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12 ottobre 1492 o le radici dell’Occidente: pulizia etnica, segregazione, genocidio
Contributo collettivo al dibattito che si terrà a Roma giovedì 4 dicembre su “Le radici dell’Occidente: colonialismo e genocidio”. Qui maggiori info. *** Negli ultimi due anni, grazie alla mobilitazione in solidarietà con il popolo palestinese, hanno ripreso a circolare nello spazio pubblico terminologie (colonialismo di insediamento, genocidio, apartheid, capitalismo […] L'articolo 12 ottobre 1492 o le radici dell’Occidente: pulizia etnica, segregazione, genocidio su Contropiano.
“Olocausto palestinese”, un libro da leggere per capire e discutere
Autrice di questo saggio, appena pubblicato da Edizioni Al Hikma di Imperia, è Angela Lano, scrittrice, giornalista professionista, ricercatrice presso l’Università di Salvador de Bahia in Brasile e direttrice dell’agenzia di stampa InfoPal.it. Il testo dell’Autrice è anticipato da un’interessante prefazione di Pino Cabras e arricchito da un’appendice giuridica curata da Falastin Dawoud. Il volume è composto di 191 pagine, prezzo di copertina 14 euro e il ricavato dalle vendite finanzierà la campagna “1000 coperte per Gaza”. Il titolo si rifà a “Olocausto Americano” dello storico David Stannard che indaga sul genocidio dei nativi americani commesso dai colonizzatori europei. Questo tema fa da sfondo all’analisi dell’Autrice circa il dramma vissuto dai palestinesi dal giorno in cui iniziò l’insediamento dei pionieri del progetto coloniale sionista, basato sul suprematismo “bianco” e avente l’obiettivo di sostituirsi alla popolazione nativa utilizzando strumentalmente la narrazione biblica come fonte di un presunto diritto. La Palestina, si legge, non è solo la fonte di un immenso dolore, ma è anche “il simbolo attuale di migliaia di anni di ingiustizie, di genocidi, di pulizie etniche in nome di una superiorità razzista e suprematista” che caratterizza la “civiltà” europea, la stessa che 500 anni fa iniziò lo sterminio dei nativi americani, ed è sui resti di oltre 60 milioni di indigeni che si sono formati i democratici States, principali sostenitori di Israele, esecutore impunito del genocidio incrementale dei palestinesi . Il genocidio, afferma l’Autrice ricordando vari genocidi della storia “non è solo una componente del colonialismo occidentale: ne è il suo fondamento, da sempre” e oggi Gaza può essere definita “il capolinea dell’umanità e della legalità internazionale”. Senza l’abile e servile ammortizzatore mediatico non sarebbe stato possibile occultare l’essenza propria del progetto sionista, delle sue orripilanti pratiche disumane e della rete di complicità politiche, governative, finanziarie ed economiche che ne garantiscono l’impunità. Pagina dopo pagina cresce nel lettore la consapevolezza che gli arresti arbitrari, le illegali e continue appropriazioni di terre, le stragi di innocenti, le orrende torture dei prigionieri, il sadismo mostrato con criminale fierezza dai militari dell’IDF, l’uccisione mirata di centinaia di giornalisti, sanitari e operatori umanitari, le proposte di legge da Stato nazista, il disprezzo per la legalità internazionale e le sue  massime Istituzioni, tutto questo “non è un epifenomeno o una conseguenza accidentale dell’oppressione sionista” ma è la violenza propria, “radicata nell’ideologia del sionismo e una produzione sistematica delle mentalità colonialiste” e sarebbe un errore, afferma l’Autrice, considerare le criminali azioni commesse dall’Idf in questi due anni come reazione all’azione armata del 7 ottobre 2023 denominata Al Aqsa Flood, l’operazione guidata dall’ala militare di Hamas che viene spiegata dall’Autrice con pregevole schiettezza, nonostante la più che probabile, quanto strumentale accusa di antisemitismo. Scrive infatti Angela Lano che “Assaltando basi militari e kibbutz, i militanti palestinesi miravano a catturare il maggior numero possibile di soldati e civili israeliani” per liberare attraverso gli scambi le migliaia di palestinesi di ogni età arrestati e spesso rapiti dall’IDF in tutta la Palestina, ma spiega anche che “l’azione della Resistenza va intesa all’interno di un più ampio processo geopolitico internazionale: si tratta di una battaglia de-coloniale, di una ribellione… del popolo palestinese contro il suo centenario oppressore… contro il sionismo e i suoi coloni…”. Segue la documentazione circa  l’andamento dei fatti di quelle drammatiche ore che i nostri media hanno definito “pogrom” contro gli ebrei  arricchendo le loro narrazioni di orrori mai avvenuti, come dimostrato dalle stesse inchieste israeliane. La scelta di definire pogrom un’azione indubbiamente violenta, ma di rivolta contro l’oppressore e non di natura razzista, rivela il cedimento al razzismo, questo sì, dei sostenitori del suprematismo bianco di cui Israele è parte a pieno titolo. L’Autrice nota che i nostri media non hanno rettificato o smentito le loro precedenti accuse basate su menzogne ormai conclamate, perché lo stereotipo che vuole arabi e musulmani generalmente ignoranti e violenti consolida la percezione negativa nei loro confronti e rafforza  “l’idea di inferiorità” disumanizzando e collocando “queste popolazioni  … in posizioni subordinate e oggetto di campagne diffamatorie difficili da decostruire”. Sostanzialmente, scrive, “ci troviamo di fronte a forme neocoloniali… al suprematismo bianco e alla visione orientalista del mondo islamico…”. Pertanto l’opinione pubblica va tenuta in una bolla che le impedisca la comprensione d’insieme della disumanità razzista insita nel colonialismo d’insediamento e, quindi, di capire che è indispensabile “un processo di decolonizzazione che smantelli l’ideologia e la struttura coloniale… che smantelli il ‘Progetto Israele’.” L’autrice afferma che Hamas, insieme ad altri movimenti minori, rappresenta il rifiuto della colonizzazione della Palestina e rivendica il diritto del suo popolo all’autodeterminazione, se necessario anche con la resistenza armata, come ammesso dallo stesso Diritto internazionale. Spiega quindi al lettore che “La nascita di Hamas, a fine anni ’80, e la sua vittoria in elezioni democratiche nel 2006, il suo approccio politico e pratico verso la liberazione della Palestina” e infine l’operazione del 7 ottobre 2023, hanno riportato la questione palestinese sullo scenario globale… (sulla) necessità/diritto di ricorrere alla