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I peggiori nemici degli ebrei
-------------------------------------------------------------------------------- Vicolo Luretta, Bologna -------------------------------------------------------------------------------- Il 29 luglio il Parlamento europeo ha respinto la proposta di sospendere il finanziamento delle startup israeliane. Si tratta di startup che preparano genocidi per il futuro, in quanto si occupano in gran parte di security. Continuiamo a finanziare il genocidio, perché come dice Friedrich Merz, gli israeliani fanno il lavoro sporco per noi, cioè sono i nostri Sonderkommando, aguzzini colonialisti alle dipendenze del razzismo sistemico europeo. Ma se siamo forti con i deboli, e assistiamo compiaciuti al genocidio dei popoli colonizzati, non smettiamo di piegarci davanti ai forti. Gli Stati Uniti hanno spinto l’Ucraina a una guerra che ha distrutto quel popolo (è di oggi la notizia che i sessantenni possono andare a combattere perché ormai gli uomini di quel paese sono decimati). L’Unione Europea ha assecondato la provocazione statunitense, che aveva come finalità principale la rottura del legame economico tra Germania e Russia. Poi il presidente del paese cui siamo sottomessi è cambiato. E allora Jack Vance è venuto a Monaco a dirci che gli europei gli fanno schifo, che l’Ucraina merita di morire e che il suo paese se ne fotte delle conseguenze della guerra che il suo paese ha provocato. Ma gli europei fanno finta di non capire, occorrerebbe uno psicoanalista per spiegarci perché. Mentre la razza bianca declinante ha scatenato una guerra globale contro i popoli del sud migrante, la guerra inter-bianca è in pieno svolgimento. Pare che il fascista Putin la stia vincendo, pare che il fascista Trump sia indispettito. Ma quel che è certo è che gli europei investiranno somme enormi per comprare armi da Trump, che nel frattempo impone dazi del 15% e pretende che le aziende high tech non paghino le tasse, ottenendo piena soddisfazione dalla signora Ursula. Il 29 luglio in una stazione di servizio del Nord Italia è stata aggredita una famiglia di turisti che portava la kippah, segno di appartenenza ebraico. Anche il mio amico e compagno Moni Ovadia porta la kippah. Anche l’editore brasiliano dei miei libri, Peter Pal Pelbart, probabilmente in questo momento gira con una kippah per le strade di Sao Paulo. Corre il rischio di essere aggredito da una folla di squilibrati fascistoidi? Certo che sì. Da sempre gli ebrei hanno dovuto fare i conti con la violenza razzista. A loro tocca la sorte che tocca (in misura assai maggiore) ai migranti di origine africana o nord-africana che sono facilmente riconoscibili anche se non portano la kippah. Il problema è che per le comunità ebraiche di tutto il mondo si sta avvicinando uno tsunami di odio e di violenza, pari all’immenso orrore che suscita il Sionismo nella sua fase genocidaria. Lo Stato di Israele nacque abusivamente con uno sterminio e deportazioni di massa che la comunità internazionale non ebbe la forza e neppure la volontà di fermare, perché i sionisti promettevano di creare un luogo sicuro per gli ebrei. Gli europei, responsabili diretti o indiretti dell’Olocausto, non potevano fare obiezioni. Inghilterra e Stati Uniti videro nella formazione di quello Stato uno strumento per controllare l’area petrolifera mediorientale. Ma oggi appare evidente che lo Stato di Israele ha costituito fin dal suo inizio una continuazione del Terzo Reich hitleriano. Israele è certamente il luogo più pericoloso per un ebreo, oggi. Ma quel che scopriremo presto è il fatto che le politiche di questo Stato, illegale e colonialista e disumano, sono destinate a riattivare l’odio per gli ebrei in ogni zona del mondo. La crisi psicotica che sta travolgendo Israele rende quel popolo assetato di sangue, e stravolge la mente di coloro che sono responsabili dell’orrore della fame della sete dello sterminio che si diffonde a pochi chilometri da casa loro. Intanto i suicidi nell’Israeli Defence Force si moltiplicano. I dati che possiamo trovare su Haaretz di ieri sono abbastanza chiari, anche se probabilmente non rendono con realismo le dimensioni del fenomeno. E soprattutto, pur fornendo informazioni sul numero di soldati che si uccidono durante il servizio, Israele non fornisce nessuna informazione su coloro che si uccidono dopo essere tornati a casa. Quanti ventenni israeliani, dopo avere sparato in faccia a un bambino di otto anni che stava chiedendo di poter avere un po’ di cibo, continuano a fare il loro sporco lavoro (così lo ha chiamato il cancelliere tedesco Merz) fin quando, tornati a casa loro, si guardano nello specchio, si fanno orrore e si sparano un colpo nella tempia? -------------------------------------------------------------------------------- Un articolo di Haaretz del 29 luglio: IDF Reservist Who Helped to Identify Fallen Soldiers During Gaza War Dies by Suicide Un articolo di Haaretz del 30 luglio: Netanyahu’s Forever War in Gaza Is Crushing Israel’s Soldiers and Their Families -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo I peggiori nemici degli ebrei proviene da Comune-info.
