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CONFERENZA STAMPA ALLA CAMERA DEI DEPUTATI PRESENTAZIONE DOSSIER LEONARDO S.P.A.
9 DICEMBRE 2025 – CONFERENZA STAMPA ALLA CAMERA DEI DEPUTATI PER LA PRESENTAZIONE DEL DOSSIER SU LEONARDO S.P.A.: PIOVONO EURO SULL’INDUSTRIA “NECESSARIA” DI CROSETTO E LEONARDO S.P.A.   Martedì 9 dicembre, su invito della deputata Stefania Ascari (M5S, Presidente dell'Intergruppo per la Pace tra la Palestina e Israele), BDS ITALIA presenterà un dossier sulle complicità di Leonardo S.p.A. nei crimini di guerra commessi in Palestina. Interverranno: Stefania Ascari (Deputata M5S), Arnaldo Lomuti (Commissione Difesa), Anthony Aguilar (ex contractor Gaza Humanitaria Foundation), Stefania Maurizi (giornalista d’inchiesta), Michela Arricale (avvocata), Rossana De Simone (attivista Peacelink), Raffaele Spiga (attivista BDS Italia). Diretta streaming sulla Web TV della Camera dei Deputati. Negli ultimi decenni l’Italia è diventata uno dei partner europei più fedeli a Israele. Con Leonardo in prima fila, la nostra industria è parte integrante del circuito che alimenta i crimini contro l’umanità e legittima il colonialismo. Il dossier denuncia tali complicità, evidenziando come le scelte politiche e industriali italiane non siano neutrali ma contribuiscano concretamente a rafforzare il regime israeliano di apartheid e occupazione. Leonardo S.p.A. intrattiene da oltre un decennio una cooperazione strutturale con il settore militare israeliano. Nel 2012 Israele ha acquistato 30 aerei M-346, oggi impiegabili con oltre dieci tipologie di armamenti, mentre l’Italia ha acquisito 1 satellite Optsat-3000 e 2 velivoli radar G550 CAEW nell’ambito dello stesso accordo. La presenza industriale diretta di Leonardo in Israele comprende tre sedi della controllata DRS RADA Technologies e una partecipazione del 12% nella società Radsee Technology. Il dossier rileva inoltre che Israele può rivendere a terzi i M-346 ricevuti, come avvenuto con la Grecia tramite Elbit Systems. Leonardo ricopre un ruolo significativo anche nel programma internazionale F-35, di cui l’Italia ospita la linea di assemblaggio e produzioni critiche. Tali elementi delineano un quadro di integrazione industriale e tecnologica che contribuisce alla disponibilità operativa dei sistemi in uso nelle forze armate israeliane. Il movimento globale BDS (Boicottaggio, Disinvestimento, Sanzioni), che rappresenta la più grande coalizione della società civile palestinese richiama l’Italia ai propri obblighi derivanti dalle sentenze della Corte internazionale di giustizia, tra cui l’imposizione di un embargo militare totale a Israele compreso il commercio bilaterale, il trasferimento e il transito di materiale militare e a duplice uso, i partenariati, la formazione congiunta, la ricerca accademica e altre forme di cooperazione militare. Questo tipo di sanzioni è tra gli obiettivi a cui il movimento BDS si pone di arrivare attraverso campagne d’informazione, pressione pubblica  e denuncia delle complicità.  DOSSIER DA SCARICARE: Piovono euro sull'industria “necessaria” di Crosetto e Leonardo SpA Le relazioni con Israele.   DETTAGLI Conferenza Stampa di presentazione dossier Piovono euro sull’industria ‘necessaria’ di Crosetto e Leonardo S.p.A. Martedì 9 dicembre 2025 – ore 13:00 Sala stampa Camera dei Deputati  Via della Missione 4, Roma Interverranno: * Stefania Ascari - Parlamentare della Camera dei deputati e Presidente Intergruppo per la Pace tra la Palestina e Israele (M5S) * Arnaldo Lomuti – Parlamentare della Camera dei deputati e Segretario Commissione Difesa (M5S) * Anthony Aguilar – ex-contractor (UG Solutions) che ha rivelato ruolo della Gaza Humanitarian Foundation (in collegamento alle 13:30) * Stefania Maurizi – Giornalista d'inchiesta, collabora con "Il Fatto Quotidiano", dopo aver lavorato per Repubblica e l'Espresso. Ha lavorato a tutti i documenti segreti di WikiLeaks * Michela Arricale - Avvocata, attivista e giurista impegnata nei settori del diritto e delle relazioni internazionali, dei diritti umani e della giustizia globale. * Rossana De Simone – Autrice del dossier, attivista antimilitarista. Ha promosso la nascita nel 1991 dell'agenzia per la riconversione dell'industria bellica in Lombardia. Fa parte della redazione di "PeaceLink" * Raffaele Spiga – Attivista per i diritti umani in BDS Italia (Boicottaggio, Disinvestimenti, Sanzioni). Campagna Embargo Militare contro Israele Diretta streaming sulla Web TV della Camera dei Deputati alle ore 13. La registrazione della conferenza stampa sarà disponibile sul sito nei quindici giorni successivi. Saranno distribuite copie stampate del dossier ai presenti. Si invitano giornalisti e giornaliste che volessero partecipare in presenza ad inoltrare  richiesta con proprio nome e cognome a bdscomunicazione@gmail.com
Il porto crocieristico di Fiumicino, implicazioni per il sistema di mobilità di Roma
di Pietro Spirito Il contributo di Pietro Spirito, economista dei trasporti, del consiglio direttivo di Carteinregola, al Dossier mobilità Programmi, progetti, conflitti, domande, proposte . In calce il suo intervento in video per la presentazione del Dossier del 4 dicembre 2025. Lo smarrimento delle politiche per la mobilità in una area metropolitana come Roma si misura anche dalla incapacità di valutare le possibili ricadute che si determinano se vengono realizzati progetti fuori dalla cinta muraria, che poi determinano impatti assolutamente rilevanti. Invece di prenderli in considerazione si rischia così di assistere nel silenzio alla futura caduta di tegole in testa, ovviamente essendo a quel punto del tutto incapaci di mettere in campo provvedimenti adeguati a governare una  crescita non imprevedibile, ma non governata, della mobilità. I casi che si potrebbero prendere in considerazione per stigmatizzare questo approccio sono molteplici, ma ne prenderemo in considerazione uno solo, emblematico. Il progetto del nuovo porto turistico-crocieristico di Fiumicino (Isola Sacra) rappresenta un potenziale investimento privato rilevante, pari a circa 600 milioni di euro, con  effetti rilevanti sul sistema di mobilità di Roma. Se fosse realizzato questo nuovo porto crocieristico lungo la direttrice occidentale verso il centro della città, si determinerebbe un forte aumento della congestione. Ovviamente, per inquadrare la questione della mobilità, bisogna inserirla nel contesto di questo progetto. La presente analisi mette in evidenza i seguenti punti: (i) caratteristiche del progetto e quadro; della VIA (Valutazione di Impatto Ambientale); (ii) dinamiche della domanda crocieristica e flussi di passeggeri; (iii) impatti attesi su infrastrutture stradali e ferroviarie; (iv) effetti ambientali locali legati a emissioni e congestione; (v) misure di mitigazione e raccomandazioni per una governance integrata. Negli ultimi mesi la procedura di Valutazione di Impatto Ambientale per il progetto è stata formalmente pubblicata e ha ricevuto pareri tecnici favorevoli (con robuste condizioni), rendendo il tema attuale e operativo. Il progetto prevede darsene per grandi navi crociera, funzioni ricettive e commerciali e una concessione di lungo periodo[1]. Su quest’ultimo tema è intervenuta l’Autorità Garante per la Concorrenza ed il Mercato[2]. Non torniamo sulle molteplici e rilevanti questioni che rendono il progetto critico per il sistema portuale nel suo insieme, al punto tale da ritenerlo non solo inutile ma dannoso. Stavolta ci soffermiamo sulle implicazioni per il sistema di mobilità dì Roma. Basiamo le nostre osservazioni sulla analisi documentale (documentazione VIA[3], controdeduzioni pubbliche), sulla revisione bibliografica e  su studi empirici di impatto crocieristico su città portuali (studio su big-data per congestione urbana, case studies spagnoli e barcellonesi), ricorrendo anche ad una valutazione qualitativa delle implicazioni per la rete di mobilità regionale (tratte ferroviarie FL-1); ovviamente va presa in considerazione la connettività stradale Isola Sacra–Roma: il carico aggiuntivo rispetto ad una direttrice stradale già oggi oltre le soglie tollerabili del traffico sarebbe oltre il limite soglia della tollerabilità. Fonti ufficiali dei traffici portuali sono state utilizzate per dimensionare i flussi attuali. Le infrastrutture previste richiedono imponenti opere di dragaggio per realizzare banchine per navi di grande stazza. L’articolazione del progetto consiste anche in una marina, hotel e aree commerciali. Nella valutazione della mobilità generata non va solo considerata l’approdo crocieristici ma l’insieme delle funzioni turistiche comprese nel progetto. La  documentazione VIA comporta studi su erosione costiera, qualità delle acque e analisi dei flussi di traffico generati dall’attività crocieristica, anche con uno studio di impatto trasportistico allegato alla VIA. Il Lazio si conferma una regione crocieristica trainante (record passeggeri 2024 e alta densità di accosti). Soprattutto per le caratteristiche di Roma, un approdo crocieristico prende le caratteristiche di home port, vale a dire di scalo per la partenza e l’arrivo delle crociere. Questo schema prevede la presenza dei turisti non solo per il giorno della partenza, ma per altri segmenti di permanenza, in arrivo e partenza. Di conseguenza, il tasso di mobilità cresce ulteriormente. L’attivazione di un nuovo terminal a Fiumicino avverrebbe certamente in presenza di un numero complessivo di sbarchi/imbarchi nella regione in aumento.  Riconfigurare la distribuzione dei passeggeri tra Civitavecchia e Fiumicino non è neutrale per le ricadute sulla mobilità per Roma. La identificazione di un secondo molo crocieristico pone tutta una serie di implicazioni problematiche sulla articolazione complessiva del sistema di offerta. Studi su altre città mostrano che le attività crocieristiche generano picchi giornalieri che si traducono in incrementi significativi del traffico urbano (es.: aumento stimato di congestione fino al ~12%, circa il 12%). Questa valutazione è condotta da studi che usano big-data. Tale valore è utile come ordine di grandezza per la valutazione di impatto trasportistico. I flussi di autobus turistici, navette dedicate e veicoli privati diretti al porto possono concentrare pressioni sulla viabilità di Isola Sacra e sulle direttrici verso Roma (A91, via della Scafa, via Portuense). L’effetto di spill-over può aggravare la congestione su nodi urbani e parcheggi di scambio in prossimità della Capitale. Qualche misura di attenuazione della congestione si può mettere in campo, ma va programmata e finanziata per tempo. E le risorse che servono sono almeno pari ai costo dell’investimento per la costruzione del porto. Si può determinare un significativo incremento della domanda passeggeri sulla FL-1 che potrebbe giustificare corse dedicate e potenziamento delle frequenze (shuttle ferroviari per coincidere con sbarchi/imbarchi). La capacità attuale e la dotazione infrastrutturale (numero di binari, stazioni di interscambio, spazi per parcheggio) richiedono investimenti e accordi contrattuali tra infrastrutture ferroviarie e gestore portuale. La documentazione VIA contiene ipotesi di spostamento modale che necessitano una verifica empirica. Poi c’è ovviamente la questione dell’impatto sull’ambiente., che non riguarda solo il fronte del porto. Le navi a motore tradizionale e i movimenti veicolari generano emissioni locali molto consistenti (NO₂, PM, SO₂). La letteratura indica che, senza misure di elettrificazione e navette pulite, i porti crocieristici possono creare concentrazioni puntuali di inquinanti. Le normative UE e le esperienze (es. Barcellona) mostrano la strada verso shore-power e limitazioni strutturate. Nei documenti di progetto, come accade sempre in casi come questi, sono citati effetti positivi, con la creazione di posti di lavoro, opportunità di sviluppo turistico locale e rigenerazione urbana se integrate con politiche pubbliche. Di converso sono evidenti, e non richiedono dimostrazione, conflitti con i porti esistenti (in particolare Civitavecchia). Al progetto si è determinata opposizione locale per impatti paesaggistici e ambientali, oltre che rischi di sovra-concentrazione turistica in alcune aree della città. Sulla base di quanto abbiano ricostruito, andrebbe definito un Piano di mobilità integrato crociera–città. Significa definire obblighi contrattuali per il gestore del porto su percentuali minime di passeggeri trasportati con mezzi collettivi (treno/navetta elettrica) e su orari di sbarchi differenziati per distribuire domanda.  