Quale memoria? Shoah, Nakba e colonialismo sullo sfondo di Gaza. Prima parteIntervista di Marco Biondi divisa in due parti a Micol Meghnagi, sociologa che
si occupa della costruzione dei processi memoriali della Shoah, del colonialismo
italiano e della Nakba. Collabora con diverse testate giornalistiche tra
cui Internazionale, Altreconomia, Jacobin, Micromega e il Manifesto.
In questa intervista, analizziamo la costruzione della memoria della Shoah, dal
dopoguerra a oggi, sullo sfondo del genocidio a Gaza, così come il tema
dell’antisemitismo e del razzismo istituzionalizzato. Facendo mie le parole di
Meghnagi, le lotte antirazziste sono interdipendenti, non cancellandone le
differenze ma legandole in alleanza, nominandone le asimmetrie dei contesti e
sottraendole alle strumentalizzazioni politiche.
ANTISEMITISMO E ISLAMOFOBIA: QUAL È LA TRAMA COMUNE ?
Vi è molto più in comune di quello che si crede tra un ebreo degli anni Venti in
Europa e un musulmano del Sud Globale. Il fatto che non si riescano a cogliere
le molteplici analogie è anche dovuto ad una profonda mancanza di conoscenza
della storia ebraica come quella dei popoli soggiogati dal colonialismo europeo.
Antisemitismo e islamofobia sono due facce della stessa grammatica di esclusione
prodotta dalla modernità europea: ieri l’“ebreo” come nemico interno su cui
proiettare ansie e crisi; oggi il “musulmano” come nuovo capro
espiatorio. Entrambe costruiscono gerarchie del dolore, normalizzano politiche
securitarie e coloniali e servono a dividere le stesse classi subalterne. Un
antirazzismo coerente rifiuta la competizione vittimaria: tiene insieme le
storie specifiche (Shoah, colonialismo, Nakba) e ne legge le connessioni
strutturali, senza lasciare spazio alle strumentalizzazioni politiche».
CHIESA CATTOLICA, ANTIGIUDAISMO E ANTISEMITISMO: PUÒ CHIARIRE DEFINIZIONI E
INTRECCI STORICI ?
In breve, a livello terminologico per antigiudaismo si intende
genericamente l’ostilità principalmente di matrice teologica cristiana contro
gli ebrei intesi come collettività, per antisemitismo ci si riferisce
all’elaborazione moderna, a base “razziale”. Il confine è spesso labile ma è
bene tracciarlo. Con antiebraismo intendo invece l’insieme delle pratiche e
dei pregiudizi storici contro gli ebrei in senso ampio. Su questi temi, rimando
al lavoro dello storico Simon Levi Sullam, e al suo libro “L’archivio
antiebraico: il linguaggio dell’antisemitismo moderno” (Editori Laterza, 2008).
Nel corso dei secoli, l’antiebraismo si è manifestato nei contesti più
disparati, da quelli spirituali e religiosi a quelli laici e secolarizzati, in
ambienti di destra come di sinistra, tra conservatori e progressisti.
L’antigiudaismo ha funzionato da collante dell’Europa cristiana; un pregiudizio
che, pur non essendo “razziale” in senso moderno, ha prodotto esclusione,
spoliazione, ghettizzazione, violenza sistematica e norme discriminatorie.
La differenza con l’antisemitismo moderno sta nell’immutabilità dello “status
ebraico”: nell’antigiudaismo la conversione poteva teoricamente mutarlo, mentre
tra Ottocento e Novecento l’idea di “sangue” lo rendeva indelebile. Questa
suddivisione non è ovviamente didascalica. La cacciata degli ebrei e dei
musulmani dalla Spagna nel 1492, per esempio, insieme agli statuti di limpieza
de sangre, ha anticipato quelle logiche classificatorie razziste proprie
dell’epoca moderna. Tra il II e il IV secolo, la Chiesa ha elaborato un compatto
e duraturo sistema teologico che giudicava gli ebrei, intesi in modo collettivo,
come popolo carnale, considerato colpevole in blocco dell’uccisione di Cristo,
maledetto, immorale, diabolico e idolatra, che ha modellato il rapporto
maggioranza/minoranza entro un sistema sociale.
Certamente, le aperture del secondo Novecento, dal dialogo ebraico-cristiano a
Nostra Aetate, hanno segnato un cambio di rotta importante, ma il superamento
dei retaggi secolari non è mai automatico né immediato. L’antisemitismo è invece
un concetto relativamente recente, coniato dal giornalista tedesco Wilhelm
Marr alla fine dell’800. L’età moderna, insieme ai processi di secolarizzazione,
alimentò l’illusione che l’ostilità verso gli ebrei fosse in via di estinzione
proprio mentre, con l’emancipazione civile e politica, si consolidavano nuove
forme di ostilità “politica”.
Alla domanda «Chi è un ebreo?» non fu più possibile rispondere con i vecchi
criteri: nell’immaginario moderno l’ebreo poteva integrarsi, convertirsi,
mimetizzarsi e tuttavia restare tale. Il bersaglio dell’antisemita non era più
solo una minoranza marginale ma un soggetto percepito come onnipresente e
minaccioso per l’ordine sociale.
