Dove Trump ha fallito

Jacobin Italia - Wednesday, June 25, 2025
Articolo di Marco Bertorello

Allo scoccare dei primi cento giorni della nuova amministrazione Usa è iniziato il conteggio dei suoi progetti falliti, a conferma della loro irrealizzabilità. Tranne qualche raro caso di limitazione adottata dai contrappesi di una democrazia liberale, come la Corte costituzionale, la gran parte delle battute d’arresto appaiono provenire dal vivo del fronte economico. 

Prematuro de profundis del trumpismo

Il cosiddetto Liberation day, celebrato il 2 aprile del 2025, sembrava rappresentare la summa degli intenti trumpiani, apripista di una fase di ripiegamento sovranista della potenza statunitense, una ricentratura sulla propria economia a colpi di dazi, minacce e ritorsioni su scala globale. Tale fase ha visto quasi immediatamente un periodo di stop and go, di sospensione della gran parte dei provvedimenti adottati. Le relazioni con Canada, Messico, Europa e, persino, Cina, per quanto bilaterali e tese a sfruttare una sorta di sbilanciamento a favore della presunta potenza a stelle e strisce, sono state prima interrotte e poi riavviate, lasciando intendere che i provvedimenti adottati non erano definitivi, solo punti di partenza di trattative. Come se la teoria del fronte sovranista avesse cozzato subito con la cruda realtà. Difendere le proprie produzioni e, ancor più, provare a rilocalizzarle all’interno dei propri confini mediante una spinta politica dei dazi avrebbe infiammato l’economia stelle e strisce. Inflazione, crollo dei consumi, Borse in ritirata. Instabilità generalizzata che finirebbe per allontanare investimenti e, in definitiva, quella ripartenza per tornare grandi sbandierata in tutte le occasioni fino a diventare forte aspetto identitario.

Al netto dell’instabile e umorale atteggiamento di Trump, è possibile che le principali mosse abbiano «spaventato» la nuova amministrazione? Fino al punto da far nascere nel mondo finanziario il nuovo acronimo Taco (Trump Always Chickens Out, letteralmente Trump fa sempre marcia indietro). Una compagine politica che da anni predica il rimedio dei dazi difficilmente si sorprende delle preliminari reazioni avverse degli ambienti economico-finanziari a livello globale? Il nuovo segretario al Tesoro Scott Bessent  non a caso ha parlato esplicitamente di «incertezza strategica». Per fare solo un esempio, se rompi con i principali paesi che acquistano i tuoi titoli di Stato oppure presenti un importante piano di riduzione delle tasse (per quanto simultaneo all’obiettivo di smantellare il welfare, sempre facile a dirsi meno a realizzarsi) il prezzo dell’indebitamento pubblico non può che aumentare al punto di rendere la spesa per interessi un fardello difficilmente sopportabile. Attualmente per gli Usa tale spesa supera quella militare.

Improbabile che i piani di Trump non avessero messo in conto non solo le tensioni, ma anche le successive trattative per giungere ad accordi diversi dai formali obiettivi di partenza. Intanto, però, queste tensioni geopolitiche hanno prodotto già degli effetti negativi. Restando all’esempio di poc’anzi, si è verificato un importante spostamento di liquidità verso i titoli pubblici europei (per quanto il Vecchio continente non goda di buona salute) a danno di quelli statunitensi. Motivo per cui è sceso il costo del debito per paesi come l’Italia.

La rivincita dei mercati

La gran parte dei critici liberali di Trump annunciavano così, con malcelato compiacimento, che ci sarebbe stata una rivincita dei mercati. Che Trump sarebbe stato fermato principalmente dalle loro inevitabili dinamiche. Costretto a un bagno di realtà. Ma questa non è una buona notizia. 

