La cattedra non c’è più. Insegnare italiano nelle occupazioni abitative(copertina di cyop&kaf)
Dal numero 10 (aprile 2023) de Lo stato delle città
La rete solidale Ci Siamo da anni sostiene alcune occupazioni abitative a
Milano. Dado è un attivista e insegnante di italiano che si è impegnato a lungo
nel proporre all’interno delle occupazioni un diverso modo di fare scuola.
Abbandonato il modello frontale, nei laboratori linguistici guidati da Dado gli
studenti e gli insegnanti contribuivano allo stesso modo alla riuscita della
lezione apportando ognuno le proprie competenze.
«Il primo contatto con l’esperienza di Ci Siamo fu quando abitavo nel quartiere
di Villa San Giovanni. Vidi una locandina che invitava la gente del quartiere a
partecipare a un’assemblea pubblica in uno spazio occupato in via Fortezza.
Qualche giorno prima andai con un collega a dare un’occhiata e l’accoglienza fu
molto tranquilla, nel senso che appena entrati, eravamo due sconosciuti, gli
abitanti ci fecero vedere la struttura, ci raccontarono le loro storie. Mi colpì
questa volontà di emancipazione, così forte da determinare anche il nome del
collettivo: Ci Siamo. Siamo qua e parliamo, viviamo, abbiamo diritti e vogliamo
rivendicarli.
«L’assemblea che seguì fu molto interessante. Gli abitanti erano tutti migranti,
con un’alta concentrazione di nordafricani. I compagni invece provenivano da
realtà eterogenee. La sfida per me fu quella di capire che tipo di contributo
dare perché andasse avanti la cosa. Sin dall’inizio avvertii la differenza di
prospettiva tra gli abitanti, che avevano bisogno di un posto in cui stare per
poi rispondere ai propri bisogni personali, di lavoro, di documenti, eccetera; e
i compagni dell’area solidale, che cercavano di strutturare l’assemblea aperta.
Per me fu importante capire come si prendevano le decisioni. Gli abitanti
avevano la loro idea di delega, data implicitamente a qualcuno di loro, mentre i
compagni optavano per momenti assembleari con il coinvolgimento di tutti i
presenti e le presenti, senza delega.
«Le istanze erano enormi, il clima di forte carica, grande voglia di esserci, di
far parte, di creare qualcosa. In un’assemblea emerse finalmente il tema di come
prendere le decisioni: c’erano i compagni che in italiano raccontavano e
dall’altra parte io che traducevo in arabo. Fui in difficoltà nel riassumere
interventi di italofoni con una padronanza della lingua massima e scelte di
termini molto specifiche. Già dalle prime assemblee si cominciò a parlare di
lotta di classe, di rivendicazioni, di consenso, di pratiche libertarie, quando
poi nell’arabo, non solo per mancanze mie, ma direi per una differenza anche
culturale, la traduzione saltava. Concetti che per i compagni italiani erano
assodati, non venivano capiti dagli abitanti.
«Poi Fortezza venne sgombrata con un intervento della polizia che distrusse
tutto quello che si stava creando. Gli abitanti, in maniera abbastanza compatta,
decisero di rifiutare le offerte del Comune, che ai tempi proponeva a molti la
possibilità di entrare nelle strutture del Piano Freddo: dormitori per la notte,
con l’obbligo di uscire la mattina e la possibilità di rientrare la sera.
Ricordo un’assemblea di fronte agli spazi dell’Alitalia di Sesto Marelli,
occupati anni prima, con la polizia intorno che osservava, cercava di ascoltare
quello che emergeva.
«Si decise di occupare un altro spazio, a Sesto San Giovanni, di fianco al
Carroponte. Fu un’occupazione improvvisata, perché la struttura non era idonea,
faceva freddo, l’acqua non c’era o c’era solo in parte. Già lì ci furono i primi
allontanamenti tra i solidali, quindi l’eterogeneità di posizioni che
caratterizzava via Fortezza cominciò a ridursi, rendendo il tutto più semplice
ma al tempo stesso meno ricco.
«Si iniziava anche a capire che bisognava informare meglio i nuovi arrivati per
distinguere quel tipo di esperienza dalle strutture di accoglienza; per far
capire la necessità di passare dalla posizione di utente passivo a un
coinvolgimento diretto in uno spazio assembleare. Tuttora la difficoltà nel
percepire l’assemblea come spazio decisionale in cui poter dire la propria, un
po’ manca. Ai tempi io venivo chiamato dagli abitanti Capo Dado o Capo…
«Passa il tempo, ci si rende conto che non si può andare avanti in quella
struttura di Sesto San Giovanni, ci si attiva per trovare un’altra struttura e
si arriva in via Esterle. Un forte entusiasmo iniziale, giornate di pulizia e
musica per sistemare gli spazi interni. Gli abitanti che chiedono di stilare un
elenco di presenze per evitare sovraffollamenti, in spazi che altrimenti
rischiavano di replicare le dinamiche dei dormitori. In parallelo a questa
volontà di strutturare gli spazi perché restassero dignitosi, c’era però sempre
la tendenza a ospitare amici, che si fermavano più mesi del previsto e quindi la
difficoltà di allontanare persone quando si era in troppi, di dire no a nuove
persone che chiedevano ospitalità… Questo tema è stato un filo rosso che ha
caratterizzato tutta l’esperienza di Ci Siamo.