resistenza”. Aggiunge poi che “chi ancora sostiene che Hamas, anziché essere una genuina espressione del popolo palestinese che lotta, sia una ‘creatura/creazione di Israele’… o è in malafede o è semplicemente un prodotto umano del colonialismo occidentale duro a morire”. Paradossalmente, scrive ancora Angela Lano, l’olocausto di Gaza sta sterminando proprio i discendenti di quegli ebrei che circa 2500 anni fa avevano occupato la terra di Canaan, quelli che rimasero o tornarono in Palestina e che in parte mantennero la loro religione, in parte si convertirono al cristianesimo e, successivamente, in parte si convertirono all’Islam. Praticamente un olocausto di semiti commesso da sionisti in nome della difesa dall’antisemitismo! Del resto, la combinazione di interessi tra l’impero coloniale britannico e il progetto sionista di inizio “900 non si curava di questo, visto che “Il sionismo si definiva chiaramente come ‘ un movimento ebraico per la colonizzazione dell’Oriente’.” Olocausti e pulizia etnica, come mostra questo libro, sono una costante storica della cosiddetta civiltà occidentale e con pochi esempi, dalle leggi razziali USA prese a modello da Hitler, all’eugenetica USA, ancora utile esempio per il nazismo, ai campi di concentramento africani e al conseguente genocidio tedesco di Herero e Nama trent’anni prima che il nazismo si affermasse, all’apartheid statunitense vigente fino alla metà del secolo scorso, l’Autrice espone una poco indagata e molto amara verità: il nazismo non fu un male esterno dell’Occidente ma un suo prodotto, una filiazione del colonialismo. È “nato nel suo grembo e ancora vi alberga”: il genocidio in corso in Palestina, supportato dai suoi complici e tollerato dai loro vassalli ne è una prova, e il potere del sistema informativo di guidare ad hoc la percezione e di scegliere “un lessico che anestetizza l’orrore” ne è il sostegno ancillare. In conclusione, questo libro apre alla discussione con coraggio e onestà intellettuale e questo è uno dei motivi per cui merita di essere letto. Le prime presentazioni si avranno il 6 dicembre a Ladispoli (provincia di Roma) e il 13 a Rovato (provincia di Brescia). Patrizia Cecconi
Perché quanto accaduto alla “famiglia nel bosco” riguarda tutti noi
SU AUTODETERMINAZIONE, COLONIALISMO E FEMMINILE. CI SONO POCHE CERTEZZE MA TANTI STRAORDINARI SPUNTI DI RIFLESSIONE IN QUESTO INTERVENTO DI ELISA LELLO Cascina Santa Brera di San Giuliano Milanese: qui da diversi anni la cooperativa Praticare il futuro promuove non singole giornate ma veri percorsi per le scuole pubbliche e campi vacanza di educazione ambientale e alla cittadinanza globale -------------------------------------------------------------------------------- Molti, a partire dalla vicenda che ha coinvolto la famiglia nei boschi di Palmoli, si sono concentrati sui dettagli emersi dalle carte processuali. La mia intenzione è invece di sfumarli per collocare la questione in un quadro più ampio, che ci aiuti a capire come mai questi fatti così tanto parlano di noi tutte/i da aver suscitato reazioni così forti e diffuse. Non pretendo certo di fornire interpretazioni esaustive, ma proverò a fare emergere qualcosa di cui, mi pare, sia stato detto assai poco finora. Da una parte un’amplissima indignazione popolare, sfociata in alcune petizioni e nell’indizione di una manifestazione di protesta, contro una decisione avvertita come sproporzionata, violenta, di grave impatto sugli equilibri familiari e soprattutto su quei bambini. Dall’altra una levata di scudi che ha visto come protagoniste diverse componenti della sinistra, per una volta in accordo fra loro, e, come invece accade regolarmente, in netta contrapposizione con la reazione popolare. I temi sollevati da una parte della sinistra sono quelli della privatizzazione dell’infanzia, del rifiuto “neoliberale” della scuola pubblica, dell’individualismo egoista, della sfiducia (immaginata come patologica) verso le istituzioni, dei genitori che pretendono di disporre dei bambini come fossero loro proprietà; fino agli immancabili dileggi contro le fantasie a sfondo New Age che corredano la vicenda di cronaca. Io credo, invece, che altri siano i processi di cambiamento, che coinvolgono tutti noi, di cui percepiamo questa vicenda come l’epitome; ed è questo, forse, a rendercene gli esiti così visceralmente indigeribili, intollerabili. Credo che in molti, in questa vicenda, abbiano colto l’ennesimo segnale di margini che si ripiegano su se stessi per restringere ancora di più le possibilità di autodeterminarci, di vivere in un qualche modo che si discosti dalla norma, di scartare di lato; per essere invece incanalati dentro quella strada segnata che più si rivela assurda, invivibile, asfissiante, più pretende di imporsi come unica opzione possibile. Quanto più facile era, anche solo venti o trent’anni fa, viaggiare in autostop, o piantare una o più tende e vivere momenti di convivialità non mercificati godendosi liberamente il mare, o i boschi e la montagna? Ricordo racconti epici di un intero paese che si spostava in quella che oggi è una celebre spiaggia per turisti, in Sardegna, per settimane, con tanto di pecore (vive) al seguito per i banchetti serali. Ora quasi non ci stupiamo più che qualcuno ci mandi via mentre siamo seduti a due metri dal bagnasciuga a bere una birra con un amico. Qualcuno forse arriva anche a pensare che in fondo sia meglio così, “per la nostra sicurezza”. Quanto era più semplice e lecito cercare interpretazioni dietro alla malattia che non fossero costrette nella gabbia dell’insensatezza biochimica o genetica, e quindi praticare percorsi di guarigione dove il corpo non veniva scisso dal vissuto individuale e collettivo? Quei percorsi, insomma, che oggi in blocco e immediatamente vengono screditati come ignoranza e creduloneria, e guai a chi si rende colpevole di chiedersi se magari c’è qualcosa che le nostre lenti biomediche non ci consentono di vedere. Perché noi – noi occidentali, razionali, scientifici… – e solo noi, tutto sappiamo (e si vedono i risultati… Ma su questo, torno in chiusura). Ma di questi tempi assai recenti sono molte le storie che ci parlano di veri e propri attacchi ad ogni genere di autonomia, di un restringersi incessante dei margini di scelta su come e dove vivere, coltivare, lavorare, partorire, curare, educare, apprendere1. Chi vive nelle “aree rurali” o interne sa quanto è diventato difficile