Laurentino, e un commissario di polizia in moto sull’Aurelia. Muore a ottant’anni “er Divino”, personaggio storico della spiaggia di Capocotta. Il 7 i carabinieri arrestano un uomo appena arrivato a Roma da Foggia, in fuga dopo aver ucciso una donna. Un’altra donna muore travolta da un’auto a Pomezia. Il prefetto Giannini durante un’audizione alla Commissione antimafia rivela che le forze dell’ordine a Roma in due anni hanno sgomberato più di seicento case popolari, quasi sempre occupate da donne sole con figli. Nessuna parola su dove sono andate ad abitare queste persone dopo gli sgomberi. L’8 in un’audizione in Comune il Comitato contro lo stadio di Pietralata denuncia che l’agronomo incaricato di stabilire il valore dell’area ha avuto un compenso di oltre centomila euro. Il Comune finalmente pubblica i dati sugli appalti per la costruzione dell’inceneritore di Santa Palomba, ma in un formato incomprensibile, per Carte in Regola è “da settimana enigmistica”. La notte un uomo armato entra in un bar di Torbellamonaca per una rapina e spara al barista e a due avventori del Bangladesh, per fortuna non li uccide. Il 9 l’amministrazione di Santa Marinella proibisce una manifestazione per la Palestina, dichiarando il “rischio di antisemitismo”. Il 10 incendio in un cantiere navale di Ostia. In serata centinaia di persone partecipano al presidio al Pantheon contro il genocidio israeliano a Gaza, contro il collaborazionismo del governo italiano e contro le menzogne dei media mainstream. Lunedì 11 c’è una manifestazione sotto la Rai di viale Mazzini per il continuo supporto della rete pubblica al genocidio in Palestina. Purtroppo il palazzo è chiuso per lavori da inizio anno. Muore a Latina la nona vittima del virus West Nile nel Lazio, un uomo di ottantacinque anni. Il 12 sulla sede del X Municipio a Ostia si espone una bandiera palestinese, e il 13 un’altra bandiera palestinese sventola dal quinto piano del V Municipio (Prenestino). Il 14 all’Alessandrino un bambino di quattro anni di una famiglia bangladese viene investito mentre era in bici: viene ricoverato in condizioni gravi. Muore una donna in moto, in un incidente a Grottaferrata. Un alto prelato dell’Opus Dei, padre Mariano Fazio, viene incriminato formalmente per riduzione in schiavitù e tratta di esseri umani. Secondo l’accusa, decine di ragazze sudamericane anche di dodici o tredici anni sono state attirate a Roma con la promessa di una vita migliore, poi “messe a servizio gratuito” per decine di ore al giorno per i membri della setta cristiana. Il 15 agosto, festa cristiana dell’ascensione della Madonna in cielo, un ragazzo egiziano di diciannove anni cerca di impiccarsi nel carcere dedicato proprio a lei (Regina Coeli). I secondini impediscono il suicidio, ma lo ributtano in cella. Una ragazza di ventiquattro anni muore in un frontale tra due auto sulla Salaria fuori Roma, e un uomo di sessantasette cadendo dal terrazzo condominiale di un palazzo vicino piazza Fiume. Il 16 c’è un nuovo incendio in un cantiere navale, questa volta a Fiumicino, e il 17 notte esplode una bomba carta nell’androne di un palazzo di Ostia centro. Muore a ottantanove anni Pippo Baudo, nella sua casa di Prati: la camera ardente sarà al Teatro delle Vittorie. Il 18, in virtù del “decreto sicurezza”, un uomo albanese di cinquant’anni viene arrestato per aver provato ad occupare una casa dell’Inps, vuota, a Prati Fiscali. Il giudice ne richiede l’immediata liberazione, perché il fatto non è grave. L’appartamento, pubblico, rimane vuoto. Continuano le processioni giubilari, con migliaia di partecipanti: il 20 a Colle Oppio sfilano i lefebvriani della Fraternità San Pio X, ultratradizionalisti e antisemiti, scomunicati per non aver accettato il Concilio Vaticano II, poi riabilitati nel 2009 da Ratzinger: non partecipano all’udienza papale del giorno successivo, né visitano la tomba di papa Francesco. Il 21 – giorno dello sciopero globale per Gaza – un temporale si abbatte sulla città. Tuoni, lampi, stazioni metro chiuse, alberi caduti, due musei allagati (Macro e Galleria d’Arte Moderna). Durante la notte ad Acilia qualcuno buca le ruote di più di cinquanta macchine. Il 22 a Marino presidio contro lo sgombero del centro sociale Ipò. Alla FieradiRoma, grande incontro dei testimoni di Geova, con decine di migliaia di partecipanti: il tema è “Adorazione pura”, per “offrire una guida a chi è alla ricerca di speranza”. Nel frattempo a Ostia un imprenditore edile sessantenne viene ferito da un colpo di pistola, forse sparato da un suo dipendente. Il 24 mattina, sempre a Ostia, una cabina crolla sulla spiaggia affollata di bagnanti. L’erosione del suolo quest’anno ha eliminato quasi dieci metri di spiaggia. Nel parco di Tor Tre Teste una donna di sessant’anni viene aggredita e violentata da uno sconosciuto. Nella notte a Nettuno qualcuno spara con una pistola ad aria compressa contro il centro d’accoglienza che ospita ottanta migranti: due di loro sono feriti lievemente dai pallini di piombo. Il 26 agosto un nuovo presidio per la Palestina riunisce più di un centinaio di persone al Pantheon. La rete “Stop Rearm Europe” ottiene la sospensione della fiera delle armi “Defence Summit” organizzata dal Sole 24 ore per l’11 settembre (sic!) all’Auditorium di Roma. Due persone straniere senza casa si uccidono buttandosi sotto a un treno lo stesso giorno: uno la mattina a Stazione Trastevere, uno la sera a Ladispoli. Arrestato un muratore gambiano per lo stupro a Tor Tre Teste. Il 28 altri due morti sulle strade: uno la mattina in un incidente di moto sull’Aurelia verso Santa Severa, un altro la sera – un diciottenne – alla Romanina. Scoppiano intanto due grossi incendi, uno a Tor di Valle, vicino all’autostrada Roma-Fiumicino, e uno nella pineta di Ostia. Sempre il 28, giornata di digiuno dei sanitari per Gaza. Il mese si chiude con: un signore eritreo che si cambia il costume sulla spiaggia coprendosi con un asciugamani, e i giornali lo trasformano in “uomo si spoglia nudo in spiaggia”; e con l’ordine di sfratto definitivo per lo storico Caffè Greco in via dei Condotti, attivo da duecentocinquanta anni e protetto da vincolo. La proprietà del locale è dell’Ospedale Israelitico, che ha ordinato ai gestori di andarsene. (stefano portelli)
