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“Disertiamo il silenzio” a Firenze: le foto
Diverse centinaia di cittadini in Piazza Sant’Ambrogio  questa sera nel cuore del centro storico di firenze, hanno risposto alla convocazione nazionale di un  “cacelorazo”, momento di una protesta rumorosa con tegami pentole coperchi, per rompere il vergognoso silenzio su quanto sta avvenendo a Gaza. Promosso da Tomaso Montanari  e molti altri esponenti della società civile raccolti nella  la rete di L’ultimo giorno di Gaza  l’evento ha visto l’adesione di tutte le associazioni  pro Palestina  fiorentine Sono i tamburi della GKN immancabili propal che in questa occasione hanno guidato  con ritmo sempre più incalzante gli slogan “Palestina libera” e  “Palestina libera  dal Fiume fino al Mare” che tutta la piazza di giovani e meno giovani ha  gridato compatta e risoluta. disertiamo il silenzio fi ph Cesare Dagliana disertiamo il silenzio fi ph Cesare Dagliana disertiamo il silenzio fi ph Cesare Dagliana disertiamo il silenzio fi ph Cesare Dagliana disertiamo il silenzio fi ph Cesare Dagliana disertiamo il silenzio fi ph Cesare Dagliana disertiamo il silenzio fi ph Cesare Dagliana disertiamo il silenzio fi ph Cesare Dagliana disertiamo il silenzio fi ph Cesare Dagliana disertiamo il silenzio fi ph Cesare Dagliana disertiamo il silenzio fi ph Cesare Dagliana disertiamo il silenzio fi ph Cesare Dagliana Redazione Toscana
La via delle scelte disarmanti
-------------------------------------------------------------------------------- Foto Mondeggi Bene Comune -------------------------------------------------------------------------------- Come ogni brava sentinella addetta a segnalare il pericolo, da cinquantaquattro anni l’istituto statunitense Global Footprint Network vigila per avvertirci quando oltrepassiamo il limite di sicurezza imposto dalla capacità biologica del pianeta. Quest’anno il nostro ingresso in zona insicura è scattato il 24 luglio, un record mai raggiunto prima. Più precisamente il 24 luglio segna la data in cui l’umanità ha esaurito tutto ciò che il sistema naturale è stato capace di fornire per il 2025 attraverso il meccanismo della rigenerazione biologica: nuovi raccolti agricoli, nuove piante da taglio, nuovi animali per alimentarci, nuovo sistema fogliare per sbarazzarci dell’anidride carbonica. Il Global Footprint Network chiama questo giorno “overshootday”, in inglese “giorno del sorpasso”, ad indicare la data in cui nostra voracità supera la capacità di rigenerazione della natura. E se ci pare che il problema non esista è perché finiamo l’anno a spese del capitale naturale, un po’ come quella famiglia che avendo finito la legna da ardere, continua a scaldarsi gettando nel cammino suppellettili o addirittura travicelli del tetto. Lì per lì sembra che tutto tenga, ma se l’operazione si ripete ogni anno, finisce che quella famiglia si ritrova senza legna e senza casa. L’umanità corre lo stesso rischio, precisando che la responsabilità dello squilibro non ricade su tutti nella stessa misura. Qualcuno, addirittura, non ha colpa alcuna. Il Global Footprint Network ci ricorda che per rimanere in equilibrio con la capacità rigenerativa del pianeta ognuno di noi dovrebbe avere un’impronta ecologica non superiore a 1,6. In altre parole dovremmo mantenere i nostri consumi annuali di cibo, legname, prodotti energetici, entro livelli compatibili con 1,6 ettari di terra fertile. In realtà gli abitanti del Lussemburgo hanno consumi che richiedono la disponibilità pro capite di 12,8 ettari, gli statunitensi di 7,9, gli italiani di 4,5 ettari. Solo tre paesi (Sudan, Senegal, Sud Sudan), per un totale di appena 80 milioni di abitanti, sono in linea con l’impronta sostenibile di 1,6. Ma poi ce ne sono altre decine con un’impronta inferiore. Schematicamente potremmo dividere l’umanità in tre gruppi: un terzo con un’impronta di molto superiore a quella sostenibile, un terzo di poco superiore, un terzo al di sotto. Il terzo con un’impronta di molto superiore è quella che conserva la responsabilità maggiore dello squilibrio planetario e quindi deve tagliare di più i propri consumi. La riduzione dei consumi richiama tre livelli: quello d’impresa, di famiglie e di collettività. A livello d’impresa la grande sfida è cambiare filosofia. Più che in termini di denaro, le imprese devono ragionare in termini di risorse, quelle concrete: minerali, acqua, energia, rifiuti. Oggi il loro obiettivo è spendere meno soldi possibile. Domani dovranno chiedersi come fare per ottenere prodotti col minor impiego di risorse e la minor produzione di rifiuti possibile. I loro bilanci non dovranno essere solo economici, ma soprattutto idrici, energetici, ambientali. Più che di ragionieri dovranno dotarsi di esperti che sappiano calcolare i consumi di risorse, le emissioni di veleni, non solo durante la fase produttiva di loro diretta pertinenza, ma durante l’intero arco di vita del prodotto. L’ufficio per l’eco-efficienza dovrà essere il comparto più sviluppato di ogni singola azienda, sapendo che le strategie della sostenibilità produttiva passano per quattro vie: il risparmio come capacità di ridurre al minimo la quantità di energia e di materiale impiegato; la rinnovabilità come capacità di ottenere energia e materie prime da fonti rinnovabili; il recupero come capacità di sfruttare al meglio ogni unità di energia, di acqua, di materiale, attraverso operazioni di sinergia e riciclo; il locale come capacità di privilegiare approvvigionamento, scambi e vendita a livello territoriale. Come famiglie, la sfida è cambiare stili di vita cominciando ad eliminare l’inutile e il superfluo. Nei nostri armadi accumuliamo troppi vestiti e ne diamo troppi allo straccivendolo. Sprechiamo l’acqua e usiamo l’automobile anche quando potremmo andare a piedi o in bicicletta. In concreto dobbiamo convertirci alla sobrietà che non significa vita di stenti, ma meno quantità più qualità, meno auto più bicicletta, meno mezzo privato più mezzo pubblico, meno carne più legumi, meno prodotti globalizzati più prodotti locali, meno cibi surgelati più prodotti di stagione, meno acqua imbottigliata più acqua del rubinetto, meno cibi precotti più tempo in cucina, meno recipienti a perdere più prodotti alla spina. Significa anche capacità di diventare “prosumatori”, ossia produttori di ciò che consumiamo, come succede quando dotiamo le nostre case di pannelli solari o produciamo da soli la nostra insalata. Ci sono aspetti del modo di vivere che tutti possono cambiare senza difficoltà, anzi traendone benefici per il portafogli e la salute. Valga come esempio la riduzione del consumo di carne. Ma ci sono cambiamenti a volte impossibili a causa della propria condizione economica o del contesto in cui si vive. I più poveri, ad esempio, difficilmente potranno fare gli investimenti che servono per migliorare l’efficienza energetica della propria abitazione o convertirsi alle rinnovabili. Allo stesso modo risulterà difficile sbarazzarsi dell’auto se si vive in una periferia sprovvista di servizi e di trasporti pubblici. Per questo è importante chiamare in causa la collettività l’unico soggetto in grado di rimuovere gli ostacoli che impediscono anche ai più deboli di compiere scelte di tipo sostenibile. Una funzione che la collettività può svolgere garantendo ovunque buoni trasporti pubblici, una buona connessione internet, un forte sostegno agli investimenti di transizione energetica, ma soprattutto buoni servizi sanitari, sociali e scolastici. Si è a lungo parlato dell’esigenza di consumo critico e responsabile da parte delle famiglie. Ma ora dobbiamo chiedere anche alla sfera pubblica di adottare criteri di spesa critica e responsabile. Tanto più oggi che si parla insistentemente di aumento delle spese militari. La peggiore delle spese possibili non solo perché finalizzata alla morte, ma perché gravida di conseguenze negative anche da un punto di vista finanziario, sociale, ambientale. Il sistema militare si basa su un uso massiccio di combustibili fossili che lo pongono fra i maggiori produttori di gas a effetto serra. Secondo le organizzazioni Conflict and Environment Observatory (CEOBS) e Scientists for Global Responsibility (SGR), il sistema bellico contribuisce al 5.5% delle emissioni globali, tanto che se fosse una nazione sarebbe al quarto posto della graduatoria mondiale. Senza contare ciò che viene rilasciato durante le guerre. Un gruppo di esperti ha calcolato che durante i primi tre anni di guerra fra Russia e Ucraina sono state prodotte 230 milioni di tonnellate di anidride carbonica, l’equivalente di quante ne emettono in un anno Austria, Ungheria, Slovacchia e Repubblica Ceca, messi insieme. L’Unione Europea ha lanciato un piano di riarmo europeo del valore di 800 miliardi di euro, che se venisse applicato farebbe aumentare considerevolmente le emissioni del settore, in aperto contrasto con l’Accordo di Parigi del 2015 e con gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile. I nostri governanti sostengono che bisogna armarsi per prevenire la possibile morte indotta da potenziali aggressioni. Ma ha senso esporsi a rischi certi per evitare rischi potenziali? O non sarebbe più intelligente seguire la via della pace disarmata e disarmante indicata da papa Leone? -------------------------------------------------------------------------------- Inviato anche ad Avvenire -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE QUESTO ARTICOLO DI ALEX ZANOTELLI: > Disobbedienza civile contro il riarmo -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo La via delle scelte disarmanti proviene da Comune-info.