decidere di rimanervi, stretti tra desertificazione dei servizi, trasformazione dei territori – ancor più se montani – in parchi divertimento per turisti (magari anche naturalistici), o loro conversione in zone di sacrificio green, per fare posto a mega “parchi” eolici o fotovoltaici. Ma poi, basta pensare a tutti i contadini e allevatori che ancora si ostinano a produrre cibo in maniera davvero ecologica; eppure ogni giorno solerti funzionari pretendono di applicare alle loro aziende, spesso di dimensioni familiari, le stesse regole che valgono per l’agroindustria, con il risultato di sotterrarli di multe e richieste burocratiche inconcepibili, obbligandoli così ad entrare in percorsi di indebitamento necessari perché tutto sia in regola: e che condurranno assai efficacemente all’obiettivo della morte dell’agricoltura contadina, e con essa di ogni possibilità residua di autonomia e autodeterminazione (a tutto ed esclusivo vantaggio delle multinazionali dell’agrochimica, della manipolazione biotecnologica e del digitale), proprio nell’ambito che prima di ogni altro risponde ad un nostro bisogno primario2. La rabbia verso istituzioni che usano il pugno di ferro per punire una famiglia che vive fuori dagli schemi ordinari, pure senza segni di illegalità, disagio, violenza o infelicità, e anzi con evidenti segnali di attenzione, di tempo restituito alle proprie scelte, di ecologia reale; quando quelle stesse istituzioni non vedono, o fingono di non vedere, il disagio delle infanzie rubate dagli schermi, o il dolore dei bambini e delle bambine che vivono in famiglie la cui serenità è stata portata via dalle condizioni precarie, oppresse, del lavoro dei genitori: questo, credo, un primo punto importante, alla base, giustamente, della reazione popolare. La sensazione sempre più chiara di un restringimento delle nostre capacità immaginative ed esistenziali, a cui fa seguito la repressione giudiziaria; la consapevolezza che quella decisione estrema sia un monito per tutti noi, un avvertimento che ci ricorda come gli spazi di libertà e autodeterminazione siano sempre più ristretti, e che ogni deviazione non verrà più tollerata. Ma andrà pur bene la libertà individuale – dicono molti, a sinistra – però i figli non devono subire le decisioni dei genitori, perché non sono loro proprietà, e qui saremmo di fronte a un delirio di onnipotenza dei genitori, che pensano di poter disporre dei figli a proprio piacimento. Eppure, tutti i genitori “impongono” le proprie scelte educative ai figli, sia quando seguono, più o meno, la corrente, sia quando se ne discostano. Com’è giusto che sia. La domanda che dovremmo porci, piuttosto, è per quale ragione solo ai genitori che si assumono il rischio di scelte controcorrente chiediamo di giustificarle. Le scelte che non contraddicono la narrazione dominante, anche quando visibilmente inadeguate, discutibili, o anche pericolose, non sono oggetto di giudizio: siccome si conformano, è come se questo bastasse a giustificarle3. Quanto, poi, alla presunta “privatizzazione dell’infanzia” e all’altrettanto presunta onnipotenza dei genitori, mi pare che siamo di fronte piuttosto al contrario. Da tempo assistiamo a narrazioni giornalistiche che concorrono a dipingere genitori inadeguati e incapaci di assolvere il proprio ruolo. Madri e padri dipinti nientemeno che come “la rovina della scuola”, che offendono insegnanti ree/i di aver dato un brutto voto al pargolo, o che insultano allenatori o arbitri colpevoli di non aver riconosciuto l’incredibile talento del piccolo calciatore. Non dico che simili episodi non possano accadere: dico, però, che chiunque abbia figli sa quanto la realtà quotidiana sia lontana da – e opposta a – tale narrazione. Eppure sono sempre fatti come questi ad attirare l’attenzione di giornali e Tv, contribuendo a consolidare una narrazione unidirezionale. Narrazione che però, guarda caso, non è per nulla innocente: perché si presta invece a delegittimare la figura dei genitori, e per questa via a minare il loro ruolo di ultimo, per quanto fragile, baluardo rispetto alla possibilità da parte dello Stato – e quindi oggi, sempre più, del mercato – di disporre di bambini e ragazzi, su un’ampia varietà di questioni sanitarie, educative etc. Per esempio, prendendo un tema massimamente tabù di cui pure sarebbe ben ora di pretendere di poter discutere laicamente (e scientificamente…): ricordate il precedente giuridico della recente sentenza che ha stabilito la possibilità per i minori almeno a partire dai 16 anni di vaccinarsi contro il Covid indipendentemente dal consenso dei genitori4 (per non parlare delle minacce di sottrarre la patria potestà ai genitori con qualche dubbio sul calendario vaccinale pediatrico introdotto da Lorenzin…)? Come suona oggi, a fronte delle evidenze scientifiche finalmente davanti agli occhi di tutte/i sull’opportunità e sul bilancio tra costi e benefici di quelle profilassi per bambini/e e ragazzi/e? Ma andiamo avanti. In molti, sempre a sinistra, hanno accusato la famiglia in questione di essersi rifugiata nell’isolazionismo, senza che i bambini potessero entrare in contatto con altri modi di vivere, negando loro, quindi, la possibilità di “scegliere”. Non mi soffermo sull’ovvio, e cioè che si può socializzare anche al di fuori della scuola statale (come in effetti era il caso), o sul fatto che percorsi formativi parentali, così come quelli libertari, alternativi alla scuola statale, sono realtà consolidate e perfettamente riconosciute sul piano normativo, etc. Provo invece ad avventurarmi su terreni più difficili, quasi per nulla battuti finora; su cui non ho risposte, eppure si dovrà pure iniziare a parlarne. Certo, sarebbe bello poter conciliare: poter crescere i figli facendo l’orto insieme, e intanto mandarli alla scuola pubblica, così che possano entrare in contatto con diversi modi di stare al mondo: ma è davvero possibile? È possibile appassionarli alla cura di un orto familiare, o insegnare loro ad allevare le api e smielare, nel momento in cui si mette loro in mano uno smartphone? Temo che stia diventando sempre più difficile, e non è certo un caso: i neuroscienziati della Silicon Valley sono al lavoro precisamente per fare sì che questo non possa avvenire; per fare sì che, nel momento in cui hanno uno smartphone in mano, la vita là fuori diventi una noiosa dilazione del momento in cui si potrà finalmente tornare a scrollare video, reels