
Contro la guerra
Comune-info - Tuesday, July 8, 2025
Un libro importante, scaricabile dal sito web di “Sbilanciamoci!” ricostruisce la provenienza storico-politica del disastro mondiale e compie un’operazione di verità sul folle riarmo dell’Europa, sostenuto dalla nauseante fanfara dell’informazione mainstream che continua a blaterare di “difesa europea” e di minacce di invasione russa tacendo sui crimini di guerra di Netanyhau e sulla volontà politica di far durare all’infinito la guerra d’Ucraina.
L’e-book si chiama Europa a mano armata e consta di 21 contributi di attiviste e attivisti, volontari delle 51 ONG che affluiscono alla meritoria iniziativa di “Sbilanciamoci!”, a cui collaborava Rossana Rossanda e che oggi vede tra le eminenti collaborazioni quella di Luciana Castellina, Giulio Marcon ideatore e decennale combattente per la pace, Giorgio Beretta, Gianni Alioti, Futura D’Aprile che ha curato il testo con arte, Guglielmo Ragozzino, Paolo Andruccioli, Raul Caruso, Martin Köler, Paolo Maranzano, Francesco Vignarca, Franco Padella, Mario Pianta, Rachele Gonnelli, Farah Al Attab, autore di un puntuale articolo su Gaza divenuta inabitabile per i prossimi decenni, Federica Frazzetta, Paolo Imperatore, Sergio Bassoli.
Completano il regesto delle voci, un articolo del 1991 del grande Alex Langer, artefice dell’ecologismo e del pacifismo radicale negli scorsi anni Ottanta e Novanta, il manifesto degli scienziati contro il riarmo che ha rappresentato una delle prime iniziative pubbliche contro il delirio eurobellicista, il manifesto della campagna “Ferma il riarmo!” della Fondazione Perugia-Assisi per la Cultura della Pace, Geenpeace e della Rete Italiana Pace e Disarmo, e il manifesto “Stop rearm” che ha animato le manifestazioni del 21 giugno contro gli 800 miliardi voluti da von der Layen.
L’e-book estende lo sguardo sul paradigma della guerra ed è uno sguardo che, a differenza della maggior parte dei miopi analisti della geopolitica, più o meno improvvisati, più o meno atlantisti e promotori dell’infame propaganda sulla necessità di difesa e sicurezza delle popolazioni, osserva l’attuale panorama del riarmo cogliendone la provenienza storico-politica. Perché di questo c’è bisogno, allargare le ragioni forti del No alla guerra e alle politiche di morte alla storia dell’Europa che non può schiacciarsi sulle fobie antisociali dei “moderati” guerrafondai e delle destre razziste e neonaziste.
Castellina ricorda anzitutto che l’allargamento dell’Unione Europea e della NATO negli anni ’90 non poteva che essere percepito come una minaccia da parte della Russia, che si è trovata circondata dalle basi militari dell’alleanza. La stessa adesione dei paesi dell’est Europa è stata raccontata come un successo, ma non è così. La divisione e l’ingiustizia sociale ed economica al loro interno è enorme perché la condizione che è stata loro imposta per l’adesione alla UE è stata la rapida trasformazione in un’economia di mercato con la privatizzazione di tutto – a beneficio di un ceto che un tempo avremmo definito “compratore” – facendo perdere a molti casa, lavoro e servizi pubblici. Tutto questo ha preparato il terreno per le tensioni sociali, il risveglio di identità etniche, nazionalismi e separatismi.
Giulio Marcon ricorda che tra la metà degli scorsi anni Settanta e i primi Ottanta nasceva un movimento europeo che chiedeva un’Europa di pace dall’Atlantico agli Urali. Con la conferenza di Helsinki da cui nacque l’OCSE (Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione Europea) in piena guerra fredda, statisti del calibro di Olof Palme e Willy Brandt avanzavano proposte per costruire un’Europa di pace e un dialogo verso l’est europeo e il Segretario di Stato vaticano Mons. Casaroli era protagonista di una fitta rete di contatti con i governi dei paesi del Patto di Varsavia per favorire il disgelo tra i blocchi. Proprio in quegli anni – contro il riarmo atomico con l’installazione dei missili nucleari a medio raggio SS20 nei paesi del Patto di Varsavia e dei Pershing e Cruise nei paesi della NATO, i movimenti pacifisti si riunivano nella convenzione END (European Nuclear Disarmament) per confrontarsi e discutere le iniziative comuni.
Oggi l’Europa rimette la sua politica estera ad un Alto Rappresentante inadeguato come Kaja Kallas, ex premier dell’Estonia, un paese che ha la stessa popolazione dell’Abruzzo (1,3milioni di persone, mentre l’Unione europea ne ha 450milioni) e che ha da poco approvato una legge per limitare il voto alle elezioni alla minoranza russofona. Non proprio la persona giusta per avere a che fare con Putin. Infatti, è assurdo che l’Europa non abbia mai provato ad aprire un canale di comunicazione con la Federazione Russa, crogiolandosi nell’illusione – pericolosa e foriera di una possibile escalation – che l’unica soluzione possibile fosse “vincere la guerra” sul campo.
