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“Parole per capire”: un glossario minimo sulla violenza contro le donne con disabilità
L’Associazione Olympia de Gouges (https://www.olympiadegouges.org/#) prende il nome dalla donna che durante la rivoluzione francese lottò per ottenere pari diritti per donne e uomini ed ha l’obiettivo di promuovere concretamente una politica di parità di genere e di empowerment per le donne che subiscono una qualsiasi forma di violenza (fisica, sessuale, psicologica, economica, stalking). Non ha fini di lucro ed è operativa dal 1999, dando vita a due Centri Antiviolenza, a Grosseto e a Orbetello e a quattro Punti di Ascolto a Follonica, Amiata, Capalbio e Manciano, una casa rifugio ad indirizzo segreto e una casa di seconda accoglienza. L’Associazione Olympia de Gouges fa parte dell’Associazione Nazionale D.i.Re. (Donne in Rete https://www.direcontrolaviolenza.it/)  e della rete di Tosca (Centri Antiviolenza della Toscana https://www.facebook.com/CentriAntiviolenzaTOSCA/?locale=it_IT). L’Associazione conta ad oggi 229 Socie di cui 80 attive con compiti di operatrici, responsabili e referenti di unità funzionali, mediatrici culturali, educatrici a cui vanno aggiunte professioniste quali avvocate, psicologhe e mediche. Nei giorni scorsi si è tenuto a Grosseto “Parole per capire”, l’evento conclusivo di un progetto, finanziato dal Comune,  che l’Associazione ha portato avanti sulla violenza di genere contro le donne con disabilità. Durante l’evento è stato distribuito anche il glossario minimo Parole per capire sulla violenza contro le donne con disabilità, un agile strumento elaborato dall’Associazione per sensibilizzare la popolazione su questo importantissimo tema a partire da concetti quali la violenza, la doppia discriminazione, l’invisibilità, l’ascolto, la rete, la consapevolezza e i diritti. La violenza di genere è un fenomeno universale e trasversale: colpisce donne di tutte le età, estrazioni sociali, religioni, etnie, in ogni parte del mondo. Anche le donne con disabilità quindi subiscono violenza. Le donne con disabilità, fisica sensoriale e/o motoria, incorrono in un duplice processo di discriminazione, che le vede discriminate in quanto disabili e in quanto donne (https://www.interno.gov.it/sites/default/files/2022-12/la_violenza_contro_le_donne_con_disabilita.pdf).  “La violenza contro le donne, si legge nel glossario, è un fenomeno complesso, trasversale e diffuso. Quando coinvolge donne che vivono una condizione di disabilità, assume spesso forme meno visibili, ma non per questo meno gravi”. Secondo il Forum Europeo sulla Disabilità, queste donne sono esposte alla violenza da due a cinque volte più delle altre. Una violenza che può manifestarsi nell’ambiente domestico, nei luoghi di cura, nelle relazioni affettive o professionali, e che si nutre spesso di silenzi, stereotipi e isolamento. Sui 113 Centri che hanno partecipato alla rilevazione dell’Associazione Nazionale D.i.Re. per il suo ultimo Report annuale 2024, sono stati 49 che in totale hanno accolto donne con disabilità, di cui 43 hanno accolto donne “nuove”. Complessivamente 348 donne si sono rivolte a un centro antiviolenza, di cui la maggior parte donne “nuove” (261).  I centri che hanno sostenuto maggiormente donne con disabilità sono dislocati principalmente al nord in Emilia Romagna, Lombardia, Friuli Venezia Giulia, Veneto, Liguria, Piemonte, Trentino Alto Adige, a seguire il centro con Marche, Toscana, Lazio e Umbria e le isole Sardegna e Sicilia. Il sud è rappresentato dall’Abruzzo. Quasi tutti i centri (oltre 82%) sono accessibili alle donne con disabilità motoria che nel 2024 sono il 32% del totale delle nuove con disabilità. Si sono rivolte ai centri anche donne con disabilità intellettiva (20%) e donne con disabilità sensoriale (10%), mentre il 38% ha un’altra tipologia disabilità. “Tra le donne con disabilità che hanno avviato un percorso di uscita dalla violenza rivolgendosi ai centri antiviolenza della rete D.i.Re, si legge nel Report, il 91,5% ha subito violenza da una persona con cui hanno un legame affettivo importante. Nel 56,3% dei casi si tratta del partner, nel 17,2% si tratta di un ex partner, nel 18% un altro parente”. Il GREVIO, il Gruppo di esperti sulla lotta contro la violenza sulle donne e la violenza domestica del Consiglio d’Europa (https://www.coe.int/en/web/istanbul-convention/grevio), nel suo Rapporto sull’applicazione della Convenzione di Istanbul ha segnalato come persistano enormi difficoltà