«Bisognava aiutare le persone a emanciparsi in una chiave collettiva, di vita
comunitaria, di rispetto reciproco. All’esterno, fin dagli inizi, Ci Siamo era
entrata a far parte di una rete di movimenti per il diritto alla casa e ad avere
contatti con realtà associative legate ai diritti dei migranti. L’apertura verso
l’esterno è sempre stata un punto fisso dei solidali, che spingevano per creare
reti con altre esperienze, non solo milanesi. Mentre la tendenza degli abitanti
è sempre stata di focalizzarsi sui propri percorsi, e poi sulle tematiche
interne di conflitto o di condivisione degli spazi e delle cose.
«Questi piani a Esterle hanno iniziato ad avere punti di contatto importanti. Da
una parte l’interesse dei compagni a conoscere le persone, che voleva dire, per
esempio, imparare il loro nome non solo per la necessità di stilare elenchi,
capire che non si trattava solo di storie personali ma che le situazioni di
sfruttamento e di precarietà accomunano tutti, a maggior ragione i migranti,
ricattabili sotto molti punti di vista.
«In Esterle ho notato una disponibilità maggiore da parte dei compagni ad
abbandonare il proprio linguaggio di riferimento, molto politico, per facilitare
il contatto. Ricordo momenti interessanti in cui si era partiti dall’abc delle
teorie marxiste, con una forte attenzione alla traduzione, al fatto che le
storie di precariato potessero trovare espressione in quelle teorie. Erano
momenti collegati alla scuola di italiano, che ho sempre creduto strategica per
aumentare la possibilità di dire la propria e di non stare alle regole dello
sfruttamento. Lì c’è stata la possibilità di una presa di contatto tra gli
abitanti e i compagni della rete solidale. È nato un interesse del collettivo,
non solo di singoli compagni, ad approfondire le storie dei paesi d’origine
delle persone e si è cominciato a parlare di colonizzazione e di nuova
colonizzazione.
«Una costante dell’esperienza di Ci Siamo è stata quella di spostarsi
continuamente da un piano all’altro, dalle teorie marxiste alle paure di uno
sgombero, dalle alleanze con altre esperienze alle dispute interne. È un tipo di
lotta che si muove su piani diversi, cercando un equilibrio tra le dinamiche
interne e la rivendicazione più ampia del diritto alla casa, a una vita
dignitosa, alla salute, all’amore. Però, ecco, la fatica delle assemblee era
sempre quella di spostarsi tra le tematiche.
«Passa il tempo, movimenti interni, persone allontanate che non riescono a
reggere le dinamiche collettive: la convivenza non è facile per nessuno. E, in
parallelo, anche una forte riduzione dei compagni. Dai forse sette spazi di
riferimento da cui arrivavano i compagni, con Esterle gli spazi si riducono.
Nonostante tutto, le richieste di entrare nelle strutture di Ci Siamo sono
sempre maggiori e quindi il collettivo individua un’altra struttura in via de
Staël, nel quartiere di Dergano: i nordafricani vanno lì, mentre gli altri
africani restano in Esterle. Si creano due poli distanti, però con celebrazioni
molto belle di Ramadan, dove gli abitanti di una struttura si recavano
nell’altra per momenti di festa condivisi.
«Quindi un nuovo quartiere, nuovi coinvolgimenti, una buona, perlomeno
all’inizio, disponibilità delle realtà associative, ma anche di abitanti
singoli, di nuclei familiari che partecipavano alla vita della struttura. C’era
una signora che entrava negli spazi di via de Staël, con l’accordo degli
abitanti, per dare da mangiare ai gatti, perché ai tempi c’era una colonia
felina nello spazio occupato. L’immagine della signora milanese di una certa età
che entra in quello spazio abitato solo da nordafricani, tendenzialmente uomini,
mette bene in luce la volontà delle occupazioni di Ci Siamo.
«Poi l’esperienza di Dergano andrà in modo diverso rispetto a quello che si
immaginava, con una distanza sempre maggiore tra la rete e gli abitanti, che
proponevano delle assemblee autonome e spingevano per allontanarsi
dall’assemblea generale e avere una maggiore autonomia, anche politica. Quindi
Dergano inizia a essere un posto sempre più pieno di persone, dove il contatto e
la conoscenza mancano e di conseguenza manca tutto il racconto sulle vicende
personali, manca la partecipazione ai momenti collettivi.