Ma, come scrive Ragozzino e come da tempo insiste il fenomenale atlante delle guerre, ci sono circa 60 guerre in corso nel mondo. Per questo Bunker Swiss, impresa elvetica che produce con successo difese contro ogni sorta di guerra o di altri gravi disagi per le persone, soprattutto svizzere, ma non solo, per consentire loro di mettere al sicuro vite e beni nelle situazioni di pericolo, propone modi e impianti per proteggere vite e ricchezze degli abbonati: bauli di acciaio rinforzato, cantine sicure fornite di caldo e freddo, aria, acqua corrente, servizi igienici e scatolette a volontà. E perfino interi fortini attrezzati.
Poi ci sono le banche di guerra. Tra 2020 e 2022 le istituzioni finanziarie – comprese le banche maggiori, le grandi compagnie di assicurazione, i fondi d’investimento, i principali fondi sovrani e talune istituzioni pubbliche – hanno sostenuto l’industria della difesa con un esborso di almeno 1.000 miliardi di dollari. Tra gennaio 2021 e agosto 2023 valori di almeno 820 miliardi di dollari sono stati messi a disposizione da parte di 287 istituzioni di grande spicco alle 24 imprese pubbliche implicate nella fabbricazione di armi nucleari.
Quanta distanza c’è tra questo mondo e quello possibile alla metà del XIX secolo, in piena egemonia imperiale inglese? Lo racconta un aneddoto: «Le armi da fuoco furono introdotte in Giappone nel 1543 da tre portoghesi (pirati? soldati di ventura? mercanti?) che andavano a caccia di anitre. Un signorotto locale comprò le spingarde e si fece insegnare ad usarle”. (…) Quando nel 1853 arrivò in Giappone l’ammiraglio Perry e fu firmato il trattato di Kanagawa che segnò l’apertura del Giappone al commercio estero e all’influenza occidentale, di armi da fuoco nemmeno l’ombra!».
D’Aprile, Kohler, Maranzano, Pianta e Strazzari osservano come è cambiata la politica dell’UE rispetto ai presupposti di costituzione della Comunità Europea. Dalla “dichiarazione Schuman” del 1950, che annunciava un piano per mettere in comune i mercati del carbone e dell’acciaio tedeschi e francesi, il processo di integrazione europea può essere visto come un percorso che ha avuto origine dal naufragio del primo tentativo di creare una Comunità europea di difesa nel 1954, responsabile unico la Gran Bretagna. Con la fine della guerra fredda, nel processo di definizione della sua politica estera e di sicurezza, l’Unione Europea si è orientata verso una politica estera più forte.
Considerando i trattati dell’UE, va ricordato che il trattato di Maastricht del 1992 ha introdotto la questione della difesa come obiettivo di politica estera, prevedendo alcune capacità operative attraverso mezzi civili e militari. L’articolo 42, paragrafo 7, del trattato di Lisbona del 2007 (clausola di assistenza reciproca), obbliga gli stati membri ad assistersi con tutti i mezzi disponibili in caso di attacco armato. Tali passi verso una politica di sicurezza non hanno modificato in modo sostanziale i principi secondo cui la difesa è un settore fondamentale della sovranità degli stati membri e che l’unanimità è necessaria per le decisioni in questo campo.
Per quanto riguarda il dibattito sulla politica di difesa, un passo importante, scrivono gli autori dello studio, è stata la Dichiarazione franco-britannica di Saint-Malo sulla difesa europea del 1998. Nel dicembre 2003, l’adozione di una strategia di sicurezza ha posto le basi per un approccio multilaterale globale che integra le diverse dimensioni dell’azione esterna come commercio, aiuti e difesa. Nel 2004 è stata poi istituita l’Agenzia europea per la difesa (EDA), per sostenere gli stati membri e il Consiglio nei loro sforzi per migliorare le capacità di difesa.
Negli ultimi anni, la pressione per sviluppare un profilo di difesa per l’UE è stata accelerata dall’elezione di Donald Trump nel 2016. Nel corso della sua prima presidenza, Trump ha messo in discussione il futuro della NATO in Europa e le politiche transatlantiche. Per tutta risposta, nel 2016, il Presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker ha lanciato la “Strategia globale dell’UE” in materia di sicurezza e difesa internazionalee ha istituito nuovi programmi di ricerca e sviluppo industriale dei sistemi militari, finanziati dal bilancio comunitario sulla base dell’articolo 173 del Trattato sul funzionamento dell’Unione relativo alla competitività industriale e la cooperazione.