Contro la guerra
-------------------------------------------------------------------------------- pixabay.com -------------------------------------------------------------------------------- Un libro importante, scaricabile dal sito web di “Sbilanciamoci!” ricostruisce la provenienza storico-politica del disastro mondiale e compie un’operazione di verità sul folle riarmo dell’Europa, sostenuto dalla nauseante fanfara dell’informazione mainstream che continua a blaterare di “difesa europea” e di minacce di invasione russa tacendo sui crimini di guerra di Netanyhau e sulla volontà politica di far durare all’infinito la guerra d’Ucraina. L’e-book si chiama Europa a mano armata e consta di 21 contributi di attiviste e attivisti, volontari delle 51 ONG che affluiscono alla meritoria iniziativa di “Sbilanciamoci!”, a cui collaborava Rossana Rossanda e che oggi vede tra le eminenti collaborazioni quella di Luciana Castellina, Giulio Marcon ideatore e decennale combattente per la pace, Giorgio Beretta, Gianni Alioti, Futura D’Aprile che ha curato il testo con arte, Guglielmo Ragozzino, Paolo Andruccioli, Raul Caruso, Martin Köler, Paolo Maranzano, Francesco Vignarca, Franco Padella, Mario Pianta, Rachele Gonnelli, Farah Al Attab, autore di un puntuale articolo su Gaza divenuta inabitabile per i prossimi decenni, Federica Frazzetta, Paolo Imperatore, Sergio Bassoli. Completano il regesto delle voci, un articolo del 1991 del grande Alex Langer, artefice dell’ecologismo e del pacifismo radicale negli scorsi anni Ottanta e Novanta, il manifesto degli scienziati contro il riarmo che ha rappresentato una delle prime iniziative pubbliche contro il delirio eurobellicista, il manifesto della campagna “Ferma il riarmo!” della Fondazione Perugia-Assisi per la Cultura della Pace, Geenpeace e della Rete Italiana Pace e Disarmo, e il manifesto “Stop rearm” che ha animato le manifestazioni del 21 giugno contro gli 800 miliardi voluti da von der Layen. L’e-book estende lo sguardo sul paradigma della guerra ed è uno sguardo che, a differenza della maggior parte dei miopi analisti della geopolitica, più o meno improvvisati, più o meno atlantisti e promotori dell’infame propaganda sulla necessità di difesa e sicurezza delle popolazioni, osserva l’attuale panorama del riarmo cogliendone la provenienza storico-politica. Perché di questo c’è bisogno, allargare le ragioni forti del No alla guerra e alle politiche di morte alla storia dell’Europa che non può schiacciarsi sulle fobie antisociali dei “moderati” guerrafondai e delle destre razziste e neonaziste. Castellina ricorda anzitutto che l’allargamento dell’Unione Europea e della NATO negli anni ’90 non poteva che essere percepito come una minaccia da parte della Russia, che si è trovata circondata dalle basi militari dell’alleanza. La stessa adesione dei paesi dell’est Europa è stata raccontata come un successo, ma non è così. La divisione e l’ingiustizia sociale ed economica al loro interno è enorme perché la condizione che è stata loro imposta per l’adesione alla UE è stata la rapida trasformazione in un’economia di mercato con la privatizzazione di tutto – a beneficio di un ceto che un tempo avremmo definito “compratore” – facendo perdere a molti casa, lavoro e servizi pubblici. Tutto questo ha preparato il terreno per le tensioni sociali, il risveglio di identità etniche, nazionalismi e separatismi. Giulio Marcon ricorda che tra la metà degli scorsi anni Settanta e i primi Ottanta nasceva un movimento europeo che chiedeva un’Europa di pace dall’Atlantico agli Urali. Con la conferenza di Helsinki da cui nacque l’OCSE (Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione Europea) in piena guerra fredda, statisti del calibro di Olof Palme e Willy Brandt avanzavano proposte per costruire un’Europa di pace e un dialogo verso l’est europeo e il Segretario di Stato vaticano Mons. Casaroli era protagonista di una fitta rete di contatti con i governi dei paesi del Patto di Varsavia per favorire il disgelo tra i blocchi. Proprio in quegli anni – contro il riarmo atomico con l’installazione dei missili nucleari a medio raggio SS20 nei paesi del Patto di Varsavia e dei Pershing e Cruise nei paesi della NATO, i movimenti pacifisti si riunivano nella convenzione END (European Nuclear Disarmament) per confrontarsi e discutere le iniziative comuni. Oggi l’Europa rimette la sua politica estera ad un Alto Rappresentante inadeguato come Kaja Kallas, ex premier dell’Estonia, un paese che ha la stessa popolazione dell’Abruzzo (1,3milioni di persone, mentre l’Unione europea ne ha 450milioni) e che ha da poco approvato una legge per limitare il voto alle elezioni alla minoranza russofona. Non proprio la persona giusta per avere a che fare con Putin. Infatti, è assurdo che l’Europa non abbia mai provato ad aprire un canale di comunicazione con la Federazione Russa, crogiolandosi nell’illusione – pericolosa e foriera di una possibile escalation – che l’unica soluzione possibile fosse “vincere la guerra” sul campo. Ma, come scrive Ragozzino e come da tempo insiste il fenomenale atlante delle guerre, ci sono circa 60 guerre in corso nel mondo. Per questo Bunker Swiss, impresa elvetica che produce con successo difese contro ogni sorta di guerra o di altri gravi disagi per le persone, soprattutto svizzere, ma non solo, per consentire loro di mettere al sicuro vite e beni nelle situazioni di pericolo, propone modi e impianti per proteggere vite e ricchezze degli abbonati: bauli di acciaio rinforzato, cantine sicure fornite di caldo e freddo, aria, acqua corrente, servizi igienici e scatolette a volontà. E perfino interi fortini attrezzati. Poi ci sono le banche di guerra. Tra 2020 e 2022 le istituzioni finanziarie – comprese le banche maggiori, le grandi compagnie di assicurazione, i fondi d’investimento, i principali fondi sovrani e talune istituzioni pubbliche – hanno sostenuto l’industria della difesa con un esborso di almeno 1.000 miliardi di dollari. Tra gennaio 2021 e agosto 2023 valori di almeno 820 miliardi di dollari sono stati messi a disposizione da parte di 287 istituzioni di grande spicco alle 24 imprese pubbliche implicate nella fabbricazione di armi nucleari. Quanta distanza c’è tra questo mondo e quello possibile alla metà del XIX secolo, in piena egemonia imperiale inglese? Lo racconta un aneddoto: «Le armi da fuoco furono introdotte in Giappone nel 1543 da tre portoghesi (pirati? soldati di ventura? mercanti?) che andavano a caccia di anitre. Un signorotto locale comprò le spingarde e si fece insegnare ad usarle”. (…) Quando nel 1853 arrivò in Giappone l’ammiraglio Perry e fu firmato il trattato di Kanagawa che segnò l’apertura del Giappone al commercio estero e all’influenza occidentale, di armi da fuoco nemmeno l’ombra!». D’Aprile, Kohler, Maranzano, Pianta e Strazzari osservano come è cambiata la politica dell’UE rispetto ai presupposti di costituzione della Comunità Europea. Dalla “dichiarazione Schuman” del 1950, che annunciava un piano per mettere in comune i mercati del carbone e dell’acciaio tedeschi e francesi, il processo di integrazione europea può essere visto come un percorso che ha avuto origine dal naufragio del primo tentativo di creare una Comunità europea di difesa nel 1954, responsabile unico la Gran Bretagna. Con la fine della guerra fredda, nel processo di definizione della sua politica estera e di sicurezza, l’Unione Europea si è orientata verso una politica estera più forte. Considerando i trattati dell’UE, va ricordato che il trattato di Maastricht del 1992 ha introdotto la questione