anche rispetto alla fuoriuscita dalla violenza: per le donne con disabilità è difficile riconoscere e denunciare la violenza subita; persiste il rischio di essere stigmatizzate e non credute a causa di una generale mancanza di comprensione della loro esposizione alla violenza; manca una formazione specifica degli operatori, in particolare nel sistema della giustizia, tra le forze dell’ordine e nei servizi sociali; mancano informazioni accessibili e materiale informativo adeguato sui diritti delle vittime e sui servizi di supporto disponibili. E per invertire questa situazione, il GREVIO ha raccomandato al governo italiano di: sviluppare e migliorare l’accessibilità dei servizi di protezione e di sostegno per questi gruppi di donne, compresi i materiali informativi relativi; sostenere la ricerca e inserire indicatori specifici sulle discriminazioni multiple e intersezionali nella raccolta di dati relativi alla violenza contro le donne; assicurare l’effettiva applicazione dell’obbligo di dovuta diligenza (due diligence) per prevenire, indagare, punire e risarcire adeguatamente le vittime appartenenti a questi gruppi di donne; garantire che sia prestata particolare attenzione – da parte di tutte le istituzioni e servizi pubblici – alle esigenze delle donne vittime di violenza che sono o possono essere esposte anche a discriminazioni multiple o che sono rese vulnerabili da circostanze particolari, comprese, ma non solo, le donne e ragazze con disabilità. Qui il Report con i dati 2024 dell’Associazione Nazionale D.i.Re.: https://www.direcontrolaviolenza.it/wp-content/uploads/2025/07/REPORT-Dati-D.i.Re-2024_07.2025_.pdf.  Qui il Glossario minimo Parole per capire: https://informareunh.it/wp-content/uploads/Olympia-de-Gouges-Parole-per-capire-glossario-minimo-2025-settembre.pdf.  Giovanni Caprio
Per un linguaggio postcoloniale: Magreb e Mashreq, Oriente e Occidente del mondo arabo
Ma quanto è colonialista il nostro linguaggio? Quanto sono pregiudicate le parole che usiamo quotidianamente e che impariamo nelle nostre scuole? Quanto viene rinforzata attraverso i vocaboli e i concetti dei manuali scolastici l’idea che «solo l’Occidente conosca la storia»? Ma, soprattutto, un’altra storia, scritta con un linguaggio postcoloniale e più rispettosa dell’Oriente è possibile? Anche parole semplici, imparate a scuola e ripetute senza rifletterci abbastanza, nascondono insidie colonialiste incistate all’interno dei pregiudizi di una cultura che storicamente, accanto all’affermazione dei diritti umani fondamentali e delle idee di solidarietà, uguaglianza e libertà, ha talvolta prestato poca attenzione all’incontro e al dialogo con l’altro. Prendiamo il termine Medio Oriente, ad esempio – che già dovrebbe essere distinto per una maggiore precisione cartografica da quello che è il Vicino Oriente, cioè Turchia, Siria, Iraq, Libano, Palestina, Israele e Giordania –, rispetto a chi e a cosa si configura tale medietà orientale? In sostanza, bisognerebbe chiedersi: qual è il valore culturale e antropologico associato ad una tale topografia cognitiva che posiziona il soggetto in un mondo già consolidato? Innanzitutto, occorre partire dal presupposto che le lingue non sono mai neutre, ma veicolano per trasmissione, di generazione in generazione, concetti, significati e complessi di tradizioni, talvolta inventate, che costruiscono nei soggetti degli universi simbolici di riferimento. Quando nasciamo troviamo già disponibile un universo simbolico che costituisce il mondo dato per scontato sia a livello cognitivo sia a livello affettivo. Chiaramente, il primo bagaglio semantico è quello veicolato dalla famiglia (socializzazione primaria), che si connota con tinte fortemente emotive e che, a seconda delle dinamiche esistenziali più o meno conflittuali nel corso del passaggio tra adolescenza e giovinezza, possono essere completamente assimilate oppure rifiutate in tronco per approdare su altre sponde significative. Grande responsabilità nella eventuale frattura dell’universo simbolico generato dalla famiglia viene attribuita ai gruppi sociali con cui si viene in contatto nella socializzazione secondaria, che nelle società moderne si affacciano molto presto nell’orizzonte dell’apprendimento dei soggetti in crescita. Si consideri, infatti, l’asilo nido o l’affidamento dei bambini e delle bambine ai nonni, alle tate o alle babysitter, la cui differenza anagrafica e culturale rispetto ai genitori non è affatto un fattore trascurabile nella crescita delle strutture