Non lo è perché significherebbe che solo l’economia finanziarizzata e globale dominante può fermare la destra sovranista. Cioè quell’economia che in definitiva ha prodotto l’ascesa stessa di questa destra. Chi ha prodotto il male rappresenterebbe l’unica cura. Una dichiarazione d’impotenza per qualsiasi cambiamento. Possibile, dunque, che siamo tornati al vecchio adagio di Margaret Thatcher che non vi sarebbe nessuna alternativa? Intanto va precisato che il sovranismo piace a una parte significativa delle attuali classi dirigenti che lo ritengono una carta da giocarsi in questa fase di profondo stallo. La globalizzazione capitalistica è giunta a un limite. Nessun ciclo di crescita sostenuta è all’orizzonte. I paesi occidentali faticano e quelli emergenti hanno rallentato. La deglobalizzazione, per quanto misurata, con tanti se e ma, è ritenuta un’opzione praticabile. Lo dimostrano i consensi registrati da Trump proprio dentro le classi dirigenti statunitensi, proprio tra quelle élites che sono state protagoniste negli ultimi decenni della globalizzazione e dell’innovazione tecnica che l’ha accompagnata. In buona sostanza, di fronte all’ascesa della Cina e alla concorrenza europea la carta geopolitica e protezionista torna in voga. Con tutte le contraddizioni che può generare all’impresa statunitense stessa. Basti pensare alla produzione di iPhone in Cina. 

Lo stesso Trump, sebbene come tutti i sovranisti sia convinto che il rilancio debba avvenire su consumi smisurati, su un ritorno all’età dell’oro di un capitalismo senza regole e vincoli ambientali, è costretto ad affermare:  «Bene, forse i bambini avranno due bambole invece di 30 bambole. Quindi forse le due bambole costeranno un paio di dollari in più di quanto costerebbero normalmente», cioè a dire che i bambini statunitensi potrebbero anche divertirsi evitando un eccesso di consumi. Non pensa alla decrescita, tantomeno felice, ma lancia un monito ai suoi elettori. Lo scontro con la Cina necessita, perlomeno in un primo momento, una riduzione dei consumi dettata anche da un aumento dei costi. E allora è costretto a individuare beni dal largo consumo di massa a cui bisognerà in qualche misura rinunciare. Un intervento che ci dice quanto la strada intrapresa sia poco conosciuta e forse imprevedibile nel suo proseguire.

Va detto però che il sovranismo non è certo un’opzione che va contro il capitale. Non solo generalmente ha come obiettivo la riduzione delle tasse proporzionalmente a chi già ha di più, ma intende rilanciare un’economia di mercato basata su una supercompetizione tra paesi e soprattutto all’interno di ogni paese. Quel che non riesce più con la globalizzazione si prova a portarlo a casa con un mercato senza regole su una scala ridotta. I principi iperliberisti affermatisi in questi ultimi decenni rimangono centrali. Il dominio del finanzcapitalismo resta il tratto di fondo del sovranismo.

Protezionismo vs globalizzazione

Se per essere avversari di Trump tocca difendere unicamente il modello liberista il corto circuito appare evidente. Detto ciò, per immaginare qualcosa di diverso occorre comprendere le difficoltà che registra la politica protezionista del sovranismo a tutte le longitudini. E per comprenderne i limiti occorre riflettere sul grado di profondità raggiunto dai processi di globalizzazione produttiva e finanziaria. 

Le delocalizzazioni d’impresa e la liberalizzazione dei mercati di capitali hanno dato vita a un complesso apparato che fa circolare risorse economiche e finanziarie, il cui grado di compenetrazione è molto difficile non solo da ridurre, ma alle volte persino comprendere e mappare. Il problema sorge ogni qual volta si affaccia il tentativo di arrestare o soltanto ridurre la circolazione finanziaria e produttiva. Gli scompensi appaiono immediatamente. Basti pensare che negli Usa, come del resto in tutti i principali paesi occidentali, non basta la volontà di riportare a casa le proprie fabbriche. Oltre Atlantico ormai mancano apparati industriali, manodopera e competenze sufficienti per tale obiettivo. Il problema perlomeno dovrebbe essere posto in tempi medio-lunghi per risultare credibile, invece si scontra con le urgenze del momento. Va aggiunto che non esiste soltanto un lato oscuro della globalizzazione produttiva e degli scambi, ma anche una sua razionalità. Importare prodotti assenti nei propri territori oppure scambiare merci tra paesi dove esiste un’abbondanza di competenze nel produrle può creare benefici reciproci. Sempre che vi sia la giusta attenzione a non abusare di scambi, dunque di trasporti inquinanti. Persino la finanza potrebbe avere effetti benefici se avesse come unico scopo quello di reperire risorse dove ci sono per poi investirle dove vi è la necessità produttiva di impiegarle.