È in ogni caso necessario potenziare FL-1 e creare hub intermodale: stazione di interscambio dedicata, parcheggi di scambio, corsie preferenziali per navette crociera. Va  poi realizzata la elettrificazione delle banchine e lo  shore-power[4]: obbligo progressivo di connessione alle banchine per ridurre emissioni locali; incentivi a navi compatibili e infrastrutture di ricarica per navette elettriche (prassi già adottata in porti UE). È indispensabile il monitoraggio ambientale con un  osservatorio mobilità: KPI[5]  obbligatori nel contratto di concessione (emissioni, % passeggeri in TPL, tempi medi di trasferimento verso Roma). Invece, di tale questione di occupano solo le associazioni che di sono mobilitate contro il progetto del porto crocieristico di Fiumicino. Nell’orizzonte della pianificazione dell’area metropolitana di Roma non si trova traccia di tale questione. Le tegole si avvicinano implacabilmente. Se si decidesse, non auspicabilmente, di procedere comunque verso la realizzazione del porto crocieristico, sono necessari tavoli di concertazione con Comune di Fiumicino, Città Metropolitana di Roma, AdSP (Autorità di Sistema Portuale) e comunità locali per misure di compensazione ambientale e sociale. Le esperienze internazionali possono offrite spunti dai quali partire per minimizzare almeno i danni potenziali. Città come Barcellona hanno già limitato capacità crocieristica e potenziato shore-power e restrizioni di accesso per gestire l‘overtourism. Questo  percorso fornisce un benchmark per politiche preventive e limiti strutturali alla crescita incontrollata. Studi empirici sull’impatto crociere (uso di big-data) mostrano che i picchi giornalieri sono gestibili solo con infrastrutture di trasporto collettivo dedicate e con politiche di regolazione del flusso. Il progetto del porto crocieristico di Fiumicino presenta rischi rilevanti per la mobilità e l’ambiente se non accompagnato da: investimenti in ferrovia e intermodalità, misure di elettrificazione, governance territoriale e obblighi contrattuali vincolanti sul trasporto collettivo. Il modello ottimale è un’integrazione stretta tra investitore privato, autorità portuale e amministrazioni locali per evitare congestione urbana, ridurre emissioni e massimizzare i benefici socio-economici. Di tutto ciò non si parla. Quando si comincerà a farlo sarà tropo tardi. — Riferimenti bibliografici (documenti e studi citati) Documentazione procedura VIA — Progetto per la realizzazione del Porto turistico-crocieristico di Fiumicino (Ministero / piattaforma VIA). Comunicati e notizie sul via libera alla VIA e dettagli di progetto (Shipping Italy; Cruisetermint; ANSA; Il Faro). Dati traffici portuali AdSP: traffici Porto di Fiumicino (2024, 2025). vedi anche, nella prima parte del Dossier Le città metropolitane e il nodo della mobilità  di PietroSpirito  Vai alla prima parte del Dossier VAI ALL’INDICE DEL DOSSIER SCARICA IL DOSSIER COMPLETO IN PDF vai a Progetto Porto turistico crocieristico di Fiumicino cronologia materiali 5 dicembre 2025 Per osservazioni e precisazioni scrivere a laboratoriocarteinregola@gmail.com NOTE ________________________________________________________________________ [1] Vedi Progetto Porto turistico – crocieristico di Fiumicino – cronologia e materiali https://www.carteinregola.it/idossier-2/progetto-porto-della-concordia-di-fiumicino-cronologia-e-materiali/ [2] L’ Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato nella seduta del 14 gennaio 2025 ha formulato  alcune osservazioni in merito al procedimento VIA relativo al progetto del Porto turistico crocieristico di Fiumicino  scarica l’estratto del Bollettino 4/2025 del 03/02/2025 pag. 33 [3] Vedi il  sito del MITE con la documentazione della VIA [4] Lo “shore power”, noto anche come “cold ironing”,  è il sistema di alimentazione elettrica da banchina che consente alle navi attraccate di collegarsi alla rete elettrica a terra, permettendo così di spegnere i motori ausiliari. [5] Key Performance Indicator, Indicatore Chiave di Prestazione _________________________________________________________________
MERCATO TERRA/TERRA di DICEMBRE 2025
DOMENICA 21 DICEMBRE 2025 Vi aspettiamo al Mercato terra/TERRA dalla mattina al tramonto, come ogni terza domenica del mese! Per un'agricoltura a ciclo corto, l'unica che può garantire freschezza, genuinità e rispetto del patrimonio di varietà alimentari e di biodiversità! Vi aspettiamo dalla mattina al tramonto!
TRAINDEVILLE - Live di Sona per il Terra terra in Salaconcerti
DOMENICA 21 DICEMBRE 2025 SONA presenta: TRAINDEVILLE - live in salaconcerti H18:30 Un treno metropolitano che tocca le stazioni più colorate della musica etnica, dall’indie folk ai Balcani, da Roma all’America Latina passando per il klezmer, sulle ali del ritmo e della giocosità. I Traindeville hanno viaggiato per le strade dell’Italia, degli USA, della Germania, della Polonia e dell’India, raccogliendo dovunque gioia e partecipazione e organizzando laboratori musicali con i bambini degli orfanotrofi e delle scuole indiane. A Roma i due si sono esibiti in svariate manifestazioni estive, serate di comicità, danza e poesia, mercatini, presentazioni di libri e mostre artistiche oltre a tante altre situazioni di strada e di festa. I componenti del duo provengono dalle più varie esperienze musicali, dalla storica formazione gypsy-folk-rock Nuove Tribù Zulu alla tradizione romana rielaborata da Ardecore e BandaJorona, fino al klezmer del Dragan Trio, agli scatenati ottoni della street band Titubanda e alle collaborazioni con attori, giocolieri e danzatori: percorsi che si sono spesso intersecati creando nuove sonorità e affascinanti suggestioni narrative.
Demolizione e ricostruzione di immobili, il Consiglio di Stato fa chiarezza
Mentre si profila all’orizzonte una nuova legge che si inserisce nel filone della cosiddetta “Salva Milano” ad opera del Ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti Matteo Salvini, proponiamo una sentenza del Cosniglio di Stato pubblicata qualche settimana fa che fa finalmente chiarezza, con rigore e buon senso, su cosa si debba intendere per “rigenerazione urbana” e con quali modalità si debba applicare perchè vada nel senso dell’interesse pubblico e non della speculazione privata. Una sentenza che adesso potrebbe essere del tutto superata dalle modifiche normative al Testo Unico dell’edilizia che si vogliono introdurre e che sono l’ennesima offensiva alla qualità della vita dei cittadini, oltre che della tutela dell’ambiente e del paesaggio. Il dibattito sull’urbanistica scaturito dalla proposta di legge cosiddetta “Salva Milano” (1), a sua volta scaturita dalle indagini della magistratura su controverse decisioni urbanistiche del capoluogo lombardo, ruota fondamentalmente intorno a due punti: il primo riguarda l’obbligo di un “piano particolareggiato” stilato dal Comune per la costruzione di immobili che superano le altezze e gli indici stabiliti dalla legge (2); il secondo, un corollario del primo, riguarda il titolo edilizio necessario per gli interventi, se la SCIA (Segnalazione Certificata di Inizio Attività), o il Permesso di Costruire rilasciato dal Comune. Nel caso di demolizioni e ricostruzioni di immobili ci si può avvalere della SCIA per interventi che rientrino nella categoria della “ristrutturazione urbanistica”, così come stabilita dal Testo Unico dell’Edilizia (3), mentre è obbligatorio ottenere il Permesso di Costruire in caso di “nuova costruzione” (4). Le ricadute concrete sono consistenti: nel primo caso i costruttori si avvalgono di un’autodichiarazione che sfugge a qualsiasi pianificazione pubblica e che permette una riduzione fino al 40% degli oneri di urbanizzazione, mentre per la nuova costruzione devono corrispondere al Comune gli oneri necessari a garantire le opere pubbliche e i servizi per i nuovi fruitori, secondo le destinazioni d’uso degli immobili (residenze, uffici, commerciale ecc). Un grattacielo di 25 piani sorto dalla demolizione di una palazzina di due piani è ristrutturazione o nuova costruzione? L’interpretazione del Testo Unico dell’edilizia DM 380 /2001, nelle varie versioni che si sono succedute negli anni, in verità non sempre univoca da parte dei tribunali chiamati a dirimere contenziosi, a Milano ha prodotto una vera deregulation edilizia, che rischia di estendersi a tutta la penisola, annullando decenni di battaglie per i diritti degli abitanti e per la vivibilità dei quartieri, con servizi – verde, parcheggi, scuole – adeguate al “carico urbanistico” che si inserisce in una zona abitata. Qualche settimana fa è arrivata una sentenza del Consiglio di Stato (5), che ci sembra faccia chiarezza una volta per tutte sulla questione, con una buona dose di buon senso. Pubblichiamo alcuni stralci della sintesi dal sito Icalex (6) e i passaggi principali della sentenza pubblicata da Lexambiente.it (7), a cui rimandiamo per la lettura del documento integrale. (sintesi dell’articolo sul sito Icalex) La questione nodale dell’intera vicenda ruota intorno alla nozione di ristrutturazione ricostruttiva e al tema della continuità tra il nuovo edificio e quello precedente. Il caso su cui è stato chiamato a esprimersi il CdS, riguarda un intervento di demolizione e ricostruzione di due edifici e contestuale cambio di destinazione d’uso da industriale a residenziale, mediante SCIA alternativa al permesso di costruire. Il TAR di Milano aveva accolto il ricorso presentato da alcuni condomini e dal Condominio confinante annullando il provvedimento con il quale il Comune aveva confermato la legittimità dell’intervento, con la principale motivazione che con la demolizione di un vecchio fabbricato adibito a laboratorio-deposito e la realizzazione in suo luogo di una palazzina residenziale avente due piani fuori terra ed un piano seminterrato “si fuoriesce dall’ambito della ristrutturazione edilizia e si rientra in quello della nuova costruzione quando fra il precedente edificio e quello da realizzare al suo posto non vi sia alcuna continuità, producendo il nuovo intervento un rinnovo del carico urbanistico che non presenta più alcuna correlazione con l’edificazione