La cattedra non c’è più. Insegnare italiano nelle occupazioni abitative
(copertina di cyop&kaf) Dal numero 10 (aprile 2023) de Lo stato delle città  La rete solidale Ci Siamo da anni sostiene alcune occupazioni abitative a Milano. Dado è un attivista e insegnante di italiano che si è impegnato a lungo nel proporre all’interno delle occupazioni un diverso modo di fare scuola. Abbandonato il modello frontale, nei laboratori linguistici guidati da Dado gli studenti e gli insegnanti contribuivano allo stesso modo alla riuscita della lezione apportando ognuno le proprie competenze. «Il primo contatto con l’esperienza di Ci Siamo fu quando abitavo nel quartiere di Villa San Giovanni. Vidi una locandina che invitava la gente del quartiere a partecipare a un’assemblea pubblica in uno spazio occupato in via Fortezza. Qualche giorno prima andai con un collega a dare un’occhiata e l’accoglienza fu molto tranquilla, nel senso che appena entrati, eravamo due sconosciuti, gli abitanti ci fecero vedere la struttura, ci raccontarono le loro storie. Mi colpì questa volontà di emancipazione, così forte da determinare anche il nome del collettivo: Ci Siamo. Siamo qua e parliamo, viviamo, abbiamo diritti e vogliamo rivendicarli. «L’assemblea che seguì fu molto interessante. Gli abitanti erano tutti migranti, con un’alta concentrazione di nordafricani. I compagni invece provenivano da realtà eterogenee. La sfida per me fu quella di capire che tipo di contributo dare perché andasse avanti la cosa. Sin dall’inizio avvertii la differenza di prospettiva tra gli abitanti, che avevano bisogno di un posto in cui stare per poi rispondere ai propri bisogni personali, di lavoro, di documenti, eccetera; e i compagni dell’area solidale, che cercavano di strutturare l’assemblea aperta. Per me fu importante capire come si prendevano le decisioni. Gli abitanti avevano la loro idea di delega, data implicitamente a qualcuno di loro, mentre i compagni optavano per momenti assembleari con il coinvolgimento di tutti i presenti e le presenti, senza delega. «Le istanze erano enormi, il clima di forte carica, grande voglia di esserci, di far parte, di creare qualcosa. In un’assemblea emerse finalmente il tema di come prendere le decisioni: c’erano i compagni che in italiano raccontavano e dall’altra parte io che traducevo in arabo. Fui in difficoltà nel riassumere interventi di italofoni con una padronanza della lingua massima e scelte di termini molto specifiche. Già dalle prime assemblee si cominciò a parlare di lotta di classe, di rivendicazioni, di consenso, di pratiche libertarie, quando poi nell’arabo, non solo per mancanze mie, ma direi per una differenza anche culturale, la traduzione saltava. Concetti che per i compagni italiani erano assodati, non venivano capiti dagli abitanti. «Poi Fortezza venne sgombrata con un intervento della polizia che distrusse tutto quello che si stava creando. Gli abitanti, in maniera abbastanza compatta, decisero di rifiutare le offerte del Comune, che ai tempi proponeva a molti la possibilità di entrare nelle strutture del Piano Freddo: dormitori per la notte, con l’obbligo di uscire la mattina e la possibilità di rientrare la sera. Ricordo un’assemblea di fronte agli spazi dell’Alitalia di Sesto Marelli, occupati anni prima, con la polizia intorno che osservava, cercava di ascoltare quello che emergeva. «Si decise di occupare un altro spazio, a Sesto San Giovanni, di fianco al Carroponte. Fu un’occupazione improvvisata, perché la struttura non era idonea, faceva freddo, l’acqua non c’era o c’era solo in parte. Già lì ci furono i primi allontanamenti tra i solidali, quindi l’eterogeneità di posizioni che caratterizzava via Fortezza cominciò a ridursi, rendendo il tutto più semplice ma al tempo stesso meno ricco. «Si iniziava anche a capire che bisognava informare meglio i nuovi arrivati per distinguere quel tipo di esperienza dalle strutture di accoglienza; per far capire la necessità di passare dalla posizione di utente passivo a un coinvolgimento diretto in uno spazio assembleare. Tuttora la difficoltà nel percepire l’assemblea come spazio decisionale in cui poter dire la propria, un po’ manca. Ai tempi io venivo chiamato dagli abitanti Capo Dado o Capo… «Passa il tempo, ci si rende conto che non si può andare avanti in quella struttura di Sesto San Giovanni, ci si attiva per trovare un’altra struttura e si arriva in via Esterle. Un forte entusiasmo iniziale, giornate di pulizia e musica per sistemare gli spazi interni. Gli abitanti che chiedono di stilare un elenco di presenze per evitare sovraffollamenti, in spazi che altrimenti rischiavano di replicare le dinamiche dei dormitori. In parallelo a questa volontà di strutturare gli spazi perché restassero dignitosi, c’era però sempre la tendenza a ospitare amici, che si fermavano più mesi del previsto e quindi la difficoltà di allontanare persone quando si era in troppi, di dire no a nuove persone che chiedevano ospitalità… Questo tema è stato un filo rosso che ha caratterizzato tutta l’esperienza di Ci Siamo. «Bisognava aiutare le persone a emanciparsi in una chiave collettiva, di vita comunitaria, di rispetto reciproco. All’esterno, fin dagli inizi, Ci Siamo era entrata a far parte di una rete di movimenti per il diritto alla casa e ad avere contatti con realtà associative legate ai diritti dei migranti. L’apertura verso l’esterno è sempre stata un punto fisso dei solidali, che spingevano per creare reti con altre esperienze, non solo milanesi. Mentre la tendenza degli abitanti è sempre stata di focalizzarsi sui propri percorsi, e poi sulle tematiche interne di conflitto o di condivisione degli spazi e delle cose. «Questi piani a Esterle hanno iniziato ad avere punti di contatto importanti. Da una parte l’interesse dei