Adesione alla proposta educativa “Insieme per la pace disarmata”
PUBBLICHIAMO UN INTERESSANTE DOCUMENTO PER ATTIVITÀ DIDATTICHE SULL’EDUCAZIONE ALLA PACE E SU PERCORSI ALTERNATIVI A QUELLE CON LE FORZE ARMATE ALL’INTERNO DELLE NOSTRE SCUOLE. Gentilissimi/e, ci sono momenti della Storia che appaiono più gravi, in cui non possiamo restare indifferenti lasciando che tutto accada senza far agire il nostro potere di scelta, in cui occorre “Richiamare tutti gli adulti alla responsabilità per le generazioni che vengono al mondo” (Gianni Rodari). La guerra è in se stessa un crimine contro l’umanità (Papa Francesco); è il peggior tradimento verso le nuove generazioni. Occorre scongiurarla con tutte le nostre forze primariamente a partire dall’Educazione e da una Pedagogia della pace. Le guerre colpiscono prevalentemente le popolazioni civili, distruggono, creano odio, rancore, desiderio di vendetta, impotenza. Con i bambini, le donne subiscono le maggiori violenze su corpo, mente e cuore. Abbiamo il dovere di immaginare e costruire con le nuove generazioni del mondo un futuro di pace, giustizia e speranza. Per questo invitiamo insegnanti, genitori, studenti e studentesse, mondo della scuola e della società civile a contribuire ad una fase di sviluppo concreto di una cultura della nonviolenza, della pace, della smilitarizzazione e del rispetto a partire dal “disarmo” nel linguaggio, nei gesti, nelle coscienze. Ci rifacciamo ai valori proposti dai grandi educatori di pace: Maria Montessori, Aldo Capitini, don Lorenzo Milani, Danilo Dolci, Alex Langer, Gianni Rodari, Chiara Lubich, Gino Strada, solo per citarne alcuni. Invitiamo i Collegi dei Docenti ad aderire alla proposta educativa “Insieme per la pace disarmata”, per approfondire con urgenza nelle scuole la Pedagogia della Pace, utilizzando il seguente link: https://forms.gle/he3z3Tn4k15yWutp7 Ci rendiamo disponibili a supportare azioni di progettazione di percorsi con le scuole e le/i docenti interessate/i a partire da un’assemblea all’inizio dell’a.s. 25/26 (per adesioni: insiemeperlapacedisarmata@gmail.com ) Si allegano: 1. Pedagogia della pace: sguardi, pensieri, azioni, relazioni fuori dalla guerra e dalla violenza 2. Pedagogia della pace: riferimenti, buone pratiche e proposte operative Gruppo docenti ed educatori “Insieme per la pace disarmata” ALLEGATO 1 PEDAGOGIA DELLA PACE: SGUARDI, PENSIERI, AZIONI, RELAZIONI FUORI DALLA GUERRA E DALLA VIOLENZA L’ARTE E LA SCIENZA SONO LIBERE E LIBERO NE È L’INSEGNAMENTO (ART. 33 COSTITUZIONE) La scuola è il luogo della formazione delle persone, dei cittadini e delle cittadine per dare le ali a personalità libere, non indottrinate e manipolate, ma capaci di scelta, critica, creatività, razionalità, benessere. Una scuola della Costituzione dovrebbe essere il luogo della ricerca e del confronto, del dialogo e dell’ascolto. Dovrebbe recuperare le Storie che testimoniano alternative alla violenza e alla guerra, che nascono da una nonviolenza attiva come approccio metodologico che unisce una coerenza interiore alla coerenza sociale. È la regola d’oro, principio etico fondamentale tra i più antichi e universali “Fai agli altri ciò che vorresti fosse fatto a te” oppure in forma negativa: “Non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te”, presente in molte religioni, culture e tradizioni filosofiche. Una regola d’oro, appunto, perché si basa sul concetto di empatia reciproca, invitando ciascuno a mettersi nei panni dell’altro prima di agire. Per questo invitiamo ad un’azione educativa riconoscendosi in alcuni elementi comuni: 1) l’educazione può favorire la costruzione di relazioni interpersonali, sociali e internazionali fondate non solo sulla rinuncia all’uso della violenza nella gestione dei conflitti, ma anche sull’empatia e sulla creatività; relazioni capaci di generare le competenze necessarie allo stare al mondo nel tempo della complessità, dell’interconnessione e di una violenza crescente; 2) la pace permette di mantenere la relazione anche nelle divergenze. L’alfabetizzazione alla gestione del conflitto è alla base dell’educazione alla pace, al riconoscimento dell’altro come persona, alla relazione empatica; 3) la sfida di “fare pace tra noi umani e fare pace con il pianeta Terra” comporta scelte radicali e testimonianze capaci di nutrire l’immaginario dei più giovani e di tutti noi; 4) occorre far conoscere ai giovani proposte alternative come l’obiezione di coscienza e i Corpi civili di pace europei di Alexander Langer che auspicavano lo sviluppo nei giovani di qualità come la tolleranza, la resistenza alla provocazione, l’educazione alla nonviolenza, una marcata personalità, l’esperienza nel dialogo, la propensione alla democrazia e alla giustizia, la conoscenza delle lingue, la cultura, l’apertura mentale, la capacità all’ascolto, la capacità di sopravvivere in situazioni precarie e la pazienza; 5) occorre nutrire la comprensione e la compassione per vivere in pace con persone, animali, piante e minerali (maestro Zen Thich Nhat Hanh) ; favorire il rispetto per la vita in tutti i suoi aspetti e la prevenzione dell’aggressività, dell’intolleranza e della violenza, a partire da quella strutturale e culturale; 6) è necessario costruire comunità educanti che si confrontino, nel rispetto delle differenze di qualunque tipo (di genere, di cultura, generazionali), per l’inclusione di soggettività diverse, l’intercultura e la cooperazione; 7) proponiamo di costruire insieme progetti curricolari ed extracurricolari interconnessi e pluridisciplinari, anche territoriali, che condividano e diffondano buone pratiche, linguaggi nuovi, creativi, solidali che accolgano il punto di vista dell’”altro” (delle vittime, delle minoranze, …); linguaggi innovativi della poesia, delle emozioni, dei sentimenti, del teatro, della narrazione, della musica, dell’arte, della multimedialità che facciano superare muri e confini, e rendano progetto l’utopia di una società globale fraterna e in pace con la natura e tutti gli esseri viventi. 8) disarmiamo il linguaggio e rivalutiamo la parola rispetto, parola dell’anno 2024 per l’enciclopedia italiana Treccani, proprio perché la mancanza di rispetto è uno dei fattori principali alla base della violenza. RITROVARE LA VIA DELLA PACE Durante il secondo conflitto bellico e alla sua conclusione, in un periodo in cui l’animo umano è stato profondamento scosso da sofferenze inenarrabili, da ingiustizie e persecuzioni, l’Umanità ha espresso sentimenti di alto valore, contro l’indifferenza e la violenza, sia a parole che in documenti, ancora oggi punti di riferimento universali. LA GUERRA NON È INELUTTABILE “L’Educazione che preparerà un’umanità nuova ha una finalità sola: quella che conduce insieme all’elevazione dell’individuo e della società […] L’uomo così preparato, conscio della sua missione cosmica, sarà capace di costruire il nuovo mondo della pace.” “Occorre organizzare la pace, preparandola scientificamente attraverso l’educazione.” (Maria Montessori, Educazione e Pace – testo che raccoglie una serie di conferenze che Montessori tenne sul tema della pace, a partire da quella presentata al Bureau international d’éducation a Ginevra nel 1932). SALVARE LE FUTURE GENERAZIONI DAL FLAGELLO DELLA GUERRA “Noi, popoli delle Nazioni Unite, decisi a salvare le future generazioni dal flagello della guerra, che per due volte nel corso di questa generazione ha portato indicibili afflizioni all’umanità, a riaffermare la fede nei diritti fondamentali dell’uomo, nella dignità e nel valore della persona umana, nella eguaglianza dei diritti degli uomini e delle donne e delle nazioni grande e piccole, a creare le condizioni in cui la giustizia ed il rispetto degli obblighi derivanti dai trattati e dalle altri fonti del diritto internazionale possano essere mantenuti …” (Statuto delle Nazioni Unite approvato il 26 ottobre 1945). L’ITALIA RIPUDIA LA GUERRA “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni” (Articolo 11 della Costituzione