«Un passo indietro, sicuramente più personale, era stato nel maggio dell’anno
dell’occupazione, il 2017: il mese successivo c’era il Pride e la mia volontà
era quella, dopo averne ragionato con i compagni, di invitare tutto il
collettivo a partecipare, non necessariamente come Ci Siamo ma come singole
persone. Ho trovato invece una forte resistenza, anche con posizioni strane, di
persone che volevano aiutarmi a guarire dal mio orientamento sessuale, con
espressioni forti come “andrai all’inferno”, cose abbastanza colorite che hanno
messo in luce ancora una volta, almeno in quell’occasione, una forte distanza
tra alcune lotte e il contesto specifico sui diritti dei migranti, ma
probabilmente non tutte le lotte oggi possono essere intersezionali…
«Dopo quelle tendenze a isolarsi, a non credere più nei momenti assembleari, Ci
Siamo decise di non seguire più Dergano. Dopo vari tentativi, compagni che
insistevano e continuavano a far presente la necessità di un momento più ampio,
che guardasse oltre le problematiche interne, che richiamasse a un piano più
politico e di contatti con Esterle, dopo mesi di questi tentativi si prese atto
che mancava proprio la disponibilità. Quindi l’occupazione di Dergano è andata
avanti in maniera autonoma, il numero delle persone è aumentato, ci sono stati
episodi interni di aggressività, che c’erano stati già prima, quando il
collettivo era presente. Nel frattempo il collettivo andò a occupare una nuova
struttura, in via Iglesias: parte degli abitanti di Dergano e parte degli
abitanti di Esterle confluirono in questa nuova occupazione.
«Un nuovo quartiere, una struttura interessante che permetteva maggiore
autonomia, quindi più cucine, più bagni, più camere o addirittura piccoli
appartamenti, numeri limitati di persone, ma anche spazi condivisi per
l’assemblea e le attività aperte al quartiere. Un paio di abitanti del quartiere
entrarono nelle assemblee, mentre la maggior parte erano per un aiuto umanitario
e di sostegno alle famiglie, dando materiale per i bambini, vestiti, carrozzine…
Questo ha caratterizzato tutta l’epoca di Iglesias: più famiglie, più bambini
che vanno a scuola, più relazioni col quartiere. Mentre le prime occupazioni
vedevano forse la quasi totalità degli abitanti legati a nuovi percorsi
migratori, quindi precarietà documentale, richieste di asilo, percorsi di
accoglienza falliti, con Iglesias le storie portavano verso nuove situazioni,
uno sfruttamento diverso, una precarietà se possibile anche maggiore, legata a
situazioni familiari di lunga permanenza ma con momenti di permesso alternati ad
altri di totale precarietà documentale. In Iglesias, che ho vissuto poco, si
vedeva, con le criticità che sempre esistono, un’assemblea forte, dei rapporti
di vicinato interno in grado di generare arricchimenti; lì ci sono stati i primi
doposcuola dell’esperienza di Ci Siamo, e forse anche gli unici; lì, secondo me,
c’è stato un salto, con più attenzione a istanze più ampie, a una prospettiva
politica.
«Dopo Iglesias c’è l’occupazione di via Siusi, spinta dalla necessità di
rispondere ai problemi alloggiativi di più persone e anche, perché no,
all’esperienza ormai acquisita che le strutture con camerate non erano quello
che si voleva fare. Quindi Siusi risponde anche al bisogno di creare spazi più a
misura d’uomo. Non era Iglesias, però in alcune parti della struttura si è
riusciti a ottenere spazi più autonomi per i gruppi familiari e luoghi
assembleari condivisi.
«Una costante, in tutte le esperienze di Ci Siamo, è l’aiuto umanitario da parte
del quartiere, soprattutto quando ci sono bambini e famiglie; quel che manca è
spesso la volontà di mettersi in gioco in un ambiente assembleare, di essere
parte attiva, cosa che accade anche con molti abitanti; un interesse a risolvere
questioni personali più che legittime, a svantaggio di un piano condiviso che
porta forse risultati non immediati, ma che propone un cambiamento collettivo.
«A Siusi c’è anche la scuola di italiano, con almeno cinque persone del
quartiere che danno disponibilità sia per lezioni individuali, che per momenti
collettivi con tutti gli studenti, a prescindere dal livello e dalle competenze
linguistiche.