e a controllare notifiche5. È possibile crescere bimbi felici di assaporare i fagiolini appena colti dall’orto, quando entrano in contatto col Mac? O quando andando a scuola si sentiranno diversi, e magari esclusi, perché porteranno nello zaino il frutto o la crostata al posto della merendina confezionata, e non conosceranno l’influencer del momento da millemila visualizzazioni? E questo non, ovviamente, perché il BigMac o lo scrolling compulsivo abbiano qualcosa di oggettivamente migliore rispetto a imparare ad allevare le api, suonare uno strumento o annoiarsi ascoltando il vento tra gli alberi. Ma vincono, perché sono più facili, palatabili, passivizzanti, spossessanti. A proposito di quest’ultimo aggettivo, “spossessante”, dai richiami chiaramente e volutamente illichiani: Christian Raimo nei giorni scorsi ha tracciato una linea di continuità che parte da Ivan Illich per arrivare addirittura a Thatcher e Reagan, prima di centrare proprio il focolare della famiglia anglo-australiana nei boschi abruzzesi; il tema è quello della delegittimazione del pubblico da cui discenderebbe la natura neoliberista di queste “fughe nel privato”. Ebbene: anziché continuare ad avvolgerci dentro il brandello della scuola pubblica come in una (logora) copertina di Linus, non sarebbe più utile, per i bambini e le bambine che la frequentano, vedere come abbiamo lasciato che mercato e digitale la sfigurassero? Non sarebbe più utile recuperare proprio la ricchissima eredità di Illich, che avrebbe in questa fase storica trovato “l’ora della sua leggibilità”6, per capire la potenza devastante, colonizzatrice, uniformante di certe “tecnologie che spossessano” acriticamente assurte a insostituibili strumenti didattici? Leggendo i molti commenti indignati sui diritti presuntamente lesi di questi bambini, ho spesso pensato che forse sono piuttosto i figli come i miei – quelli delle famiglie che, ognuna a modo suo, hanno cercato di crescerli con idee, valori e principi diversi da quelli dominanti senza tuttavia rinunciare a mandarli (quasi sempre) alla scuola pubblica – quelli che hanno davvero sofferto, ben più dei bambini della vicenda abruzzese. Perché sono figli presi in mezzo, tra famiglie che propongono valori ed esperienze (nel nostro caso, piuttosto vicini a quelli della famiglia diventata famosa: l’orto, i Gruppi di Acquisto Solidali, le escursioni, l’autoproduzione del cibo, le tendate, i falò, lo scoutismo, la grande cura per la lettura e la manualità…) e messaggi che arrivano dai media, dagli schermi ma anche dalla scuola, che vanno in direzione spesso opposta e inconciliabile7. Così che il peso di tutta l’inconciliabilità che si è aperta fra questi mondi si è scaricato proprio sulle esili spalle di bambini e ragazzi, e sulle famiglie. Mentre i media parlano di genitori inadeguati, io parlerei piuttosto di genitori lasciati soli in trincea a gestire l’ingestibile quotidianità della prima generazione di piccoli umani dotati di schermi onnipresenti; e dell’assurdo tecno-ottimismo imperante, che impedisce di affrontare pubblicamente la questione, contribuendo così alla solitudine dei genitori8. Parlerei della fatica immane a fare funzionare quelle maledettissime app che dovrebbero teoricamente consentire qualche possibilità di controllo e limitazione, sui tempi e sui contenuti, della navigazione su Internet degli smartphone dei ragazzi; e che invece costituiscono il principale fattore di inquinamento dei rapporti familiari. Parlerei dei conflitti quotidiani nati dalla frustrazione per tutto ciò che prima di rassegnarci a consegnare ai ragazzi uno smartphone (rassegnazione peraltro resa necessaria proprio dalla scelta di mandarli alla scuola pubblica) era possibile – leggere insieme o vederli leggere libri per ore, costruire cose con le mani, chiacchierare, camminare meravigliandosi di una certa luce che filtra tra gli alberi, annoiarsi… – e ora sempre meno, con la loro attenzione e il loro tempo vampirizzati dagli schermi. E volendo porre dei limiti, come pure è necessario fare, il rischio è quello di far aumentare il valore, ai loro occhi, delle tecnologie e del tempo ad esse dedicato, fino a far assurgere a supremo desiderio il sogno misero di un accesso illimitato. E quindi è giusto proteggersi, arrivando anche a pensare a forme di isolazionismo, che poi non è solitamente individualistico o solitario, ma in comunità alternative? Non lo so, non ho risposte. So però che dove altri sono certi di vedere solo un ripiegarsi egoistico e neoliberale io vedo piuttosto la ricerca di coltivare possibilità altre di vita che devono essere protette proprio per essere possibili, e poter così diventare esempi concreti, prefigurativi, e camminabili da altre/i. Infine, ultima grande accusa che quella parte della sinistra rivolge alla famiglia in questione e a chi ne prende le difese: l’antistatalismo. Come se gli apparati giudiziari e repressivi dello Stato fossero sempre un bene in sé; come se la diffidenza fosse diventata sinonimo di patologia, anziché di sana prudenza. Pensare che, con buona pace di chi vagheggia su Stati contemporanei intrinsecamente buoni, e forse addirittura socialisti, proprio Marx parlava dello Stato come comitato d’affari della borghesia: e non so cos’altro dovesse accadere, in questi ultimi 170 anni, per fare di quella diagnosi una delle più azzeccate, confermate e arricchite di sensi e sfumature dal corso degli eventi. Piuttosto, il punto che mi preme, in chiusura, sottolineare, è quello del colonialismo, che del resto è strettamente legato all’affermazione degli Stati moderni. La sottrazione dei bambini alle famiglie, per farli educare secondo i canoni della cultura dominante, è in effetti una pratica tipica del colonialismo9. Però, si obietterà, qui non siamo in presenza di culture altre, di nativi assoggettati alla dominazione coloniale da parte dell’Occidente. Invece, credo sarebbe ora di rovesciare precisamente questo ragionamento, per iniziare a utilizzare gli strumenti che la letteratura decoloniale ha elaborato per utilizzarli anche “a casa nostra”10. Per utilizzarli anche nella stessa Europa, che del resto è stata il primo continente oggetto di violenza coloniale, nella duplice forma di genocidio ed epistemicidio, con l’avvento della modernità industriale e capitalista e i suoi apparati di dominio, conoscenza e giustificazione. Mi sembra, anzi, che proprio in questa ostinazione a usare le cautele