Italiana del 1948). NONOSTANTE L’ATTUALE “SMARRIMENTO” DELL’UNIONE EUROPEA, ESSA È STATA FONDATA SULLA PROMOZIONE DELLA PACE “L’Unione si prefigge di promuovere la pace, i suoi valori e il benessere dei suoi popoli.” (Art. 3 comma 1 del Trattato sull’Unione Europea del 1992). Questi valori sono ancora il punto di riferimento per tutti noi, per le Istituzioni, gli Individui, gli Stati. E quindi anche per la Scuola. INTERESSI E INFLUENZA DELL’APPARATO INDUSTRIALE BELLICO GENERANO CULTURA E PRATICHE DI GUERRA Dal Secondo dopoguerra in molte occasioni lo Statuto dell’Onu è diventato carta straccia, e abbiamo assistito impotenti alla frattura tra i principi enunciati e la realtà. Sono state numerose le invasioni neocoloniali, le guerre territoriali, anche in Europa, ma mai quanto ora si è arrivati così vicini ad un conflitto che papa Francesco aveva definito “terza guerra mondiale a pezzi”. La violenza bellica è tornata a essere linguaggio ufficiale delle relazioni internazionali, strumento di potere, e la produzione di armi fondamento dell’economia globale. Parole come “riarmo, nemico, vittoria” sono riemerse, come nelle precedenti grandi guerre. Il mito della guerra ha preso il sopravvento sulla cultura della pace, quella che vogliamo e dobbiamo preparare. E’ necessario che l’Onu riprenda la sua missione originaria di luogo di confronto e di soluzione pacifica delle controversie, senza che nessun Paese possa prevalere sull’altro. LA SPERANZA DELL’AGENDA ONU 2030 L’obiettivo 16 “Pace, Giustizia ed Istituzioni solide” dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite, approvata nel settembre 2015, ci invita ad impegnarci per il raggiungimento degli obiettivi di sviluppo sostenibile con un’attenzione alla promozione di società pacifiche e inclusive. L’obiettivo 16 è la lente attraverso la quale tutti gli altri obiettivi acquistano valore, significato e attuazione. Senza pace non ci può essere un reale sviluppo sostenibile. E viceversa. La stretta connessione tra il drammatico acuirsi dei conflitti geo-politici e le problematiche ambientali appare oramai evidente. L’antropocentrismo esasperato e aggressivo nei confronti della natura e il capitalismo finanziario sempre più militarista, rendono necessaria una presa di posizione in grado di favorire comportamenti resilienti e azioni efficaci in difesa della vita, come indica l’Agenda ONU. LE CONTRADDIZIONI DI OGGI Si auspica che all’interno della Costituzione Europea (Trattato dell’UE) si inserisca un esplicito riferimento al ripudio alla guerra. Ma nei documenti più recenti la “mentalità” pacifista dei popoli europei viene messa in discussione. Nella Risoluzione del 2 aprile 2025 il Parlamento Europeo esprime la sua posizione riguardo la sicurezza e la possibilità di entrare in guerra. Precisamente l’art. 164 invita l’Unione a mettere a punto programmi educativi e di sensibilizzazione, in particolare per i giovani, volti a migliorare le conoscenze e a facilitare i dibattiti sulla sicurezza, la difesa e l’importanza delle forze armate. E nelle linee guida ministeriali italiane del 2024 per l’insegnamento dell’Educazione Civica la parola Pace non compare neppure una volta! Le opinioni pubbliche vanno svegliate dal letargo preparando i giovani all’ipotesi di “guerra” considerata come qualcosa di inevitabile! Noi rifiutiamo questa logica e la propaganda bellica di ogni tipo, attuata anche attraverso una sempre più frequente presenza delle forze armate nelle scuole e mediante una pericolosa commistione tra iniziative sanitarie, sportive, culturali, artistiche, militari perché ci ispiriamo alla tradizione di educatori di pace: Maria Montessori, Aldo Capitini, don Lorenzo Milani, Danilo Dolci, Alex Langer, Gianni Rodari, Chiara Lubich, Gino Strada, solo per citarne alcuni. EDUCARE ALLA PACE Educare alla pace non è una disciplina in più, ma è fare di ogni ambito formativo uno strumento di pace, un percorso, in cui si punti a sviluppare la creatività e l’autonomia di bambine/i e ragazze/i nell’affrontare le problematiche, imparando a dialogare e a sperimentarsi, così da acquisire consapevolezza delle proprie risorse nel sentirsi, come diceva don Milani, ognuno responsabile di tutto. Educare per la pace, significa dunque promuovere un’azione pratica nell’ambito di un contesto specifico, partendo dai rapporti interpersonali, senza perdere di vista le questioni più generali, come i modelli di sviluppo, la distribuzione delle risorse e la gestione del potere; compiendo atti concreti per trasformare dal basso una società globalizzata, in cui la mancanza dei diritti e le stridenti disuguaglianze rendono spesso privo di senso il solo pronunciamento della parola “pace”. (http://livingpeaceinternational.org). In tal senso l’educazione può contribuire a sviluppare una coscienza sociale che rifiuti l’economia fondata sullo sfruttamento del lavoro ed il perseguimento del profitto, un agire a scapito dell’umanità e della natura. L’avanzamento dei diritti del lavoro è il prodotto dell’avanzamento di una cultura della pace ed entrambi sono il fondamento di un nuovo modello economico. ALLEGATO N. 2 PEDAGOGIA DELLA PACE: RIFERIMENTI, BUONE PRATICHE E PROPOSTE OPERATIVE Dagli elementi e principi citati nell’allegato 1 vogliamo attingere per costruire percorsi collegandoci ad un grande patrimonio presente in Italia e nel mondo:  Scuole di Pace e Marcia Perugia Assisi (vedi link delle attività per la preparazione della marcia del 12 ottobre 2025 con l’Onu dei popoli – info@scuoledipace.it – www.lamiascuolaperlapace.it)  L’organizzazione Emergency che oltre a garantire la cura nelle zone di guerra presenta progetti come “Ripudia” di educazione alla pace nei vari ordini di scuola – https://www.ripudia.it/campagna/  Le proposte del movimento nonviolento e del filosofo Pasquale Pugliese https://www.nonviolenti.org/cms/ – https://www.azionenonviolenta.it/author/pasquale/  Le esperienze pedagogiche della Rete italiana Pace e Disarmo https://retepacedisarmo.org/educazione-pace/proposte-di-educazione-alla-pace/  L’attività di Daniele Novara e del suo Centro Psicopedagogico per l’educazione e la gestione dei conflitti – https://www.metododanielenovara.it/ – https://www.metododanielenovara.it/centro psicopedagogico/  Le proposte dell’Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle università https://osservatorionomilscuola.com/  L’esperienza di Living Peace http://livingpeaceinternational.org/it/ International promossa da Carlos Palma  Le iniziative del Tavolo Tuttopace https://trentogiovani.it/Attivita/Iniziative/Progetto-Tuttopace  Le proposte del movimento Non Una Di Meno – https://nonunadimeno.wordpress.com/ –  Una esperienza significativa è quella di Rondine Cittadella della Pace, fondata da Franco Vaccari, https://rondine.org  Scuole per un’educazione non violenza – https://edunonviolenza.altervista.org/ – cui aderiscono la rete Educazione Umanista alla non violenza attiva https://www.edumana.it/ e la Rete Polo Europeo della Conoscenza – https://www.europole.org/  La Rete delle Università Italiane per la Pace che riunisce atenei impegnati nella promozione della cultura della pace, della nonviolenza e del dialogo, attraverso ricerca, didattica e formazione – https://www.runipace.org/wp-content/uploads/2023/12/proposte-gruppo-educazione-alla pace.pdf – https://www.runipace.org/ Programma 29 giugno 2025_ver1.1Download Insieme per la pace disarmataDownload Manifesto politico “Insieme per la Pace disarmata” (1)Download
Il lavoro ripudia la guerra. Manifesto per un diritto del lavoro della pace
L’umanità sta attraversando un crinale della storia che rischia di essere senza ritorno. La guerra e l’uso della forza armata sembrano costituire sempre di più l’unico mezzo per la risoluzione dei conflitti internazionali e per il perseguimento di miopi interessi nazionali, dimenticando che l’umanità ha un unico comune destino. Il […] L'articolo Il lavoro ripudia la guerra. Manifesto per un diritto del lavoro della pace su Contropiano.