compagni a conoscere le persone, che voleva dire, per esempio, imparare il loro nome non solo per la necessità di stilare elenchi, capire che non si trattava solo di storie personali ma che le situazioni di sfruttamento e di precarietà accomunano tutti, a maggior ragione i migranti, ricattabili sotto molti punti di vista. «In Esterle ho notato una disponibilità maggiore da parte dei compagni ad abbandonare il proprio linguaggio di riferimento, molto politico, per facilitare il contatto. Ricordo momenti interessanti in cui si era partiti dall’abc delle teorie marxiste, con una forte attenzione alla traduzione, al fatto che le storie di precariato potessero trovare espressione in quelle teorie. Erano momenti collegati alla scuola di italiano, che ho sempre creduto strategica per aumentare la possibilità di dire la propria e di non stare alle regole dello sfruttamento. Lì c’è stata la possibilità di una presa di contatto tra gli abitanti e i compagni della rete solidale. È nato un interesse del collettivo, non solo di singoli compagni, ad approfondire le storie dei paesi d’origine delle persone e si è cominciato a parlare di colonizzazione e di nuova colonizzazione. «Una costante dell’esperienza di Ci Siamo è stata quella di spostarsi continuamente da un piano all’altro, dalle teorie marxiste alle paure di uno sgombero, dalle alleanze con altre esperienze alle dispute interne. È un tipo di lotta che si muove su piani diversi, cercando un equilibrio tra le dinamiche interne e la rivendicazione più ampia del diritto alla casa, a una vita dignitosa, alla salute, all’amore. Però, ecco, la fatica delle assemblee era sempre quella di spostarsi tra le tematiche. «Passa il tempo, movimenti interni, persone allontanate che non riescono a reggere le dinamiche collettive: la convivenza non è facile per nessuno. E, in parallelo, anche una forte riduzione dei compagni. Dai forse sette spazi di riferimento da cui arrivavano i compagni, con Esterle gli spazi si riducono. Nonostante tutto, le richieste di entrare nelle strutture di Ci Siamo sono sempre maggiori e quindi il collettivo individua un’altra struttura in via de Staël, nel quartiere di Dergano: i nordafricani vanno lì, mentre gli altri africani restano in Esterle. Si creano due poli distanti, però con celebrazioni molto belle di Ramadan, dove gli abitanti di una struttura si recavano nell’altra per momenti di festa condivisi. «Quindi un nuovo quartiere, nuovi coinvolgimenti, una buona, perlomeno all’inizio, disponibilità delle realtà associative, ma anche di abitanti singoli, di nuclei familiari che partecipavano alla vita della struttura. C’era una signora che entrava negli spazi di via de Staël, con l’accordo degli abitanti, per dare da mangiare ai gatti, perché ai tempi c’era una colonia felina nello spazio occupato. L’immagine della signora milanese di una certa età che entra in quello spazio abitato solo da nordafricani, tendenzialmente uomini, mette bene in luce la volontà delle occupazioni di Ci Siamo. «Poi l’esperienza di Dergano andrà in modo diverso rispetto a quello che si immaginava, con una distanza sempre maggiore tra la rete e gli abitanti, che proponevano delle assemblee autonome e spingevano per allontanarsi dall’assemblea generale e avere una maggiore autonomia, anche politica. Quindi Dergano inizia a essere un posto sempre più pieno di persone, dove il contatto e la conoscenza mancano e di conseguenza manca tutto il racconto sulle vicende personali, manca la partecipazione ai momenti collettivi. «Un passo indietro, sicuramente più personale, era stato nel maggio dell’anno dell’occupazione, il 2017: il mese successivo c’era il Pride e la mia volontà era quella, dopo averne ragionato con i compagni, di invitare tutto il collettivo a partecipare, non necessariamente come Ci Siamo ma come singole persone. Ho trovato invece una forte resistenza, anche con posizioni strane, di persone che volevano aiutarmi a guarire dal mio orientamento sessuale, con espressioni forti come “andrai all’inferno”, cose abbastanza colorite che hanno messo in luce ancora una volta, almeno in quell’occasione, una forte distanza tra alcune lotte e il contesto specifico sui diritti dei migranti, ma probabilmente non tutte le lotte oggi possono essere intersezionali… «Dopo quelle tendenze a isolarsi, a non credere più nei momenti assembleari, Ci Siamo decise di non seguire più Dergano. Dopo vari tentativi, compagni che insistevano e continuavano a far presente la necessità di un momento più ampio, che guardasse oltre le problematiche interne, che richiamasse a un piano più politico e di contatti con Esterle, dopo mesi di questi tentativi si prese atto che mancava proprio la disponibilità. Quindi l’occupazione di Dergano è andata avanti in maniera autonoma, il numero delle persone è aumentato, ci sono stati episodi interni di aggressività, che c’erano stati già prima, quando il collettivo era presente. Nel frattempo il collettivo andò a occupare una nuova struttura, in via Iglesias: parte degli abitanti di Dergano e parte degli abitanti di Esterle confluirono in questa nuova occupazione. «Un nuovo quartiere, una struttura interessante che permetteva maggiore autonomia, quindi più cucine, più bagni, più camere o addirittura piccoli appartamenti, numeri limitati di persone, ma anche spazi condivisi per l’assemblea e le attività aperte al quartiere. Un paio di abitanti del quartiere entrarono nelle assemblee, mentre la maggior parte erano per un aiuto umanitario e di sostegno alle famiglie, dando materiale per i bambini, vestiti, carrozzine… Questo ha caratterizzato tutta l’epoca di Iglesias: più famiglie, più bambini che vanno a scuola, più relazioni col quartiere. Mentre le prime occupazioni vedevano forse la quasi totalità degli abitanti legati a nuovi percorsi migratori, quindi precarietà documentale, richieste di asilo, percorsi di accoglienza falliti, con Iglesias le storie portavano verso nuove situazioni, uno sfruttamento diverso, una precarietà se possibile anche maggiore, legata