Per un linguaggio postcoloniale: Magreb e Mashreq, Oriente e Occidente del mondo arabo
Ma quanto è colonialista il nostro linguaggio? Quanto sono pregiudicate le
parole che usiamo quotidianamente e che impariamo nelle nostre scuole? Quanto
viene rinforzata attraverso i vocaboli e i concetti dei manuali scolastici
l’idea che «solo l’Occidente conosca la storia»? Ma, soprattutto, un’altra
storia, scritta con un linguaggio postcoloniale e più rispettosa dell’Oriente è
possibile?
Anche parole semplici, imparate a scuola e ripetute senza rifletterci
abbastanza, nascondono insidie colonialiste incistate all’interno dei pregiudizi
di una cultura che storicamente, accanto all’affermazione dei diritti umani
fondamentali e delle idee di solidarietà, uguaglianza e libertà, ha talvolta
prestato poca attenzione all’incontro e al dialogo con l’altro.
Prendiamo il termine Medio Oriente, ad esempio – che già dovrebbe essere
distinto per una maggiore precisione cartografica da quello che è il Vicino
Oriente, cioè Turchia, Siria, Iraq, Libano, Palestina, Israele e Giordania –,
rispetto a chi e a cosa si configura tale medietà orientale? In sostanza,
bisognerebbe chiedersi: qual è il valore culturale e antropologico associato ad
una tale topografia cognitiva che posiziona il soggetto in un mondo già
consolidato?
Innanzitutto, occorre partire dal presupposto che le lingue non sono mai neutre,
ma veicolano per trasmissione, di generazione in generazione, concetti,
significati e complessi di tradizioni, talvolta inventate, che costruiscono nei
soggetti degli universi simbolici di riferimento.
Quando nasciamo troviamo già disponibile un universo simbolico che costituisce
il mondo dato per scontato sia a livello cognitivo sia a livello affettivo.
Chiaramente, il primo bagaglio semantico è quello veicolato dalla famiglia
(socializzazione primaria), che si connota con tinte fortemente emotive e che, a
seconda delle dinamiche esistenziali più o meno conflittuali nel corso del
passaggio tra adolescenza e giovinezza, possono essere completamente assimilate
oppure rifiutate in tronco per approdare su altre sponde significative. Grande
responsabilità nella eventuale frattura dell’universo simbolico generato dalla
famiglia viene attribuita ai gruppi sociali con cui si viene in contatto nella
socializzazione secondaria, che nelle società moderne si affacciano molto presto
nell’orizzonte dell’apprendimento dei soggetti in crescita. Si consideri,
infatti, l’asilo nido o l’affidamento dei bambini e delle bambine ai nonni, alle
tate o alle babysitter, la cui differenza anagrafica e culturale rispetto ai
genitori non è affatto un fattore trascurabile nella crescita delle strutture
cognitive dei piccoli e delle piccole.
In contesti sociali e culturali di tipo totalitario ciò che si cerca di evitare
è proprio lo shock cognitivo dato dalla rottura delle strutture di plausibilità
costruite nella socializzazione primaria nel momento in cui si accede alla
socializzazione secondaria. Non a caso, del fascismo si diceva che organizzasse
la vita dei soggetti dalla culla alla tomba con estrema attenzione alla volta
semantica e ideologica che le persone dovevano assimilare. Qualcuno ritiene che
quelle ideologie fascistoidi, laddove ideologia viene intesa come un’immagine
costruita appositamente dai gruppi al potere per capovolgere la lettura della
realtà, siano ormai tramontate, ma noi non ne siamo tanto convinti per motivi
che abbiamo ampiamente argomentato in questa testata.
Tuttavia, al di là delle plateali e coercitive misure adottate dai vari fascismi
per imporre l’universo simbolico univoco di riferimento, ad un secolo di
distanza, nel mondo del capitalismo della sorveglianza e del dominio
dell’infosfera, bisogna prendere atto che esistono metodi molto più sottili per
costruire impianti ideologici.
A quasi cinquant’anni dalla pubblicazione di Orientalismo di Edward W. Said
dobbiamo purtroppo constatare che nella manualistica di storia in circolazione
nelle scuole la sua lezione postcoloniale, che aveva l’ardire di decostruire
l’immagine monolitica di un Occidente come unico esperto di storia, non è stata
affatto recepita. Persiste ancora, infatti, nel linguaggio manualistico una
rappresentazione ideologica chiaramente eurocentrica della cartografia, che ha
dei profondi riflessi sull’interpretazione della storia occidentale, nettamente
in contrapposizione al Medio Oriente: «Un altro buon motivo per insistere su
detta esteriorità sta a mio avviso nella necessità di chiarire che nel discorso
culturale, e negli scambi intraculturali, a circolare non sono “verità” ma
rappresentazioni. Non v’è certo bisogno di soffermarsi in questa sede sul fatto
che il linguaggio stesso è un codice enormemente complesso, che per mezzo di
specifiche tecniche esprime, indica, rappresenta, consente lo scambio di
messaggi e informazioni» (E.W. Said, Orientalismo, Feltrinelli, Milano 2008, p.
30).
Per cominciare, dunque, come insegnanti di storia, di letteratura, di filosofia,
ma anche di matematica nel trattare gli algoritmi, che discendono peraltro
dall’intuizione di un persiano, in tutti gli ordini di scuola potremmo
cominciare a dissentire rispetto a questa concezione eurocentrica e
occidentalistica del mondo, con conseguente posizionamento centrato a livello
topologico e antropologico delle soggettività. Potremmo, ad esempio, evitare di
riferire ancora di un Medio Oriente, tanto vago geograficamente quanto compatto
ideologicamente, stando all’immaginario mediatico più coinvolto con
l’affermazione dello scontro culturale in atto.
E potremmo, invece, adottare due termini arabi, così come facciamo con tanti
vocaboli anglofoni che costellano il nostro linguaggio quotidiano e che ormai
orientano il nostro modo di pensare sempre più occidentalista. Si tratta di due
parole che indicano rispettivamente l’Occidente e l’Oriente di una storia e di
una civiltà prettamente araba e che ha visto il bacino del Mediterraneo e la
parte meridionale della nostra Penisola pienamente coinvolta, cioè Maghreb e
Mashreq.
Il termine Maghreb, già abbastanza diffuso in realtà, significa “dove tramonta
il sole”, cioè Occidente, e comprende i Paesi del Nord Africa come Marocco,
Algeria, Tunisia, Mauritania e Libia, territori dalle culture e dalle lingue più
disparate. Il Mashreq, invece, è termine meno noto, e significa “dove sorge il
sole”, cioè Oriente, e include Egitto, Sudan, Palestina, Giordania, Libano,
Siria, Iraq, Arabia Saudita, Kuwait, Emirati Arabi Uniti, Qatar, Bahrein e Oman.
Ecco, basterebbe una piccola rivoluzione linguistica, presa in carico da docenti
consapevoli, per costruire un universo simbolico più inclusivo e attento
all’altro rispetto a quello eurocentrico in voga. Un linguaggio anticolonialista
in grado di evitare la disumanizzazione e la totale indifferenza nei confronti
di una popolazione che in quei luoghi sta scomparendo ad opera di uno Stato
voluto e fondato su quelli che vengono richiamati come valori occidentali.
Insomma, il fallimento occidentalista è evidente, per cui un’altra storia non
solo è possibile, ma dovrebbe essere necessaria per salvaguardare la dignità che
occorre garantire all’essere umano in generale.
Michele Lucivero