della difesa come obiettivo di politica estera, prevedendo alcune capacità operative attraverso mezzi civili e militari. L’articolo 42, paragrafo 7, del trattato di Lisbona del 2007 (clausola di assistenza reciproca), obbliga gli stati membri ad assistersi con tutti i mezzi disponibili in caso di attacco armato. Tali passi verso una politica di sicurezza non hanno modificato in modo sostanziale i principi secondo cui la difesa è un settore fondamentale della sovranità degli stati membri e che l’unanimità è necessaria per le decisioni in questo campo. Per quanto riguarda il dibattito sulla politica di difesa, un passo importante, scrivono gli autori dello studio, è stata la Dichiarazione franco-britannica di Saint-Malo sulla difesa europea del 1998. Nel dicembre 2003, l’adozione di una strategia di sicurezza ha posto le basi per un approccio multilaterale globale che integra le diverse dimensioni dell’azione esterna come commercio, aiuti e difesa. Nel 2004 è stata poi istituita l’Agenzia europea per la difesa (EDA), per sostenere gli stati membri e il Consiglio nei loro sforzi per migliorare le capacità di difesa. Negli ultimi anni, la pressione per sviluppare un profilo di difesa per l’UE è stata accelerata dall’elezione di Donald Trump nel 2016. Nel corso della sua prima presidenza, Trump ha messo in discussione il futuro della NATO in Europa e le politiche transatlantiche. Per tutta risposta, nel 2016, il Presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker ha lanciato la “Strategia globale dell’UE” in materia di sicurezza e difesa internazionalee ha istituito nuovi programmi di ricerca e sviluppo industriale dei sistemi militari, finanziati dal bilancio comunitario sulla base dell’articolo 173 del Trattato sul funzionamento dell’Unione relativo alla competitività industriale e la cooperazione. Nel 2024 le spese militari nazionali aggregate dei paesi UE della NATO ammontano a più di 40 volte il totale dei fondi per il settore militare stanziati dall’Unione. La nomina per la prima volta di un commissario europeo per la difesa e lo spazio – il lituano Andrius Kubilius – dimostra appieno la centralità della difesa all’interno dell’Unione. L’elezione di Donald Trump a novembre 2024 ha poi gettato un’ombra sul futuro della NATO e delle relazioni USA-UE-Regno Unito; i leader europei, per tutta risposta, hanno spinto per un’accelerazione dell’integrazione e per il rafforzamento della competitività, a partire dal settore della difesa (nelle parole di Kubilius, “spendere di più, spendere meglio, spendere insieme e spendere europeo”). Due sono le questioni importanti che emergono in questo contesto. La prima è il rapporto tra la politica di difesa dell’UE, la strategia globale degli Stati Uniti e la portata e il ruolo della NATO. La seconda è la questione molto delicata delle armi nucleari, visto che il Pentagono parla di un’entrata del mondo in una nuova era nucleare, della presenza di testate statunitensi in diversi paesi dell’Unione e dello status della Francia come potenza atomica. Nella primavera del 2025, la nuova Commissione europea guidata da Ursula von der Leyen ha elaborato una strategia di ampio respiro. Presentato a marzo, il piano “ReArm Europe”(successivamente ribattezzato “Readiness 2030”) propone di mobilitare oltre 800 miliardi di euro in spese per la difesa attraverso la flessibilità fiscale nazionale, un nuovo strumento di prestito da 150 miliardi di euro (SAFE) per gli appalti congiunti, il potenziale riorientamento dei fondi di coesione, la mobilitazione di capitali privati e un maggiore sostegno da parte della Banca europea per gli investimenti. La proposta si basa sull’articolo 122 del trattato sull’Unione europea, che consente di derogare all’unanimità. Molti analisti hanno richiamato l’attenzione sul fatto che il piano apre in ultima analisi la strada al riarmo nazionale in un momento in cui i partiti nazionalisti più aggressivi stanno dimostrando di essere in grado di influenzare le decisioni dei governi, se non addirittura di ottenere la maggioranza elettorale. Infatti Roul Caruso osserva che nonostante questi sviluppi, la decisione in materia di spesa militare rimane essenzialmente una prerogativa nazionale. L’escalation del conflitto tra Russia e Ucraina nel 2022 non ha determinato un’accelerazione sostanziale del processo di integrazione e cooperazione in ambito UE. Di fatto, l’aumento in corso della spesa militare rischia di amplificare la frammentazione esistente, consolidando un modello di difesa fondato sulla semplice somma dei singoli sistemi nazionali, all’interno dell’architettura NATO. Un’ulteriore criticità connessa all’attuale accelerazione della domanda di armamenti riguarda la crescente dipendenza dei paesi europei da fornitori extra-UE, in particolare dagli Stati Uniti. Tra la primavera del 2022 e giugno 2023, il valore complessivo delle acquisizioni militari annunciate dai paesi dell’Unione aveva superato i 100 miliardi di euro, di cui ben il 78% destinato a fornitori esterni all’UE. Di questa quota, l’80% è riconducibile agli Stati Uniti, seguiti dalla Corea del Sud (13%), dal Regno Unito e da Israele (3%) e da altri paesi (1%). Un effetto prevedibile del riarmo europeo potrebbe essere l’aumento della disuguaglianza tra i paesi dell’Unione. Riemerge infatti con forza la distinzione tra stati ricchi e poveri: se la sicurezza e la deterrenza si basano prevalentemente sulla disponibilità di risorse militari, allora i paesi più ricchi godranno inevitabilmente di un vantaggio rispetto a quelli con minori capacità finanziarie. Come evidenziato da molti dei saggi dell’e-book, gran parte delle decisioni politiche in materia di difesa sono ancora guidate da una concezione della sicurezza ispirata alla logica della deterrenza tipica della Guerra Fredda. Secondo questa impostazione, un incremento della spesa militare da parte di uno stato costituirebbe un segnale credibile della propria capacità e volontà di difesa, dissuadendo potenziali aggressori. Questa visione, tuttavia, è eccessivamente semplificata e statica. Le decisioni in ambito militare sono in realtà interdipendenti e dinamiche: un aumento delle spese militari da parte di uno stato tende a innescare risposte simili da parte di altri, specialmente se non appartenenti alla stessa alleanza. Ciò alimenta una spirale di riarmo che può sfociare in una corsa agli armamenti, un processo per sua natura instabile e rischioso. A complicare ulteriormente il quadro vi è la trasformazione del sistema internazionale. La deterrenza classica presupponeva un mondo bipolare, dove gli equilibri tra due attori principali – Stati Uniti e URSS – potevano essere relativamente stabili. Oggi il numero degli attori dotati di capacità militari significative è aumentato, rendendo molto più difficile sia la gestione dell’informazione sia la previsione dei comportamenti. In conclusione il riarmo europeo attualmente in corso non sembra contribuire in modo efficace alla sicurezza e alla pace. Al contrario, potrebbe generare maggiore insicurezza, favorendo una corsa globale agli armamenti. Nel 2024 la spesa militare dei paesi UE ha toccato la cifra record di 2718 miliardi di dollari e come scrive Gianni Alioti il complesso militare-industriale cresce, in dimensione e potere, in tutti i crocevia del mondo. Il rapporto dell’Area Studi Mediobancasui dati finanziari di 40 multinazionali che operano nel comparto militare, evidenzia che i maggiori beneficiari degli investimenti dei mercati finanziari sono le multinazionali europee del settore. Il momento chiave che ha accelerato