Hartal day dedicato a Mandela, Firenze 18/7/2025
Ci siamo incontrati con Giampaolo Pancetti, ideatore del LavoraTorio della nonviolenza e della nuova iniziativa Hartal day Mandela’s e gli abbiamo chiesto come è arrivato a questa iniziativa, il percorso, le finalità. Giampaolo Pancetti, informatico, diacono nella Chiesa e Counselor spirituale. Sposato da oltre 20 anni con Gabriella Parissi, con la quale porta avanti l’intero ministero diaconale di nonviolenza. Nel 2022 hanno abbracciato l’Ordine Ecumenico Francescano e hanno dato vita ai corsi sulla nonviolenza, cercando di esplorare le logiche della violenza e della nonviolenza, la comunicazione nonviolenta di Marshall Rosenberg, la mediazione dei conflitti secondo il metodo Transcend di Johan Galtung e le metodologie e le tecniche della nonviolenza. Nel 2025 hanno dato vita anche ad una nuova experience online, il LavoraTorio della nonviolenza e hanno deciso di impegnarsi nell’anabattismo, una forma antica di cristianesimo radicalmente pacifista, scevra da ogni forma di gerarchia e  di religiosità per rimettere al centro Gesù, la sua esperienza, la sua spiritualità e il rivoluzionario avvento del Regno nel nostro mondo. Giampaolo, come è nato e quali sono gli obiettivi del LavoraTorio della nonviolenza? “Il LavoraTorio della nonviolenza è una experience online nata quest’anno per la richiesta di molte persone che vivono lontano da Firenze e che ci chiedevano di poter crescere nella nonviolenza. Il LavoraTorio ha l’obiettivo di scoprire la storia e l’esperienza dei molti seguaci ed episodi della nonviolenza. La storia dei libri di scuola è fatta quasi esclusivamente di episodi di guerra che si susseguono l’uno dopo l’altro, con l’assunto di base che in fondo l’essere umano ha una violenza innata. Non è così! Abbiamo scelto di seguire l’anti-storia! Il nostro è un ‘lavoratorio’, quindi lavoriamo ed elaboriamo. Prepariamo degli artefatti che saranno pubblicati e che speriamo possano essere utili ad altri dopo di noi. Noi prepariamo quindi un semi-finito: il prodotto finito lo deve elaborare ciascuno di noi nella propria coscienza. Abbiamo iniziato con Etty Hillesum, alla quale abbiamo intestato il LavoraTorio stesso, e adesso stiamo elaborando l’esperienza e il pensiero di Nelson Mandela. I casi della storia e dei personaggi che analizziamo ci donano nuove chiavi per comprendere il presente e soprattutto per lasciarci ingaggiare nell’unica battaglia che merita di essere combattuta, quella contro il male e la violenza stessa. Per questo dobbiamo formarci, crescere, sperimentare”. In cosa consiste la vostra proposta di Hartal per il “Mandela’s day? “L’hartal è una forma di nonviolenza ideata da Gandhi. Questo hartal è stato promosso dal LavoraTorio per rispondere all’esigenza di sperimentare nuovi percorsi e alla preoccupazione della situazione di violenza nel mondo, non ultimo di ciò che sta accadendo a Gaza, in Ucraina e in altre parti della Terra. Quando abbiamo appreso dell’ennesimo cedimento alle logiche di sopraffazione dei potentati di questo mondo e della decisione di aumentare al 5% del PIL la spesa per gli armamenti abbiamo scelto di scendere in campo perché non possiamo in coscienza accettare di essere complici di un governo che applica una triplice violenza: * violenza verso tutti coloro che saranno uccisi dalle armi italiane * violenza verso tutti coloro che avranno a disposizione meno servizi sulla salute, sulla scuola e sul lavoro a causa del dirottamento delle risorse economiche verso le armi * violenza strutturale che rafforza la sottomissione ai potentati della NATO e degli USA. A tutto questo abbiamo detto NO! E abbiamo deciso di lanciare un hartal in forma light a partire dal giorno dedicato guarda caso proprio a Mandela, il 18 Luglio”. Come sarà organizzato l’hartal e come pensate di misurarne l’efficacia? “Dal 18 Luglio e poi ogni venerdì dalle 18:00 alle 20:00 andremo avanti ad oltranza, finché il governo non recederà dalle sue posizioni, ci asterremo da ogni contributo economico, da ogni attività commerciale. Se possibile ci asterremo dal lavoro, staremo a casa, nel nostro ambiente, senza clamore di piazza, solo silenzio e recupero della nostra dimensione interiore. Sarà l’urlo del silenzio. Quello delle troppe vittime della violenza. Sarà un momento per ritrovare noi stessi attraverso la meditazione. Dunque, un’azione con risvolti sociali ed interiori. Questo è l’hartal, un’azione nonviolenta più volte praticata da Gandhi in India e nel Sudafrica. Non bastano più conferenze e talk show. Non bastano più digiuni e preghiere. Non bastano più cartelli e marce della pace. Occorre incidere sull’economia, occorre riprenderci la nostra vita, occorre riprendere il valore e la forza della meditazione, la forza della trascendenza che può rafforzare il nostro io profondo e può aprire a energie spirituali di connessione: l’individualismo è una bugia ed è illusione. Dobbiamo ricominciare a far scorre lo spirito nelle nostre relazioni. Abbiamo scelto di affidare la campagna nonviolenta al tam tam mediatico, al passa parola, perché dobbiamo smantellare il potere gerarchico che viene dall’alto; le persone devono potersi riappropriare del loro potere, senza più delegarlo a partiti e partitini dai quali si sentono sempre più disaffezionati. La democrazia non basta più, occorre, come diceva Capitini, l’omnicrazia. Ecco perché è necessario partire dal basso, partire dal popolo. Ci vorrà qualche mese prima che possa sentirsi qualche effetto. Ma quando saremo milioni gli effetti sull’economia e sulle coscienze sarà visibile a tutti e il governo non potrà più ignorare il fatto che il popolo italiano si è rialzato, è vivo e non vuole più sottostare a logiche di guerra e di dominio Questo hartal è solo il primo passo. La nonviolenza è gradualità”. Siete d’accordo che in questo momento così drammatico tutte le persone, i movimenti, le associazioni dovrebbero unirsi per contrastare la corsa al riarmo, la negazione del diritto internazionale e la perdita di umanità in generale? Siamo assolutamente d’accordo. Esiste già una rete di associazioni che si occupano di pace e nonviolenza. In occasione di questo hartal abbiamo contattato 30 associazioni che operano in questo ambito affinché l’azione possa avere risonanza. Siamo partiti con questo approccio unitario. Noi in quanto LavoraTorio della nonviolenza vogliamo comunque restare un punto di riferimento del rafforzamento delle coscienze. Al momento non abbiamo né la struttura, né l’intenzione di trasformarci in un comitato d’azione, ma abbiamo invitato ogni operaio della nonviolenza del nostro LavoraTorio a contribuire ciascuno a modo proprio nella partecipazione alle lotte associative e non solo: la pace e la nonviolenza hanno un punto di partenza, sé stessi. Dobbiamo cominciare smantellando le logiche di violenza che ci portiamo dentro, dobbiamo cominciare dalle nostre relazioni. Se noi stessi non diventiamo pace rischiamo di portare egoicità ovunque attorno a noi, comprese le campagne di nonviolenza e questa è l’ultima cosa che deve accadere se vogliamo costruire la pace. “Se vuoi la pace prepara la pace” (Ernesto Balducci), se vuoi la pace, sii pace. Molti sono atterriti e affranti dalla situazione di guerra e di violenza nel mondo e nella società. Molti si chiedono: da dove posso cominciare? Posso fare qualcosa? Sì – diciamo noi – puoi fare molto: puoi cominciare a lasciarti trasformare dalla spiritualità della nonviolenza e invertire le logiche di guerra attorno a te. Come cristiani diciamo: dobbiamo aprirci al Regno che sovverte le logiche di questo mondo. E’ la rivoluzione della nonviolenza. Ecco perché il nostro LavoraTorio è innestato in un percorso più ampio che chiamiamo di spiritualità sovversiva della nonviolenza”. Paolo Mazzinghi
Il PKK brucia le armi e attua il suo disarmo: e ora?
Le fiamme che hanno avvolto i mitra ieri mattina nella valle montuosa di Jasana, nel nord dell’Iraq, hanno illuminato non solo una cerimonia simbolica, ma un momento decisivo per un intero popolo. Davanti agli occhi di funzionari turchi, iracheni e curdi, trenta combattenti del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK) […] L'articolo Il PKK brucia le armi e attua il suo disarmo: e ora? su Contropiano.
PKK: “ABBIAMO BISOGNO DI PACE, LIBERTÀ, UGUAGLIANZA E DEMOCRAZIA”. 30 GUERRIGLIERI/E BRUCIANO LE ARMI
Trenta militanti del Partito dei Lavoratori del Kurdistan, 15 donne e 15 uomini, tra i quali diversi comandanti ed esponenti storici dell’organizzazione, sono scesi dalle montagne curde dell’Iraq settentrionale e hanno distrutto simbolicamente le proprie armi alla presenza di una delegazione di deputati del Parlamento turco, giornalisti ed esponenti delle associazioni dei familiari dei detenuti. Dopo la lettura di una dichiarazione, il gruppo di guerriglieri ha sfilato accanto a un grosso bracere nel quale ognuno ha depositato un’arma. Le armi sono poi state bruciate. La cerimonia, che si è svolta vicino Sulaymaniyya, in Bașur (Kurdistan iracheno), si inserisce nel quadro del processo di pace in corso tra il movimento di liberazione curdo e la Repubblica di Turchia che era stato annunciato pubblicamente dall’Appello per la pace e una società democratica del 27 febbraio 2025. L’iniziativa di oggi, venerdì 11 luglio 2025, era stata anticipata dallo storico video-messaggio del leader e cofondatore del Pkk Abdullah Öcalan dall’isola-carcere di Imrali, dov’è detenuto dallo stato turco dal 1999. Ora, il movimento di liberazione curdo chiede che il Parlamento turco faccia la propria parte nel processo, innanzitutto licenziando una legge che consenta ai militanti che oggi hanno deposto le armi di poter entrare in Turchia (sono tutti cittadini turchi) senza essere arrestati. Nella lunga dichiarazione letta e diffusa dai guerriglieri del Pkk durante la cerimonia, i militanti rivoluzionari affermano: “Alla luce della crescente pressione fascista e dello sfruttamento in tutto il mondo e dell’attuale bagno di sangue in Medio Oriente, il nostro popolo ha più che mai bisogno di una vita pacifica, libera, equa e democratica. […] Ci auguriamo che tutti, i giovani e le donne, i lavoratori e le lavoratrici, le forze socialiste e democratiche, tutti i popoli e l’umanità osservino, comprendano e apprezzino il valore storico del nostro passo per la pace e la democrazia” (qui sotto riportiamo la nostra traduzione dell’intero comunicato). Ai microfoni di Radio Onda d’Urto è intervenuto Yilmaz Orkan, dell’Ufficio Informazione Kurdistan in Italia. Ascolta o scarica. Di seguito la dichiarazione integrale del comunicato diffuso dal Gruppo per la pace e la società democratica