precedente”. La nozione di ristrutturazione edilizia (3),nel tempo ha subito un progressivo ampliamento, allontanandosi dall’obbligo originario della fedele ricostruzione che prescriveva il rispetto della sagoma, dei prospetti, del sedime e delle caratteristiche planivolumetriche e tipologiche, rendendo più incerto il confine tra la  “ristrutturazione ricostruttiva” e la  “nuova costruzione”, rendendo sempre più urgente l’individuazione di una chiara linea di demarcazione tra le due nozioni. La sentenza del Consiglio di Stato prende una posizione netta sul tema della continuità (tra immobile demolito e immobile ricostruito) affermando che detto requisito “se preteso in termini assoluti, non trova fondamento nell’attuale testo dell’articolo 3 del Testo Unico Edilizia” (4) ma che una esegesi rispettosa della norma non può nemmeno condurre a ritenere che dalla demolizione derivi una sorta di credito volumetrico “che il proprietario può spendere rimanendo comunque nell’alveo della ristrutturazione edilizia”. Per questo motivo, il giudice amministrativo, chiarisce che rientra nella nozione di demo-ricostruzione quell’intervento che rispetti i seguenti presupposti: * avere a oggetto un unico edificio (ricade nella nuova costruzione l’accorpamento di due o più volumi in un unico edificio, ovvero il frazionamento di un unico volume originario in più edifici di nuova realizzazione) * è necessaria la contestualità temporale tra la demolizione e ricostruzione, come fasi costruttive di un unico intervento, oggetto quindi di un’unica segnalazione certificata di inizio attività alternativa al permesso di costruire; * il volume dell’edificio ricostruito non può superare quello del fabbricato demolito, in quanto gli incrementi di volumetria sono ammissibili “nei soli casi espressamente previsti dalla legislazione vigente o dagli strumenti urbanistici comunali” Secondo il giudice amministrativo, al di là di tali ipotesi eccezionali, laddove vi sia volumetria aggiuntiva si ricade nella nuova costruzione e, quindi, devono essere qualificate come tale “tutte quelle opere che non siano meramente funzionali al riuso del volume precedente e che comportino una trasformazione del territorio ulteriore rispetto a quella già determinata dall’immobile demolito. Infatti, nelle varie evoluzioni della nozione di ‘ristrutturazione ricostruttiva’ che si sono susseguite, è rinvenibile un minimo comune denominatore, consistente nel fatto che l’intervento deve comunque risultare ‘neutro’ sotto il profilo dell’impatto sul territorio nella sua dimensione fisica”. Il superamento anche solo di uno di questi parametri, pertanto, secondo i giudici, rende la demolizione e ricostruzione di un edificio qualificabile come nuova costruzione, soggetta al regime previsto per il permesso di costruire. Il Consiglio di Stato si è pronunciato in relazione a un complesso non vincolato. Nei casi di immobili soggetti a tutela ai sensi del d.lgs. n. 42/2004, permane, invece, l’obbligo di mantenere coerenza in termini di sagoma, materiali, prospetti e caratteristiche planivolumetriche e tipologiche, a salvaguardia dei valori paesaggistici e culturali riconosciuti. CONSIGLIO DI STATO SEZIONE II, ESTRATTO DALLA SENTENZA DEL 4 NOVEMBRE 2025 N. 8542 (evidenziazioni di Carteinregola) (…) FATTO e DIRITTO 1. Viene impugnata, da più soggetti e in più parti, la sentenza del T.a.r. per la Lombardia che, in accoglimento del ricorso di primo grado, ha annullato il provvedimento con cui il Comune di Milano ha attestato la conformità edilizia e urbanistica dell’intervento di demolizione e ricostruzione, con cambio di destinazione da industriale a residenziale, di un edificio in via -OMISSIS-, negando tuttavia il risarcimento del danno chiesto dai ricorrenti. La decisione è censurata: dall’Ente, con l’appello principale …; dalla società proprietaria del bene oggetto dell’intervento…; dal condominio vicino all’immobile e da singoli condomini ricorrenti in primo grado… 2. I fatti di causa rilevanti, quali emergono dalle affermazioni delle parti non specificamente contestate e comunque dagli atti e documenti del giudizio, possono essere sinteticamente ricostruiti nei termini seguenti. 2.1. La società -OMISSIS- (di seguito, “la società proprietaria” o “la società”) ha acquisito l’immobile oggetto di causa per effetto del decreto del Tribunale di Milano n. -OMISSIS- 2017, emesso nell’ambito della procedura r.g.e. n. -OMISSIS- del 2013. 2.2. Il 27 luglio 2018 ha presentato al Comune di Milano la segnalazione certificata d’inizio attività (Scia) prot. -OMISSIS-avente a oggetto opere di bonifica preventiva alla demolizione e ricostruzione, rappresentando la demolizione degli edifici esistenti, secondo la procedura semplificata disciplinata dall’art. 242-bis del codice dell’ambiente approvato con d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152. Questo progetto è stato interessato da una variante, oggetto della Scia prot. -OMISSIS- del 14 dicembre 2018, relativa a opere di demolizione con l’indicazione della rimozione degli alberi esistenti. Sulla base di questi atti, l’immobile è stato demolito nel 2018. 2.3. In parallelo, il 14 giugno 2018 è stata presentata l’istanza prot. -OMISSIS- per l’attivazione dell’istruttoria preliminare facoltativa prevista dall’art. 40 del regolamento edilizio comunale (disposizione che disciplina l’attivazione di un procedimento istruttorio preliminare che consenta l’individuazione delle linee fondamentali degli elementi caratterizzanti l’intervento e la fattibilità dello stesso), rispetto alla quale – come riferito nell’istruttoria tecnica del 17 ottobre 2023 – sono stati comunicati l’esito negativo dell’istruttoria tecnica e il parere favorevole della commissione per il paesaggio. Un’analoga istanza è stata presentata il 25 agosto 2021 e ha ottenuto un esito favorevole sia sul piano tecnico, sia su quello paesaggistico. 2.4. Il 5 agosto 2022 la società ha presentato al Comune di Milano la Scia prot. -OMISSIS-, alternativa al permesso di costruire, per un intervento di demolizione e ricostruzione dell’immobile in questione, con la stessa superficie lorda di pavimento (s.l.p.) preesistente fuori sagoma e sedime. 2.5. Secondo la relazione allegata alla Scia, l’edificio preesistente, un tempo adibito a laboratorio e poi dismesso, si articolava in due corpi di fabbrica: «il primo, risalente a dopo il 1910, un semplice rettangolo costruito in muratura con grandi specchiature di serramento tipiche dei laboratori produttivi con copertura a volta tirantata ai muri portanti», con una struttura portante in mattoni pieni e legata al muro perimetrale; il secondo, posto in adiacenza al muro di confine verso un’altra proprietà, con una struttura in cemento armato gettato in opera e uno sviluppo su due piani, perché «attraverso una scala in ferro, si sale al corpo che ospitava in origine il locale mensa del laboratorio che è anche il corpo edilizio più alto, che si sviluppa fino ad una altezza di colmo di 9,50mt. e con una altezza di gronda di 7,60mt. dalla quota di “zero”». Il progetto presentato dalla società prevede, riqualificato il sito e demolito il fabbricato precedente con bonifica del terreno, la ricostruzione di un edificio a uso residenziale di due piani fuori terra, con un’altezza massima di gronda di 7,6 mt., destinato a ospitare quattro unità abitative, nonché un piano cantine con garage interrati per sette posti auto (pp. 6-7 della relazione allegata alla Scia). 2.6. Il lotto interessato dall’intervento è situato in via-OMISSIS-, nel secondo cortile interno, e condivide l’accesso dalla pubblica via con il supercondominio confinante (come spiegato nella relazione di consulenza tecnica e stima immobiliare del perito nominato dal giudice civile nell’ambito del procedimento esecutivo, «dall’androne principale, che prospetta direttamente su Via -OMISSIS-, si accede al 1° cortile e da questo attraverso un altro androne si accede al secondo cortile, che insieme ai fabbricati presenti costituiscono l’oggetto della presente procedura»). Essendo intercluso tra i palazzi del condominio, con atto notarile del 17 marzo 1972, n. -OMISSIS-di repertorio e n. -OMISSIS- di raccolta, a favore del fabbricato è stata costituita una servitù di passaggio, pedonale e carrabile, attraverso i due androni condominiali. (…) 17. Data l’importanza giuridica (ma anche economica e sociale) della questione relativa alla definizione della nozione e dell’ambito di applicazione di quella che nella prassi viene chiamata “demoricostruzione” o “ristrutturazione ricostruttiva”, tematica che trascende la vicenda per cui è causa ed è suscettibile di porsi in diverse altre situazioni, alimentando così il contenzioso dinanzi ai giudici amministrativi – come le stesse parti hanno più volte posto in luce, negli scritti e nella discussione orale – il Collegio ritiene opportuno premettere alcune considerazioni di ordine generale, comunque necessarie per l’interpretazione delle disposizioni che vengono in rilievo e per la loro applicazione al caso di specie, muovendo dall’evoluzione che ha interessato la normativa. 17.1. L’art. 31 della legge 5 agosto 1978, n. 457, che dettava norme sull’edilizia residenziale, ricomprendeva gli “interventi di ristrutturazione edilizia” tra quelli di recupero del patrimonio edilizio esistente e li caratterizzava come «rivolti a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente». Nel vigore di questa normativa, la giurisprudenza amministrativa aveva già ritenuto di poter ricondurre al concetto di “ristrutturazione” «anche la demolizione seguita dalla fedele ricostruzione del manufatto, con l’unica condizione che la riedificazione assicuri la piena conformità di sagoma, volume e superficie tra il vecchio e il nuovo manufatto, con la conseguente possibilità di pervenire, in tal modo, ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente, purché la diversità sia dovuta ad interventi comprendenti il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell’edificio, l’eliminazione, la modifica e l’inserimento di nuovi elementi ed impianti, e non già la realizzazione di nuovi volumi o una diversa ubicazione» (Cons. Stato, sez. IV, 22 marzo 2007, n. 1388, e precedenti ivi citati). La definizione dell’art. 31 della legge n. 457 del 1978 è confluita nel testo originario dell’art. 3, comma 1, lettera d), del t.u. dell’edilizia approvato con d.P.R. 6 giugno 2001 n. 380, che, senza modificare il periodo (giunto immutato sino a oggi e tuttora dotato di valenza normativa), ha aggiunto delle precisazioni – secondo cui tali interventi «comprendono il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell’edificio, l’eliminazione, la modifica e l’inserimento di nuovi elementi ed impianti» – e, soprattutto, ha codificato l’ulteriore ipotesi di “ristrutturazione”, consistente «nella demolizione e successiva fedele ricostruzione di un fabbricato identico, quanto a sagoma, volumi, area di sedime e caratteristiche dei materiali, a quello preesistente, fatte salve le sole innovazioni necessarie per l’adeguamento alla normativa antisismica». In seguito, il d.lgs. 27 dicembre 2002, n. 301, ha espunto l’aggettivo “fedele” che accompagnava il sostantivo “ricostruzione” e ha eliminato il vincolo relativo all’identità di area di sedime e caratteristiche dei materiali, lasciando dunque – per tutti gli edifici, fossero o