questa tendenza si è verificato a fine febbraio, quando le crescenti tensioni geopolitiche e la pressione USA sugli alleati europei affinchè rafforzassero autonomamente le proprie capacità nella difesa ben oltre la soglia minima del 2% del PIL, hanno spinto la Commissione Europea e il Consiglio Europeo a portare l’asticella dei singoli Stati al 3 o 4% (fuori dai vincoli di bilancio) e di destinare 150 miliardi di euro del bilancio UE alle spese per armamenti. Il 3 marzo tutte le aziende del settore quotate in Borsa hanno registrato in un solo giorno un balzo straordinario: BAE Systems ha guadagnato il 15%, Leonardo il 16%, Thales il 16%, Rheinmetall il 14% e Saab il 12%. La prospettiva di una pace in Ucraina, secondo gli analisti, potrebbe causare un temporaneo ribasso anche brusco (fino a -20% sulle azioni delle aziende della difesa), ma le politiche di riarmo degli stati, gli altri conflitti armati e le tensioni internazionali tra le potenze mantengono alto l’interesse dei mercati finanziari a investire nei titoli dell’industria aerospaziale e della difesa. A fronte dello stratosferico aumento dei profitti delle multinazionali della morte, la questione delle risorse da destinare alle spese militari impone la drastica riduzione delle spese sociali e la raccolta di risorse nella grande area del risparmio privato. Il Libro Bianco della Difesa parla chiaro: si introduce un nuovo strumento finanziario dedicato a sostenere gli investimenti degli stati membri dell’Unione nel settore della Difesa, Azione per l’Europa (Safe), che servirà per elargire prestiti agli stati membri per un massimo di 150 miliardi di euro. Secondo i calcoli della Commissione europea i cittadini del vecchio continente de- tengono una quantità significativa di risparmio, pari a quasi il 15% del reddito disponibile (dati 2023). Ma il 31% del risparmio, pari a 11.630 miliardi di euro (di cui 1.580 miliardi in Italia), è in contanti e in depositi a basso rendimento. Così, commenta la Commissione, «senza una maggiore partecipazione ai mercati dei capitali, i cittadini Ue si lasciano sfuggire le opportunità di creare ricchezza attraverso un possibile aumento dei rendimenti dei risparmi a lungo termine». I risparmi vanno dunque indirizzati. E in questo momento l’Europa pensa a spingerli verso l’industria delle armi e i sistemi di difesa. Si introduce quindi un altro strumento, l’Unione del risparmio e degli investimenti (Siu) che dovrebbe contribuire a convogliare ulteriori investimenti privati verso la difesa. La Commissione europea sta progettando anche una serie di misure per smuovere i risparmi bancari dei cittadini e indirizzarli verso fondi di investimento e acquisto di azioni o obbligazioni nel campo dell’industria bellica. Come ha segnalato l’agenzia Bloomberg, con l’aria che tira anche parecchi fondi-pensione europei hanno deciso di rivedere le loro politiche di esclusione dei produttori di armi dai possibili investimenti. Ad esempio, il più grande fondo pensione europeo, Stichting Pensioenfonds ABP, che raccoglie i contributi degli insegnanti olandesi e di altri settori dei lavoratori pubblici, ha fatto sapere di avere già importanti investimenti nell’industria delle armi, ma di essere pronto anche ad aumentarli in supporto al piano Ue. Se dunque non si estenderà un movimento europeo di disarmo e diserzione e se non si alimenteranno proteste popolari contro il riarmo, condividendo con le tendenze contrarie alla corsa agli armamenti in Spagna, in Belgio e in Slovacchia, strategie e pratiche di contrasto al warfare, sarà impossibile mantenere aperti i già esigui spazi di agibilità politica di resistenza alle micidiali tecnologie di governo planetario delle popolazioni. -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Contro la guerra proviene da Comune-info.
Complici di un genocidio in diretta
Chi rimane indifferente davanti a un genocidio è complice. Di fronte alla distruzione sistematica del popolo palestinese, le nostre istituzioni hanno voltato lo sguardo, coperto gli occhi, tappato le orecchie. Qui, in quest’Aula, il silenzio è assordante. Avete legittimato la violenza coloniale con l’alibi della sicurezza di Israele. Ma quale sicurezza può giustificare l’uccisione di oltre cinquantacinquemila civili e la fame usata come arma? Israele ha superato ogni linea rossa, ha calpestato ogni principio di umanità. Eppure, le porte dell’Unione europea restano aperte, gli accordi in vigore, le forniture militari continuano. Perché? Perché siete complici? Perché Ursula von der Leyen è complice, Kaya Kallas è complice e questo Parlamento è complice? Allora diciamolo apertamente: l’Unione europea ha fallito, è diventata garante dell’impunità israeliana, complice di un genocidio in diretta. Proprio per questo oggi chiedo ciò che avrebbe dovuto essere fatto da mesi: sanzioni immediate contro lo Stato di Israele e sospensione dell’accordo di associazione. Libertà per il popolo palestinese. -------------------------------------------------------------------------------- Testo dell’intervento di Mimmo Lucano alla seduta plenaria del parlamento europeo del 19 giugno. -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE: > La Palestina e la logica coloniale del diritto -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Complici di un genocidio in diretta proviene da Comune-info. -------------------------------------------------------------------------------- Foto di Milano in Movimento --------------------------------------------------------------------------------
Fine dell’Ucraina
-------------------------------------------------------------------------------- Foto di Donne in nero – Bologna -------------------------------------------------------------------------------- La guerra in Ucraina si sta avvicinando alla sua conclusione che, comunque si configuri, non potrà che coincidere con lo sfacelo dell’“ex Repubblica socialista sovietica dell’Ucraina” (prima delle quale uno stato ucraino non era mai esistito ed è bene ricordare che la Crimea che Volodymyr Zelens’kyj non fa che rivendicare fu unita alla Repubblica sovietica ucraina soltanto nel 1954 da Nikita Sergeevič Chruščëv e, secondo il censimento di quell’anno, era popolata dal 72 per cento di russi). Come la classe dirigente europea non ha fatto che ripetere: saremo con l’Ucraina fino alla fine. Ma questa fine non potrà che implicare anche le sorti dell’Europa. Che cosa farà e che cosa dirà l’Europa quando la fine dell’Ucraina, che essa ha contribuito a rendere catastrofica, sarà un fatto compiuto? Secondo la previsione degli osservatori politici più accorti, è probabile che anche l’identità dell’attuale comunità europea, che non ha altra realtà giuridica che quella di un accordo internazionale fra stati, sarà revocata in questione. E questa è l’unica conseguenza positiva che possiamo aspettarci dalla guerra in Ucraina, altrimenti, come tutte le guerre, sciagurata. -------------------------------------------------------------------------------- Pubblicato su Quodlibet (qui con l’autorizzazione della casa editrice). Tra gli ultimi libri di Giorgio Agamben: Quaderni. Volume I (2024), Horkos. Il sacramento del linguaggio (2023), Categorie italiane (2021). -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE QUESTO ARTICOLO DI MASSIMO DE ANGELIS: > Commercio della sicurezza e nuovo ordine mondiale -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE QUESTO ARTICOLO DI PASQUALE PUGLIESE: > Se vuoi la pace… -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Fine dell’Ucraina proviene da Comune-info.