del Pkk, tradotto dalla redazione di Radio Onda d’Urto: Al nostro popolo e all’opinione pubblica In qualità di membri del “Gruppo per la pace e la società democratica”, costituito per accelerare il processo di cambiamento e trasformazione democratica, salutiamo rispettosamente voi e tutti coloro che assistono alla nostra storica iniziativa democratica. Per difendere l’esistenza dei curdi dalle offese di negazione e annientamento, noi, come combattenti per la libertà, uomini e donne, ci siamo uniti al Partito dei Lavoratori del Kurdistan, in tempi diversi, e abbiamo combattuto per la libertà in diverse regioni. Ora siamo qui per rispondere all’appello che il leader del popolo curdo, Abdullah Öcalan, ha lanciato il 19 giugno 2025. Il nostro arrivo qui si basa, allo stesso tempo, sull’appello che il leader Abdullah Öcalan ha lanciato in precedenza il 27 febbraio 2025 e sulle risoluzioni del 12° Congresso del Pkk, riunitosi dal 5 al 7 maggio 2025. Per garantire il successo pratico del processo “Pace e Società Democratica”, per condurre la nostra lotta per la libertà, la democrazia e il socialismo con metodi di politica legale e democratica sulla base della promulgazione di leggi per l’integrazione democratica, distruggiamo volontariamente le nostre armi, davanti alla vostra presenza, come passo di buona volontà e determinazione. Ci auguriamo che questo passo porti pace e libertà e abbia esiti favorevoli per il nostro popolo, per i popoli della Turchia e del Medio Oriente e per tutta l’umanità, in particolare per le donne e i giovani. Concordiamo pienamente con le osservazioni del leader Abdullah Öcalan che ha affermato: “Non credo nelle armi, ma nel potere della politica e della pace sociale e vi invito a mettere in pratica questo principio”. Siamo molto orgogliosi e onorati di fare ciò che è necessario per questo principio storico. Come sapete, le cose non sono avvenute con facilità, a costo zero e senza lottare. Al contrario, tutti i guadagni sono stati ottenuti a caro prezzo, lottando con le unghie e con i denti. E ciò che seguirà avrà sicuramente bisogno di lotte serrate. Siamo ben consapevoli di questo fatto e, con l’obiettivo di garantire ulteriori conquiste democratiche, crediamo fermamente nell’intuizione e nel paradigma del leader Abdullah Öcalan e confidiamo in noi stessi e nel potere collettivo della nostra comunità di compagni. Alla luce della crescente pressione fascista e dello sfruttamento in tutto il mondo e dell’attuale bagno di sangue in Medio Oriente, il nostro popolo ha più che mai bisogno di una vita pacifica, libera, equa e democratica. In questo contesto sentiamo e comprendiamo appieno la grandezza, la rettitudine e l’urgenza del passo che abbiamo compiuto. Ci auguriamo che tutti, i giovani e le donne, i lavoratori e le lavoratrici, le forze socialiste e democratiche, tutti i popoli e l’umanità osservino, comprendano e apprezzino il valore storico del nostro passo per la pace e la democrazia. Facciamo appello alle forze regionali e globali responsabili delle sofferenze del nostro popolo affinché rispettino i più legittimi diritti democratici e nazionali del nostro popolo e sostengano il processo di “Pace e Società Democratica”. Facciamo appello a tutti i popoli, ai circoli socialisti e democratici, agli intellettuali, agli scrittori, agli accademici, agli avvocati, agli artisti e ai politici affinché comprendano correttamente il nostro passo storico e siano solidali con il nostro popolo. Li invitiamo inoltre a partecipare più attivamente alla lotta per la libertà fisica del leader Abdullah Öcalan e per la soluzione democratica della questione curda, nonché a sviluppare e rafforzare la lotta e la solidarietà internazionale democratica e socialista. Invitiamo il nostro popolo e le sue forze politiche a comprendere correttamente le caratteristiche di questo processo storico di “Pace e Società Democratica” sviluppato da Leader Apo, ad assolvere con successo i propri doveri e responsabilità in campo educativo, organizzativo e operativo e a sviluppare la vita democratica. L’oppressione e lo sfruttamento finiranno; la libertà e la solidarietà prevarranno. Il processo di “Pace e Società Democratica” avrà sicuramente successo. Il Gruppo per la pace e la società democratica 11 luglio 2025
Cominciamo dall’ex-GKN
PREPARARE E SPERIMENTARE PIANI DI RICONVERSIONE INDUSTRIALE DAL BASSO, PORTATI AVANTI CON IL TERRITORIO E CON IL SUPPORTO DI ACCADEMICI E ORIENTATI CON I PRINCIPI E LE PRATICHE DALLA CONVERSIONE ECOLOGICA, DOVREBBE ESSERE UNA PRIORITÀ OVUNQUE. QUELLI CHE SONO IN ALTO, DALL’UE AL GOVERNO NAZIONALE, HANNO INVECE ABBRACCIATO L’ECONOMIA DI GUERRA. INTANTO, IN TOSCANA C’È CHI LEGA LA LOTTA PER LA CHIUSURA DELLE BASI MILITARI CON IL SOSTEGNO ALLE PROPOSTE DEI LAVORATORI E DELLE LAVORATRICI DELL’EX-GKN PER LA PRODUZIONE DI PANNELLI SOLARI, LA PROMOZIONE DI COMUNITÀ ENERGETICHE RINNOVABILI E LA COSTRUZIONE DI CARGO BIKE, GRAZIE ANCHE A PROGETTI DI AZIONARIATO POPOLARE Nessuna sostenibilità nell’economia di guerra  A fianco della GKN per un’economia di Pace e la chiusura delle basi militari a partire da Camp Darby Da diversi anni l’umanità è di fronte a una vera e propria sfida per la sopravvivenza: la transizione ecologica. Con l’Agenda 2030 l’ONU ha impegnato sin dal 2015 tutti i paesi del mondo a indirizzare i loro modelli economici e sociali verso la sostenibilità, cioè a rendere le attività umane meno impattanti sulla natura adottando l’economia circolare, riducendo l’impiego delle energie fossili, tutelando la biodiversità, razionalizzando l’uso delle risorse. Da molto meno tempo, però, gran parte dei paesi del mondo – purtroppo l’Unione Europea in testa – hanno abbracciato l’economia di guerra, si stanno impegnando cioè a reindirizzare i propri modelli economici e sociali verso un massiccio riarmo e verso la preparazione dei conflitti armati. Quello che non dicono è che questi due indirizzi non solo non sono compatibili, ma sono opposti tra loro. Nonostante questo l’Italia è uno dei paesi partecipa con maggior convinzione a questa irresponsabile corsa al riarmo e alla guerra: se il ministro delle imprese e del Made in Italy D’Urso ha prontamente proposto alle aziende della filiera di “diversificare e riconvertire le proprie attività verso settori ad alto potenziale di crescita come la difesa, l’aerospazio, la blue economy, la cybersicurezza” quello all’Economia Giorgetti gli ha fatto eco ribadendo che “si parla moltissimo della riconversione dell’automotive al sistema della difesa, non si può ignorare che la spesa per la difesa e gli investimenti della difesa hanno anche una ricaduta in termini di crescita economica”. In questo clima guerrafondaio appare lontanissimo l’ottobre del 2022, quando il governo finanziava con 750 milioni di euro, all’interno del fondo per l’automotive, il sostegno e la promozione della transizione verde. Di tutti questi incentivi non un solo euro è stato destinato alla riapertura della ex-GKN in crisi dal luglio del 2021 ma, nel momento stesso in cui aprivano una vertenza contro i licenziamenti illegittimi, i lavoratori e le lavoratrici della fabbrica si sono mobilitati e hanno realizzato un piano di riconversione industriale dal basso con il supporto di accademici e di una comunità larga che ha condiviso conoscenze e necessità per immaginare un futuro diverso. Sostenibile, appunto, orientato verso la riconversione ecologica. Bisogna aggiungere che con la legge regionale sui Consorzi di sviluppo industriale oggi abbiamo tutti gli strumenti per il recupero dello stabilimento di Campi Bisenzio, ma affinché questo possa avvenire serve anche la volontà politica di creare il consorzio, quella di attuare la legge senza snaturare il progetto del collettivo di fabbrica e soprattutto servono i finanziamenti, soprattutto pubblici, che completino quanto raccolto dalla campagna di azionariato popolare. Ciò dovrebbe anzi avvenire all’interno di un coerente e convinto intervento dello Stato mirato, ben oltre lo specifico caso della GKN, a una riconversione industriale ecologica al livello nazionale. Al contrario lo spettacolo cui siamo di fronte è quello di uno Stato che non trova altra via se non quella di minacciare l’uso della forza per affrontare una questione squisitamente sociale, cercando di risolvere i conflitti in maniera violenta piuttosto che trovare mediazioni. È infatti proprio all’interno di un’ottica di riarmo e di preparazione alla guerra, e in nome di una pretesa e improbabile “difesa nazionale”, che si espropriano i terreni e si pensa a derogare a qualsiasi vincolo di compatibilità ambientale per costruire strutture e infrastrutture belliche. Tutto questo significa che oggi in Toscana sostenere l’ex-GKN significa anche sostenere un modello di sviluppo rispettoso dell’ambiente, praticato dal basso, seguendo le necessità della comunità e del territorio e in maniera socialmente accettabile. Scegliendo con determinazione un’economia di pace e di sostenibilità. È una scelta che si contrappone automaticamente a chi vuole investire nell’economia di guerra, a chi vuole cioè rafforzare l’hub logistico-militare toscano nel quale vengono gettati decine di milioni di euro per potenziare il trasporto di armi dagli Stati Uniti verso il Medio Oriente mentre si blatera di una fantomatica prontezza per la guerra globale e delle minacce dello “straniero”. Noi ribadiamo invece con forza che la vera, grande emergenza da affrontare è quella della crisi climatica. Riaprire la fabbrica e chiudere le basi militari sono le due facce della stessa medaglia, due azioni finalizzate a uscire dalla crisi climatica e sociale che oggi attanaglia sia il nostro paese sia l’intero pianeta e mette a repentaglio il futuro dell’umanità. Azioni che si pongono l’ambizioso ma indispensabile obiettivo di andare in controtendenza, oltre tutto, rispetto a indicazioni dell’Unione Europea sulla necessità di preservare e recuperare il patrimonio naturale che divengono sempre più timide e deboli sotto gli attacchi dei governi nazionale e dalle lobby delle multinazionali. Azioni che si pongono l’obiettivo di contrastare la linea prevalente di investire risorse aumentando il debito pubblico in deroga a ogni vincolo di bilancio, per seguire il piano di riarmo europeo che si accompagna all’irresponsabile richiesta della Nato di aumentare le spese militari ad almeno il 5% del Prodotto interno lordo. Tutto questo finisce col disegnare uno scenario in cui l’economia civile scompare dall’orizzonte della discussione, si delinea una vera macelleria sociale a causa dei tagli draconiani alle altre voci di bilancio, la transizione ecologica viene rimessa