meno tutelati – i limiti della volumetria e sagoma del fabbricato preesistente. Nel vigore di questa versione della norma, la Corte costituzionale, con sentenza 23 novembre 2011, n. 309, riconducendo tra i principi in materia di “governo del territorio”, attribuita dall’art. 117, comma 3, Cost. alla potestà legislativa concorrente di Stato e Regioni, le disposizioni legislative che definiscono le categorie degli interventi edilizi, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 27, comma 1, lettera d), della l.r. Lombardia 11 marzo 2005, n. 12, «nella parte in cui esclude l’applicabilità del limite della sagoma alle ristrutturazioni edilizie mediante demolizione e ricostruzione». In seguito, l’art. 30 del d.l. 21 giugno 2013, n. 69, convertito con modificazioni dalla legge 9 agosto 2013, n. 98, ha nuovamente modificato l’art. 3, comma 1, lettera d), del t.u. dell’edilizia, da un lato eliminando il vincolo della sagoma per gli edifici che non fossero sottoposti a vincolo ai sensi del codice dei beni culturali e del paesaggio approvato con d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42, dall’altro introducendo un’ulteriore ipotesi di “ristrutturazione”, consistente nel «ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne la preesistente consistenza». Quindi, le condizioni della “demoricostruzione” sono state ulteriormente ridefinite in forza del d.l. 16 luglio 2020, n. 76, convertito con modificazioni dalla legge 11 settembre 2020, n. 120, il quale ha precisato espressamente che l’immobile ricostruito può avere anche «diversi sagoma, prospetti, sedime e caratteristiche planivolumetriche e tipologiche» rispetto al fabbricato preesistente e persino presentare «incrementi di volumetria» nei casi previsti dalla legislazione vigente o dagli strumenti urbanistici comunali. Il rispetto di sagoma, prospetti, sedime e caratteristiche planivolumetriche e tipologiche dell’edificio preesistente, nonché il divieto assoluto di prevedere incrementi di volumetria, sono stati invece ribaditi per gli immobili sottoposti a tutela ai sensi del codice dei beni culturali e del paesaggio, per quelli ubicati nelle zone A del decreto del Ministro per i lavori pubblici 2 aprile 1968, n. 1444 (ossia gli agglomerati urbani che rivestono carattere storico, artistico o di particolare pregio ambientale), o in zone a esse assimilate dalla normativa regionale e dai piani urbanistici, nei centri e nuclei storici consolidati e negli ulteriori ambiti di particolare pregio storico e architettonico. Le modifiche più recenti all’art. 3 del t.u. dell’edilizia sono state apportate dal d.l. 1 marzo 2022, n. 17, convertito con modificazioni dalla legge 27 aprile 2022, n. 34, che ha escluso dalla nozione di “ristrutturazione edilizia” gli interventi di demolizione e ricostruzione ovvero di ripristino di edifici crollati o demoliti che si trovino in aree sottoposte a vincolo paesaggistico per legge ai sensi dell’art. 142 del codice dei beni culturali e del paesaggio, nonché dal d.l. 17 maggio 2022, n. 50, convertito con modificazioni dalla legge 15 luglio 2022, n. 91, che ha esteso tale esclusione agli immobili tutelati per il notevole interesse pubblico che essi rivestono, ai sensi dell’art. 136, comma 1, lettere c) e d), del medesimo codice. La disposizione, nel testo attuale e comunque vigente alla data del 5 agosto 2022, quando è stata presentata la Scia oggetto di causa, fornisce dunque la seguente definizione di “interventi di ristrutturazione edilizia”: «gli interventi rivolti a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente. Tali interventi comprendono il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell’edificio, l’eliminazione, la modifica e l’inserimento di nuovi elementi ed impianti. Nell’ambito degli interventi di ristrutturazione edilizia sono ricompresi altresì gli interventi di demolizione e ricostruzione di edifici esistenti con diversi sagoma, prospetti, sedime e caratteristiche planivolumetriche e tipologiche, con le innovazioni necessarie per l’adeguamento alla normativa antisismica, per l’applicazione della normativa sull’accessibilità, per l’istallazione di impianti tecnologici e per l’efficientamento energetico. L’intervento può prevedere altresì, nei soli casi espressamente previsti dalla legislazione vigente o dagli strumenti urbanistici comunali, incrementi di volumetria anche per promuovere interventi di rigenerazione urbana. Costituiscono inoltre ristrutturazione edilizia gli interventi volti al ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne la preesistente consistenza. Rimane fermo che, con riferimento agli immobili sottoposti a tutela ai sensi del codice dei beni culturali e del paesaggio, di cui al decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, ad eccezione degli edifici situati in aree tutelate ai sensi degli articoli 136, comma 1, lettere c) e d), e 142 del medesimo codice, nonché, fatte salve le previsioni legislative e degli strumenti urbanistici, a quelli ubicati nelle zone omogenee A di cui al decreto del Ministro per i lavori pubblici 2 aprile 1968, n. 1444, o in zone a queste assimilabili in base alla normativa regionale e ai piani urbanistici comunali, nei centri e nuclei storici consolidati e negli ulteriori ambiti di particolare pregio storico e architettonico, gli interventi di demolizione e ricostruzione e gli interventi di ripristino di edifici crollati o demoliti costituiscono interventi di ristrutturazione edilizia soltanto ove siano mantenuti sagoma, prospetti, sedime e caratteristiche planivolumetriche e tipologiche dell’edificio preesistente e non siano previsti incrementi di volumetria». Come messo in luce dalla giurisprudenza, l’evoluzione della normativa ha quindi portato all’individuazione di tre distinte ipotesi di “ristrutturazione edilizia”, che possono tutte portare «ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente»: una prima ipotesi, spesso definita “ristrutturazione conservativa”, che non comporta la demolizione del preesistente fabbricato e che può apportarvi anche modifiche di significativo impatto, compresi, in linea generale, l’inserimento di nuovi volumi o la modifica della sagoma; una seconda e una terza ipotesi, definite anche “ristrutturazione ricostruttiva” o “demoricostruzione”, caratterizzate, rispettivamente, da demolizione e ricostruzione di un edificio e dal ripristino di un fabbricato crollato o demolito (tra le tante, Cons. Stato, sez. IV, 30 maggio 2017, n. 2567 e 12 ottobre 2017, n. 4728). 17.2. Dalla qualificazione dell’intervento come “ristrutturazione edilizia” ovvero come “nuova costruzione” dipende l’individuazione del titolo edilizio necessario per legittimare le opere. L’art. 23 del t.u. dell’edilizia consente infatti di realizzare mediante Scia “in alternativa al permesso di costruire” (per questo spesso definita “Super-Scia” nella prassi) «gli interventi di ristrutturazione di cui all’articolo 10, comma 1, lettera c)», il quale a sua volta comprende le ipotesi più impattanti (o “pesanti”) di “ristrutturazione edilizia” («gli interventi di ristrutturazione edilizia che portino ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente, nei casi in cui comportino anche modifiche della volumetria complessiva degli edifici ovvero che, limitatamente agli immobili compresi nelle zone omogenee A, comportino mutamenti della destinazione d’uso, nonché gli interventi che comportino modificazioni della sagoma o della volumetria complessiva degli edifici o dei prospetti di immobili sottoposti a tutela ai sensi del Codice dei beni culturali e del paesaggio di cui al decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, e, inoltre, gli interventi di ristrutturazione edilizia che comportino la demolizione e ricostruzione di edifici situati in aree tutelate ai sensi degli articoli 136, comma 1, lettere c) e d), e 142 del medesimo codice di cui al decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, o il ripristino di edifici, crollati o demoliti, situati nelle medesime aree, in entrambi i casi ove siano previste modifiche della sagoma o dei prospetti o del sedime o delle caratteristiche planivolumetriche e tipologiche dell’edificio preesistente oppure siano previsti incrementi di volumetria»). All’art. 23 del d.P.R. n. 380 del 2001 rinvia anche l’art. 33, comma 1, lettera d), della l.r. Lombardia 11 marzo 2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio), per l’individuazione dei casi in cui può essere presentata la Scia in alternativa al permesso di costruire (aggiungendone poi di ulteriori). È opportuno ricordare che, in questi casi, gli interventi sono soggetti al contributo di costruzione ai sensi dell’art. 16 del t.u. dell’edilizia (commisurato all’incidenza degli oneri di urbanizzazione nonché al costo di costruzione) e che, diversamente da quanto avviene secondo il regime della Scia ordinaria, disciplinata dall’art. 19 della legge 7 agosto 1990, n. 241, cui rinvia l’art. 22 del t.u. dell’edilizia con riferimento a interventi meno impattanti (manutenzione straordinaria delle parti strutturali e dei prospetti, restauro e risanamento conservativo che interessino le parti strutturali, ristrutturazione “leggera”, essenzialmente di natura “conservativa” e senza aumenti di volumetria), i lavori non possono avere inizio prima di trenta giorni dalla presentazione della segnalazione. Si aggiunga, con specifico riferimento agli interventi che comportino il mutamento della destinazione d’uso dell’immobile, che l’art. 23-ter, comma 1-quinquies, del t.u. dell’edilizia richiede la Scia “ordinaria” per i cambiamenti senza opere (o con opere rientranti nell’edilizia libera, ai sensi dell’art. 6, ovvero soggette a comunicazione d’inizio lavori asseverata-Cila, ai sensi dell’art. 6-bis), mentre in caso di esecuzione di opere prevede che il titolo richiesto per la loro realizzazione legittimi anche il cambio di destinazione. Inoltre, l’art. 10, comma 2, del medesimo t.u., stabilisce che, fermo restando quanto disposto dal citato art. 23-ter, con legge regionale possano essere definiti «quali mutamenti, connessi o non connessi a trasformazioni fisiche, dell’uso di immobili o di loro parti, sono subordinati a permesso di costruire o a segnalazione certificata di inizio attività». Nel caso della Lombardia, la legge per il governo del territorio n. 12 del 2005, all’art. 42, comma 5, nel dettare la disciplina della Scia alternativa precisa che «nel caso in cui l’intervento comporti una diversa destinazione d’uso, non esclusa dal PGT, in relazione alla quale risulti previsto il conguaglio delle aree per servizi e attrezzature pubbliche e di interesse pubblico o generale, il dichiarante allega impegnativa, accompagnata da fideiussione bancaria o assicurativa». Se dunque gli interventi di “ristrutturazione edilizia” possono essere realizzati previa Scia alternativa, quelli che esorbitano dai confini di tale nozione rappresentano delle “nuove costruzioni” soggette al previo rilascio del permesso di costruire: per avviare i lavori, il privato dovrà quindi attendere l’autorizzazione dell’amministrazione, oppure, sussistendone le condizioni, la formazione del silenzio-assenso, di regola dopo sessanta giorni dall’istanza, ai sensi dell’art. 20, comma 8, del t.u. dell’edilizia (e salvo che sussistano vincoli relativi all’assetto idrogeologico, ambientali, paesaggistici o culturali). È infine opportuno ricordare che, nell’ottica di assicurare una maggiore certezza, l’art. 22, comma 7, del t.u. dell’edilizia riconosce al privato la facoltà di chiedere comunque il permesso di costruire – così trasferendo sull’amministrazione l’onere e la responsabilità di valutare sin dall’origine la legittimità del progetto – per gli interventi subordinati alla Scia (e, a maggior ragione, alla Super-Scia, già di per sé “alternativa” alla richiesta dell’autorizzazione). 