Ultima chiamata
A FINE GIUGNO I CAPI DI GOVERNO DEI PAESI NATO DECIDERANNO NEI DETTAGLI QUANTO SPENDERE NELLA PRODUZIONE DI ARMI E CON QUALE DENARO. SI TRATTA DI RISORSE IMMENSE. L’UE HA GIÀ INVITATO GLI STATI A «METTERE A PUNTO PROGRAMMI EDUCATIVI E DI SENSIBILIZZAZIONE, IN PARTICOLARE PER I GIOVANI, VOLTI A MIGLIORARE LA CONOSCENZA E A FACILITARE I DIBATTITI SULLA SICUREZZA, LA DIFESA E L’IMPORTANZA DELLE FORZE ARMATE…». IL 21 GIUGNO IN TUTTE LE CAPITALI RETI DI ASSOCIAZIONI, COMITATI, GRUPPI PACIFISTI HANNO FINALMENTE SCELTO DI METTERSI ASSIEME PER CERCARE DI FERMARLI. “L’ATTUALE GRUPPO DI COMANDO DELLA UE HA DECISO DI SOPRAVVIVERE A SÉ STESSO E AI SUOI FALLIMENTI MILITARIZZANDO LA SOCIETÀ CIVILE E LA SUA ECONOMIA – SCRIVE PAOLO CACCIARI – SOTTRARSI A QUESTO ESITO BELLICISTA E AUTORITARIO È L’UNICO OBIETTIVO DAVVERO ESISTENZIALE PER TUTTI GLI EUROPEI…” È questo il momento di farsi sentire. A fine giugno all’Aja e poi a Washington i capi di governo dei paesi membri dei “due pilastri” della Nato, quello europeo e quello nordamericano, decideranno nei dettagli quanto spendere, con quali denari, per produrre quali armi e contro chi utilizzarle. Stiamo parlando di quantità di risorse enormi, mai così tante dalla fine della guerra fredda, tra Golden Dome Usa (lo scudo missilistico spaziale da 175 miliardi di dollari) e Rearm europeo (800 miliardi di euro). Fermarli è possibile. Almeno in Europa. Il 21 giugno in tutte le capitali reti di associazioni, comitati, gruppi spontanei che animano i movimenti pacifisti diffusi in questi ultimi anni di guerre spietate hanno finalmente deciso di mettersi assieme e di prendere sul serio la grande minaccia che incombe sull’umanità: una nuova guerra mondiale. Gino Strada amava stupire dicendo: «Non sono pacifista, sono contro le guerre», un paradosso per andare al sodo: la pace è anzitutto fermare qualsiasi conflitto armato tra gli stati. Il cammino della pace non può che essere «disarmante», per usare le parole del nuovo papa Robert Francis Prevost. E, prima ancora, Simon Weil a proposito della “deterrenza” scrisse: «Ciò che si definisce sicurezza nazionale è una condizione chimerica: in cui un paese conserverebbe la possibilità di fare guerra privandone tutti gli altri» (Sulla guerra, 1933-1943). Verso la fine del documento approvato dal Parlamento europeo sulla Sicurezza e la difesa comune (Risoluzione del Parlamento europeo del 2 aprile 2025, Relazione annuale sull’attuazione delle politiche di sicurezza e di difesa comune) c’è scritto che la Ue aprirà «un dibattito pubblico informato», per «sviluppare una comprensione condivisa e un allineamento delle percezioni delle minacce in tutta Europa», così da «garantire un sostegno da parte delle istituzioni democratiche, di conseguenza, dei cittadini» (§164). Bene, questo confronto pubblico, trasparente e certificato (speriamo) lo chiedono per prime le persone annichilite dal delirio bellicista che pervade il discorso pubblico, le televisioni, la stampa. Ma per essere vero dovrebbe svolgersi prima che vengano assunte decisioni irreversibili. Altrimenti non è un dibattito, ma un indottrinamento. In ballo c’è una montagna di soldi – di ricchezza socialmente prodotta (il famoso 2 o 3 o 5 per cento del Pil) – che verrà inevitabilmente sottratta agli usi civili. Ma non è nemmeno questa la questione più grave. Il documento sulle politiche di sicurezza (59 pagine, 197 paragrafi), ribattezzato Readines 2030 (Pronti nel 2030), va letto e studiato per intero. Intanto: “pronti” a fare cosa? I 17 Obiettivi per lo sviluppo sostenibile dell’Onu e le relative Agende nazionali traguardate al 2030 (coincidenza!) non contemplano l’entrata in guerra. Cosa è cambiato da dover mutare così radicalmente tutti i piani? «La scelta del regime russo – si legge nella Risoluzione – di dichiarare guerra ai paesi europei» (§ B delle premesse). L’invasione dell’Ucraina è certo un atto intollerabile da qualsiasi parte lo si voglia vedere, in tutti gli aspetti umanitari e del diritto internazionale, ma per sanzionare tale realtà non vi è alcun bisogno di attribuire alla Russia delle finalità che non ha mai espresso e che ha sempre smentito. A chi giova ampliare ed esasperare i motivi del conflitto sul controllo delle zone russofone dei paesi usciti dalla Federazione russa? Comunque, la contro-scelta dell’Europa di cercare «La pace attraverso la forza» (§ 23) per realizzare il «piano per la vittoria dell’Ucraina» così come formulato da Zelensky (§ 28), entra in contrasto con quanto stabilito da quasi tutte le carte costituzionali nazionali e internazionali uscite dalla Seconda guerra mondiale. La nostra, come si sa, «ripudia la guerra […] come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali». Come l’Unione Europea intende superare questo ostacolo “formale” non lo dice. Per ora si limita a prepararsi all’eventualità che si verifichino le peggiori «minacce e rischi per la sicurezza», tenendo conto anche «dell’intensificarsi dei legami tra la Russia e la Cina» (§ 4 delle premesse), nonché delle «azioni aggressive della Cina nel Mar cinese” (§ 87). Faccia attenzione anche la Cina! Esclusa a priori la riconciliazione, messa da parte la prevenzione, non rimane che la preparazione alla guerra. Come? Il documento Ue è lungo e dettagliato: si va dagli investimenti in armi, logistica e servizi annessi (da reperire a debito, secondo uno schema keynesiano) (§ 73 e successivi), allo sviluppo e coordinamento del comparto industriale militare (§ 47 e successivi); dal sostegno alle «tecnologie a duplice uso, applicabili sia nei contesti civili che militari» (§ 54), nucleare compreso, con particolare attenzione «al ruolo svolto nel settore della difesa dalla tecnologia di rottura emergenti, quali l’intelligenza artificiale, il calcolo quantistico, il cloud computing e la robotica» (§ 55) – e qui il pensiero va alle “armi autonome” approntate e sperimentate da Israele a Gaza – fino agli investimenti nel settore spaziale (§150 e successivi). Tutto ciò non è ancora nulla. Senza mobilitazione delle masse a sostegno della guerra non la si può fare. Serve quindi «rafforzare la resilienza [sic!] e la preparazione della società alle sfide in materia di sicurezza» (§164). A tal fine gli stati sono invitati a «mettere a punto programmi educativi e di sensibilizzazione, in particolare per i giovani, volti a migliorare la conoscenza e a facilitare i dibattiti sulla sicurezza, la difesa e l’importanza delle forze armate» (§164). Dovranno quindi essere messi a punto «programmi di formazione degli