nel cassetto e l’idea di elaborare un piano industriale nazionale che migliori le condizioni di vita delle persone senza esacerbare le devastanti alterazioni dell’ambiente prodotte dal nostro modello di consumo non è presa neppure in considerazione. È urgente insomma invertire questa rotta incentivando le aziende a convertirsi in aziende di pace. La proposta dei lavoratori e delle lavoratrici dell’ex-GKN va precisamente in questa direzione ponendosi l’obiettivo di ricollocare la fabbrica nel settore della transizione energetica da una parte con la produzione di pannelli solari e quindi la promozione di CER (comunità energetiche rinnovabili) e dall’altra realizzando cargo bike per un approccio diverso alla mobilità nelle nostre città paralizzate e soffocate dalle automobili. Una proposta di pace, una proposta di riconversione ecologica ma che ha al tempo stesso il merito di essere una proposta infinitamente più razionale dal punto di vista economico rispetto a quelle dell’economia di guerra: secondo un report di Greenpeace, un miliardo di euro investito nel militare crea 3.000 posti di lavoro rispetto ai 14.000 crati da investimenti in educazione, ai 12.000 investiti in sanità e ai 10.000 nella tutela ambientale. E se le armi creano solo morte, l’educazione, la sanità e l’ambiente creano anzitutto vita. Tutto questo conferma che le scelte disarmanti sono le sole morali e razionali e che è necessario sostenere al tempo stesso l’ex-GKN e chiudere Camp Darby, polveriera degli Stati Uniti in Europa e simbolo di un’occupazione militare che minacciala pace mondiale difendendo gli interessi economici dell’élite finanziaria globale. È ora di scegliere l’interesse delle persone. Per questo l’11 e il 12 luglio saremo a fianco del Collettivo di Fabbrica per il concerto anniversario Resistere e Ri-Esistere e alla terza assemblea dell’Azionariato Popolare e la settimana successiva insieme alla rete Stop Rearm Europ presidieremo Camp Darby per chiederne l’immediata riconversione a uso civile. -------------------------------------------------------------------------------- Una città in comune è una rete di cittadini e cittadine nata a Pisa intorno ai temi della giustizia sociale, dell’ambiente e della pace -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Cominciamo dall’ex-GKN proviene da Comune-info.
Contro la guerra
-------------------------------------------------------------------------------- pixabay.com -------------------------------------------------------------------------------- Un libro importante, scaricabile dal sito web di “Sbilanciamoci!” ricostruisce la provenienza storico-politica del disastro mondiale e compie un’operazione di verità sul folle riarmo dell’Europa, sostenuto dalla nauseante fanfara dell’informazione mainstream che continua a blaterare di “difesa europea” e di minacce di invasione russa tacendo sui crimini di guerra di Netanyhau e sulla volontà politica di far durare all’infinito la guerra d’Ucraina. L’e-book si chiama Europa a mano armata e consta di 21 contributi di attiviste e attivisti, volontari delle 51 ONG che affluiscono alla meritoria iniziativa di “Sbilanciamoci!”, a cui collaborava Rossana Rossanda e che oggi vede tra le eminenti collaborazioni quella di Luciana Castellina, Giulio Marcon ideatore e decennale combattente per la pace, Giorgio Beretta, Gianni Alioti, Futura D’Aprile che ha curato il testo con arte, Guglielmo Ragozzino, Paolo Andruccioli, Raul Caruso, Martin Köler, Paolo Maranzano, Francesco Vignarca, Franco Padella, Mario Pianta, Rachele Gonnelli, Farah Al Attab, autore di un puntuale articolo su Gaza divenuta inabitabile per i prossimi decenni, Federica Frazzetta, Paolo Imperatore, Sergio Bassoli. Completano il regesto delle voci, un articolo del 1991 del grande Alex Langer, artefice dell’ecologismo e del pacifismo radicale negli scorsi anni Ottanta e Novanta, il manifesto degli scienziati contro il riarmo che ha rappresentato una delle prime iniziative pubbliche contro il delirio eurobellicista, il manifesto della campagna “Ferma il riarmo!” della Fondazione Perugia-Assisi per la Cultura della Pace, Geenpeace e della Rete Italiana Pace e Disarmo, e il manifesto “Stop rearm” che ha animato le manifestazioni del 21 giugno contro gli 800 miliardi voluti da von der Layen. L’e-book estende lo sguardo sul paradigma della guerra ed è uno sguardo che, a differenza della maggior parte dei miopi analisti della geopolitica, più o meno improvvisati, più o meno atlantisti e promotori dell’infame propaganda sulla necessità di difesa e sicurezza delle popolazioni, osserva l’attuale panorama del riarmo cogliendone la provenienza storico-politica. Perché di questo c’è bisogno, allargare le ragioni forti del No alla guerra e alle politiche di morte alla storia dell’Europa che non può schiacciarsi sulle fobie antisociali dei “moderati” guerrafondai e delle destre razziste e neonaziste. Castellina ricorda anzitutto che l’allargamento dell’Unione Europea e della NATO negli anni ’90 non poteva che essere percepito come una minaccia da parte della Russia, che si è trovata circondata dalle basi militari dell’alleanza. La stessa adesione dei paesi dell’est Europa è stata raccontata come un successo, ma non è così. La divisione e l’ingiustizia sociale ed economica al loro interno è enorme perché la condizione che è stata loro imposta per l’adesione alla UE è stata la rapida trasformazione in un’economia di mercato con la privatizzazione di tutto – a beneficio di un ceto che un tempo avremmo definito “compratore” – facendo perdere a molti casa, lavoro e servizi pubblici. Tutto questo ha preparato il terreno per le tensioni sociali, il risveglio di identità etniche, nazionalismi e separatismi. Giulio Marcon ricorda che tra la metà degli scorsi anni Settanta e i primi Ottanta nasceva un movimento europeo che chiedeva un’Europa di pace dall’Atlantico agli Urali. Con la conferenza di Helsinki da cui nacque l’OCSE (Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione Europea) in piena guerra fredda, statisti del calibro di Olof Palme e Willy Brandt avanzavano proposte per costruire un’Europa di pace e un dialogo verso l’est europeo e il Segretario di Stato vaticano Mons. Casaroli era protagonista di una fitta rete di contatti con i governi dei paesi del Patto di Varsavia per favorire il disgelo tra i blocchi. Proprio in quegli anni – contro il riarmo atomico con l’installazione dei missili nucleari a medio raggio SS20 nei paesi del Patto di Varsavia e dei Pershing e Cruise nei paesi della NATO, i movimenti pacifisti si riunivano nella convenzione END (European Nuclear Disarmament) per confrontarsi e discutere le iniziative comuni. Oggi l’Europa rimette la sua politica estera ad un Alto Rappresentante inadeguato come Kaja Kallas, ex premier dell’Estonia, un paese che ha la stessa popolazione dell’Abruzzo (1,3milioni di persone, mentre l’Unione europea ne ha 450milioni) e che ha da poco approvato una legge per limitare il voto alle elezioni alla minoranza russofona. Non proprio la persona giusta per avere a che fare con Putin. Infatti, è assurdo che l’Europa non abbia mai provato ad aprire un canale di comunicazione con la Federazione Russa, crogiolandosi nell’illusione – pericolosa e foriera di una possibile escalation – che l’unica soluzione possibile fosse “vincere la guerra” sul campo. Ma, come scrive Ragozzino e come da tempo insiste il fenomenale atlante delle guerre, ci sono circa 60 guerre in corso nel mondo. Per questo Bunker Swiss, impresa elvetica che produce con successo difese contro ogni sorta di guerra o di altri gravi disagi per le persone, soprattutto svizzere, ma non solo, per consentire loro di mettere al sicuro vite e beni nelle situazioni di pericolo, propone modi e impianti per proteggere vite e ricchezze degli abbonati: bauli di acciaio rinforzato, cantine sicure fornite di caldo e freddo, aria, acqua corrente, servizi igienici e scatolette a volontà. E perfino interi fortini attrezzati. Poi ci sono le banche di guerra. Tra 2020 e 2022 le istituzioni finanziarie – comprese le banche maggiori, le grandi compagnie di assicurazione, i fondi d’investimento, i principali fondi sovrani e talune istituzioni pubbliche – hanno sostenuto l’industria della difesa con un esborso di almeno 1.000 miliardi di dollari. Tra gennaio 2021 e agosto 2023 valori di almeno 820 miliardi di dollari sono stati messi a disposizione da parte di 287 istituzioni di grande spicco alle 24 imprese pubbliche implicate nella fabbricazione di armi nucleari. Quanta distanza c’è tra questo mondo e quello possibile alla metà del XIX secolo, in piena egemonia imperiale inglese? Lo racconta un aneddoto: «Le armi da fuoco furono introdotte in Giappone nel 1543 da tre portoghesi (pirati? soldati di ventura? mercanti?) che andavano a caccia di anitre. Un signorotto locale comprò le spingarde e si fece insegnare ad usarle”. (…) Quando nel 1853 arrivò in Giappone l’ammiraglio Perry e fu firmato il trattato di Kanagawa che segnò l’apertura del Giappone al commercio estero e all’influenza occidentale, di armi da fuoco nemmeno l’ombra!». D’Aprile, Kohler, Maranzano, Pianta e Strazzari osservano come è cambiata la politica dell’UE rispetto ai presupposti di costituzione della Comunità Europea. Dalla “dichiarazione Schuman” del 1950, che annunciava un piano per mettere in comune i mercati del carbone e dell’acciaio tedeschi e francesi, il processo di integrazione europea può essere visto come un percorso che ha avuto origine dal naufragio del primo tentativo di creare una Comunità europea di difesa nel 1954, responsabile unico la Gran Bretagna. Con la fine della guerra fredda, nel processo di definizione della sua politica estera e di sicurezza, l’Unione Europea si è orientata verso una politica estera più forte. Considerando i trattati dell’UE, va ricordato che il trattato di Maastricht del 1992 ha introdotto la questione della difesa come obiettivo di politica estera, prevedendo alcune capacità operative attraverso mezzi civili e militari. L’articolo 42, paragrafo 7, del trattato di Lisbona del 2007 (clausola di assistenza reciproca), obbliga gli stati membri ad assistersi con tutti i mezzi disponibili in caso di attacco armato. Tali passi verso una politica di sicurezza non hanno modificato in modo sostanziale i principi secondo cui la difesa è un settore fondamentale della sovranità degli stati membri e che l’unanimità è necessaria per le decisioni in questo campo. Per quanto riguarda il dibattito sulla politica di difesa, un passo importante, scrivono gli autori dello studio, è stata la Dichiarazione franco-britannica di Saint-Malo sulla difesa