17.3. Oltre che ai fini dell’individuazione del titolo legittimante, dalla qualificazione come “ristrutturazione” piuttosto che come “nuova costruzione” di una complessa attività che vede susseguirsi la demolizione di un fabbricato e l’edificazione di un nuovo manufatto discendono anche conseguenze ulteriori. Se infatti in caso di “demoricostruzione” il proprietario può sfruttare il volume dell’edificio demolito, nell’ipotesi di “nuova costruzione” può utilizzare solo la volumetria espressa dall’area di edificazione (come puntualmente osservato dalla difesa del condominio). Inoltre, la “ricostruzione” è consentita nei limiti delle distanze legittimamente preesistenti (come da tempo affermato dalla giurisprudenza – tra le tante, Cons. Stato, sez. IV, 14 settembre 2017, n. 4337 – e come oggi codificato nel comma 1-ter dell’art. 2-bis del t.u. dell’edilizia, come inserito dal d.l. 18 aprile 2019, n. 32, convertito con modificazioni dalla legge 14 giugno 2019, n. 55, e modificato dal d.l. n. 76 del 2020, convertito in legge n. 120 del 2020) – mentre i “nuovi edifici” devono rispettare i limiti di distanza tra i fabbricati previsti dall’art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968. L’individuazione degli esatti confini della nozione di “ristrutturazione ricostruttiva” o “demoricostruzione” (problema che sconta – come descritto – una non lieve stratificazione normativa) risulta quindi cruciale per la soluzione della presente controversia, non sottacendosi la necessità di chiarezza evocata (anche in corso di discussione all’udienza pubblica) dalle amministrazioni e dagli operatori del settore, trattandosi di un istituto che, da un lato, è ritenuto essenziale dal legislatore per perseguire obiettivi di rigenerazione urbana, contenimento del consumo di suolo, incentivazione degli investimenti – e, conseguentemente, migliore occupazione – ma che, dall’altro, consente modifiche di portata tale da incidere sulla “urbanistica” (e relativo potere di pianificazione) – meglio, sul “governo del territorio” – intesa non solo come coordinamento delle potenzialità edificatorie connesse al diritto di proprietà, ma, più ampliamente e compiutamente, come modello di sviluppo che s’intende imprimere ai luoghi in cui è insediata una comunità (secondo la nota ricostruzione elaborata da Cons. Stato, sez. IV, 10 maggio 2012, n. 2710, e ormai consolidatasi: tra le più recenti, Cons. Stato, sez. IV, 24 gennaio 2023, n. 765, e 27 ottobre 2025, n. 8313). 17.4. Da questo punto di vista, la descritta evoluzione dell’art. 3, comma 1, lettera d), del t.u. dell’edilizia è innegabilmente caratterizzata da un progressivo allontanamento dall’obbligo originario della fedele ricostruzione, mediante eliminazione dei vari vincoli e conseguente estensione della nozione di “ristrutturazione”, rendendo ancor più necessario un chiarimento sui suoi confini rispetto alla “nuova costruzione”. In giurisprudenza si è infatti ritenuto, anche a seguito dell’eliminazione del vincolo della sagoma (fatti salvi gli immobili vincolati) in forza del d.l. n. 69 del 2013 (convertito in legge n. 98 del 2013), che l’esistenza di un “nesso di continuità” tra il fabbricato preesistente e quello risultante dall’intervento sia un requisito essenziale della “ristrutturazione ricostruttiva”, la cui mancanza induce a qualificare l’attività edilizia come “nuova costruzione” (tra le tante, Cons. Stato, sez. VI, 12 maggio 2023, n. 4794, relativa a un caso in cui l’edificio nuovo era «traslato in maniera significativa» rispetto a quello precedente; sez. II, 6 marzo 2020, n. 1641, inerente un’ipotesi di demolizione di un garage con ricostruzione di un edificio diverso per materiale utilizzato e per l’aumento della quota d’imposta; nonché, di recente – ma comunque con riferimento a una fattispecie alla quale era ancora applicabile l’art. 3 del t.u. dell’edilizia nella versione precedente alle modifiche apportate dal d.l. n. 76 del 2020, convertito in legge n. 120 del 2020 – Cons. Stato, sez. IV, 3 aprile 2025, n. 2857; nella giurisprudenza penale, tra le molte, Cass. pen., sez. III, 10 gennaio 2020, n. 280338, secondo cui nella “ristrutturazione” non si può prescindere dalla necessità che venga conservato l’immobile preesistente «del quale – a prescindere dalla identità di sagoma – deve essere comunque garantito il recupero»). Questo orientamento risulta ancora seguito in sede penale (Cass. pen., sez. III, 8 maggio 2024, n. 18044, relativa alla realizzazione di dieci villini in luogo di un unico immobile con destinazione commerciale, e 18 gennaio 2023, n. 1670, relativa all’abbattimento di una casa colonica e per l’edificazione di un complesso residenziale costituito da dieci villini in linea) e a esso ha aderito il T.a.r. nella sentenza impugnata. Tuttavia, il requisito della “continuità” con l’edificio preesistente, se preteso in termini assoluti, non trova fondamento nell’ultimo testo della disposizione, sul quale il legislatore è intervenuto nel 2020 con l’intenzione – ricavabile oggettivamente dalle modifiche apportate (l’espressa puntualizzazione che possono mutare «sagoma, prospetti, sedime e caratteristiche planivolumetriche e tipologiche») ed esplicitato nei lavori parlamentari (in particolare, nella relazione illustrativa al Senato), e nella circolare congiunta del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti e del Ministero per la pubblica amministrazione del 2 dicembre 2020 (come ricordato dalla società proprietaria nel proprio appello incidentale) – di ricomprendere, per gli immobili non vincolati, qualsiasi intervento di demolizione e ricostruzione anche con caratteristiche molto differenti rispetto al preesistente, salvo il limite della volumetria (al punto che, secondo C.g.a., sez. giur., 3 giugno 2025, n. 422, la ricostruzione sarebbe possibile «anche altrove, ossia in un diverso lotto, pur sempre nel rispetto delle capacità edificatorie proprie di quest’ultimo»). 17.5. Tuttavia, da altra prospettiva, un’esegesi che sia rispettosa della lettera e della logica della disposizione non può nemmeno condurre a ritenere che dalla demolizione derivi – di per sé sola e in assenza di specifiche previsioni di legge o degli strumenti urbanistici – una sorta di “credito volumetrico” che il proprietario può spendere rimanendo comunque nell’alveo della “ristrutturazione”, dovendo quest’ultima rispettare una serie di limiti e condizioni, che si ricavano dall’art. 3, comma 1, lettera d), del t.u. dell’edilizia e ai quali deve essere ricondotta ogni pretesa di “continuità”. 17.5.1. In primo luogo, l’intervento deve avere a oggetto un unico edificio, nel senso che nella fase di ricostruzione è precluso – meglio, esorbita dall’ambito della “ristrutturazione ricostruttiva” – l’accorpamento di volumi precedentemente espressi da manufatti diversi ovvero il frazionamento di un volume originario in più edifici di nuova realizzazione. Tale condizione è stata affermata dalla giurisprudenza nel vigore delle varie versioni dell’art. 3 del t.u. dell’edilizia (tra le tante, Cons. Stato, sez. IV, 16 dicembre 2008, n. 6214 e, più di recente, 3 aprile 2025, n. 2857, dove si afferma che «l’essenza della nozione di ristrutturazione edilizia è che l’intervento deve agire sull’edificio preesistente al fine di dare continuità all’immobile pregresso, crollato o demolito. In altre parole la ristrutturazione edilizia non può mai prescindere dall’obiettivo di recupero del singolo immobile che ne costituisce oggetto»; nonché, nella giurisprudenza penale, Cass. pen., sez. III, 27 luglio 2020, n. 23010) e risulta dal testo della disposizione, il quale, nel porre a confronto “un organismo edilizio” (quello risultante dall’intervento) con il “precedente” – al singolare – e nell’evocare elementi quali la sagoma, i prospetti, il sedime e le caratteristiche planivolumetriche e tipologiche, anche solo per sancirne l’irrilevanza, non può che presupporre che come termine di paragone venga assunto un unico edificio, poiché diversamente tali parametri sarebbero già di per sé inutilizzabili. 17.5.2. In secondo luogo la norma, rispetto alla prima ipotesi di “demoricostruzione”, che viene in rilievo nel caso di specie, presuppone necessariamente una contestualità temporale tra la demolizione e la ricostruzione, dando luogo ad una “unitarietà” dell’intervento prospettato con la Scia, nel senso, dunque, che entrambe debbono essere legittimate dal medesimo titolo. Vero è che, come obiettato dal Comune nei suoi scritti, a seguito delle modifiche apportate dal d.l. n. 69 del 2013 (conv. in legge n. 98 del 2013), è ora ricompreso nella “ristrutturazione ricostruttiva” anche il ripristino di edifici crollati o demoliti ed è quindi venuta meno «quella particolare relazione di continuità tra edificio preesistente ed edificio risultante dalla ristrutturazione» in forza della quale si richiedeva «che le due operazioni, cioè la demolizione e la ricostruzione, avvenissero in un unico contesto» (Cons. Stato, sez. IV, 3 aprile 2025, n. 2857). Tuttavia, in questa particolare ipotesi, «la continuità che si perde sul piano temporale viene recuperata, dal legislatore, con la reintroduzione del limite costituito dal rispetto della “preesistente consistenza” del fabbricato non più esistente; é da ritenersi che con tale precisazione il legislatore abbia inteso affermare la necessità di rispettare, nel nuovo fabbricato, la volumetria del fabbricato crollato o demolito» (Cons. Stato, sez. VI, 18 gennaio 2023, n. 616). La differenza tra le due ipotesi di “ristrutturazione ricostruttiva” si coglie soprattutto sui presupposti per la legittimità dell’intervento: nel caso in cui non vi sia soluzione di continuità tra demolizione e ricostruzione, l’edificio è ancora presente nel momento in cui il privato instaura il rapporto con l’amministrazione, presentando l’istanza di rilascio del permesso di costruire ovvero la Scia alternativa allo stesso, con la conseguenza che la sua consistenza può essere verificata da quest’ultima, nell’istruttoria preordinata al rilascio del titolo abilitativo ovvero ai fini dell’eventuale esercizio dei poteri inibitori, repressivi e conformativi di cui all’art. 19, comma 3, della legge n. 241 del 1990; al contrario, quando intenda ripristinare un edificio che non esiste più, il privato deve dimostrarne la “preesistente consistenza”, onere che logicamente non può essere assolto unicamente mediante i rilievi e le asseverazioni del tecnico di fiducia – i quali devono a loro volta essere verificabili – ma deve esserlo mediante elementi oggettivi, quali gli atti di fabbrica o i titoli edilizi che hanno interessato il precedente fabbricato, ovvero le planimetrie catastali, purché da essi siano ricavabili «in maniera pressoché certa, l’esatta cubatura e sagoma d’ingombro del fabbricato su cui intervenire; solo se è chiara la base di partenza, è possibile discutere l’entità e la qualità delle modifiche apportabili» (Cons. Stato, sez. IV, 3 aprile 2025, n. 2857). 