insegnanti e di cooperazione tra le istituzioni di difesa e le università, quali corsi militari, esercitazioni e attività di formazione con giochi di ruolo per studenti civili» (§ 167). Crosetto, con il suo Programma di comunicazione per la diffusione della “cultura della Difesa”, non si inventa nulla! Gli «Stati membri devono affrontare sfide cruciali relative al reclutamento e al mantenimento del personale nelle forze armate» (§168). Il tutto per «rafforzare la preparazione e la prontezza civile e militare dell’Europa (…) in particolare la resilienza psicologica degli individui e la preparazione delle famiglie» nelle situazioni di emergenza (§ 165). Il grottesco kit di sopravvivenza per le prime 72 ore di guerra predisposto dal governo svedese è preso ad esempio. La Risoluzione del Parlamento europeo sull’attuazione della politica di sicurezza e di difesa comune che abbiamo fin qui richiamato, andrebbe letta assieme alla Comunicazione proposta dalla Commissione Ue il 26 marzo: Strategia dell’Unione europea in materia di preparazione per prevenire e reagire alle minacce e alle crisi emergenti (30 azioni chiave e un dettagliato piano d’azione). In questo documento la Commissione Ue intreccia “crisi e minacce” di diversa fattispecie: da quelle derivanti dai cambiamenti climatici e dalle pandemie alle «crescenti tensioni e conflitti geopolitici, alle minacce ibride e alla cibersicurezza, alla manipolazione delle informazioni e alle ingerenze straniere». Per ciò: «Dobbiamo prepararci ad affrontare incidenti e crisi su larga scala e intersettoriali, compresa la possibilità di aggressioni armate che colpiscano uno o più Stati membri». Come? «In un numero crescente di scenari (ad esempio emergenze sanitarie, eventi meteorologici estremi, attacchi ibridi e informatici), le autorità civili hanno bisogno di un supporto militare. In caso di aggressione armata, le forze armate avrebbero bisogno del supporto civile per garantire il funzionamento continuo dello Stato e della società. Occorre quindi migliorare l’interazione tra attori civili e militari (…) che coinvolgono in modo coerente tutte le parti interessate civili e militari» (§5). Due le azioni da intraprendere: verso l’alto, migliorando la «cooperazione e l’integrazione con i partner strategici esterni come la NATO in materia di mobilità militare, clima e sicurezza, tecnologie emergenti, cibernetica, spazio e industria della difesa»; e verso la base della società coinvolgendo tutti i livelli di governo e le amministrazioni pubbliche in «un approccio che coinvolge l’intera società, riunendo i cittadini, le comunità locali e la società civile, le imprese e le parti sociali, nonché le comunità scientifiche e accademiche». In particolare «la Commissione svilupperà linee guida per lo sviluppo dei programmi scolastici, a partire dall’educazione della prima infanzia, per sostenere l’acquisizione di competenze di base sulla preparazione, compresa l’alfabetizzazione mediatica, come chiave per una cittadinanza attiva e informata e per combattere la disinformazione e la manipolazione delle informazioni. Gli insegnanti avranno accesso a risorse e opportunità di sviluppo professionale sulla piattaforma europea per l’istruzione scolastica». (§15). Nulla di serio si dirà. In Europa l’immaginario orwelliano funziona ancora da anticorpo. Ma le politiche sulla sicurezza della UE non sono da sottovalutare poiché, da un lato, alimentano uno stato d’animo di inquietudine e di paura permanente e dall’altro accreditano l’inevitabilità dello scontro armato. Le guerre sono un fenomeno complesso, sono la forma estrema di violenza collettiva che per deflagrare hanno bisogno di molte condizioni: un oggetto conteso, una giustificazione, un dispendioso apparto tecnico-organizzativo e soprattutto una motivazione che giustifichi le sofferenze inaudite che patiscono le popolazioni civili. Rinunciando ad analizzare le cause storiche, ideologiche, economiche, geopolitiche del conflitto ucraino – così come delle altre 60 guerre in atto, Palestina compresa – l’attuale gruppo di comando della Ue ha deciso di sopravvivere a sé stesso e ai suoi fallimenti militarizzando la società civile e la sua economia. Sottrarsi a questo esito bellicista ed autoritario è l’unico obiettivo davvero esistenziale per tutti gli europei. -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Ultima chiamata proviene da Comune-info.
L’Europa che non c’è
L’UE CHE VEDE NEMICI DAPPERTUTTO ED È OSSESSIONATA DAL RIARMO FA PAURA. È L’EUROPA DELL’ASSORDANTE SILENZIO SULLO STERMINIO DEL POPOLO PALESTINESE. EPPURE IN BASSO MIGLIAIA DI PERSONE IN TUTTA EUROPA, A COMINCIARE DAI GRUPPI DI DONNE, NON HANNO SMESSO DI COSTRUIRE PERCORSI DIVERSI, PARTENDO DALLA RIVOLUZIONE DELLA CURA: L’EUROPA CHE OGGI NON C’È DEVE SAPER RIPARTIRE DA QUI 11/11/2023 Barcellona, Manifestazione di solidarietà con la Palestina – Xavi Ariza – Di Fotomovimiento (CC BY-NC-ND) -------------------------------------------------------------------------------- Leggere, anche sommariamente, la lunghissima relazione/risoluzione al Parlamento europeo sulla difesa approvata il 2 aprile 2025 ci fa piombare in un’Europa che non avremmo mai pensato potesse essere la “nostra Europa”. Vede nemici dappertutto. Dalla Russia che si preparerebbe a invaderci, alla Cina, minaccia per il mondo. Sta con l’Ucraina fino alla vittoria (!). Con Israele e il suo “diritto all’auto difesa”. Muri ovunque per proteggere i confini. Miliardi su miliardi per Nato e armi, militarizzazione dell’educazione nelle scuole e, ovviamente, approvazione del piano ReArm Europe. Una Unione europea che fa paura. Fa orrore per il silenzio assordante che ha steso un sudario sulla distruzione e lo sterminio del popolo palestinese che Israele sta operando su Gaza, con le bombe, la fame, la sete, le malattie, con le espulsioni violente in Cisgiordania. Un nuovo genocidio che non sconvolge né provoca reazioni nella Ue, che non siano qualche stanco comunicato o qualche burocratica riga, ogni tanto. Insostenibile umanamente, ancor prima che politicamente. Ha ragione il Collettivo femminista palestinese (Pfc) [organizzazione di femministe palestinesi/arabe – con sede principalmente a Turtle Island (Stati Uniti), NdR] – a sostenere che La Palestina è una questione femminista (Nada Elia, Edizioni Alegre, 2024). Perché colpita quotidianamente, e da decenni, da tutto quello contro cui il femminismo si batte, o dovrebbe battersi: violenza, oppressione, sfruttamento, colonialismo. C’è una donna, preziosa relatrice speciale delle