europea del 1998. Nel dicembre 2003, l’adozione di una strategia di sicurezza ha posto le basi per un approccio multilaterale globale che integra le diverse dimensioni dell’azione esterna come commercio, aiuti e difesa. Nel 2004 è stata poi istituita l’Agenzia europea per la difesa (EDA), per sostenere gli stati membri e il Consiglio nei loro sforzi per migliorare le capacità di difesa. Negli ultimi anni, la pressione per sviluppare un profilo di difesa per l’UE è stata accelerata dall’elezione di Donald Trump nel 2016. Nel corso della sua prima presidenza, Trump ha messo in discussione il futuro della NATO in Europa e le politiche transatlantiche. Per tutta risposta, nel 2016, il Presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker ha lanciato la “Strategia globale dell’UE” in materia di sicurezza e difesa internazionalee ha istituito nuovi programmi di ricerca e sviluppo industriale dei sistemi militari, finanziati dal bilancio comunitario sulla base dell’articolo 173 del Trattato sul funzionamento dell’Unione relativo alla competitività industriale e la cooperazione. Nel 2024 le spese militari nazionali aggregate dei paesi UE della NATO ammontano a più di 40 volte il totale dei fondi per il settore militare stanziati dall’Unione. La nomina per la prima volta di un commissario europeo per la difesa e lo spazio – il lituano Andrius Kubilius – dimostra appieno la centralità della difesa all’interno dell’Unione. L’elezione di Donald Trump a novembre 2024 ha poi gettato un’ombra sul futuro della NATO e delle relazioni USA-UE-Regno Unito; i leader europei, per tutta risposta, hanno spinto per un’accelerazione dell’integrazione e per il rafforzamento della competitività, a partire dal settore della difesa (nelle parole di Kubilius, “spendere di più, spendere meglio, spendere insieme e spendere europeo”). Due sono le questioni importanti che emergono in questo contesto. La prima è il rapporto tra la politica di difesa dell’UE, la strategia globale degli Stati Uniti e la portata e il ruolo della NATO. La seconda è la questione molto delicata delle armi nucleari, visto che il Pentagono parla di un’entrata del mondo in una nuova era nucleare, della presenza di testate statunitensi in diversi paesi dell’Unione e dello status della Francia come potenza atomica. Nella primavera del 2025, la nuova Commissione europea guidata da Ursula von der Leyen ha elaborato una strategia di ampio respiro. Presentato a marzo, il piano “ReArm Europe”(successivamente ribattezzato “Readiness 2030”) propone di mobilitare oltre 800 miliardi di euro in spese per la difesa attraverso la flessibilità fiscale nazionale, un nuovo strumento di prestito da 150 miliardi di euro (SAFE) per gli appalti congiunti, il potenziale riorientamento dei fondi di coesione, la mobilitazione di capitali privati e un maggiore sostegno da parte della Banca europea per gli investimenti. La proposta si basa sull’articolo 122 del trattato sull’Unione europea, che consente di derogare all’unanimità. Molti analisti hanno richiamato l’attenzione sul fatto che il piano apre in ultima analisi la strada al riarmo nazionale in un momento in cui i partiti nazionalisti più aggressivi stanno dimostrando di essere in grado di influenzare le decisioni dei governi, se non addirittura di ottenere la maggioranza elettorale. Infatti Roul Caruso osserva che nonostante questi sviluppi, la decisione in materia di spesa militare rimane essenzialmente una prerogativa nazionale. L’escalation del conflitto tra Russia e Ucraina nel 2022 non ha determinato un’accelerazione sostanziale del processo di integrazione e cooperazione in ambito UE. Di fatto, l’aumento in corso della spesa militare rischia di amplificare la frammentazione esistente, consolidando un modello di difesa fondato sulla semplice somma dei singoli sistemi nazionali, all’interno dell’architettura NATO. Un’ulteriore criticità connessa all’attuale accelerazione della domanda di armamenti riguarda la crescente dipendenza dei paesi europei da fornitori extra-UE, in particolare dagli Stati Uniti. Tra la primavera del 2022 e giugno 2023, il valore complessivo delle acquisizioni militari annunciate dai paesi dell’Unione aveva superato i 100 miliardi di euro, di cui ben il 78% destinato a fornitori esterni all’UE. Di questa quota, l’80% è riconducibile agli Stati Uniti, seguiti dalla Corea del Sud (13%), dal Regno Unito e da Israele (3%) e da altri paesi (1%). Un effetto prevedibile del riarmo europeo potrebbe essere l’aumento della disuguaglianza tra i paesi dell’Unione. Riemerge infatti con forza la distinzione tra stati ricchi e poveri: se la sicurezza e la deterrenza si basano prevalentemente sulla disponibilità di risorse militari, allora i paesi più ricchi godranno inevitabilmente di un vantaggio rispetto a quelli con minori capacità finanziarie. Come evidenziato da molti dei saggi dell’e-book, gran parte delle decisioni politiche in materia di difesa sono ancora guidate da una concezione della sicurezza ispirata alla logica della deterrenza tipica della Guerra Fredda. Secondo questa impostazione, un incremento della spesa militare da parte di uno stato costituirebbe un segnale credibile della propria capacità e volontà di difesa, dissuadendo potenziali aggressori. Questa visione, tuttavia, è eccessivamente semplificata e statica. Le decisioni in ambito militare sono in realtà interdipendenti e dinamiche: un aumento delle spese militari da parte di uno stato tende a innescare risposte simili da parte di altri, specialmente se non appartenenti alla stessa alleanza. Ciò alimenta una spirale di riarmo che può sfociare in una corsa agli armamenti, un processo per sua natura instabile e rischioso. A complicare ulteriormente il quadro vi è la trasformazione del sistema internazionale. La deterrenza classica presupponeva un mondo bipolare, dove gli equilibri tra due attori principali – Stati Uniti e URSS – potevano essere relativamente stabili. Oggi il numero degli attori dotati di capacità militari significative è aumentato, rendendo molto più difficile sia la gestione dell’informazione sia la previsione dei comportamenti. In conclusione il riarmo europeo attualmente in corso non sembra contribuire in modo efficace alla sicurezza e alla pace. Al contrario, potrebbe generare maggiore insicurezza, favorendo una corsa globale agli armamenti. Nel 2024 la spesa militare dei paesi UE ha toccato la cifra record di 2718 miliardi di dollari e come scrive Gianni Alioti il complesso militare-industriale cresce, in dimensione e potere, in tutti i crocevia del mondo. Il rapporto dell’Area Studi Mediobancasui dati finanziari di 40 multinazionali che operano nel comparto militare, evidenzia che i maggiori beneficiari degli investimenti dei mercati finanziari sono le multinazionali europee del settore. Il momento chiave che ha accelerato questa tendenza si è verificato a fine febbraio, quando le crescenti tensioni geopolitiche e la pressione USA sugli alleati europei affinchè rafforzassero autonomamente le proprie capacità nella difesa ben oltre la soglia minima del 2% del PIL, hanno spinto la Commissione Europea e il Consiglio Europeo a portare l’asticella dei singoli Stati al 3 o 4% (fuori dai vincoli di bilancio) e di destinare 150 miliardi di euro del bilancio UE alle spese per armamenti. Il 3 marzo tutte le aziende del settore quotate in Borsa hanno registrato in un solo giorno un balzo straordinario: BAE Systems ha guadagnato il 15%, Leonardo il 16%, Thales il 16%, Rheinmetall il 14% e Saab il 12%. La prospettiva di una pace in Ucraina, secondo gli analisti, potrebbe causare un temporaneo ribasso anche brusco (fino a -20% sulle azioni delle aziende della difesa), ma le politiche di riarmo degli stati, gli altri conflitti armati e le tensioni internazionali tra le potenze mantengono alto l’interesse dei mercati finanziari a investire nei titoli dell’industria aerospaziale e della difesa. A fronte dello stratosferico aumento dei profitti delle multinazionali della morte, la questione delle risorse da destinare alle spese militari impone la drastica riduzione delle spese sociali e la raccolta di risorse nella grande area del risparmio privato. Il Libro Bianco della Difesa parla chiaro: si introduce un nuovo strumento finanziario dedicato a sostenere gli investimenti degli stati membri dell’Unione nel settore della Difesa, Azione per l’Europa (Safe), che servirà per elargire prestiti agli stati membri per un massimo di 150 miliardi di euro. Secondo i calcoli della Commissione europea i cittadini del vecchio continente de- tengono una quantità significativa di risparmio, pari a quasi il 15% del reddito disponibile (dati 2023). Ma il 31% del risparmio, pari a 11.630 miliardi di euro (di cui 1.580 miliardi in Italia), è in contanti e in depositi a basso rendimento. Così, commenta la Commissione, «senza una maggiore partecipazione ai mercati dei capitali, i cittadini Ue si lasciano sfuggire le opportunità di creare ricchezza attraverso un possibile aumento dei rendimenti dei risparmi a lungo termine». I risparmi vanno dunque indirizzati. E in questo momento l’Europa pensa a spingerli verso l’industria delle armi e i sistemi di difesa. Si introduce quindi un altro strumento, l’Unione del risparmio e degli investimenti (Siu) che dovrebbe contribuire a convogliare ulteriori investimenti privati verso la difesa. La Commissione europea sta progettando anche una serie di misure per smuovere i risparmi bancari dei cittadini e indirizzarli verso fondi di investimento e acquisto di azioni o obbligazioni nel campo dell’industria bellica. Come ha segnalato l’agenzia Bloomberg, con l’aria che tira anche parecchi fondi-pensione europei hanno deciso di rivedere le loro politiche di esclusione dei produttori di armi dai possibili investimenti. Ad esempio, il più grande fondo pensione europeo, Stichting Pensioenfonds ABP, che raccoglie i contributi degli insegnanti olandesi e di altri settori dei lavoratori pubblici, ha fatto sapere di avere già importanti investimenti nell’industria delle armi, ma di essere pronto anche ad aumentarli in supporto al piano Ue. Se dunque non si estenderà un movimento europeo di disarmo e diserzione e se non si alimenteranno proteste popolari contro il riarmo, condividendo con le tendenze contrarie alla corsa agli armamenti in Spagna, in Belgio e in Slovacchia, strategie e pratiche di contrasto al warfare, sarà impossibile mantenere aperti i già esigui spazi di agibilità politica di resistenza alle micidiali tecnologie di governo planetario delle popolazioni. -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Contro la guerra proviene da Comune-info.