decoloniali solo in riferimento a culture altre, lontane, permanga uno sguardo coloniale: perché “loro”, in fondo, possono essere giustificati se si ostinano a difendere la legittimità di metodi di cura, epistemologie ed ontologie differenti da quelli ritenuti superiori, e anzi validi in via esclusiva, dalla cultura occidentale; perché loro credono, mica sanno. Ma noi, che invece sappiamo per certo che il mondo è solo quello spiegato dalla nostra scienza positivista, no! Quindi, qui in Occidente, nessuna deviazione può essere plausibile, né giustificata… E invece, quanto colonialismo c’è nello sguardo egemone che dà per scontato che solo il modo di vivere civilizzato, urbano, industriale, tecnoscientifico sia il metro di paragone che ci conferisce il diritto insindacabile di certificare l’arretratezza (il conservatorismo, il populismo…) degli abitanti rurali? Quanto colonialismo c’è nello screditare l’ingenuità insita nel preteso “idillio arcadico”, addirittura associandolo necessariamente a cupe simpatie reazionarie/naziste? O nella rozzezza quasi animalesca con cui viene descritta/o chi ancora mantiene – nell’attaccamento alla casa familiare, alla terra, ai propri animali, alla parola data11 – qualche traccia di fedeltà alla cultura preindustriale? E quanto nell’arroganza di chi dà per scontato che metodi di cura diversi dalla medicina biochimica – a prescindere dalla loro diversità, e in alcuni casi dalla storia millenaria che li connota – siano riducibili a ignoranza, superstizione, irrazionalismo? Ma sotto questa storia scorre qualcosa di antico, molto antico; che ciclicamente, carsicamente, riaffiora in superficie. A questo proposito, Paolo Mottana ha espresso preoccupazione, su un testo pubblicato proprio qui su Comune – Qualche riflessione sull’homeschooling – a proposito della nostra “famiglia nei boschi”, per il pericoloso affermarsi di un tratto del femminile legato alla vituperata “esaltazione acritica” della natura, a metodi naturali di cura, fino a comprendere ideologie vagamente “spiritualiste ed esoteriche”. Nel rilevare la centralità dell’elemento “femminile”, credo abbia colto un aspetto cruciale della questione; tuttavia, la mia valutazione è diametralmente opposta: dove Mottana vi legge qualcosa da temere in ragione della sua pericolosità, io scorgo al contrario l’orizzonte a cui guardare per cercare possibili vie di uscita. In effetti, l’associazione tra il principio femminile e l’elemento boschivo, la conoscenza delle erbe e dei metodi di cura naturali, risale molto indietro nella storia della cultura occidentale. Tra i molti che ne trattano mi riferirò, per solidità della documentazione e delle interpretazioni storiche, alla traccia proposta da Giorgio Galli, che in un bellissimo libro ricostruisce la storia di un conflitto che accompagna, appunto, carsicamente, la storia dell’Occidente fin dalle sue origini, tra culture caratterizzate da un’impronta a prevalenza femminile o maschile: senza, per questo, farne in alcun modo una questione di rigida distinzione individuale di genere. Già nella Grecia classica, Galli sottolinea l’insistenza, nel teatro (una delle istituzioni che segnano e contribuiscono a consolidare e legittimare, nella sua lettura, la vittoria della cultura maschile sulle ribellioni femminili), sul ruolo della polis come misura della condizione civilizzata (dove il polites è solo maschio), in contrapposizione all’agros, contrassegnato dalla mancanza di misura (ovviamente secondo il punto di vista della cultura vincitrice) e dall’associazione al femminile e ai boschi, dove appunto avevano luogo i riti dionisiaci e la ribellione femminile12. L’associazione tra femminile e boschivo, rurale, pagus, come contrapposto all’urbano, riemerge nella storia del Cristianesimo, dove i rituali a forte presenza femminile, in cui riecheggiava una controcultura più antica dai tratti libertari e anti-autoritari, pacifici, erotici, estatici, collegati a saperi e medicine tradizionali e a forme di organizzazione sociale matrilineare, vengono demonizzati e proibiti, a partire dal III secolo, nelle città, ma molto meno nelle campagne. È qui, lontano dai centri abitati, che quella cultura sotterranea viene tollerata dalle gerarchie ecclesiastiche e continua a sopravvivere almeno fino alle soglie della modernità, quando verrà violentemente repressa tramite l’Inquisizione13. Nel fuoco dei roghi, insieme alle “streghe”, sono andati in fumo saperi radicati in un’epistemologia che negava la distinzione tra spirito e materia: la loro cancellazione violenta è stata necessaria per l’affermarsi della scienza moderna, che affonda le radici in un’epistemologia totalmente differente – basata invece su una natura “morta”, mero ordigno meccanico-matematico, materia inerte da quantificare, controllare, depredare e sfruttare – senza la quale la modernità industriale e coloniale sarebbe impensabile14. Ciò che sta accadendo sotto i nostri occhi, allora, può forse essere letto in modo differente. Il momento di culmine della vittoria globale di quella cultura “maschile” (ripeto, a scanso di equivoci, che stiamo parlando di culture improntate a un principio, in cui si possono riconoscere persone al di là delle distinzioni di genere), urbana, tecnoscientifica, è proprio il momento in cui si svela la sua distruttività; ancor più quando non ammette più alcun riequilibrio, alcuna mitigazione, dalla sua controparte “naturale”, ormai ridotta a stati infantili, pre-razionali dell’umanità; e a forme di conoscenza inferiori, non scientifiche quindi risibili. È il dispiegarsi incontrastato e colonizzante di quella cultura a condurre alla devastazione ecologica, nella forma di un riduzionismo tecnoscientifico15 che apre la porta ad ogni hybris di manipolazione del vivente; e, indissolubilmente, a dare per scontato che tutto ciò che è tecnicamente possibile debba per ciò stesso essere perseguito, senza nemmeno darci il tempo per chiederci se sia in effetti desiderabile – nei campi della razionalizzazione e dell’estrazione di dati, della digitalizzazione, della sorveglianza “per la nostra sicurezza”, del dominio sulla natura e sull’umanità reso inedito nella sua portata dalla tecnoscienza, fino ai deliri del transumanesimo. Eppure, è quella stessa vittoria assoluta che ci ha propinato esistenze insopportabili perché deprivate di senso, e deprivate di senso proprio perché obbligate ad arrendersi all’unica verità “razionale” concessa, che