Nazioni unite per i Territori occupati, che parla di fatti e responsabilità con parole sincere oneste e coraggiose. Si chiama Francesca Albanese, e gli Usa ne chiedono il licenziamento. «Lo sguardo del femminismo, almeno di quello in cui mi riconosco, si è sempre rivolto al mondo, oltre i confini, ’antipatriottico‘ e antinazionalista – scrive Virginia Woolf nel 1938 in Le tre ghinee (Feltrinelli) – […] dirò, da outsider della cittadinanza quale sono, come donna, non ho un Paese. Come donna non voglio un Paese. Come donna, il mio Paese è il mondo intero…». Il testo è stato richiamato nei giorni nostri nel bel libro di Bianca Pomeranzi Femministe di un unico mondo (Fandango Libri, 2024). Oggi, la guerra è di nuovo al centro del dibattito pubblico in una Europa idealmente nata per sconfiggere l’eventualità di un altro disastro, dopo le decine di milioni di morti nella Prima guerra mondiale. Un obiettivo già scricchiolante negli anni Novanta nei Balcani. Tuttavia, sembrava, ancora all’ordine del giorno. Invece, adesso sembra scomparso il discorso pubblico su come cambiare l’Europa, come realizzare un’Europa sociale di uguaglianza, libertà, accoglienza di chi è costretto a fuggire, spesso da guerre scatenate o sostenute dall’Europa stessa. Proprio quello su cui per molti anni il femminismo ha maggiormente insistito, per un’Europa aperta al mondo. Dalle Conferenze e Forum delle donne culminate a Pechino e Huairou (conferenza Onu e Forum delle donne) nel 1995, alla Marcia mondiale delle donne per la liberazione da guerre, povertà e violenza del 2000, dal Forum sociale europeo del 2002, alla Libertà delle donne nel XXI secolo – oltre tutti i fondamentalismi (2017) -, fino alla riflessione sulla cura, durante e dopo la pandemia COVID-19. Le relazioni con altri femminismi attraverso il mondo, hanno portato a “contaminarsi”, assorbendo, più o meno consapevolmente, quello che bell hooks – pseudonimo di Gloria Jean Watkins – insegna con il suo Il femminismo è per tutti (Feltrinelli, 2021):  «La teoria femminista rivoluzionaria va di continuo elaborata e rielaborata perché si rivolga a noi, nel nostro presente»; cercando di tenere conto dell’esistenza di connessioni, relazioni, intersezioni, sovrapposizioni, senza le quali dice Angela Davis, «resteremo per sempre imprigionate in un mondo che ci appare come bianco e maschile, eterosessuale e cisgender, capitalista e centrato sugli Stati Uniti o sull’Europa». Necessariamente, non siamo state indifferenti all’Europa, né al radicamento nel presente. A Bruxelles nel 2000 la grande manifestazione della Marcia mondiale delle donne, si espresse criticamente sull’Europa, meglio la vigente Unione europea, per un’altra Europa possibile, contro guerre, povertà, violenza. E nel nostro Paese, al tempo del Pnrr Next Generation EU, come gruppo femminista della Società della cura denunciavamo anche il concetto di sicurezza che vi era contenuto e che la pandemia stessa aveva messo in discussione: «La pandemia COVID-19 ha dimostrato che la nostra sicurezza dipende dall’accesso all’assistenza sanitaria, all’approvvigionamento alimentare, all’istruzione, a redditi dignitosi. Sicurezza è prendersi cura l’uno/a dell’altro/a e del mondo. Le armi non possono fornire nulla di tutto ciò. Benvenuto il Trattato per la proibizione delle armi nucleari, ma anche l’Italia, che “’”ospita” quaranta testate nucleari, deve ratificarlo. Le armi non sono servite a darci sicurezza contro la pandemia, e non serviranno contro il riscaldamento globale e le sue conseguenze. La pandemia ha mostrato che le minacce alla sicurezza umana sono globali, non contenute da confini nazionali militarizzati; ha messo in luce la fallacia di politiche che incentivano gli investimenti nella ’sicurezza militarizzata‘ a scapito della sicurezza umana e della salute collettiva». Il paradigma della cura indicava la strada per una rivoluzione della cura. In piena pandemia, l’Assemblea della Magnolia, voluta dalla Casa internazionale delle donne e sostenuta da tantissime associazioni, gruppi e individue, nel 2021 proponeva un approccio radicale e femminista, «Per cambiare i meccanismi sociali ed economici che proteggono un sistema di potere fatto di gender pay gap, di cultura della violenza e dello stupro, di cristallizzazione dei ruoli di genere nelle famiglie, di connivenza con la cultura patriarcale, rivendichiamo di essere femministe e quindi contro le guerre, contro l’aumento delle spese militari e per la proibizione assoluta delle armi nucleari». Un auspicio e un desiderio difficili, non senza conflitto. Quelli di voler cambiare un sistema patriarcale di potere sociale, economico, culturale basato sulla disuguaglianza, pervaso di violenza spesso impunita: dalla discriminazione all’omofobia, allo stupro e al femminicidio. La rivoluzione della cura, infatti, prevedeva il rispetto e il riconoscimento dell’altra e dell’altro, di tutte le soggettività, dei diritti e le libertà di tutte e di tutti, native/i e migranti, a partire dal diritto alla cittadinanza. Quegli anni appaiono come tempi lontanissimi, anche se sono trascorsi solo quatto/cinque anni. Oggi il discorso pubblico prevalente, veicolato dalla politica e dai mass media dominanti, è la creazione del nemico, come durante la Guerra fredda. L’Europa quindi deve difendersi da possibili attacchi, la nostra sicurezza sta nelle armi e tecnologie militari. Infatti, a loro vanno 800 miliardi! Mentre lo stato sociale continua a sgretolarsi. Entriamo in un’economia di guerra: altro che l’economia sociale solidale, mandiamo i nostri figli e nipoti a sorbirsi un’educazione al militare. Insostenibile essere cittadina di una Unione europea, in cui il potere ha visi di donne, eclatante conferma, se ce n’era bisogno, che le donne non sono “naturalmente” contro la guerra, la violenza e le armi, al contrario, possono rivelare l’altra faccia del patriarcato. Colpevolmente estranee e ignare delle sagge e molto attuali parole del 2015 di Lidia Menapace: «Sono sempre dell’opinione che ripudiare la guerra e quindi avere una politica estera favorevole alla trattativa e ridurre le spese per gli armamenti siano le migliori prevenzioni della catastrofe bellica, opinione che la diffusione delle armi di distruzione di massa non fa che confermare». -------------------------------------------------------------------------------- Articolo tratto dal Granello di Sabbia n. 54 di Aprile- Maggio 2025: “L’Europa che non c’è“ -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo L’Europa che non c’è proviene da Comune-info.