Nel 2024 le spese militari nazionali aggregate dei paesi UE della NATO ammontano a più di 40 volte il totale dei fondi per il settore militare stanziati dall’Unione. La nomina per la prima volta di un commissario europeo per la difesa e lo spazio – il lituano Andrius Kubilius – dimostra appieno la centralità della difesa all’interno dell’Unione. L’elezione di Donald Trump a novembre 2024 ha poi gettato un’ombra sul futuro della NATO e delle relazioni USA-UE-Regno Unito; i leader europei, per tutta risposta, hanno spinto per un’accelerazione dell’integrazione e per il rafforzamento della competitività, a partire dal settore della difesa (nelle parole di Kubilius, “spendere di più, spendere meglio, spendere insieme e spendere europeo”).
Due sono le questioni importanti che emergono in questo contesto. La prima è il rapporto tra la politica di difesa dell’UE, la strategia globale degli Stati Uniti e la portata e il ruolo della NATO. La seconda è la questione molto delicata delle armi nucleari, visto che il Pentagono parla di un’entrata del mondo in una nuova era nucleare, della presenza di testate statunitensi in diversi paesi dell’Unione e dello status della Francia come potenza atomica.
Nella primavera del 2025, la nuova Commissione europea guidata da Ursula von der Leyen ha elaborato una strategia di ampio respiro. Presentato a marzo, il piano “ReArm Europe”(successivamente ribattezzato “Readiness 2030”) propone di mobilitare oltre 800 miliardi di euro in spese per la difesa attraverso la flessibilità fiscale nazionale, un nuovo strumento di prestito da 150 miliardi di euro (SAFE) per gli appalti congiunti, il potenziale riorientamento dei fondi di coesione, la mobilitazione di capitali privati e un maggiore sostegno da parte della Banca europea per gli investimenti. La proposta si basa sull’articolo 122 del trattato sull’Unione europea, che consente di derogare all’unanimità.
Molti analisti hanno richiamato l’attenzione sul fatto che il piano apre in ultima analisi la strada al riarmo nazionale in un momento in cui i partiti nazionalisti più aggressivi stanno dimostrando di essere in grado di influenzare le decisioni dei governi, se non addirittura di ottenere la maggioranza elettorale.
Infatti Roul Caruso osserva che nonostante questi sviluppi, la decisione in materia di spesa militare rimane essenzialmente una prerogativa nazionale. L’escalation del conflitto tra Russia e Ucraina nel 2022 non ha determinato un’accelerazione sostanziale del processo di integrazione e cooperazione in ambito UE. Di fatto, l’aumento in corso della spesa militare rischia di amplificare la frammentazione esistente, consolidando un modello di difesa fondato sulla semplice somma dei singoli sistemi nazionali, all’interno dell’architettura NATO. Un’ulteriore criticità connessa all’attuale accelerazione della domanda di armamenti riguarda la crescente dipendenza dei paesi europei da fornitori extra-UE, in particolare dagli Stati Uniti. Tra la primavera del 2022 e giugno 2023, il valore complessivo delle acquisizioni militari annunciate dai paesi dell’Unione aveva superato i 100 miliardi di euro, di cui ben il 78% destinato a fornitori esterni all’UE. Di questa quota, l’80% è riconducibile agli Stati Uniti, seguiti dalla Corea del Sud (13%), dal Regno Unito e da Israele (3%) e da altri paesi (1%).
Un effetto prevedibile del riarmo europeo potrebbe essere l’aumento della disuguaglianza tra i paesi dell’Unione. Riemerge infatti con forza la distinzione tra stati ricchi e poveri: se la sicurezza e la deterrenza si basano prevalentemente sulla disponibilità di risorse militari, allora i paesi più ricchi godranno inevitabilmente di un vantaggio rispetto a quelli con minori capacità finanziarie.
Come evidenziato da molti dei saggi dell’e-book, gran parte delle decisioni politiche in materia di difesa sono ancora guidate da una concezione della sicurezza ispirata alla logica della deterrenza tipica della Guerra Fredda. Secondo questa impostazione, un incremento della spesa militare da parte di uno stato costituirebbe un segnale credibile della propria capacità e volontà di difesa, dissuadendo potenziali aggressori. Questa visione, tuttavia, è eccessivamente semplificata e statica. Le decisioni in ambito militare sono in realtà interdipendenti e dinamiche: un aumento delle spese militari da parte di uno stato tende a innescare risposte simili da parte di altri, specialmente se non appartenenti alla stessa alleanza. Ciò alimenta una spirale di riarmo che può sfociare in una corsa agli armamenti, un processo per sua natura instabile e rischioso. A complicare ulteriormente il quadro vi è la trasformazione del sistema internazionale. La deterrenza classica presupponeva un mondo bipolare, dove gli equilibri tra due attori principali – Stati Uniti e URSS – potevano essere relativamente stabili. Oggi il numero degli attori dotati di capacità militari significative è aumentato, rendendo molto più difficile sia la gestione dell’informazione sia la previsione dei comportamenti.