«In tutte le esperienze di Ci Siamo la scuola di italiano è sempre stata
riconosciuta come un bisogno. Gli abitanti la proponevano a me perché io parlo
un po’ di lingue e ho diversi anni di insegnamento di italiano L2, sia in
contesti associativi, sia all’estero come lingua straniera, in Sudan, Egitto,
Marocco, Tunisia. Per un po’ sono stato anche convinto che potesse essere il mio
lavoro. Così, quando in Fortezza mi proposero di insegnare italiano, quella
richiesta rispondeva anche al mio bisogno di collocarmi in un ambiente più
attento agli aspetti comunicativi e al contatto diretto con le persone. Gli
abitanti avevano allestito uno spazio e con lo spray avevano scritto sul muro
“scola di italiano”, senza la “u”. Prima del mio arrivo, avevano organizzato
tutto come in una classe ordinaria, con una dozzina di banchi messi in fila e
isolati l’uno dall’altro, tutti diretti verso la cattedra e la lavagna nera.
«In Fortezza si era dibattuto a lungo sull’utilizzo di quello spazio. Le idee
erano di adibirlo a scuola, come poi è stato, oppure a moschea, spazio di
preghiera. Anche in Esterle, nello spazio dopo l’ingresso a destra, tanti
insistevano perché potesse essere un luogo di preghiera, qualcuno diceva no, è
uno spazio per la scuola di italiano. Mi ha sempre colpito questa cosa di
decidere se fare una piccola moschea o la scuola di italiano.
«Sin dalla prima esperienza in Fortezza l’idea era di ribaltare la prospettiva
di studenti e insegnanti, quindi non partire dall’alfabeto ma dalle competenze
che ogni persona che vive in Italia acquisisce, anche solo come fruitore
passivo, per esempio quando sei in autobus e senti “prossima fermata Caiazzo”…
Questa continua esposizione alla lingua italiana fornisce già delle competenze
linguistiche. Bisogna dare voce a queste competenze, sistemando la grammatica
quando serve, ampliando le prospettive di utilizzo delle parole, legandole a
contesti pratici, per esempio alla necessità di raccontarsi a un avvocato, di
difendersi in contesti in cui sei obbligato a spiegare chi sei, nel caso di un
fermo di polizia per esempio, o nella ricerca del lavoro…
«In Siusi abbiamo avuto più insegnanti che in momenti diversi della giornata si
erano resi disponibili, sia con conversazioni online, ma anche con lezioni dal
vivo, chiacchiere, passeggiate. Ricordo un’insegnante volontaria che aveva la
passione delle passeggiate e lo stesso la sua studente di riferimento, e la loro
lezione si svolgeva all’interno del Parco Lambro, passeggiavano e se la
chiacchieravano in italiano.
«Nella mia idea, il corpo poteva essere utilizzato, anche con toni ludici e
giocosi, a scapito della necessità di verbalizzare, di raccontare. Ricordo un
paio di lezioni sul concetto di casa, in cui si era utilizzato un manuale a
fumetti su come era cambiata la casa dagli uomini primitivi a oggi, e si
chiedeva alle persone di mettere in scena alcune situazioni viste nel manuale,
quindi una discussione di gruppo su come replicare la scena, la necessità di
negoziare, in italiano, di organizzare, cooperare e poi trovare il coraggio di
rappresentarlo davanti agli altri.
«La sfida era anche quella di condividere con gli altri insegnanti questo tipo
di approccio, che richiede una flessibilità maggiore rispetto al “ti insegno il
verbo essere al presente indicativo”. Immaginare dei momenti di gioco o comunque
l’assenza di un manuale può portare a momenti di disagio – cosa faccio, come lo
faccio, non ho gli strumenti per – che sono parte integrante di un percorso
didattico, di crescita non solo del migrante che studia l’italiano L2, ma anche
dell’amico o amica italiana che capisce che quello che dice non è
necessariamente sempre chiaro. E, in un contesto di lotta, è necessario anche
per gli italofoni rivedere le proprie abitudini comunicative. La cattedra non
c’è più, siamo un gruppo, ed ecco, imparare una lingua è un momento che tocca un
po’ tutti i presenti.
«Ora mi trovo altrove, al confine con la Francia.
«Il tema dell’omosessualità, che era stato trattato in Dergano, e l’invito al
Pride, è stato un discrimine importante per me, in negativo. Ho dovuto
ricollocarmi un po’, capire cosa chiedere e cosa non chiedere a Ci Siamo, quali
sono i miei bisogni di compagno, oltre che di persona, quali lotte portare
avanti con Ci Siamo e quali no. È stato lì che ho preso un po’ le distanze, e ho
sentito gradualmente che questo contesto non era, perlomeno allora, oggi non so,
lo spazio ideale per una lotta intersezionale che ho in mente; quindi ho ridotto
le mie aspettative, con tutto il bene e l’affetto che resta per Ci Siamo, però
da un punto di vista politico so che non posso aspettarmi tutte le lotte che
vorrei avere. Forse era un po’ sovradimensionato da parte mia, non so; però
questo è quello che è successo». (salvatore porcaro)