a situazioni familiari di lunga permanenza ma con momenti di permesso alternati ad altri di totale precarietà documentale. In Iglesias, che ho vissuto poco, si vedeva, con le criticità che sempre esistono, un’assemblea forte, dei rapporti di vicinato interno in grado di generare arricchimenti; lì ci sono stati i primi doposcuola dell’esperienza di Ci Siamo, e forse anche gli unici; lì, secondo me, c’è stato un salto, con più attenzione a istanze più ampie, a una prospettiva politica. «Dopo Iglesias c’è l’occupazione di via Siusi, spinta dalla necessità di rispondere ai problemi alloggiativi di più persone e anche, perché no, all’esperienza ormai acquisita che le strutture con camerate non erano quello che si voleva fare. Quindi Siusi risponde anche al bisogno di creare spazi più a misura d’uomo. Non era Iglesias, però in alcune parti della struttura si è riusciti a ottenere spazi più autonomi per i gruppi familiari e luoghi assembleari condivisi. «Una costante, in tutte le esperienze di Ci Siamo, è l’aiuto umanitario da parte del quartiere, soprattutto quando ci sono bambini e famiglie; quel che manca è spesso la volontà di mettersi in gioco in un ambiente assembleare, di essere parte attiva, cosa che accade anche con molti abitanti; un interesse a risolvere questioni personali più che legittime, a svantaggio di un piano condiviso che porta forse risultati non immediati, ma che propone un cambiamento collettivo. «A Siusi c’è anche la scuola di italiano, con almeno cinque persone del quartiere che danno disponibilità sia per lezioni individuali, che per momenti collettivi con tutti gli studenti, a prescindere dal livello e dalle competenze linguistiche. «In tutte le esperienze di Ci Siamo la scuola di italiano è sempre stata riconosciuta come un bisogno. Gli abitanti la proponevano a me perché io parlo un po’ di lingue e ho diversi anni di insegnamento di italiano L2, sia in contesti associativi, sia all’estero come lingua straniera, in Sudan, Egitto, Marocco, Tunisia. Per un po’ sono stato anche convinto che potesse essere il mio lavoro. Così, quando in Fortezza mi proposero di insegnare italiano, quella richiesta rispondeva anche al mio bisogno di collocarmi in un ambiente più attento agli aspetti comunicativi e al contatto diretto con le persone. Gli abitanti avevano allestito uno spazio e con lo spray avevano scritto sul muro “scola di italiano”, senza la “u”. Prima del mio arrivo, avevano organizzato tutto come in una classe ordinaria, con una dozzina di banchi messi in fila e isolati l’uno dall’altro, tutti diretti verso la cattedra e la lavagna nera. «In Fortezza si era dibattuto a lungo sull’utilizzo di quello spazio. Le idee erano di adibirlo a scuola, come poi è stato, oppure a moschea, spazio di preghiera. Anche in Esterle, nello spazio dopo l’ingresso a destra, tanti insistevano perché potesse essere un luogo di preghiera, qualcuno diceva no, è uno spazio per la scuola di italiano. Mi ha sempre colpito questa cosa di decidere se fare una piccola moschea o la scuola di italiano. «Sin dalla prima esperienza in Fortezza l’idea era di ribaltare la prospettiva di studenti e insegnanti, quindi non partire dall’alfabeto ma dalle competenze che ogni persona che vive in Italia acquisisce, anche solo come fruitore passivo, per esempio quando sei in autobus e senti “prossima fermata Caiazzo”… Questa continua esposizione alla lingua italiana fornisce già delle competenze linguistiche. Bisogna dare voce a queste competenze, sistemando la grammatica quando serve, ampliando le prospettive di utilizzo delle parole, legandole a contesti pratici, per esempio alla necessità di raccontarsi a un avvocato, di difendersi in contesti in cui sei obbligato a spiegare chi sei, nel caso di un fermo di polizia per esempio, o nella ricerca del lavoro… «In Siusi abbiamo avuto più insegnanti che in momenti diversi della giornata si erano resi disponibili, sia con conversazioni online, ma anche con lezioni dal vivo, chiacchiere, passeggiate. Ricordo un’insegnante volontaria che aveva la passione delle passeggiate e lo stesso la sua studente di riferimento, e la loro lezione si svolgeva all’interno del Parco Lambro, passeggiavano e se la chiacchieravano in italiano. «Nella mia idea, il corpo poteva essere utilizzato, anche con toni ludici e giocosi, a scapito della necessità di verbalizzare, di raccontare. Ricordo un paio di lezioni sul concetto di casa, in cui si era utilizzato un manuale a fumetti su come era cambiata la casa dagli uomini primitivi a oggi, e si chiedeva alle persone di mettere in scena alcune situazioni viste nel manuale, quindi una discussione di gruppo su come replicare la scena, la necessità di negoziare, in italiano, di organizzare, cooperare e poi trovare il coraggio di rappresentarlo davanti agli altri. «La sfida era anche quella di condividere con gli altri insegnanti questo tipo di approccio, che richiede una flessibilità maggiore rispetto al “ti insegno il verbo essere al presente indicativo”. Immaginare dei momenti di gioco o comunque l’assenza di un manuale può portare a momenti di disagio – cosa faccio, come lo faccio, non ho gli strumenti per – che sono parte integrante di un percorso didattico, di crescita non solo del migrante che studia l’italiano L2, ma anche dell’amico o amica italiana che capisce che quello che dice non è necessariamente sempre chiaro. E, in un contesto di lotta, è necessario anche per gli italofoni rivedere le proprie abitudini comunicative. La cattedra non c’è più, siamo un gruppo, ed ecco, imparare una lingua è un momento che tocca un po’ tutti i presenti. «Ora mi trovo altrove, al confine con la Francia. «Il tema dell’omosessualità, che era stato trattato in Dergano, e l’invito al Pride, è stato un discrimine importante per me, in negativo. Ho dovuto ricollocarmi un po’, capire cosa chiedere e cosa non chiedere a Ci Siamo, quali sono i miei bisogni di compagno, oltre che di persona, quali lotte portare avanti con Ci Siamo e quali no. È stato lì che ho preso un po’ le distanze, e ho sentito gradualmente che questo contesto non era, perlomeno allora, oggi non so, lo spazio ideale per una lotta intersezionale che ho in mente; quindi ho ridotto le mie aspettative, con tutto il bene e l’affetto che resta per Ci Siamo, però da un punto di vista politico so che non posso aspettarmi tutte le lotte che vorrei avere. Forse era un po’ sovradimensionato da parte mia, non so; però questo è quello che è successo». (salvatore porcaro)