Il problema, dunque, è quello di chi governa produzioni e finanza. Se il movente all’agire è il profitto e la necessità di far accrescere costantemente, magari esponenzialmente, il capitale, allora non c’è globalizzazione o sovranismo che tenga. Riportare le produzioni a casa nostra, avere una finanza completamente libera d’investire a casa nostra e nei paesi amici, non risolve i problemi di diseguaglianza e inquinamento. Semplicemente ne riduce la portata geografica, non quella politica.

Problemi di un’alternativa

Si tratta allora di riconoscere che il sovranismo tenta di dare risposte (inadeguate) a problemi spesso reali. Al netto di chiusura, razzismo, retrivo conservatorismo culturale rappresentato da tanta parte del sovranismo stesso. 

Proviamo a mettere l’accento non più sul sovranismo, ma sulla necessità di sovranità, cioè su quel principio che intende recuperare un controllo democratico della sfera politica ed economica per poter contenere/scalzare il liberismo. Un principio astrattamente corretto, ma che non è in grado di fare i conti con gli attuali assetti economico-finanziari. Riportare al centro la vita del pianeta e delle persone implica avere un’economia che non è più al servizio della finanza. Un certo grado di repressione finanziaria e di controllo di capitali diventerebbe allora operazione necessaria e inaggirabile. Mettendo in conto preliminari difficoltà e ostacoli, ad esempio un problema col costo dell’indebitamento pubblico e la possibile fuga di capitali. Vi è il concreto rischio che il prezzo dei titoli di Stato aumenti in relazione a una rarefazione di investitori istituzionali, e non, sul piano internazionale. Tale evenienza va circoscritta con una possibile ristrutturazione selettiva e democratica del debito sovrano, che incentivi la ricerca di nuovi investitori nazionali, a partire da quelli sotto il controllo pubblico, ma anche grazie a un inevitabile protagonismo della banca centrale in quanto prestatore di ultima istanza. Tutti passaggi complicati e necessari, ma non sufficienti. Prima o poi emergerà un limite di un sistema fondato sull’indebitamento senza fine su cui stanno scivolando tutti i principali paesi al mondo, a cui neppure il principio di potenza politica e militare potrà sottrarsi. I Cds (cioè quelle polizze a cui si ricorre per assicurare i propri investimenti finanziari contro il possibile default di un paese in cui si è investito) riguardanti gli Stati uniti hanno ormai raggiunto un costo paragonabile a quelli italiani e di poco inferiore a quelli greci. Un costo non elevatissimo, ma che descrive le preoccupazioni che muovono una parte degli stessi attori finanziari.

Risulta immediatamente evidente, dunque, come un percorso che intenda sottrarsi ai meccanismi attualmente dominanti impatterebbe con problemi di ordine generale e sovranazionale. Gli assetti sono tali oramai che ripiegare su una scala nazionale o locale, per quanto apparentemente plausibile sul piano logico-formale, rischia di essere un percorso che porta a morire di inedia. Indubbiamente l’alternativa nazionalista (e persino quella sovrano-democratica di sinistra) appare un’opzione concreta e praticabile per la sua immediatezza perché prefigura un recupero del controllo di una realtà imprendibile. Non è un caso che molte Cancellerie europee guardino con favore a obiettivi simbolici, comunque inquietanti, come la difesa dei confini mediante una logica neocoloniale che non esclude persino il trasferimento di migranti in centri di detenzione in paesi terzi. Un modo ingannevole di affrontare il problema senza intaccarne le cause.