Testimoni
-------------------------------------------------------------------------------- Foto di Mediterranea -------------------------------------------------------------------------------- Martedì sera 6 maggio ricevo un messaggio da David, mio compagno e fratello della rete RefugeesinLibya. “Bro, guarda”. È un video. Una donna con in braccio un bimbo, accovacciata in un androne lurido, la luce scarsa. Sussurra quasi, in una lingua che non conosco. Si vede un’altra ragazza vicino a lei, distesa a terra. David mi scrive. “È chiusa nel lager di Almasri, con lei tante altre mamme con i bambini. Le hanno catturate in mare, hanno fatto dei morti. Adesso le chiedono il riscatto”. Il 2 maggio, di mattina presto, Fatima con il suo bambino, insieme alla sorella Rakuya, più giovane di lei, sale sul barcone di legno ancorato a cento metri dal bagnasciuga della spiaggia di Sabratha. Provo a immaginare quello che nel messaggio non è scritto. Ha dovuto tenere il bambino in alto, sollevarlo con le braccia sopra l’acqua del mare, mentre i miliziani che gestiscono il business dei viaggi, spingevano la gente avanti, ordinando di fare in fretta. 130, 140 persone per un vecchio peschereccio di legno, a due ponti, dove alla fine, dalla stiva al tetto della plancia, non c’è più posto nemmeno per uno spillo. Quelli in stiva devono premersi sulla faccia dei panni bagnati: il fumo del vecchio motore diesel fa soffocare. È un paradosso quel motore: se i suoi pistoni continuano a martellare, il fumo ti fa morire lì dentro. Se si ferma, e l’aria può finalmente entrarti nei polmoni senza ucciderti, si ferma anche la pompa di sentina, che è quella che butta fuori l’acqua altrimenti, pieno così, il barcone affonda. David dice che loro, Fatima e sua sorella, sono profughe etiopi. Guardo il bimbo nel video: avrà un anno. È nato in Libia. La traduzione delle parole di Fatima la fanno tre persone diverse, che parlano altrettante varianti dell’amarico, la lingua ufficiale. Ma magari è tigrino o oromiffa. In Etiopia si parlano ottanta lingue e duecento dialetti diversi. “Aiutateci, siamo all’inferno”. Appena dopo un’ora dalla partenza, i miliziani stavolta in versione “guardia costiera”, hanno assaltato il barcone pieno di gente. Hanno sparato raffiche di mitra. Qualcuno è morto subito, colpito direttamente. Quando sei ammassato in quella maniera, dove scappi? Dove ti ripari? Solo dietro ad altri corpi, se sei fortunato e quello davanti a te è sfortunato. I colpi di mitra passano lo scafo, e incendiano il motore. “Una ragazza è morta bruciata davanti a noi”, dice Fatima nel video. Ritorno a immaginare. Un’ora di navigazione, con un barcone come quello che massimo fa sei nodi, significa che li hanno catturati a sei miglia dalla costa. Acque libiche. Gli stessi che si sono fatti dare i soldi per il viaggio, li hanno venduti ai loro compari. Un sistema criminale come quello del “controllo delle frontiere” ben congegnato. Questi banditi hanno ben compreso il concetto di “massimizzazione dei profitti e minimizzazione del rischio”. Grazie ai finanziamenti del memorandum Italia-Libia, e ai tanti viaggi del Falcon dei servizi segreti carico appunto di “servizi” da rendere ai signorotti della guerra libici, in otto anni gli “scafisti del globo terraqueo” si sono presi il governo libico. Hanno puntato agli apparati di sicurezza: ministero degli interni, polizia, marina militare e guardia costiera. Organizzano le partenze forti del fatto che non esistono vie legali per un profugo, per una madre con suo figlio, di lasciare la Libia verso l’Europa. I corridoi umanitari, che per fortuna esistono ma solo grazie all’impegno della Chiesa, dei Valdesi e dell’Arci, equivalgono a svuotare il mare con un cucchiaio. L’Unione Europea, codarda in questo come in tutto il resto, è solo passacarte di chi ha preso l’iniziativa, e cioè la premier dell’Italia. Che nonostante l’Onu, nonostante la Corte Penale internazionale e nonostante quello che tutti sanno, ha deciso di caratterizzare il suo “impegno” a dare la caccia agli “scafisti del globo terraqueo”, riempiendo di milioni di euro i loro capi. D’altronde, a chi importano le vite di quelle madri, di quei bambini? Come dice Piantedosi, l’importante è che non partano. Fatima e Rakuya sono registrate da UNHCR. Da anni. Come la stragrande maggioranza. Hanno la certificazione da asilo immediato, venendo dall’Etiopia. Eppure niente. Con David riusciamo, dopo molti tentativi, a prendere di nuovo la linea. Parliamo con Rakuya, che ci spiega nel dettaglio. Quella che vediamo nel video distesa a terra, è una ragazza che è morta. Il giorno dopo, ci dice Rakuya, è morto anche un bimbo piccolo, che aveva bevuto molta acqua in mare. Li hanno assaltati sparando, hanno catturato i sopravvissuti e li hanno portati nel lager di “Osama”. Osama è il nome con il quale è conosciuto Almasri, il protetto del governo italiano, che è “capo della polizia giudiziaria libica” e “direttore del Al-Nasr Detention Center”, il lager di Zawhija, cinquanta chilometri a nordovest di Tripoli. Ci facciamo mandare la posizione. Risulta da Google maps, è quello. Il telefono con il quale ci hanno chiamato da quella prigione, è l’unico che sono riusciti a tenersi, nascondendolo. I miliziani è la prima cosa che fanno: spogliano tutti e tutte nudi, e sequestrano i telefoni: l’addestramento gli ha insegnato che non devono rimanere tracce dei loro crimini. A volte sono distratti, qualcuno gli sfugge. Hanno comunicato agli internati che vogliono 6.000 dinari a testa per farli uscire da lì. Ora non immagino più niente. La mia mente si rifiuta di pensare cosa faranno alle donne adesso. Cosa faranno agli uomini. Cosa faranno ai bambini. Mandiamo tutto alla Corte Penale Internazionale. È questo il motivo per cui, per il governo italiano, siamo un “pericolo per la sicurezza nazionale”. Per questo i servizi segreti ci spiano. In Libia non vogliono testimoni. E nemmeno qui. Hanno ricevuto lo stesso addestramento si vede. -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE QUESTA NOTIZIA DI MEDITERRANEA S.H.: Uccisioni in mare ad opera della cosiddetta guardia costiera libica e gli orrori nel lager di Almasri, protetto dal governo italiano -------------------------------------------------------------------------------- Luca Casarini, Mediterranea Saving Humans -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Testimoni proviene da Comune-info.