17.5.3. Infine, dall’art. 3, comma 1, lettera d), del t.u. dell’edilizia si ricava che il volume dell’edificio ricostruito non può superare quello del fabbricato demolito, perché si stabilisce che gli incrementi di volumetria sono ammissibili «nei soli casi espressamente previsti dalla legislazione vigente o dagli strumenti urbanistici comunali» (sul punto, Cons. Stato, sez. IV, 2 maggio 2024, n. 4005 ha chiarito che «a differenza della fattispecie della ricostruzione con diversa sagoma e sedime, le modifiche e gli ampliamenti volumetrici di manufatti edilizi continuano ad integrare, di regola, interventi di nuova costruzione (art. 3 comma 1 lett. e. 1 D.P.R. n. 380/2001), sicché, ai sensi del richiamato art. 3 comma 1 lett. d) del D.P.R. n. 380/2001, l’incremento volumetrico eccezionalmente (art. 14 disp. prel. cod. civ.) conseguibile con un intervento di ristrutturazione edilizia è soltanto quello specificamente ammesso una tantum dalla legislazione vigente o dagli strumenti urbanistici comunali per tale tipo di intervento edilizio e non quello (eventualmente) maggiore connesso all’indice edificatorio previsto per gli interventi di nuova costruzione o di ristrutturazione urbanistica»). Tale limite, letto in un’ottica sistematica, comporta che devono ritenersi escluse – meglio, conducono a qualificare l’intervento come “nuova costruzione” – tutte quelle opere che non siano meramente funzionali al riuso del volume precedente e che comportino una trasformazione del territorio ulteriore rispetto a quella già determinata dall’immobile demolito. Infatti, nelle varie evoluzioni della nozione di “ristrutturazione ricostruttiva” che si sono susseguite, è rinvenibile un minimo comune denominatore, consistente nel fatto che l’intervento deve comunque risultare “neutro” sotto il profilo dell’impatto sul territorio nella sua dimensione fisica. Tale condizione, sicuramente sottesa a quella “fedele ricostruzione” che si pretendeva in origine, deve ritenersi presente anche nell’attuale quadro normativo e si evince dall’art. 10 del d.l. n. 76 del 2020 (conv. in legge n. 120 del 2020), il quale, pur avendo eliminato i «precedenti requisiti presupponenti una rigida “continuità” tra le caratteristiche strutturali dell’immobile preesistente e quelle del manufatto da realizzare» (C.g.a., sez. giur., sent. n. 422 del 2025), ha comunque ricondotto tali innovazioni agli scopi di «assicurare il recupero e la qualificazione del patrimonio edilizio esistente» e di «contenimento del consumo di suolo», così confermando la finalità “conservativa” sottesa al concetto di ristrutturazione (Cons. Stato, sez. IV, sent. n. 2857 del 2025). 18. Nel caso di specie, le caratteristiche dell’intervento posto in essere dalla società proprietaria del bene esorbitano dai confini della nozione di “ristrutturazione ricostruttiva”, come sopra delineati, e inducono a qualificarlo come “nuova edificazione”, con ciò che ne consegue in termini di titolo abilitativo necessario (il permesso di costruire, non sostituibile dalla Super-Scia) e limiti applicabili all’attività edilizia. Su questo punto essenziale – e assorbente rispetto a ogni altra questione sostanziale – la sentenza di primo grado merita dunque conferma, seppur con la precisazione che, in ossequio al principio di legalità di cui all’art. 97 Cost. e alla luce del testo vigente dell’art. 3 del t.u. dell’edilizia, nella “demoricostruzione” non può pretendersi una “continuità” tra il nuovo edificio e quello precedente se non nella misura in cui per essa s’intenda il doveroso rispetto dei requisiti, sopra indicati, dell’unicità dell’immobile interessato dall’intervento, della contestualità tra demolizione e ricostruzione, del mero utilizzo della volumetria preesistente senza ulteriori trasformazioni della morfologia del territorio. 19. Premesso che il superamento di uno solo di questi limiti comporterebbe di per sé solo la qualificazione dell’intervento come “nuova costruzione”, nella specie essi risultano tutti inosservati. 19.1. È innanzitutto evidente, e dirimente, l’assenza di continuità temporale, dato che l’edificio preesistente è stato demolito nel 2018, mediante un intervento che non può certo ritenersi legittimato dalla Scia presentata nel 2022 (e che infatti è stato svolto sulla base di una diversa Scia). 19.1.1. Né tale continuità può ricavarsi dal fatto che la società nel 2018 aveva presentato istanza per l’attivazione dell’istruttoria preliminare facoltativa prevista dall’art. 40 del regolamento edilizio comunale: il carattere (appunto “preliminare”) e la finalità (appunto “istruttoria”) della procedura in questione escludono che alla presentazione della domanda – peraltro, poi abbandonata e ripresentata nel 2021, a demolizione già avvenuta – possa farsi retroagire l’effetto legittimante della Scia. A tal proposito, non è superfluo ricordare che, come espressamente stabilito dal comma 2 della stessa disposizione, le definizioni contenute nel primo comma dell’art. 3 del t.u. dell’edilizia prevalgono sugli strumenti urbanistici e sui regolamenti edilizi e la definizione di “ristrutturazione” mediante demolizione e ricostruzione presuppone la contestualità tra le due attività, nel senso che entrambe devono essere realizzate in forza di un unico titolo legittimante (anche al fine di consentire al Comune di verificare l’esatta consistenza del fabbricato preesistente prima che ne inizi la demolizione). 19.1.2. Nemmeno può invocarsi la modifica apportata dal d.l. n. 69 del 2013, che ha ricondotto alla nozione di “ristrutturazione” anche gli interventi volti al ripristino di edifici crollati o demoliti. In primo luogo, e con portata già di per sé dirimente, perché la stessa società proprietaria ha presentato l’intervento come demolizione e ricostruzione, e non come ricostruzione di immobile demolito. Inoltre perché, come già messo in luce, questa speciale ipotesi presuppone che il privato dimostri la preesistente consistenza dell’immobile mediante elementi oggettivi, che tuttavia nella specie non sono presenti (meglio, non sono stati prodotti nel procedimento e nel processo). Mancano infatti gli atti di fabbrica originari e le varie misure necessarie a individuarne l’esatta cubatura e sagoma d’ingombro non sono ricavabili in maniera univoca dagli altri titoli rilasciati e acquisiti al giudizio. In particolare, l’istanza di condono avanzata il 30 aprile 1986 (atto p.g. 178187.400/1986), poi integrata il 22 febbraio 1995, per cui è stata rilasciata la concessione edilizia in sanatoria n. -OMISSIS- del 18 febbraio 2003, ha ad oggetto un intervento che ha interessato l’edificio solo parzialmente (realizzazione di un soppalco, di un deposito, di un locale laboratorio annesso al corpo esistente, di una tettoia completamente chiusa) e, anche per questo, non rappresenta tutti i volumi del complesso nella loro interezza e con le varie misure. Anche la pratica presentata il 17 aprile 1991 (p.g. 116963.400), per cui è stata rilasciata l’autorizzazione n. -OMISSIS- del 16 settembre 1991, ha ad oggetto un intervento parziale (la manutenzione straordinaria alla copertura esistente quale vano deposito) e indica un’altezza di gronda del locale mensa, posto sopra al capannone, pari a 5,95 mt, inferiore a quella di progetto. Un’altezza ancora inferiore si ricava dalla piantina catastale del 1940, dove è indicata in 5,20 mt. Né tali elementi si ricavano dalla CTU svolta nel giudizio davanti al giudice dell’esecuzione, nella quale è peraltro riportata un’indicazione della superficie lorda di pavimento (650 mq) che non collima con quella indicata negli elaborati allegati alla Scia (tanto la tavola 5, quanto la relazione allegata indicano infatti una superficie lorda di 593,33 mq). Per concludere sul punto, dunque, dagli atti acquisiti al giudizio non si ricava quella certezza in ordine all’esatta cubatura e sagoma d’ingombro dell’edificio demolito che si vorrebbe recuperare. 19.2. Sotto altro profilo, è pacifico che l’intervento progettato dalla società accorpi volumi che in precedenza erano distinti. 19.2.1. In particolare, alla volumetria e superficie del capannone principale (con i vari ampliamenti che si sono succeduti nel tempo) si vorrebbero aggiungere quelle del “piccolo deposito” (identificato come “volume C” nella tavola 5 relativa allo stato di fatto e alla dimostrazione della consistenza della superficie lorda), il quale, tuttavia, rappresenta un manufatto totalmente separato. 19.2.2. Per giustificare questa operazione, la società e il Comune ne richiamano la natura pertinenziale, ma l’argomento non risulta convincente. Anche considerandolo una pertinenza, si tratta comunque di un manufatto distinto dall’edificio principale e che esprime una propria volumetria. Il fatto che questa sia irrilevante, ai fini urbanistici, dipende dalle sue caratteristiche strutturali – consistenti in una «dimensione ridotta e modesta» (tra le tante, Cons. Stato, sez. VII, 15 maggio 2025, n. 4175) – ma quella stessa volumetria diviene rilevante laddove si voglia cumularla a quella dell’edificio “principale” per aumentare quest’ultima. In altre parole, l’accorpamento della volumetria della pertinenza a quella dell’edificio principale viola il limite della “neutralità” dell’intervento di “demoricostruzione”, perché, mentre in origine l’impatto sul territorio era limitato al fabbricato principale (proprio per l’irrilevanza della volumetria espressa dalla pertinenza), con la ricostruzione si addiverrebbe a un immobile che presenta una volumetria e un’incidenza maggiore sul territorio. 19.3. Lo stesso limite della “neutralità” è oltrepassato, nel caso di specie, anche per la realizzazione di lavori ulteriori rispetto al mero recupero del volume preesistente, ossia le opere di sbancamento del terreno, costruzione del muro di contenimento e realizzazione del seminterrato, della rampa carraia e della sede viaria di collegamento. Tali lavori non si limitano a quanto strettamente funzionale a riutilizzare la volumetria disponibile – come avverrebbe, per esempio, per le sole opere di fondazione necessarie a riedificare l’immobile su un diverso sedime – ma comportano un rimodellamento della morfologia del terreno, che conduce a qualificare il complessivo intervento – il quale, secondo una consolidata giurisprudenza, deve essere apprezzato in modo globale e non in termini atomistici (tra le più recenti, Cons. Stato, sez. II, 4 luglio 2025, n. 5796) – come “nuova costruzione”. 19.4. Pertanto, per tutte queste ragioni – ciascuna delle quali sarebbe di per sé sola dirimente – la sentenza di primo grado deve essere confermata nella parte relativa alla qualificazione dell’intervento e alla conseguente individuazione del titolo abilitativo necessario, che non può essere la Scia alternativa, ma è rappresentato dal permesso di costruire. Sono dunque infondati il terzo motivo dell’appello del Comune e il secondo motivo di quello della società proprietaria (relativi appunto alla qualificazione dell’intervento), mentre è fondato il terzo motivo riproposto dal condominio (relativo alla realizzazione di opere ulteriori). La portata radicale dei vizi rilevati conduce di per sé a una conferma dell’accoglimento della domanda di annullamento avanzata in primo grado ed esime da una pronuncia sulle altre questioni sostanziali dedotte dalle parti, che possono essere assorbite, così come risulta superflua l’istruttoria richiesta dalla società con l’appello incidentale. 