Sul piano finanziario e produttivo, però, la battaglia è ancor più complicata e si gioca su un livello globale o perlomeno sovranazionale. Qui la rivendicazione di sovranità, cioè di poter tornare a decidere autonomamente e democraticamente del proprio ordine, scivola irrimediabilmente nell’impotenza. Cioè lottare per un controllo sul piano nazionale o locale è un’opzione incapace di sottrarsi all’accerchiamento. 

La libertà incontrastata di capitali strangola i tentativi locali di insubordinazione all’ordine globale. Perciò servirebbero strategie sovranazionali tese a costruire relazioni democratiche e orizzontali tra soggetti politici e sociali. Al giurista tedesco Dieter Grimm che chiede se manchi un oggetto della sovranità si può rispondere affermativamente, nella misura in cui si ammette che per riprendere sovranità sulla cosa pubblica, con scelte democraticamente assunte, è necessario fare un salto in alto. Un salto in termini geografici. Al predominio delle logiche del capitale globale non si può rispondere solo a livello territoriale, ma con un’alleanza su una scala superiore, più larga. D’altronde fu proprio la sovranità nazionale a cedere allo strapotere tecnico e politico del capitale globale, facendo venire meno la potenza della politica, facendo emergere la funzionalità economica della sfera statuale al mercato monopolizzato dal capitale. Tornare semplicemente indietro è un’operazione meccanica illusoria. 

Sperimentare un’alternativa sovranazionale

Per sottrarsi al potere economico globale e ai suoi meccanismi, cioè a quel potere di fatto realmente esistente, sono necessarie nuove alleanze e una nuova governance sovranazionale. In grado di limitare la concorrenza tra paesi in termini di offerta fiscale, welfare, diritti e sicurezza sul lavoro, regole a tutela dell’ambiente. 

Si tratta allora di costruire delle barriere per impedire una concorrenza internazionale fuori controllo. Superare barriere verticali, erette su dei muri, e creare alleanze politiche e sociali trasversali e transnazionali. Nella consapevolezza che l’efficacia si può dare solo con un respiro che superi i confini politici tradizionali. Se il livello di organizzazione del capitale è globale, non è pensabile sottrarsi da quel livello. Tale approccio dovrebbe comportare la costruzione di coalizioni sociali in grado di arginare la razzializzazione del lavoro e dei territori, la loro imperante e crescente frammentazione. Un impegno, dunque, contro quel dilagante razzismo funzionale al dominio economico attuale.

In definitiva, non il recupero di una politica nazionale, ma l’invenzione di una politica sovranazionale. Una politica che ponga al centro la gestione della sfera economica. Una gestione che deve superare i falsi miti della naturalità del libero mercato e della supercompetizione. Riportando al ruolo di protagonisti coloro che fino a oggi hanno subito. 

Si tratta di individuare dei luoghi da dove iniziare. L’Europa, un continente incapace per ora di sottrarsi ai dettami delle proprie multinazionali e contestualmente dei propri capitali nazionali, potrebbe essere un bel terreno di verifica. Come potrebbero esserlo gli Stati uniti (a partire dal dismettere la concorrenza tra uno Stato e l’altro) assieme a Messico e Canada. Esattamente il contrario delle annessioni politiche attualmente minacciate. Ma anche la Cina e i paesi emergenti asiatici. Come il continente sudamericano. Si tratterebbe di affermare una sorta di geopolitica contro la competizione, alleanze politiche e sociali fondate su luoghi geograficamente determinati, ma alla ricerca di coalizioni che reimpostino il sistema economico su principi di cooperazione, di scambi tesi al soddisfacimento dei bisogni, non basati su una vampiresca costante ricerca di profitti che fa del capitale un attore completamente fuori controllo. Un modello senza dubbio complesso, che ribalterebbe gli attuali assunti dominanti, ma che si offre in risposta all’attuale crisi ambientale e sociale. 