è quella di una disconnessione senza appello tra microcosmo e macrocosmo, tra i nostri destini individuali e un Cosmo diventato muto, ridotto a cieca meccanica da sfruttare per accumulare valore; in cui sono state cancellate le corrispondenze che le culture antiche davano per scontate tra ciò che accade qui e ciò che avviene altrove: quelle corrispondenze da cui potevano trarre senso i concetti di limite e proporzionalità. È forse proprio da qui che occorre partire per capire come mai questi concetti sono diventati impronunciabili proprio nel momento in cui ne avremmo massimamente bisogno16. Così che chiunque cerchi di recuperare saperi e sguardi un po’ più ampi rispetto al ristrettissimo angolo visuale autorizzato viene invariabilmente tacciato di ignoranza e ricacciato a forza nel calderone infamante del “New Age” spiritualista ed esoterico “un tanto al chilo”17. E questo avviene dentro società che si pretendono talmente razionali da essersi liberate dalla magia, senza accorgersi di essere loro stesse quelle davvero stregate, visto che il vuoto lasciato dalla magia è stato preso, molto più che dalla ragione, dall’incantamento del capitale, dalla fantasmagoria della merce18. Nel culmine del trionfo di quella cultura “maschile”, urbana, industriale, imperialista – che è anche momento del disvelamento del suo punto di arrivo, che non può che coincidere con riarmo, ritorno alla leva obbligatoria e lugubri marce di guerra – riemergono rigurgiti e resistenze, da parte di quella quota insospettabile di umanità, di certo non leggibile in termini di classe, restia a farsi carne da macello capitalista, recalcitrante a ridursi ad addestratrice di intelligenze artificiali, indisponibile a diventare del tutto dipendente, per ogni necessità vitale (coltivare, mangiare, orientarsi, riprodursi, socializzare, flirtare, pensare, scrivere…), da macchine fuori da ogni nostra possibilità di controllo; nonché perplessa rispetto a quelle proposte teoriche che arrivano a negare l’esistenza di una natura che non sia già fin dall’inizio ibridata con esse19. Non è un caso (né un pericolo; questo sta semmai nella sempiterna paura del femminile) che in queste resistenze – individuali, comunitarie e territoriali – riecheggino e riaffiorino il femminile, il naturale, la tensione a tornare verso forme di sussistenza materiale e a reimpadronirsi di alcune almeno fra le competenze ad essa necessarie; la critica alla delega, alla digitalizzazione e alle tecnologie spossessanti; il bisogno di recuperare conoscenze necessarie per gestire collettivamente la salute in modo più autonomo e consonante con la ciclicità della vita; e la ricerca di vie e strumenti anche “eretici” per recuperare senso e connessione. Insieme alla consapevolezza che, se vogliamo trovare una via di uscita dalla crisi ecologica, sociale, bellica e di senso che attraversiamo, non possiamo guardare agli alfieri della cultura che ci ha condotti fino a questo punto, bensì aprirci verso altri mondi e altri modi di stare al mondo: e non per riaffermare ancora una volta la nostra insostenibile superiorità, bensì per farci aiutare a ricordare ciò di cui la modernità industriale ci ha mutilati. Senza però riuscire – non del tutto, per fortuna – a sopirne la memoria. (con il cuore rivolto a quella famiglia; e insieme a tutte/i coloro che, come sanno sentono e possono, recalcitrano e disertano) -------------------------------------------------------------------------------- PS ringrazio il caro Luigi Balsamini per la rilettura e gli utilissimi commenti. Grazie anche ad altri cari amici ed amiche per i confronti da cui sono nati molti degli spunti dietro a queste note. -------------------------------------------------------------------------------- Note 1 Solo nel darci la morte pare che siamo rimasti liberi di autodeterminarci. Il che, già di per sé, dovrebbe indurci a qualche dubbio. I sospetti poi si infittiscono quando questa pretesa “autodeterminazione” collima con gli esiti e gli interessi di questa fase del capitalismo; ma si veda Wolf Bukowski, Così fan tutte a Salò, parte II. Imporre il piacere, somministrare la morte, reperibile qui. 2 Sul tema, mi limito a rinviare a L’Atelier Paysan, Liberare la terra dalle macchine. Manifesto per un’autonomia contadinaealimentare, Libreria Editrice Fiorentina, 2024; sulle conseguenze dei nuovi OGM, rimando invece a Stefano Mori e Francesco Paniè, Perché fermare i nuovi OGM (TerraNuova, 2024). 3 Anche in questo caso siamo, come dicono alcuni antropologi, “accecati dal potere”: sono solo le narrazioni e i comportamenti che sfidano l’ordine dominante quelli che sottoponiamo a infiniti esami critici, e che saranno così tenuti a giustificarsi fino al parossismo; mentre quelli che si limitano a riprodurre il discorso del potere è come se si giustificassero da sé, in modo autoevidente. Cfr. Pelkmans, M., R. Machold (2011) Conspiracy theories and their truth trajectories, in «Focaal. Journal of Global and Historical Anthropology», 59, pp. 66-80. 4 La sentenza: “I minori, dai 16 anni in su, possono decidere in autonomia di vaccinarsi senza il consenso dei genitori”, la Repubblica, 20/09/2021, https://bit.ly/3KyRIPU 5 A proposito della “guerra che costringe a trascorrere la maggior parte del nostro tempo davanti a uno schermo”, segnalo l’imminente uscita (gennaio 2026) per le Edizioni Malamente della traduzione italiana, con il titolo La guerra dell’attenzione. Come non perderla, dell’importante libro di Yves Marry e Florent Souillot originariamente pubblicato da L’Echappée (2022). 6 Come ebbe a scrivere G. Agamben nella prefazione a I. Illich, Genere. Per una critica storica dell’uguaglianza. Neri Pozza, 2023. Sulle tecnologie spossessanti mi limito a rinviare a I. Illich, La convivialità, Mondadori, 1974. 7 Dico questo in riferimento alle normative istituzionali che dettano la direzione dell’istituzione scolastica, e per nulla invece rispetto al lavoro spesso prezioso e consapevole di molte/i insegnanti verso cui provo enorme stima e gratitudine. 8 Segnalo a questo proposito l’interessante esperienza avviata dai Patti digitali di comunità, si veda qui. 9 Peraltro tutt’altro che confinata al passato, anzi di stringente attualità: Groenlandia, test di cultura generale ai genitori inuit: se impreparati rischiano di perdere i figli, Tg24, 24/11/2025, https://bit.ly/4iuK31H 10 Ho iniziato a parlarne anche altrove, per esempio qui, insieme ad alcuni colleghi/e: Bertuzzi, N., Imperatore, P., Lello, E. e Raffini, L. (2024) Contentious Science? Democracy, Epistemologies, and Social Movements Facingthe Scientization of Politics. Rassegna Italiana di Sociologia, 4/2024. 