cognitive dei piccoli e delle piccole. In contesti sociali e culturali di tipo totalitario ciò che si cerca di evitare è proprio lo shock cognitivo dato dalla rottura delle strutture di plausibilità costruite nella socializzazione primaria nel momento in cui si accede alla socializzazione secondaria. Non a caso, del fascismo si diceva che organizzasse la vita dei soggetti dalla culla alla tomba con estrema attenzione alla volta semantica e ideologica che le persone dovevano assimilare. Qualcuno ritiene che quelle ideologie fascistoidi, laddove ideologia viene intesa come un’immagine costruita appositamente dai gruppi al potere per capovolgere la lettura della realtà, siano ormai tramontate, ma noi non ne siamo tanto convinti per motivi che abbiamo ampiamente argomentato in questa testata. Tuttavia, al di là delle plateali e coercitive misure adottate dai vari fascismi per imporre l’universo simbolico univoco di riferimento, ad un secolo di distanza, nel mondo del capitalismo della sorveglianza e del dominio dell’infosfera, bisogna prendere atto che esistono metodi molto più sottili per costruire impianti ideologici. A quasi cinquant’anni dalla pubblicazione di Orientalismo di Edward W. Said dobbiamo purtroppo constatare che nella manualistica di storia in circolazione nelle scuole la sua lezione postcoloniale, che aveva l’ardire di decostruire l’immagine monolitica di un Occidente come unico esperto di storia, non è stata affatto recepita. Persiste ancora, infatti, nel linguaggio manualistico una rappresentazione ideologica chiaramente eurocentrica della cartografia, che ha dei profondi riflessi sull’interpretazione della storia occidentale, nettamente in contrapposizione al Medio Oriente: «Un altro buon motivo per insistere su detta esteriorità sta a mio avviso nella necessità di chiarire che nel discorso culturale, e negli scambi intraculturali, a circolare non sono “verità” ma rappresentazioni. Non v’è certo bisogno di soffermarsi in questa sede sul fatto che il linguaggio stesso è un codice enormemente complesso, che per mezzo di specifiche tecniche esprime, indica, rappresenta, consente lo scambio di messaggi e informazioni» (E.W. Said, Orientalismo, Feltrinelli, Milano 2008, p. 30). Per cominciare, dunque, come insegnanti di storia, di letteratura, di filosofia, ma anche di matematica nel trattare gli algoritmi, che discendono peraltro dall’intuizione di un persiano, in tutti gli ordini di scuola potremmo cominciare a dissentire rispetto a questa concezione eurocentrica e occidentalistica del mondo, con conseguente posizionamento centrato a livello topologico e antropologico delle soggettività. Potremmo, ad esempio, evitare di riferire ancora di un Medio Oriente, tanto vago geograficamente quanto compatto ideologicamente, stando all’immaginario mediatico più coinvolto con l’affermazione dello scontro culturale in atto. E potremmo, invece, adottare due termini arabi, così come facciamo con tanti vocaboli anglofoni che costellano il nostro linguaggio quotidiano e che ormai orientano il nostro modo di pensare sempre più occidentalista. Si tratta di due parole che indicano rispettivamente l’Occidente e l’Oriente di una storia e di una civiltà prettamente araba e che ha visto il bacino del Mediterraneo e la parte meridionale della nostra Penisola pienamente coinvolta, cioè Maghreb e Mashreq. Il termine Maghreb, già abbastanza diffuso in realtà, significa “dove tramonta il sole”, cioè Occidente, e comprende i Paesi del Nord Africa come Marocco, Algeria, Tunisia, Mauritania e Libia, territori dalle culture e dalle lingue più disparate. Il Mashreq, invece, è termine meno noto, e significa “dove sorge il sole”, cioè Oriente, e include Egitto, Sudan, Palestina, Giordania, Libano, Siria, Iraq, Arabia Saudita, Kuwait, Emirati Arabi Uniti, Qatar, Bahrein e Oman. Ecco, basterebbe una piccola rivoluzione linguistica, presa in carico da docenti consapevoli, per costruire un universo simbolico più inclusivo e attento all’altro rispetto a quello eurocentrico in voga. Un linguaggio anticolonialista in grado di evitare la disumanizzazione e la totale indifferenza nei confronti di una popolazione che in quei luoghi sta scomparendo ad opera di uno Stato voluto e fondato su quelli che vengono richiamati come valori occidentali. Insomma, il fallimento occidentalista è evidente, per cui un’altra storia non solo è possibile, ma dovrebbe essere necessaria per salvaguardare la dignità che occorre garantire all’essere umano in generale. Michele Lucivero