Dalle strade alla teoria
(disegno di ericailcane) Dal numero 9 (novembre 2022) de Lo stato delle città Otto anni fa, era primavera, usciva per Monitor il primo articolo sui quartieri accanto alla Dora di Torino. Il resoconto menzionava uno sfratto violento eseguito dalla polizia, i progetti di riqualificazione sognati dagli assessori, le velleità estetiche di una nota scuola di scrittori e la lotta viva dei solidali. Da allora ho, abbiamo esplorato il mondo urbano che da piazza della Repubblica discende fino al fiume e oltre prosegue verso Aurora e Barriera di Milano. Nel tempo abbiamo raccontato gli sgomberi e le forme d’opposizione, abbiamo analizzato i piani di rigenerazione e allestito gallerie fotografiche, pagine di carta hanno accolto la voce di chi ha avuto la forza di resistere: nella cronaca s’incontrano la voglia di comprendere la città e il desiderio di supportare le lotte. Ora, quando contemplo i materiali radunati, mi chiedo se da una sequenza di racconti, immagini e interviste possa nascere un quadro interpretativo, o una teoria; se la narrazione sia un metodo di conoscenza, e di quale tipo. Esistono modelli complessivi, o schemi critici sui processi di trasformazione urbana: “gentrification”, “turistificazione”, “foodification” o “airbnbfication” migrano dal linguaggio accademico agli articoli di giornale, ai libri. Fenomeni peculiari e spesso evidenti – come l’aumento dei prezzi immobiliari, l’evoluzione dell’offerta consumistica, l’espansione del mercato degli alloggi per turisti – sono descritti come cause di un effetto generale e raggruppati in categorie che ambiscono a definire un processo complessivo. Ho il timore che questi modelli siano ormai cristallizzati e inducano l’osservatore a selezionare dati utili a corroborare la tesi di partenza. Gli schemi diventano una briglia per l’immaginazione: i luoghi mostrano quel che i sensi s’attendono, il corso degli eventi appare lineare e inesorabile. Appunti, storie orali, fotografie e resoconti di redazione, tuttavia, non sono meri materiali grezzi e nel tempo ho annotato spunti teorici, tendenze che possano spiegare i cambiamenti del quartiere e le forze dominanti interessate. Queste linee sono suggerite dall’esperienza concreta maturata lungo le sponde della Dora e non è certo che siano applicabili ad altri quartieri o a città diverse. Ho distinto tre linee tendenziali adeguate a generalizzare i fenomeni: l’azione degli investitori e delle istituzioni pubbliche; la gestione commerciale e disciplinare di tratti peculiari dello spazio urbano; il lavoro simbolico di operatori culturali e funzionari del terzo settore. Sulla sponda settentrionale della Dora, quando il Lungo Dora Firenze digrada verso via Bologna, s’apriva un’area libera tra i palazzi. Al centro c’era uno spiazzo d’asfalto e la domenica s’organizzavano partite di cricket, i giocatori scavalcavano le recinzioni e trascorrevano l’intero pomeriggio. Quest’area di ventimila metri quadrati apparteneva al demanio, ma la giunta guidata dalla Cinque Stelle Appendino ne ha permesso l’alienazione e la svendita per sei milioni di euro. Una compagnia olandese che controlla la catena The Student Hotel ha acquistato il prato e gli immobili intorno e ha promesso un investimento da cinquanta milioni di euro per costruire una struttura ibrida: camere costose per studenti, stanze per riunioni, uffici per manager flessibili. E poco più a valle, in via Bologna, s’alza il centro direzionale di Lavazza, inaugurato nel 2018 dopo un investimento da centoventi milioni di euro. Questa è la prima linea di tendenza: il quartiere si trasforma grazie all’intervento di capitali privati supportato dalle istituzioni e dall’impiego della forza pubblica. Soltanto negli ultimi tre anni abbiamo osservato imponenti operazioni di polizia per sgomberare chi è considerato pericoloso, indesiderabile o inadeguato: ora non esistono più il mercato degli straccivendoli in San Pietro in Vincoli e l’asilo occupato di via Alessandria, un punto d’incontro, di riflessione e di organizzazione delle lotte in città. La seconda linea di tendenza può essere percepita da sensi più acuti, attenti ai minuti movimenti in strada e alla gestione degli angoli del quartiere. Lungo il fiume i proprietari dei piccoli negozi di generi alimentari e bevande, originari di India e Pakistan, ricevono ispezioni e multe per futili inadempienze, in alcuni casi subiscono chiusure temporanee per editti emananti dal sindaco. Sul ponte di ferro venditori irregolari dispongono stuoie e poche merci e devono dileguarsi quando giunge la vettura della municipale di ronda. In queste occasioni i vigili discutono e collaborano con il servizio di guardie private dell’associazione di commercianti che controlla il Balon, il mercato delle pulci ormai adeguato alle attese di turisti e abbienti consumatori. Questi guardiani pattugliano il quartiere ogni sabato e ne garantiscono l’ordine, legittimati dal comune e dalla questura. L’egemonia territoriale di peculiari interessi commerciali si scorge anche nei patti di collaborazione siglati tra il presidente di circoscrizione e alcune attività di ristorazione e svago lungo il fiume. In nome della cura dei beni comuni e della manutenzione di aree pubbliche gli esercenti possono gestire lo spazio intorno ai loro locali in cambio di controllo sociale, pulizia e piccole opere di abbellimento. In alcuni angoli l’ordine assicurato dagli esercenti appare dolce e innocuo, ma per il protocollo “Sponde sicure” la violenza è manifesta. Un barista di Lungo Dora Napoli, referente del protocollo