11 Cfr. Sorpresa!Comunicato di Tabor, su Nunatak, n.78, 2025. 12 Il riferimento è a Giorgio Galli, Cromwell eAfrodite. Democrazia e culture alternative, Kaos (1995). Su questi temi c’è naturalmente un’amplissima bibliografia, con contributi notevoli del femminismo e dell’ecofemminismo. Mi limito a rimandare ai celebri Calibano e la strega. Le donne, il corpo e l’accumulazione originaria (di Silvia Federici, Mimesis, 2020), Ecofeminism (di Vandana Shiva e Maria Mies, Zed Books, 2024) e La morte della natura. Donne, ecologia e rivoluzione scientifica (di Carolyn Merchant, Editrice Bibliografica, 2022). 13 Solo un paio di riferimenti, oltre a quelli già citati: Luciano Parinetto, Streghe e politica. Dal Rinascimento italiano a Montaigne, da Bodin a Naudé, IPL 1983; e Gilberto Camilla e Fulvio Gosso, Allucinogeni e Cristianesimo. Evidenze nell’arte sacra, Oriss, 2019. 14 Sulle correlazioni tra nascita della scienza moderna, “morte della natura” e cancellazione della cultura e dei saperi collegati al femminile, rinvio a C. Merchant, op.cit.,e ad Aline Rousselle, Sesso e società alle origini dell’età cristiana (Laterza, 1985), oltre che a G. Galli, op.cit. 15 Chiarisco che la mia critica in nessun modo vuole condurre ad un rifiuto dell’epistemologia scientifica; bensì ad evidenziare, anche in questo caso, lo sguardo colonialista che ci conduce a ritenerla l’unico sistema di conoscenza superiore e quindi universalmente valido, anziché una delle forme di conoscenza esistenti ed esistite nel mondo. 16 Mi limito su questi punti a rimandare a David Cayley, Ivan Illich. I fiumi a Nord del futuro (Quodlibet, 2009) e a Stefania Consigliere, Favole del reincanto. Molteplicità, immaginario, rivoluzione (DeriveApprodi, 2020). 17 Con ciò non si intende negare l’esistenza del fenomeno New Age, come deriva conseguente alla sussunzione di una parte di queste sensibilità e percorsi di ricerca da parte del mercato, che ne svuota e devia i significati secondo la sua logica; si vuole invece sottolineare la postura coloniale che relega la totalità di ciò che esce dai canoni autorizzati dallo sguardo occidentale al New Age stesso. 18 Cfr. Parinetto, op.cit. 19 Sulle critiche a un ecologismo deprivato del concetto di natura, rimando a La nostra biblioteca verde. I maestri del pensiero ecologista-naturista (di Renaud Garcia, Edizioni Malamente, 2025); e a La nature existe: Par-delà règne machinal et penseurs du vivant (di Michel Blay e Renaud Garcia, L’Echappée, 2025). -------------------------------------------------------------------------------- Elisa Lello è ricercatrice presso LaPolis, Laboratorio di Sudi Politici e Sociali dell’Università di Urbino, ateneo in cui insegna Sociologia politica. -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Perché quanto accaduto alla “famiglia nel bosco” riguarda tutti noi proviene da Comune-info.
Caso “La Stampa” | Il prezzo di stare dalla parte giusta – di Cristina Roncari
Sabato sera. Cena. La Tv gira per conto suo. Arrivano le parole: “Ignobile, vile, grave, irresponsabile, anni di piombo”. Guardo le immagini: ragazzi entrano nella sede del quotidiano La Stampa e come si direbbe oggi in linguaggio antagonista “ lo sanzionano”. Mi colpiscono volti scoperti. Santa ingenuità. Con un governo di estrema destra e [...]
Sassari: contro l'ampliamento della fabbrica di morte RWM
In Sardegna tra tra Domusnova e Iglesias, gli stabilimenti della Rwm, fabbrica di armi della multinazionale tedesca Rheinmetall sono stati contestati molte volte nei 1 anni che ci separano dall'apertura come fabbrica di morte, per le nocività che subiscono lavoratori e lavoratrici sia all'interno e chi lavora la terra nelle vicinanze. La protesta oggi porta anche il segno della lotta contro il genocidio nella Striscia di Gaza visto che le armi di questa multinazionale vengono usate da Israele. L'Assemblea per la Palestina di Sassari oggi era nuovamente in piazza contro il genocidio ed anche per denunciare una novità ancora poco nota ossia la decisione del governo italiano e della giunta odde di ampliare lo stabilimento. Prossimamente ci saranno altre manifestazioni, a partire da domani 29 novembre e poi 4 dicembre con un sit in sotto il Consiglio regionale a Sassari, la partecipazione chiamato per il 12 dicembre da Cgil e un corteo sotto la fabbrica RWM il 13 dicembre.  Ne parliamo con un compagno dell'Assemblea per la Palestina di Sassari
Accra: riparare i danni del colonialismo nei confronti del continente africano
Una conferenza internazionale si è tenuta ad Accra, capitale del Ghana, dal 18 al 19 novembre riunendo delegati provenienti da Africa, Caraibi, Americhe, Europa e dalla diaspora in generale per tracciare un percorso verso il pieno risarcimento per la schiavitù, il colonialismo, l’apartheid subito dai popoli africani. La conferenza, convocata dal Fronte Progressista Panafricano (PPF), ha prodotto la Dichiarazione di Accra sulla Giustizia Riparativa che delinea una serie di richieste e impegni, tra cui: * Riconoscimento del diritto inalienabile degli africani e delle persone di discendenza africana a riparazioni complete. * Un quadro globale di giustizia riparativa basato sulla restituzione, il risarcimento, la riabilitazione  e le garanzie di non ripetizione. * Riforme strutturali nella governance globale, tra cui la democratizzazione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite e la riforma delle istituzioni finanziarie internazionali. * Creazione di organismi nazionali, regionali e continentali per la giustizia riparativa. * Impegno formale da parte delle ex potenze coloniali, riconoscimento delle responsabilità e avvio di negoziati sulle riparazioni. Pressenza IPA
Fanon può entrare ma i palestinesi d’Italia no, perché? Perché il palestinese buono è quello morto o rassegnato. Appunti sull’inadeguatezza della sinistra italiana – di Laila Hassan
“La guerra di liberazione non è un'istanza di riforme, ma lo sforzo grandioso di un popolo, che era stato mummificato, per ritrovare il suo genio, riprendere in mano la sua storia e ricostituirsi sovrano” [1]   A 100 anni dalla nascita di Fanon alcune brevi, forse inutili, considerazioni. Se c’è un atteggiamento che in [...]