L’antisemitismo moderno nasce in Occidente, all’incrocio tra cristianesimo
politico, nazionalismi e razzismo “scientifico”, ma non resta confinato lì: tra
la fine dell’’Ottocento e la prima metà del Novecento, viene importato e
ibridato dal colonialismo europeo nel mondo arabo, anche tramite la circolazione
dei Protocolli dei Savi di Sion (diffusi, fra l’altro, al Cairo negli anni Venti
e Trenta) e la propaganda nazista in arabo durante la Seconda guerra mondiale.
Ciò avviene mentre si disgrega l’Impero ottomano, e prendono forma
il nazionalismo arabo e il sionismo. Dopo la Shoah, con la nascita di Israele
nel 1948 e la conseguente Nakba palestinese, i rapporti tra ebrei e musulmani
nel così detto Medio Oriente si sono incrinati, forse in modo irrimediabile.
Tra il 1948 e il 1967, in paesi come la Libia, Iraq, Yemen e Afghanistan si
registrano pogrom, punizioni collettive ed espulsioni di ebrei, che trovano
rifugio soprattutto in Israele e in Occidente, tra cui la mia famiglia. In
alcuni casi, come riportano gli storici Avi Shlaim ed Ella Shohat, nazionalismo
arabo e movimento sionista concorsero all’esodo degli “ebrei arabi” dai paesi
d’origine per perseguire i propri rispettivi interessi.
IN CHE MODO L’ANTISEMITISMO È USATO COME STRUMENTO POLITICO E QUALI EFFETTI
OSSERVA DOPO IL 7 OTTOBRE 2023?
«La strumentalizzazione dell’antisemitismo è stata certamente facilitata dalla
definizione approvata nel 2016 dall’IHRA (International Holocaust Remembrance
Association), un organismo intergovernativo istituito alla fine del secolo
scorso con lo scopo di promuovere la memoria della Shoah. Tuttavia, oltre a
richiamare atteggiamenti indubbiamente antisemiti (come evocare un complotto
ebraico globale o negare la Shoah), la definizione include 11 esempi
applicativi, 7 dei quali riguardano la critica allo Stato di Israele, spostando
così il baricentro dal pregiudizio antiebraico alla sfera del dissenso politico.
Sebbene gli autori la qualificano non giuridicamente vincolante, in pochi anni
dalla sua pubblicazione è stata adottata da numerosi Stati membri dell’Unione
Europea e dagli Stati Uniti d’America.
Dal 7 ottobre 2023, in vari contesti culturali e accademici europei e
nordamericani si è prodotto, un clima di censura e repressione diretto
principalmente a persone di origini palestinesi e a tutti coloro che esprimono
solidarietà alla Palestina, in Germania, dispositivi amministrativi e culturali
oggi richiedono dichiarazioni di adesione alla “ragion di Stato” pro-Israele a
persone migranti principalmente di origini arabe, come se l’antisemitismo fosse
un fenomeno “importato” dall’esterno quando invece affonda radici storiche in
Occidente. Siamo in un’impasse: destre post-fasciste e governi occidentali
strumentalizzano l’antisemitismo mentre lo alimentano; e i governi israeliani lo
brandiscono cercando sponde proprio in quelle destre che ammiccano a chi,
ottant’anni fa, deportava gli ebrei.
In un Occidente che fatica a tenere insieme confini ed elettorati, Israele viene
letto da molte destre come modello etno-nazionale, un popolo, una fede, un
nemico (i palestinesi). Sono fantasie ideologiche (Israele non è monolitico), ma
spiegano la convergenza fra filosionismo retorico e politiche identitarie.
Ma non si cada in errore: il fatto che l’antisemitismo venga strumentalizzato
non significa che non esista. Tutto il contrario. Uno dei pericoli di averlo
distorto e strumentalizzato è dato dalla possibilità di girarsi dall’altra parte
e dire: non è un problema.
L’antisemitismo va necessariamente collocato dentro la sfera più ampia del
razzismo: oggi il razzismo in Europa si è trasformato, le vittime sono i
migranti, spesso persone arabe, nere, e/o musulmane, e lo vediamo nel cimitero
dei nostri mari, così come nei i Centri di permanenza per il rimpatrio (CPR) e
nelle normative sull’immigrazione che colpiscono i più vulnerabili. Infine,
metto in guardia dalle letture selettive.
Parlo di Occidente in quanto modello egemonico entro il quale viviamo, ma anche
l’Oriente (dal Marocco alla Siria, dalla Russia all’India) non è immune da forme
proprie di colonialismo e discriminazione razziale.
Riconoscerlo non relativizza nulla, anzi rende l’antirazzismo
coerente, l’antisemitismo non appartiene a una sola cultura o parte politica; e
nessuna politica contro di esso sarà credibile se non si intreccia con la lotta
contro tutte le gerarchie razziali, compresi islamofobia e razzismo
anti-nero con il rifiuto delle strumentalizzazioni che lo trasformano in un’arma
retorica. Credo che nessuna lotta contro l’antisemitismo possa essere efficace
senza una presa di distanza netta dalle sue strumentalizzazioni politiche volte
a sostenere le prassi di occupazione, colonizzazione ed eliminazione
sistematica dei palestinesi».
Redazione Italia