e informatore della polizia, ha il diritto di controllare il tratto di strada accanto al parapetto lungo la Dora: può disporre i suoi tavolini sul suolo pubblico, guadagnare dalla vendita di bevande a turisti e avventori bianchi, allontanare i poveri che trascorrono le ore con una canna o una birra accanto al fiume. Così la disciplina in strada, esito di piccoli e quotidiani gesti di forze pubbliche e private, garantisce il profitto di privilegiate attività commerciali accanto alla Dora. La terza linea tendenziale riguarda la gestione del consenso, ovvero l’amministrazione dei discorsi e dei simboli. I protagonisti sono le associazioni del terzo settore, gruppi informali, cooperative di funzionari e operatori culturali. Lungo la Dora è un esempio peculiare il programma Tonite, un progetto europeo di “community-based urban security”. Secondo Tonite gli eventi culturali, il consumo nei locali, le attività sportive al tramonto e le varie iniziative di coinvolgimento della cittadinanza garantiscono la coesione sociale tra gli abitanti e rafforzano la percezione di sicurezza quando scende il buio. Al bando di Tonite hanno partecipato enti di ricerca universitaria, associazioni e cooperative impegnate nel lavoro sociale ed educativo, locali commerciali, scuole di zona. Abbiamo seguito alcuni progetti: nei mesi artisti di strada hanno decorato un marciapiede antistante l’ingresso di una scuola; un espositore di opere artistiche e fotografie ha organizzato laboratori di editoria lungo il fiume; una fondazione di comunità ha accolto spettacoli teatrali e intrattenimenti nel giardino; operatori sociali portano al tramonto un calcetto in mezzo alla strada; una locanda ospita musicisti esotici per allietare le cene dei clienti. Le foto di ogni azione sono rilanciate nel mondo virtuale, accompagnate da testi brevi con slogan, i nomi delle istituzioni e l’auspicio che la sicurezza urbana sia l’esito di attività sociali partecipate e multiculturali. Intrattenimenti e spettacoli di Tonite avvengono negli stessi luoghi segnati da violenze e azioni disciplinari descritte nelle prime due linee tendenziali, eppure nessuna iniziativa ha elaborato riflessioni e dibattiti sulle speculazioni immobiliari, le discriminazioni, le violenze tra piazza della Repubblica e Barriera di Milano, nessun operatore ha avuto il coraggio di criticare apertamente l’ordine urbano intorno. Le buone intenzioni e la proclamata coesione sociale di Tonite, allora, sono una forma, per quanto inconsapevole, di propaganda: allontanano il rimosso dalla coscienza, diluiscono ogni spunto critico nella soffusa e indistinta patina delle buone intenzioni. Allo stesso tempo, i governanti della città menzionano Tonite in convegni, tavole rotonde, presentazioni, corsi universitari. In strada gli eventi sono spesso partecipati dai soli organizzatori, ma grazie al loro lavoro, spesso volontario o mal pagato, il progetto di sicurezza urbana ha una portata simbolica notevole, garantisce un’egemonia sui contenuti culturali e sulle rappresentazioni, legittima il discorso pubblico delle classi dirigenti. Tonite è un caso di studio, in verità l’intera offerta culturale è integrata in un sistema di patrocini istituzionali e finanziamenti assicurati da progetti europei o fondazioni bancarie. Le opere simboliche, l’arte pubblica, i linguaggi confezionati non sono mera apparenza, o contenuti immateriali, piuttosto mi appaiono come oggetti concreti che s’amalgamano con gli interventi di rigenerazione, gli sgomberi, gli investimenti delle compagnie finanziarie, i gretti interessi di un commercio che s’adegua allo spettacolo per turisti. Ritenere che vi siano cause principali ed effetti primari o secondari, o processi strutturali e rifrazioni immateriali, mi sembra una semplificazione: nello spazio urbano i fenomeni descritti nelle tre linee di tendenza sono legati, collaborano e trovano un equilibrio precario. Abbandono la distinzione tra cause ed effetti e vedo quasi un campo di forze in connessione: alcune, come gli interventi di polizia e gli investimenti milionari, dispongono di una massa ingente capace di curvare in modo più accentuato lo spazio intorno. E non credo esista una regia unica e cosciente, un disegno. Piuttosto variegati e frammentari interessi puntuali s’incontrano, in certi casi combaciano, e la città appare dominata da una complessiva collaborazione tra investitori, istituzioni, esercenti tutelati, artisti e funzionari capaci di mescolare ingenua inconsapevolezza e spregiudicato cinismo. Forse i legami che tengono insieme i diversi snodi, o punti di forza, sono assicurati da un comune pensiero inconscio, una conformazione sopita delle menti, o ideologia. Ora, alla fine, m’accorgo che la scrittura, se assume un tono saggistico o espositivo, non può evitare il cristallizzarsi di concetti e discorsi. Le categorie proposte qui hanno preso forma, sono scritte, e mi sembrano di nuovo schematiche. Forse gli stessi modelli esplicativi che non mi convincono sono nati un tempo come intuizioni vivaci e poi si sono consunti, si sono trasformati in semplificazioni e sono stati applicati in modo automatico fino a diventare scontati o inconsci. Immagino che la riflessione teorica si muova per cicli: un nuovo sguardo osserva il mondo, emerge un’intuizione, essa si formalizza, diviene stabile; poi inizia l’erosione, la teoria diventa uno schema in necrosi che non interpreta più i fenomeni, ma li imbriglia. Più importante della teoria è allora disporre di un metodo di ricerca che sappia mettersi in movimento, cogliere le mutazioni del paesaggio e della sensibilità di chi osserva: sono le tecniche del viaggiatore e del narratore che si sposta in mondi lontani. Eppure, per chi esplora sempre lo stesso quartiere è impossibile conservare quel senso di lontananza che favorisce il movimento e l’instabilità fecondi. Se la stanchezza dello sguardo è inevitabile, bisogna adottare nuovi espedienti. In questo testo ho usato in modo ambiguo i pronomi, perché mi muovo dalla prima persona singolare alla prima plurale – nel “noi” si nasconde una possibilità. Da tempo esiste un gruppo redazionale di Monitor che s’interroga sul quartiere e sulle più ampie trasformazioni urbane a Torino: così le attitudini percettive divengono, stagione dopo stagione, più varie e molteplici, impiegano diverse tecniche e vari stili e da un’intelligenza collettiva muove il rinnovamento degli strumenti critici. (francesco migliaccio)