20. È invece infondato l’appello proposto dal condominio contro il capo della sentenza che ha respinto la domanda risarcitoria. Anche sotto questo aspetto, la decisione del T.a.r. è condivisibile. (…) 29 novembre 2025 Per osservazioni e precisazioni: laboratoriocarteinregola@gmail.com NOTE (1) VEDI Salva Milano, cronologia materiali vai alla Relazione di Carteinregola all’audizione alla Camera sulla Proposta di legge 1987 (disposizioni connesse alla rigenerazione urbana) a cura di Giancarlo Storto 8 febbraio 2025 Audizione Carteinregola al Senato– intervento Giancarlo Storto a 58’20″(> vai alla registrazione (2) in base all’Art. 41-quinquies della legge 1150/1942 le costruzioni non possono superare l’altezza di 25 m e l’indice di fabbricabilità fondiaria non può superare i 3 mc/mq. Per superare tali limiti occorre la preventiva approvazione di un piano particolareggiato o un piano di lottizzazione estesi all’intera area con disposizioni planovolumetriche; In base all’art. 8 del decreto ministeriale 1444/68 le altezze massime degli edifici devono sottostare alle seguenti limitazioni: per la zona “A” alle altezze preesistenti nel caso di interventi di risanamento conservativo o agli edifici circostanti per le nuove costruzioni; per la zona “B” agli edifici circostanti ammettendo la possibilità di altezze superiori solo in presenza di un piano particolareggiato o un piano di lottizzazione estesi all’intera area con disposizioni planovolumetriche; per la zona “C” nessun limite a meno degli edifici “contigui o in diretto rapporto con la zona A” rispetto alla quale le altezze devono risultare “compatibili”. (3) DM 380/2001 articolo 3, comma 1, lett. d) d) “interventi di ristrutturazione edilizia”, gli interventi rivolti a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente. Tali interventi comprendono il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell’edificio, l’eliminazione, la modifica e l’inserimento di nuovi elementi ed impianti. Nell’ambito degli interventi di ristrutturazione edilizia sono ricompresi altresì gli interventi di demolizione e ricostruzione di edifici esistenti con diversi sagoma, prospetti, sedime e caratteristiche planivolumetriche e tipologiche, con le innovazioni necessarie per l’adeguamento alla normativa antisismica, per l’applicazione della normativa sull’accessibilità, per l’istallazione di impianti tecnologici e per l’efficientamento energetico. L’intervento può prevedere altresì, nei soli casi espressamente previsti dalla legislazione vigente o dagli strumenti urbanistici comunali, incrementi di volumetria anche per promuovere interventi di rigenerazione urbana. Costituiscono inoltre ristrutturazione edilizia gli interventi volti al ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne la preesistente consistenza. Rimane fermo che, con riferimento agli immobili sottoposti a tutela ai sensi del codice dei beni culturali e del paesaggio, di cui al decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, ad eccezione degli edifici situati in aree tutelate ai sensi degli articoli 136, comma 1, lettere c) e d), e 142 del medesimo codice, nonché, fatte salve le previsioni legislative e degli strumenti urbanistici, a quelli ubicati nelle zone omogenee A di cui al decreto del Ministro per i lavori pubblici 2 aprile 1968, n. 14444, o in zone a queste assimilabili in base alla normativa regionale e ai piani urbanistici comunali, nei centri e nuclei storici consolidati e negli ulteriori ambiti di particolare pregio storico e architettonico, gli interventi di demolizione e ricostruzione e gli interventi di ripristino di edifici crollati o demoliti costituiscono interventi di ristrutturazione edilizia soltanto ove siano mantenuti sagoma, prospetti, sedime e caratteristiche planivolumetriche e tipologiche dell’edificio preesistente e non siano previsti incrementi di volumetria (lettera modificata dall’art. 10, comma 1, lettera b), della legge n. 120 del 2020, poi dall’art. 28, comma 5-bis, lettera a), legge n. 34 del 2022, poi dall’art. 14, comma 1-ter, legge n. 91 del 2022 poi dalla legge n. 105 del 2024 di conversione del decreto-legge n. 69 del 2024) (4) DM 380/2001 Art. 3 L) – Definizioni degli interventi edilizi (comma 1 lett. e) 1. Ai fini del presente testo unico si intendono per: e) “interventi di nuova costruzione”, quelli di trasformazione edilizia e urbanistica del territorio non rientranti nelle categorie definite alle lettere precedenti. Sono comunque da considerarsi tali: e.1) la costruzione di manufatti edilizi fuori terra o interrati, ovvero l’ampliamento di quelli esistenti all’esterno della sagoma esistente, fermo restando, per gli interventi pertinenziali, quanto previsto alla lettera e.6); e.2) gli interventi di urbanizzazione primaria e secondaria realizzati da soggetti diversi dal Comune; e.3) la realizzazione di infrastrutture e di impianti, anche per pubblici servizi, che comporti la trasformazione in via permanente di suolo inedificato; e.4) l’installazione di torri e tralicci per impianti radio-ricetrasmittenti e di ripetitori per i servizi di telecomunicazione; (punto da ritenersi abrogato implicitamente dagli artt. 87 e segg. del d.lgs. n. 259 del 2003) e.5) l’installazione di manufatti leggeri, anche prefabbricati, e di strutture di qualsiasi genere, quali roulotte, camper, case mobili, imbarcazioni, che siano utilizzati come abitazioni, ambienti di lavoro, oppure come depositi, magazzini e simili, ad eccezione di quelli che siano diretti a soddisfare esigenze meramente temporanee o delle tende e delle unità abitative mobili con meccanismi di rotazione in funzione, e loro pertinenze e accessori, che siano collocate, anche in via continuativa, in strutture ricettive all’aperto per la sosta e il soggiorno dei turisti previamente autorizzate sotto il profilo urbanistico, edilizio e, ove previsto, paesaggistico, che non posseggano alcun collegamento di natura permanente al terreno e presentino le caratteristiche dimensionali e tecnico-costruttive previste dalle normative regionali di settore ove esistenti; (punto sostituito dall’art. 10, comma 1, lettera b), della legge n. 120 del 2020) e.6) gli interventi pertinenziali che le norme tecniche degli strumenti urbanistici, in relazione alla zonizzazione e al pregio ambientale e paesaggistico delle aree, qualifichino come interventi di nuova costruzione, ovvero che comportino la realizzazione di un volume superiore al 20% del volume dell’edificio principale; e.7) la realizzazione di depositi di merci o di materiali, la realizzazione di impianti per attività produttive all’aperto ove comportino l’esecuzione di lavori cui consegua la trasformazione permanente del suolo inedificato; (5) Consiglio di stato Sezione II, sentenza del 4 novembre 2025 n. 8542, (6) VEDI Icalex 10 11 2025 Ristrutturazione ricostruttiva: il Consiglio di Stato ridefinisce il concetto di continuità tra fabbricato preesistente e quello ricostruito La sentenza del Consiglio di Stato (7) vedi Lexambiente 5 novembre 2025 Urbanistica.Requisiti della demo-ricostruzione e differenza con la nuova costruzione
Una critica radicale al cuore del capitalismo verde
Articolo di Jacob Nitschke, Marisol Manfredi A 3.500 metri di altitudine, il vento attraversa le montagne e le nuvole si dissolvono su una superficie che sembra infinita. Il tempo diventa denso. Le ore passano più lentamente, l’aria si respira in modo diverso, come se la vita avesse un altro ritmo. Nelle Salinas Grandes, a nord della provincia argentina di Jujuy, il vento disegna vortici su una pianura bianca che sembra non finire mai. In quel paesaggio sospeso, dove il silenzio risuona più forte di qualsiasi motore, il presente si muove al ritmo della terra e il silenzio, improvvisamente, acquista spessore: è il suono di un territorio che resiste. Lì vive Flavia Lamas, presidente dell’Assemblea del Bacino di Salinas Grandes e Laguna de Guayatayoc. Dal 2009, insieme ad altre 38 comunità kolla-casabinda, affronta l’avanzata delle compagnie minerarie che cercano di estrarre litio dalla salina, situata nel famoso e strategico Triangolo del Litio. In un mondo che celebra la «transizione verde» e le auto elettriche come soluzione al cambiamento climatico, Flavia ricorda che ogni batteria ha un prezzo che non si misura in euro o in dollari: si misura in acqua, in comunità, in vita. «Ci dicono che siamo il triangolo del litio e che per questo diventeremo ricchi. Ma senza acqua non c’è vita. Noi non mangiamo batterie», ci racconta Flavia quando la intervistiamo nel rifugio Santuario dei Tre pozzi, all’ingresso delle Salinas, dove per pochi soldi (2 euro) offrono un servizio di guida turistica che ci spiega come funziona la salina e come le comunità utilizzano il suo sale. Quando nel 2009 sono arrivate le prime trivelle nella zona, le comunità non sapevano cosa fosse il litio. «Abbiamo visto che la salina cominciava ad affondare, che l’acqua dolce usciva mescolata alla salamoia. È stato allora che ci siamo resi conto che qualcosa non andava», racconta Flavia. Da allora, si sono organizzati. In Argentina, fortunatamente e in risposta a tante crisi, la popolazione sa come opporre resistenza. È nata così l’Assemblea del bacino di Salinas Grandes e Laguna de Guayatayoc, dove hanno redatto il proprio protocollo di consultazione (Kachi Yupi o Huellas de Sal) e hanno chiesto che qualsiasi progetto rispettasse il diritto di decidere sui propri territori. La lotta non è stata facile. Nel 2023, dopo la riforma costituzionale promossa dal governatore di Jujuy, i diritti delle popolazioni indigene sono stati indeboliti. Le proteste sono state represse e molte comunità si sono divise. Alcune, spinte dalla necessità o dalla promessa di posti di lavoro, hanno accettato di dialogare con le compagnie minerarie. Altre, come quella di Flavia, hanno resistito. «Ci dicono che il progresso arriva con i camion e le macchine, ma quello che portano è disuguaglianza. Prima nessuno aveva più di nessun altro. Ora alcuni comprano automobili, altri niente. E questo distrugge la comunità», spiega. Flavia racconta di Susques, una comunità a circa 66 km più in alto rispetto a dove ci troviamo, uno dei primi villaggi della Puna dove è stata avviata l’estrazione del litio. Lì, ci racconta Flavia, «non c’è più acqua potabile durante il giorno e gli animali nascono deformi». Le comunità di Susques hanno detto loro: «Voi siete ancora in tempo, noi abbiamo già perso tutto». Questa frase riassume l’orizzonte temuto nelle Salinas: un territorio esaurito, una vita circondata dalla polvere e dalla sete. A Susques, la promessa di sviluppo si è trasformata in dipendenza. L’acqua che prima sgorgava dagli occhi della terra (ojos de la tierra ) ora arriva in bottiglie di plastica: privatizzazione, proprietà privata e individualismo sono alcune delle conseguenze che l’estrazione mineraria ha portato a Susques. Il racconto di Flavia rivela qualcosa di più profondo di un conflitto ambientale: è una lotta ontologica, una differenza su cosa significhi questo mondo e come viverci (bene). Per Flavia, il Buen Vivir non è una teoria, né solo una cosmologia che si studia, ma una pratica quotidiana. «Non si tratta di vivere bene, ma di vivere bene