In conclusione il riarmo europeo attualmente in corso non sembra contribuire in modo efficace alla sicurezza e alla pace. Al contrario, potrebbe generare maggiore insicurezza, favorendo una corsa globale agli armamenti.
Nel 2024 la spesa militare dei paesi UE ha toccato la cifra record di 2718 miliardi di dollari e come scrive Gianni Alioti il complesso militare-industriale cresce, in dimensione e potere, in tutti i crocevia del mondo. Il rapporto dell’Area Studi Mediobancasui dati finanziari di 40 multinazionali che operano nel comparto militare, evidenzia che i maggiori beneficiari degli investimenti dei mercati finanziari sono le multinazionali europee del settore. Il momento chiave che ha accelerato questa tendenza si è verificato a fine febbraio, quando le crescenti tensioni geopolitiche e la pressione USA sugli alleati europei affinchè rafforzassero autonomamente le proprie capacità nella difesa ben oltre la soglia minima del 2% del PIL, hanno spinto la Commissione Europea e il Consiglio Europeo a portare l’asticella dei singoli Stati al 3 o 4% (fuori dai vincoli di bilancio) e di destinare 150 miliardi di euro del bilancio UE alle spese per armamenti.
Il 3 marzo tutte le aziende del settore quotate in Borsa hanno registrato in un solo giorno un balzo straordinario: BAE Systems ha guadagnato il 15%, Leonardo il 16%, Thales il 16%, Rheinmetall il 14% e Saab il 12%. La prospettiva di una pace in Ucraina, secondo gli analisti, potrebbe causare un temporaneo ribasso anche brusco (fino a -20% sulle azioni delle aziende della difesa), ma le politiche di riarmo degli stati, gli altri conflitti armati e le tensioni internazionali tra le potenze mantengono alto l’interesse dei mercati finanziari a investire nei titoli dell’industria aerospaziale e della difesa.
A fronte dello stratosferico aumento dei profitti delle multinazionali della morte, la questione delle risorse da destinare alle spese militari impone la drastica riduzione delle spese sociali e la raccolta di risorse nella grande area del risparmio privato. Il Libro Bianco della Difesa parla chiaro: si introduce un nuovo strumento finanziario dedicato a sostenere gli investimenti degli stati membri dell’Unione nel settore della Difesa, Azione per l’Europa (Safe), che servirà per elargire prestiti agli stati membri per un massimo di 150 miliardi di euro. Secondo i calcoli della Commissione europea i cittadini del vecchio continente de- tengono una quantità significativa di risparmio, pari a quasi il 15% del reddito disponibile (dati 2023). Ma il 31% del risparmio, pari a 11.630 miliardi di euro (di cui 1.580 miliardi in Italia), è in contanti e in depositi a basso rendimento.
Così, commenta la Commissione, «senza una maggiore partecipazione ai mercati dei capitali, i cittadini Ue si lasciano sfuggire le opportunità di creare ricchezza attraverso un possibile aumento dei rendimenti dei risparmi a lungo termine». I risparmi vanno dunque indirizzati. E in questo momento l’Europa pensa a spingerli verso l’industria delle armi e i sistemi di difesa. Si introduce quindi un altro strumento, l’Unione del risparmio e degli investimenti (Siu) che dovrebbe contribuire a convogliare ulteriori investimenti privati verso la difesa. La Commissione europea sta progettando anche una serie di misure per smuovere i risparmi bancari dei cittadini e indirizzarli verso fondi di investimento e acquisto di azioni o obbligazioni nel campo dell’industria bellica. Come ha segnalato l’agenzia Bloomberg, con l’aria che tira anche parecchi fondi-pensione europei hanno deciso di rivedere le loro politiche di esclusione dei produttori di armi dai possibili investimenti. Ad esempio, il più grande fondo pensione europeo, Stichting Pensioenfonds ABP, che raccoglie i contributi degli insegnanti olandesi e di altri settori dei lavoratori pubblici, ha fatto sapere di avere già importanti investimenti nell’industria delle armi, ma di essere pronto anche ad aumentarli in supporto al piano Ue.
Se dunque non si estenderà un movimento europeo di disarmo e diserzione e se non si alimenteranno proteste popolari contro il riarmo, condividendo con le tendenze contrarie alla corsa agli armamenti in Spagna, in Belgio e in Slovacchia, strategie e pratiche di contrasto al warfare, sarà impossibile mantenere aperti i già esigui spazi di agibilità politica di resistenza alle micidiali tecnologie di governo planetario delle popolazioni.
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