Rewind Roma, luglio 2025 # Brucia la città
(disegno di peppe cerillo) Il 4 luglio alle otto di mattina un enorme boato scuote la città: è l’esplosione di un distributore Gpl a Torpignattara – tra la piscina di Villa de Sanctis e la scuola materna Romolo Balzani, a ridosso del quartiere di case cooperative Casilino 23 e a due passi dalla via Casilina. Prima dell’esplosione avevano preso fuoco anche un deposito di bombole di ossigeno della Croce Rossa e uno sfasciacarrozze, creando una nube tossica di diossina; miracolosamente, la zona non si era ancora riempita dei bambini che frequentano i campi estivi. Questa parte di Roma fin dagli anni Sessanta doveva essere una zona per la logistica. I proprietari dei terreni l’hanno però riempita di palazzine residenziali e così oggi le industrie pericolose e inquinanti convivono con scuole, asili nido, centri sportivi, zone archeologiche e quartieri densissimi (si veda qui). La sera divampa un altro incendio nel parco del Forte Prenestino. Il 6 a Parioli esercitazione antiterrorismo della polizia italiana intorno all’ambasciata israeliana (non nei confronti di militari e civili israeliani attivi nel terrorismo contro la popolazione di Gaza). Scendono le temperature: l’8 luglio fa quasi freddo. Il Tar boccia le opposizioni della fu giunta Raggi a un grande progetto di settemila metri quadri residenziali intorno alla Vela di Tor Vergata, che quindi inizierà a breve, sempre giustificato dell’idea che costruire nuove case fa sempre bene, anche in una città con centomila appartamenti vuoti. Il 9 alla manifestazione Sports beats borders dell’Esquilino partecipa una squadra di bambini palestinesi arrivati dal campo profughi di Chatila. Muore l’ispettore ustionato dall’esplosione del deposito di Gpl del 4 luglio: fortunatamente è l’unica vittima mortale, ma ci sono decine di ustionati gravi, centinaia di feriti, e un migliaio di bambini senza scuola. Il 10 al centro congressi La Nuvola (Eur) si celebra una Conferenza sulla ricostruzione dell’Ucraina, che blocca il traffico del centro: tra i partecipanti anche l’attore Zelensky. Nel frattempo, a Torbellamonaca prende fuoco un palazzo: settantadue nuclei familiari vengono evacuati. L’11 un aereo della polizia porta a Roma dalla Grecia un uomo statunitense, accusato del duplice femminicidio della moglie e della figlia trovate morte a inizio giugno a Villa Pamphili. All’Idroscalo di Ostia inizia il festival del cinema Alice nella Città: il maxischermo è montato proprio dove c’erano le case rase al suolo da Alemanno nel 2010. Un motociclista muore in incidente vicino Ostia Antica. Domenica 13 un forte nubifragio spazza Roma con vento e pioggia: l’acqua entra anche nell’ospedale Grassi di Ostia. Lunedì 14 arrivano a Roma i familiari di Satnam Singh, il bracciante sikh di Latina mutilato sul lavoro e lasciato morire dissanguato dal suo padrone. Una consigliera Pd di Garbatella dichiara il passaggio a Fratelli d’Italia. Il Tribunale di Roma sospende quattro poliziotti implicati nel traffico di droga di San Lorenzo: anche loro erano strumenti della gentrificazione del quartiere, che estrae valore dal territorio rendendo impossibile la vita a chi lo abita. Muore un operaio kurdo investito da un’auto a Centocelle: è la settantottesima vittima delle strade a Roma dall’inizio dell’anno. Il 15 il Comune stanzia due milioni per riaprire la scuola Romolo Balzani, devastata dall’esplosione del deposito di Gpl. Il 17 la polizia irrompe in casa di Chef Rubio e sequestra computer e Usb, trattenendolo nel commissariato di Frascati fino a sera. Intanto, retata razzista a piazza Vittorio: la Celere circonda un gruppo di migranti africani, chiede documenti a tutti, li carica sul furgone e se li porta via. Il sindaco di Roma è agli Stati generali della bellezza, nell’incantevole location di Cava de’ Tirreni, impegnato a dichiarare che “le periferie di Roma fanno schifo”. Venerdì 18 il Tar respinge il ricorso contro l’abbattimento del bosco di Pietralata per la costruzione dello stadio privato dell’imprenditore Friedkin, mentre un picchetto antisfratto evita l’espulsione di un’anziana da un palazzo di proprietà dell’Inps occupato da decenni. La guardia di finanza mette i sigilli allo stabilimento balneare per vip V-Lounge di Ostia, che disponeva di ottocento lettini. Il 19 un gruppo di attivisti di Ostia manifesta sulla spiaggia, rivendicando il “mare libero” dalla privatizzazione rappresentata dalle concessioni balneari. A Ostia tutta la parte centrale della spiaggia è privatizzata, e le spiagge libere sono solo a molti chilometri dal centro, difficili da raggiungere e mal collegate con i mezzi pubblici. Il 20 un passante trova il cadavere di una donna al Mandrione, vicino ai binari del treno: era scomparsa cinque giorni prima dalla zona di Ponte Mammolo. Il 21 un gruppo di lavoratrici dello spettacolo occupa simbolicamente il Circolo degli Artisti, chiuso dal commissario Tronca nel 2015 e mai più riaperto. Chiude per una settimana la linea C della metropolitana, per i test delle nuove stazioni di Colosseo e Porta Metronia. Il 22 alla Camera dei deputati si inaugura un congresso sul Nuovo ruolo geopolitico di Israele: Maccabi World Forum, Istituto Milton Friedman, Unione delle Associazioni Italia-Israele (UAII), Israel’s Defend & Security Forum (ISDF) e Alleanza per Israele premiano Matteo Salvini davanti a militari e deputati italiani, soprattutto della Lega, con importanti rappresentanti dello stato genocida. Presidio intanto in piazza Capranica contro l’assedio della fame a Gaza. Il 23 il Comune annuncia l’acquisto del palazzo occupato