[Da Roma a Bangkok] Cina, prestiti, e dedollarizzazione
Questa trasmissione vuole dimostrare che la Cina ha cambiato negli ultimi trenta anni le politiche monetarie del mondo, il modo in cui i soldi vengono gestiti e in cui vengono fatti i prestiti. Dopo aver ricapitolato accordi e istituzioni di Bretton Wood, nella prima parte descriviamo come la Cina è diventata prestatore per lo sviluppo di infrastrutture prendendo il posto, in molti casi, della Banca Mondiale; nella seconda parte come ancora la Cina è divenuta prestatore di ultima istanza soppiantando il Fondo Monetario Internazionale (Fmi). Per costruire la trasmissione sono state usate tra le altre, le seguenti pubblicazioni gratuite: - China and Global Economic Order dell'Università di Cambridge - How China collateralizes di AIDDATA - China Bri Investment Report del Green Finance and Development Center di Shangai
Per l'autodeterminazione della popolazione palestinese
Con un compagno dell'UDAP, commentiamo la risoluzione 2803/2025 del Consiglio di Sicurezza dell'ONU che, in un'ottica di assoluta riaffermazione coloniale, "accoglie con favore" il cd. Piano globale di Pace di Trump, sostanzialmente volto a legittimare l'occupazione israeliana e a cancellare qualsiasi forma di autodeterminazione della popolazione palestinese. Parliamo poi del rapporto "Deaths of Palestinians in Israeli custody: enforced disappearances, systematic killings and cover-ups”, recentemente pubblicato dall'organizzazione israeliana Medici per i Diritti umani, che denuncia le terribili condizioni dei prigionieri palestinesi, rapiti dalle proprie case, dalle strade, dalle città e deportati nelle carceri israeliane, dove vengono torturati e uccisi, descrivendo un dispositivo di repressione che ha acquisito sempre maggiore violenza a partire dal 7 ottobre 2023. Concludiamo la corrispondenza riflettendo sulle conclusioni della Sesta Conferenza dell'Unione delle Comunità e Istituzioni palestinesi in Europa, che si è svolta lo scorso fine settimana a Madrid. Di seguito,ne  riportiamo integralmente il testo della Dichiarazione finale:  "Madrid – 14-15 novembre 2025 La conferenza si è tenuta in un clima di elevata responsabilità nazionale, in concomitanza con l’aggressione in corso contro Gaza e l’escalation dei crimini di occupazione in Cisgiordania e a Gerusalemme. Ciò ha conferito ai suoi lavori un carattere militante e storico, riflettendo l’entità della sfida che il nostro popolo deve affrontare in patria e nella diaspora. All’inizio dei lavori, la conferenza ha reso omaggio al popolo palestinese in patria e nella diaspora, al popolo tenace ed eroico di Gaza che affronta una guerra di sterminio sistematica e incessante da oltre due anni, alla Cisgiordania che resiste fermamente agli attacchi dei coloni e all’aggressione crescente, alla giudaizzazione e all’espansione degli insediamenti, a Gerusalemme che è soggetta a sistematici attacchi e alla profanazione dei suoi luoghi santi, e ai territori palestinesi occupati all’interno di Israele che affrontano continue politiche di repressione e discriminazione razziale. La conferenza ha inoltre reso omaggio alle comunità palestinesi in tutto il mondo, in particolare in Europa, che hanno continuato il loro lavoro in difesa dei diritti del popolo palestinese e della sua giusta causa, e nel sostegno al movimento di solidarietà internazionale. La conferenza ha espresso il suo più profondo orgoglio e rispetto per i martiri del nostro popolo, che hanno irrigato il suolo della patria con il loro sangue puro, per gli eroici prigionieri nelle carceri dell’occupazione e per i feriti che hanno sopportato sofferenze in difesa della dignità della Palestina e del diritto del suo popolo al ritorno, alla libertà e all’indipendenza. La conferenza ha reso omaggio ai movimenti di solidarietà in tutto il mondo, in particolare in Europa, che si sono schierati al fianco del popolo palestinese e hanno contribuito a contrastare la guerra di sterminio e i crimini dell’occupazione. Durante i suoi dibattiti, la conferenza ha sottolineato la necessità che la comunità internazionale si impegni per porre fine all’occupazione del territorio palestinese occupato, che costituisce una flagrante violazione del diritto internazionale. Ciò include la fine della realtà imposta alla Striscia di Gaza e l’obbligo per la potenza occupante di adempiere alle proprie responsabilità legali ai sensi del diritto internazionale, tra cui la revoca dell’assedio imposto alla Striscia, l’apertura del valico di Rafah e il permesso di ingresso di tutti i beni di prima necessità senza restrizioni o condizioni. La conferenza ha affermato che le operazioni di soccorso devono essere gestite esclusivamente dalle istituzioni palestinesi e dalle agenzie delle Nazioni Unite, e ha respinto qualsiasi interferenza da parte di istituzioni gestite dalle potenze occupanti o straniere. L’Unione ha affermato il suo pieno sostegno all’unità nazionale palestinese e ha sottolineato che l’amministrazione della Striscia di Gaza e i suoi affari interni sono una questione puramente palestinese, senza alcuna tutela o interferenza esterna. La conferenza ha riaffermato il diritto del popolo palestinese all’autodeterminazione, alla libertà e all’indipendenza. La conferenza si è impegnata a contrastare la normalizzazione con l’occupazione e a contrastare l’ingerenza israeliana negli affari europei. Ha sottolineato la necessità di recidere tutti i legami politici, militari, economici e culturali con l’entità sionista, compresi i boicottaggi accademici ed economici. I partecipanti alle sessioni della conferenza hanno discusso le modalità per sostenere la fermezza del popolo palestinese sulla propria terra, i meccanismi per affrontare i crimini dell’occupazione nei forum europei e per attivare il ruolo palestinese in Europa a livello politico, mediatico e legale. La conferenza ha esaminato il lavoro dell’Unione tra le due conferenze e le precedenti risoluzioni. È stato eletto un nuovo Segretariato Generale dell’Unione, guidato dal Dott. Salah Zaqout. La conferenza ha approvato un programma d’azione nazionale che includeva compiti esecutivi per la fase successiva, volti a rafforzare la presenza palestinese in Europa e a sostenere la lotta del nostro popolo per la libertà e il ritorno. Ha adottato una strategia d’azione per la fase successiva e ha ribadito quanto segue: Affrontare il genocidio nella Striscia di Gaza e le sue ripercussioni con tutti i mezzi di lotta. Impegno a contrastare la normalizzazione con l’occupazione e a contrastare l’ingerenza israeliana negli affari europei. Necessità di proseguire gli sforzi per recidere tutti i legami militari e politici con l’entità sionista e imporre un boicottaggio economico, culturale e accademico dell’occupazione sionista. Riaffermando il proprio impegno a proseguire la lotta nelle arene europee in difesa della giustizia e della libertà. Espandere la propria presenza e influenza nel sostenere la fermezza del nostro popolo. Intensificare gli sforzi per chiamare le autorità di occupazione sionista a rispondere delle proprie azioni a tutti i livelli politici e militari, garantendo giustizia alle vittime del nostro popolo palestinese e ponendo fine alle sofferenze del nostro popolo a causa del genocidio. Gloria ai martiri, libertà ai prigionieri e una pronta guarigione per i feriti… e il diritto al ritorno è inalienabile. Unione delle Comunità e Istituzioni Palestinesi in Europa Madrid – 16 novembre 2025"