tutti. Se il mio vicino soffre, io non posso stare tranquilla». Il legame che Flavia ha con le Salinas è anche intimo e spirituale. «Sento una connessione con le Salinas… Quando nella mia famiglia siamo tristi, angosciati o malati, l’unica cosa che facciamo è connetterci con la natura. E così troviamo la tranquillità che un medico non può darci. Le saline fanno parte della famiglia, ed è per questo che diciamo che toccarle è come toccare una madre». Nella sua cosmovisione, la salina non è una risorsa, è una madre; un essere che vive, respira, soffre. Le parole di Flavia racchiudono una critica radicale al cuore del capitalismo verde: l’idea che la natura possa essere separata dalla vita umana e ridotta a una materia prima, a una risorsa, a un oggetto sfruttabile. Quell’idea moderna per cui l’essere umano è una cosa e la natura un’altra. Come se anche noi non fossimo natura. Il progetto del nord del mondo di «transizione ecologica» viene spesso presentato come un percorso inevitabile e benigno verso la sostenibilità. Tuttavia, il litio che alimenta la mobilità elettrica viene estratto da territori come questo, dove l’acqua è scarsa e la democrazia è fragile. In nome della decarbonizzazione, si ripropongono vecchi modelli coloniali: il Nord pianifica il suo futuro «pulito» (misurato in termini di energia e coscienza) mentre il Sud offre nuovamente la sua terra e il suo corpo (le teorie femministe sudamericane sul corpo-territorio hanno molto da offrirci su questo, se qualche lettore fosse interessato ad approfondire). Flavia lo sa. Ecco perché la sua richiesta non è rivolta a Buenos Aires e tanto meno alle istituzioni locali di Jujuy. «Andare dal governo provinciale non serve. L’aiuto deve venire dall’Europa, dove si prendono le decisioni sul litio. Lì ci sono organizzazioni per i diritti umani che possono ascoltarci». La richiesta di Flavia rompe lo schema semplicistico di un Sud vittima e di un Nord oppressore. Lei non parla a nome di un confine, ma da una molteplice interdipendenza: ecologica, politica, epistemica, ontologica. La sua voce mira a tessere alleanze con coloro che, in Europa, mettono in discussione la finzione di un progresso verde fondato sulla disuguaglianza. Nel nostro progetto accademico chiamiamo questo fenomeno «dipendenze intersezionali»: comprendere che la dipendenza non è distribuita solo tra paesi e geografie, ma anche tra modi di vita, conoscenze e ontologie. Dalle montagne andine alle istituzioni europee, le stesse gerarchie (tra natura e società, ragione e spiritualità, uomo e donna, centro e periferia, ecc.) sostengono il modello estrattivista. Romperle implica immaginare transizioni non solo energetiche, ma anche ontologiche, in cui diverse forme di sapere e di esistenza possano coesistere in modo paritario. O almeno, rompere con il modello in cui un’alternativa (presumibilmente superiore, il mainstream imposto dal Nord globale) diminuisce, irrompe, sposta e/o elimina altre forme alternative di comprendere il mondo e, di conseguenza, di relazionarsi con la natura (cioè con noi stessi). La voce di Flavia viaggia attraverso percorsi di sale e vento, ma punta al cuore del dibattito globale sulla transizione ecologica. Ci ricorda che non c’è giustizia climatica senza una giustizia più profonda: quella ontologica. Che cambiare energia non basta se continuiamo a pensare al mondo con la stessa logica. Dobbiamo aprirci a nuovi modi di pensare e comprendere il mondo: solo così arriveranno nuove soluzioni. E la transizione «verde», con la sua finzione di venderci la soluzione ai nostri problemi, basata sul cosiddetto «tecno-fix-ottimismo» – la fede cieca nella tecnologia come utopia che ci salverà da tutti i nostri problemi – in realtà sta eliminando una delle alternative in cui cercare risposte, ampliare i nostri modi di vedere, comprendere e pensare il mondo. Non potremo affrontare la crisi ecologica globale ricorrendo alle stesse logiche di estrazione, separazione e dominio che l’hanno generata. Come scrisse Audre Lorde nel 1979, «gli strumenti del padrone non smantelleranno mai la casa del padrone»: non potremo risolvere i problemi della nostra epoca con gli stessi strumenti della nostra epoca, poiché sono stati proprio questi ultimi, in primo luogo, a creare i problemi. È quindi necessario smascherare il lato nascosto della tanto agognata e apparentemente innocua «transizione verde», poiché ancora una volta essa sposta ed elimina possibili futuri, ma anche possibili modi di comprendere il presente. Dobbiamo cambiare la cassetta degli attrezzi con cui non solo «riparare» la nostra società frammentata e divisa, ma anche ripensarla: la voce di Flavia Lamas è un invito a farlo. Non è facile, ricorda Flavia. Nell’intervista racconta come, delle 33 comunità che facevano parte della lotta, molte abbiano iniziato ad allontanarsi. «Ci sono comunità che hanno detto che non c’è più niente da fare perché abbiamo tutto contro». E spiega che, in alcuni casi, non è l’intera comunità, ma «un gruppetto di famiglie che stanno dando l’ok, ma ora basta… una volta frammentate le opinioni nella comunità, questa non è più abbastanza forte, quindi l’industria mineraria penetra». Cosa penetra e perché succede? Non è solo la transizione verde del Nord che sa vendersi molto bene, ma anche le logiche aziendali delle società minerarie. I loro sofisticati strumenti di marketing sanno come penetrare nelle comunità. Anche se con una connettività e una connessione Internet limitate – poiché solo in alcune parti del percorso è possibile accedere al 4G – le comunità ricevono (soprattutto da quando viviamo in questa era digitale) i concetti di progresso, lavoro, ascesa sociale, successo. È comprensibile: in territori dove lo Stato è assente e dove dalla colonizzazione a oggi sono stati reclusi, esclusi e ignorati (non dimentichiamo che anche le loro lingue sono state eliminate nell’omogeneizzazione colonizzatrice della lingua spagnola), la promessa mineraria appare come l’unica alternativa per unirsi al cosiddetto sistema, dove quel progresso, quell’ascesa sociale e quel successo che vengono venduti sugli schermi potrebbero finalmente fiorire. Il lavoro minerario non offre solo uno stipendio: offre simboli. Un’auto, una casa in muratura, vestiti nuovi, gioielli, un cellulare migliore. Oggetti che nella logica del capitalismo coloniale rappresentano l’«essere arrivati». E in territori impoveriti da politiche nazionali storicamente estrattive, questi segnali possono pesare più del discorso ambientale. È chiaro, quindi, riflettiamo con Flavia, che non tutte le comunità si oppongono, rimangono fedeli ai loro antenati e ai messaggi che il tata wayra (vento) e il tata inti (sole) trasmettono loro attraverso suoni impercettibili all’orecchio occidentale. Quella stessa promessa fatta dalle aziende distrugge il tessuto sociale delle comunità. Il documentario The Hidden Cost: The Other Side of the Green Transition, prodotto dalle colleghe dell’Osservatorio sul Debito Globale, mostra chiaramente ciò che Flavia sintetizza in una frase: «La comunità si rompe». Appaiono pratiche che prima non esistevano, in particolare, da una prospettiva di genere, l’alcolismo e la prostituzione. Per questo motivo, le colleghe nel loro documentario cercano di mostrare la prospettiva di genere, molto necessaria nell’estrazione del litio, perché porta cambiamenti molto forti. Per quanto riguarda la prima problematica, le donne di Susques – che, come abbiamo già detto, subiscono le conseguenze dell’attività mineraria penetrata già da 10 anni – affermano, ci racconta Flavia, che non è più sicuro uscire di notte, perché ci sono molti uomini ubriachi e violenti che vagano per le strade. Per quanto riguarda la seconda, sebbene rimandi a un dibattito molto più ampio che non possiamo affrontare in questa sede, costringe le donne a cercare altri modi per guadagnare denaro e mantenersi economicamente, soddisfacendo una domanda che, evidentemente, emerge dalla stessa logica estrattivista e individualista che l’estrazione mineraria instaura (in modo irreversibile). Questi fenomeni sono gli effetti sociali di una logica estrattivista che instaura disuguaglianza all’interno della comunità e ne altera l’universo morale, relazionale e affettivo. Dal bacino, molte voci convergono nello stesso giudizio, ci racconta Flavia: «Non vogliamo essere una zona di sacrificio». L’urgenza climatica non può legittimare transizioni energetiche che aggravano le disuguaglianze sociali, etniche e ambientali, che destabilizzano le comunità, che generano malessere e violenza. La richiesta è chiara: ascoltare i territori, difendere l’acqua, rispettare i diritti collettivi, lasciarli essere e decidere, riconoscere la loro esistenza, il loro modo di vivere e di pensare e, soprattutto, capire che con le batterie al litio ci potranno essere auto e cellulari, ma senza acqua non ci sarà nessuno che li userà o li guiderà. Flavia ci chiede di diffondere il suo messaggio in Europa. Eccoci qui, a cercare di far risuonare la sua voce in tutti gli spazi possibili. Se ti stai chiedendo come puoi aiutare, la prima risposta di Flavia è semplice e urgente: fai eco. Condividi. Mantieni viva la conversazione. Seguili su Instagram all’indirizzo @cuencadesalinasgrandes e sul loro sito web, perché ogni diffusione apre una fessura da cui entra aria. E perché diffondere è un atto politico. Alla fine della giornata, la domanda non è chi sarà il proprietario del litio, ma quale mondo continuiamo ad alimentare quando crediamo che la tecnologia da sola ci salverà. La domanda che questo articolo lascia è scomoda, ma inevitabile: a cosa serve decarbonizzare l’Europa se le montagne andine del Sud del mondo si desertificano? A cosa serve una transizione verde che richiede il sacrificio di interi territori in nome di un futuro a cui quelle popolazioni non potranno nemmeno accedere? Che tipo di giustizia climatica è quella che ha bisogno di «zone di sacrificio» (le stesse del passato, ovviamente)? Mentre le potenze del Nord parlano e celebrano l’«innovazione verde», nelle Salinas Grandes le comunità continuano a difendere qualcosa di più elementare e vero di un’auto elettrica o di un terzo cellulare in due anni: difendono l’acqua, difendono la vita. Nelle parole di Flavia, parole che l’Europa ha bisogno di ascoltare: «Senza acqua non c’è vita. Noi non mangiamo batterie». Forse questo è il messaggio più profondo che le Salinas ci restituiscono: che la transizione ecologica non sarà giusta se costruita su territori assetati; che se la transizione verde ha bisogno di territori vuoti, comunità frammentate e saline senza acqua, allora non è né transizione né verde, è semplicemente un’altra forma di estrattivismo, questa volta in nome del clima; che non ci sarà un mondo possibile se continuiamo a zittire le voci che potrebbero aiutarci a immaginarne altri; e che la Pachamama, quando parla in silenzio, ci sta dicendo che siamo ancora in tempo, ma che non ne rimane molto. *Marisol Manfredi è un’economista eterodossa argentina formatasi a Mar del Plata, Parigi e Pisa. Jakob Nitschke è un ricercatore in Economia Geografica con particolare attenzione ai temi della decolonizzazione, dei conflitti eco-sociali e dell’estrattivismo.  L'articolo Una critica radicale al cuore del capitalismo verde proviene da Jacobin Italia.
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