in via Bibulo, a Cinecittà-Don Bosco, che era stato già requisito anni fa dall’allora presidente del municipio Sandro Medici: i proprietari erano un monsignore, un camorrista e una contessa che lo tenevano vuoto. Il 24 un uomo incendia due macchine della polizia davanti al commissariato di via Farini; un altro spara contro il buttafuori di una discoteca all’Eur, ferendolo alla testa; un incendio distrugge il chioschetto di piazza Vittorio. Intanto il Comune approva la qualifica di “interesse pubblico” per uno studentato privato da seicento euro al mese su terreni pubblici dei mercati generali di Ostiense: la corporazione immobiliare Hines lo avrà in concessione per sessant’anni senza neanche un limite ai canoni d’affitto. La “città dei giovani” immaginata da Veltroni è un regalo ai privati ancora più grande dei vecchi piani di zona. Il 25 presidio solidale davanti al Cpr di Ponte Galeria, dove continuano a essere rinchiuse persone che non hanno commesso alcun crimine: l’anno scorso un ragazzo di vent’anni rinchiuso lì dentro si era suicidato. Il 28 luglio inizia il temuto giubileo dei giovani, il grande evento estivo per il quale si attendono decine di migliaia di giovani pellegrini da tutto il mondo: all’evento analogo del Duemila, oltre due milioni di ragazzi e ragazze cattoliche avevano inondato la zona di Tor Vergata che il Comune aveva costruito con novantuno miliardi di vecchie lire. L’area è la stessa oggi. Nella stessa giornata spari a Cinecittà, e anche ad Acilia, dove una ragazza egiziana viene colpita per errore ad una gamba. Il 29 otto attiviste e attivisti del movimento per il diritto all’abitare subiscono perquisizioni domiciliari e il sequestro dei dispositivi elettronici da parte di carabinieri e digos: ennesima operazione di criminalizzazione legittimata con un’inchiesta sui “contributi da 3/5 euro” (cit.) per le spese di manutenzione delle occupazioni abitative in cui vivono. Il 30 un incendio distrugge uno stabilimento balneare a Maccarese. Il 31 inizia la demolizione dell’ex Fiera di Roma: il progetto prevede di trasformarla in una Città della gioia: né più né meno che trentacinquemila metri quadri di nuove palazzine di proprietà del Fondo Orchidea di Banca Finint, e intorno la zona verde obbligatoria per gli standard urbanistici. (stefano portelli)
Il Tar dà ragione alla rete contro le zone rosse. Annullata l’ordinanza del prefetto di Napoli
(disegno di cyop&kaf) Il Tribunale Amministrativo Regionale della Campania ha annullato l’ordinanza del prefetto di Napoli che prorogava il divieto di stazionamento nelle cosiddette “zone rosse” cittadine, misura ispirata da una direttiva del ministro Piantedosi dello scorso dicembre. Il Tar ha giudicato “l’esercizio del potere prefettizio privo dei necessari presupposti, illegittimo e lesivo dei principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale”. La sentenza dichiara che non vi era alcuna emergenza eccezionale, né alcuna motivazione nuova a giustificare l’uso reiterato di poteri prefettizi straordinari. Si tratta di un piccolo grande colpo alla politica di trasformazione dell’eccezione in prassi, che si è concretizzato grazie a una rete di attivisti, tecnici, studenti e lavoratori che si è riunita in città negli ultimi mesi, autorganizzando una mobilitazione all’interno della quale il piano legale è solo uno dei livelli. Stella Arena e Andrea Chiappetta, gli avvocati che si sono occupati del ricorso, spiegano: “Il Tar ha riconosciuto che le ordinanze del prefetto erano illegittime e violavano principi costituzionali. Dopo mesi di contenzioso, viene sancito un principio fondamentale: il potere straordinario non può diventare regola ordinaria. Il diritto non può piegarsi a logiche di emergenza permanente. La decisione ristabilisce il primato della Costituzione sull’arbitrio amministrativo”. L’ordinanza del 31 dicembre 2024 prevedeva un divieto di stazionamento in determinate aree della città di Napoli per soggetti che erano stati destinatari di una segnalazione all’autorità giudiziaria per un certo tipo di reato (tra cui spaccio, rissa, occupazione di edifici) o che avevano assunto atteggiamenti minacciosi o molesti. Il team legale aveva invece denunciato che i provvedimenti “contingibili e urgenti” che l’articolo 2 dell’ordinanza consentiva, hanno come presupposto l’esistenza di “situazioni di carattere eccezionale e imprevisto non suscettibili di essere affrontate con gli strumenti ordinari previsti dall’ordinamento”. Devono però, in quanto atti extra ordinem, avere “un’efficacia temporanea e limitata nel tempo e risultare ragionevoli e proporzionati”. In ogni caso, il ricorso specifica che anche il provvedimento del dicembre 2024 (e non soltanto la sua proroga) non mira a far fronte a una situazione eccezionale e imprevista, ma a situazioni ordinarie, stratificate nel tempo o che si ripropongono ciclicamente; tanto l’ordinanza quanto la sua proroga, inoltre, non risultano giustificate da “alcuna recrudescenza in forme impreviste e particolarmente gravi, di fenomeni di degrado o illegalità in relazione alle cosiddette zone rosse individuate dall’amministrazione”. Viene infine rilevata l’irragionevolezza nell’individuazione dei soggetti destinatari del divieto: da un lato, per la scelta stessa dei reati, dall’altro per il fatto che la sola denuncia, in assenza di una condanna, “non può giustificare una presunzione di pericolosità sociale”. A ciò si aggiunge infine il carattere di indeterminatezza delle condotte, censurata per la discrezionalità che concede alla polizia nell’applicare il divieto e perché viola “i principi di tipicità e determinatezza che dovrebbero accompagnare il provvedimento amministrativo allorché vada ad integrare una norma penale”. La rete di associazioni e collettivi politici ha ribadito che “le libertà personali non possono essere compresse per ordinanza e che nessuna direttiva ministeriale può derogare, neanche di fatto, ai principi di uguaglianza, legalità, presunzione di innocenza e proporzionalità”. (redazione)