Un recente libro del geografo Paul Richardson sottolinea come l’invenzione della nazione sia relativamente recente e sia stata concretamente un portato dell’industrializzazione. Senza lingua, cultura, urbanizzazione, il precedente mondo centrato sulla figura contadina non avrebbe mai potuto riconoscersi nell’idea di nazione. Prima dello Stato-nazione l’Impero, con le sue frammentazioni, appariva intramontabile. Una trasformazione paragonabile a quella che condusse all’affermazione dello Stato-nazione non è certo dietro l’angolo. Ma nuove combinazioni tra locale e sovranazionale potrebbero affermarsi dalla crisi della globalizzazione e dall’inefficacia del sovranismo. 

Questa prospettiva è urgente quanto inattuale, però è importante provare a indicarne le potenzialità. Un’anticipazione di futuro, attraverso l’individuazione di possibili attori e processi di inedite ricomposizioni. Oggi sono pensabili nuovi confini meno verticali e più orizzontali. Dove la ricerca di coesione comunitaria sia al contempo tesa al riconoscimento di altre realtà corrispondenti. Una sorta di nuova conformazione geopolitica in grado di contrastare le crescenti tendenze alla centralizzazione e uniformizzazione, capace di creare relazioni, legami e senso di appartenenza, su più livelli. Un asse localglobale che potrebbe aderire più coerentemente alle materiali trasformazioni socio-economiche contemporanee.

Basti pensare cosa potrebbe rappresentare in termini di cambio di paradigma politico e culturale se in uno dei luoghi sovranazionali sopra individuati si affermasse la costruzione di una piattaforma sindacale per le rivendicazioni di una categoria di lavoro basate sulle catene produttive e del valore che la coinvolgono, prescindendo dai singoli confini nazionali. Una piattaforma capace di rigettare il principio competitivo su salari e diritti del lavoro. Sarebbe una rivoluzione copernicana in favore della creazione di nuovi poteri tesi a limitare e poi sovvertire il primato del mercato monopolistico liberista.

Un obiettivo che preliminarmente può arrivare dal basso, ma che non deve escludere il coinvolgimento e il favore immediato e diretto di istituzioni politiche locali o nazionali. Una gestione sperimentale fatta di molteplici vettori e piani. Economia pubblica, economia partecipata, economia privata. Dove però la terza componente non sia il dominus assoluto, certo un fattore di dinamizzazione, ma governato, mai monopolista. E dove la prima non sia più sinonimo di inefficienza, ma di indirizzo e al contempo di organizzazione di ultima istanza in tutti quei settori dove solo le risorse pubbliche possono intervenire in maniera adeguata. 

Quindi pianificazione e programmazione per investimenti verdi, economia solidale, mercato dovrebbero trovare nuovi e più avanzati equilibri. Tali scelte, però, non possono avere come epicentro la scala locale, ma quella sovranazionale. Cioè un luogo in grado di arginare il potere ricattatorio del grande capitale e del suo sistema supercompetitivo. Un tale ambiente rimetterebbe persino in gioco l’impresa cooperativa e mutualistica, cioè quell’impresa nata dai migliori propositi e poi fagocitata dalle dinamiche di mercato. È la costruzione di un inedito contesto che consentirebbe di agire per il meglio a un’impresa fondata su soci-lavoratori, che permetterebbe di svilupparne le migliori potenzialità. Non un’ipotetica, quanto negata, convivenza in un mercato supercompetitivo.

Un percorso indubbiamente a ostacoli, difficile da prefigurare, ricco di difficoltà. Ma che può rappresentare un progetto più fruibile e credibile in quanto non andrebbe a cozzare immediatamente e irreparabilmente con quelle forze esterne e inquietanti che strangolano i tentativi locali di cambiamento, finendo per rendere il cambiamento stesso una prospettiva inafferrabile.

*Marco Bertorello lavora nel porto di Genova, collabora con il manifesto ed è autore di saggi su economia, moneta e debito fra cui Non c’è euro che tenga (Alegre, 2014) e, con Danilo Corradi, Capitalismo tossico (Alegre, 2011) e Lo strano caso del debito italiano (Alegre, 2023).

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