Per un linguaggio postcoloniale: Magreb e Mashreq, Oriente e Occidente del mondo arabo

Pressenza - Wednesday, July 23, 2025

Ma quanto è colonialista il nostro linguaggio? Quanto sono pregiudicate le parole che usiamo quotidianamente e che impariamo nelle nostre scuole? Quanto viene rinforzata attraverso i vocaboli e i concetti dei manuali scolastici l’idea che «solo l’Occidente conosca la storia»? Ma, soprattutto, un’altra storia, scritta con un linguaggio postcoloniale e più rispettosa dell’Oriente è possibile?

Anche parole semplici, imparate a scuola e ripetute senza rifletterci abbastanza, nascondono insidie colonialiste incistate all’interno dei pregiudizi di una cultura che storicamente, accanto all’affermazione dei diritti umani fondamentali e delle idee di solidarietà, uguaglianza e libertà, ha talvolta prestato poca attenzione all’incontro e al dialogo con l’altro.

Prendiamo il termine Medio Oriente, ad esempio – che già dovrebbe essere distinto per una maggiore precisione cartografica da quello che è il Vicino Oriente, cioè Turchia, Siria, Iraq, Libano, Palestina, Israele e Giordania –, rispetto a chi e a cosa si configura tale medietà orientale? In sostanza, bisognerebbe chiedersi: qual è il valore culturale e antropologico associato ad una tale topografia cognitiva che posiziona il soggetto in un mondo già consolidato?

Innanzitutto, occorre partire dal presupposto che le lingue non sono mai neutre, ma veicolano per trasmissione, di generazione in generazione, concetti, significati e complessi di tradizioni, talvolta inventate, che costruiscono nei soggetti degli universi simbolici di riferimento.

Quando nasciamo troviamo già disponibile un universo simbolico che costituisce il mondo dato per scontato sia a livello cognitivo sia a livello affettivo. Chiaramente, il primo bagaglio semantico è quello veicolato dalla famiglia (socializzazione primaria), che si connota con tinte fortemente emotive e che, a seconda delle dinamiche esistenziali più o meno conflittuali nel corso del passaggio tra adolescenza e giovinezza, possono essere completamente assimilate oppure rifiutate in tronco per approdare su altre sponde significative. Grande responsabilità nella eventuale frattura dell’universo simbolico generato dalla famiglia viene attribuita ai gruppi sociali con cui si viene in contatto nella socializzazione secondaria, che nelle società moderne si affacciano molto presto nell’orizzonte dell’apprendimento dei soggetti in crescita. Si consideri, infatti, l’asilo nido o l’affidamento dei bambini e delle bambine ai nonni, alle tate o alle babysitter, la cui differenza anagrafica e culturale rispetto ai genitori non è affatto un fattore trascurabile nella crescita delle strutture cognitive dei piccoli e delle piccole.

In contesti sociali e culturali di tipo totalitario ciò che si cerca di evitare è proprio lo shock cognitivo dato dalla rottura delle strutture di plausibilità costruite nella socializzazione primaria nel momento in cui si accede alla socializzazione secondaria. Non a caso, del fascismo si diceva che organizzasse la vita dei soggetti dalla culla alla tomba con estrema attenzione alla volta semantica e ideologica che le persone dovevano assimilare. Qualcuno ritiene che quelle ideologie fascistoidi, laddove ideologia viene intesa come un’immagine costruita appositamente dai gruppi al potere per capovolgere la lettura della realtà, siano ormai tramontate, ma noi non ne siamo tanto convinti per motivi che abbiamo ampiamente argomentato in questa testata.

Tuttavia, al di là delle plateali e coercitive misure adottate dai vari fascismi per imporre l’universo simbolico univoco di riferimento, ad un secolo di distanza, nel mondo del capitalismo della sorveglianza e del dominio dell’infosfera, bisogna prendere atto che esistono metodi molto più sottili per costruire impianti ideologici.

A quasi cinquant’anni dalla pubblicazione di Orientalismo di Edward W. Said dobbiamo purtroppo constatare che nella manualistica di storia in circolazione nelle scuole la sua lezione postcoloniale, che aveva l’ardire di decostruire l’immagine monolitica di un Occidente come unico esperto di storia, non è stata affatto recepita. Persiste ancora, infatti, nel linguaggio manualistico una rappresentazione ideologica chiaramente eurocentrica della cartografia, che ha dei profondi riflessi sull’interpretazione della storia occidentale, nettamente in contrapposizione al Medio Oriente: «Un altro buon motivo per insistere su detta esteriorità sta a mio avviso nella necessità di chiarire che nel discorso culturale, e negli scambi intraculturali, a circolare non sono “verità” ma rappresentazioni. Non v’è certo bisogno di soffermarsi in questa sede sul fatto che il linguaggio stesso è un codice enormemente complesso, che per mezzo di specifiche tecniche esprime, indica, rappresenta, consente lo scambio di messaggi e informazioni» (E.W. Said, Orientalismo, Feltrinelli, Milano 2008, p. 30).

Per cominciare, dunque, come insegnanti di storia, di letteratura, di filosofia, ma anche di matematica nel trattare gli algoritmi, che discendono peraltro dall’intuizione di un persiano, in tutti gli ordini di scuola potremmo cominciare a dissentire rispetto a questa concezione eurocentrica e occidentalistica del mondo, con conseguente posizionamento centrato a livello topologico e antropologico delle soggettività. Potremmo, ad esempio, evitare di riferire ancora di un Medio Oriente, tanto vago geograficamente quanto compatto ideologicamente, stando all’immaginario mediatico più coinvolto con l’affermazione dello scontro culturale in atto.

E potremmo, invece, adottare due termini arabi, così come facciamo con tanti vocaboli anglofoni che costellano il nostro linguaggio quotidiano e che ormai orientano il nostro modo di pensare sempre più occidentalista. Si tratta di due parole che indicano rispettivamente l’Occidente e l’Oriente di una storia e di una civiltà prettamente araba e che ha visto il bacino del Mediterraneo e la parte meridionale della nostra Penisola pienamente coinvolta, cioè Maghreb e Mashreq.

Il termine Maghreb, già abbastanza diffuso in realtà, significa “dove tramonta il sole”, cioè Occidente, e comprende i Paesi del Nord Africa come Marocco, Algeria, Tunisia, Mauritania e Libia, territori dalle culture e dalle lingue più disparate. Il Mashreq, invece, è termine meno noto, e significa “dove sorge il sole”, cioè Oriente, e include Egitto, Sudan, Palestina, Giordania, Libano, Siria, Iraq, Arabia Saudita, Kuwait, Emirati Arabi Uniti, Qatar, Bahrein e Oman.

Ecco, basterebbe una piccola rivoluzione linguistica, presa in carico da docenti consapevoli, per costruire un universo simbolico più inclusivo e attento all’altro rispetto a quello eurocentrico in voga. Un linguaggio anticolonialista in grado di evitare la disumanizzazione e la totale indifferenza nei confronti di una popolazione che in quei luoghi sta scomparendo ad opera di uno Stato voluto e fondato su quelli che vengono richiamati come valori occidentali. Insomma, il fallimento occidentalista è evidente, per cui un’altra storia non solo è possibile, ma dovrebbe essere necessaria per salvaguardare la dignità che occorre garantire all’essere umano in generale.

Michele Lucivero