Mezzo mondo come Gaza?
Come sarà il mondo di domani? Gran parte di esso, oltre la metà, sarà come è adesso Gaza e come era stata, ormai quasi un secolo fa e oltre, gran parte della comunità ebraica europea. Si sta avverando la tremenda profezia di Primo Levi: è successo, può succedere ancora. Intere popolazioni, giudicate superflue o dannose, si ritroveranno rinchiuse entro confini invalicabili, senza poter andare altrove perché nessuno le vuole, condannate allo sterminio con bombardamenti, caccie all’uomo, o per fame, sete, malattie non curate, accampate in territori lunari perché tutto quello che avevano deve essere distrutto per comprometterne la sopravvivenza. Gaza – come ha rilevato Ida Dominejanni – è un esperimento per abituare i popoli a convivere con lo sterminio altrui e ad accettarlo come inevitabile; proprio come i governi dell’Unione Europea e degli Stati Uniti stanno abituando anno dopo anno i loro cittadini – noi – a convivere e ad abituarsi allo stillicidio di rastrellamenti, deportazioni, annegamenti, morti, torture, violenze di ogni genere inflitte alla “genti in cammino” (people on the move) che cercano di abbandonare le loro terre di origine perché lì la vita è diventata impossibile, ma che nessun altro Paese accetta, se non per il tempo necessario a spremere dai loro corpi, dalle loro famiglie, dalle loro vite, tutto quello di cui è ancora possibile appropriarsi. Fantapolitica? No, semplice previsione di quello che non vogliono farci vedere i nostri governanti, i media che li assecondano, gli accademici e gli intellettuali che chiudono gli occhi. Entro la fine del secolo – ne abbiamo già consumato un quarto – più di metà della Terra sarà inabitabile: qualunque provvedimento venga preso oggi, i ghiacci delle calotte polari e dei ghiacciai continueranno a sciogliersi, il livello del mare a crescere e gran parte delle terre costiere, con il loro entroterra, verranno sommerse. I fiumi cesseranno di scorrere regolarmente, alternando piene devastanti a periodi di siccità, i raccolti continueranno a soffrirne, le foreste a bruciare senza acqua per spegnerle, le epidemie a imperversare. Crisi climatica e ambientale e migrazioni sono strettamente connesse: più si faranno sentire gli effetti della prima, destinati a crescere, più il numero dei profughi ambientali aumenterà in modo esponenziale. Ad accrescerne gli effetti concorrono poi le guerre a cui i governi di tutto il mondo stanno destinando i fondi che hanno negato e continuano a negare alla “transizione” (in realtà, alla conversione ecologica, che non è solo un processo tecnico ed economico, ma anche e soprattutto culturale, sociale, morale e democratico e che per questo viene osteggiata con sempre maggior ipocrisia). Gaia Vince (Il secolo nomade, Bollati Boringhieri, 2023) e Parag Khanna (Il movimento del mondo, Fazi, 2023), due studiosi che hanno cercato di guardare il futuro, concordano nel delineare un panorama come questo, ma loro sono ottimisti. Vince immagina che metà della popolazione mondiale, in fuga dalle terre di origine, troverà ospitalità nelle aree subartiche del pianeta, rese fertili e praticabili dal riscaldamento globale; le migrazioni giovano sia a chi le fa che a chi le accoglie, sostiene. Inoltre, tra un secolo la geo-ingegneria potrà restituire poco per volta vivibilità al pianeta devastato. Khanna, altrettanto fiducioso nei benefici della tecnologia, sostiene che essa – grazie soprattutto ad aria condizionata, colture idroponiche, desalinatori, energie rinnovabili e molto denaro – creerà isole vivibili anche in aree desertiche, énclave aperte alle persone dotate di professionalità e spirito di iniziativa, provenienti da tutte le parti del mondo. Per tutti gli altri, quelli non qualificati, la recuperata vivibilità delle aree subartiche offrirà comunque l’opportunità di una vita da schiavi. Nessuno dei due prende però in considerazione che l’alternativa possa essere invece uno scenario “alla Gaza”. Ma questo è. Come pensiamo che possano sopravvivere in territori devastati dalla catastrofe climatica e ambientale le popolazioni che li abitano oggi? Dove pensiamo che possano trasferirsi, senza essere respinti, tutti coloro che “a casa loro” non potranno più vivere? O addirittura che una casa loro non l’avranno più, perché sommersa dalle acque, o bruciata dalla siccità o dagli incendi? E come pensiamo che reagiranno i governi dei Paesi – “sviluppati” o no che siano – nei quali cercheranno rifugio quelle popolazioni tutte intere, se già ora, di fronte all’arrivo alla spicciolata delle avanguardie di quelle genti in cammino, i governi degli Stati forti mettono in atto politiche di respingimento basate sempre più sugli strumenti e le modalità della guerra? La vera guerra a cui ci stanno preparando. Se proiettate su uno scenario di lungo periodo – quello in cui, diceva Keynes, siamo tutti morti – le misure per respingere i migranti adottate oggi dai governi appaiono sì ciniche e spietate, ma anche risibili e inadeguate. Ma in realtà fungono da scuola per addestrare tutti noi ad accettare come normali quelle politiche di sterminio: esattamente come ci succede per Gaza. Ovviamente tutto questo ha delle ripercussioni anche sugli Stati che “si difendono dall’invasione” dei profughi: militarizzazione, sospensione o abolizione di diritti e welfare, violazione delle convenzioni, razzismo di Stato e fascismo. Gli Stati Uniti di Trump stanno aprendo la strada a tutti gli altri Stati, retti da tempo da governanti che aspettavano solo di dovergli “baciare il culo”. D’altronde la strada è quella anche senza Trump. Di fronte a prospettive del genere, purtroppo evidenti, l’inerzia nei confronti della crisi climatica e ambientale mostrata dai nostri governanti – tutti proiettati a combatterne le conseguenze e non le cause – ma anche quella dei popoli, cioè di noi tutti, sembra paradossale. Ma si spiega con il senso di impotenza che tutti – governi e forze politiche comprese – avvertono anche se cercano in tutti i modi di non prenderne atto. E’ la dismisura tra le dimensioni di questi processi e la capacità di agire di una popolazione atomizzata, senza riferimenti culturali, sociali e politici condivisi, se non quelli “di piccola e piccolissima taglia”: le mille associazioni e comitati a cui molti di noi partecipano senza trovare alcun riscontro nel mondo della politica. Potremmo però indirizzarle meglio, quelle pratiche, per costruire le ridotte da cui affrontare il futuro feroce che incombe: rendere il più possibile resilienti e vivibili i territori che abitiamo, mostrare che l’accoglienza – anche su scala ridotta – può tradursi in benefici per tutti, far conoscere e valorizzare le esperienze positive, battersi in tutti i modi per il disarmo. Troppo poco? E che altro, per ora? Guido Viale