Quel nodo alla gola

Comune-info - Thursday, June 19, 2025

L’orrore in Palestina sembra infinito. Ma c’è un filo che lega le grandi proteste contro la guerra in Vietnam alle manifestazioni e alle iniziative contro la feroce aggressione in Palestina di questi giorni, di cui vediamo ben poco. Quel filo ci dice almeno due cose. La prima: la fotografia, la protesta e il racconto, allora come oggi, rompono il silenzio. La seconda: nessuno è in grado di far scomparire per sempre il desiderio e il coraggio di lottare, ovunque e in tanti modi, per un mondo diverso e senza guerre

Foto di Donne in nero Parma

Un nodo mi rende afasica nella parola ma non nei sentimenti e nei pensieri. Ogni giorno l’aggressione di Netanyahu si fa sempre più cruenta, estesa e pericolosa anche dopo l’attacco all’Iran ma questo non basta ancora ai governi europei per chiudere ogni trattato commerciale e militare con Israele chiedendosi ancora ipocritamente se Netanyahu stia violando i diritti umani dopo aver ucciso, ferito e affamato 50.000 bambini e altri 54.000 civili, distrutto villaggi, case e ospedali, affamato tutto il popolo palestinese, bloccato gli aiuti umanitari, ucciso più di 200 giornalisti e distrutto infine l’ultima linea in fibra ottica con l’obiettivo finale di non mostrare questo eccidio agli occhi del mondo e isolare, ridurre a macerie Gaza per costringere poi il popolo palestinese sopravvissuto a emigrare.

Noi di questa guerra vediamo ben poco, vediamo le immagini delle scie Iron Dome, “cupole di ferro” e non vediamo il volto e i corpicini dei bambini uccisi e racchiusi dentro il sudario. Il loro nome rimane scritto con il sangue. Anche quando non conosciamo i loro nomi, quando non vediamo i loro volti, le loro ferite sanguinanti, le loro mutilazioni e cicatrici, noi vediamo l’orrore e la disumanità perpetrata da Israele. Non vediamo quando bevono acqua contaminata, quando mangiano pane ammuffito, quando un bambino si contorce perché affamato.

Aya Ashour, 24 anni, impegnata a difendere i diritti dei bambini e delle donne palestinesi, ha provato a raccontare ciò che rimane sotterrato nel silenzio.

Gli anni Settanta non sono poi così lontani

Non so bene perché ma il riferimento agli anni Settanta mi insegue spesso. Forse è inevitabile per la mia età. Non è per dire come eravamo quanto piuttosto per non disorientarmi nel presente e nel come saremo. Mi sembra difficile mantenere viva una coscienza se non si tiene agganciata al passato come per afferrare temporalmente e politicamente il senso ampio della metafora “ciò che accade a valle ha inizio a monte”. Il legame, non quello retorico, tra passato e presente è ciò che ci consente di comprendere il nesso, le correlazioni tra gli avvenimenti e quale possibile futuro disegneranno.

La guerra in Vietnam è ancora nei nostri ricordi. Mostrò tutta la violenza e il suo orrore – ricordiamo tuttə la foto “Napalm girl” di Nick Ut – e sollevò proteste e movimenti ovunque con manifestazioni di solidarietà per il popolo vietnamita e al contempo di opposizione verso l’intervento statunitense. La questione guerra e pace entrò in ogni contestazione mettendo in discussione il sistema capitalistico e ogni forma di potere e di autoritarismo. E credo che le manifestazioni di protesta di questi giorni negli Usa contro il pugno di ferro trumpista abbiano delle ragioni che discendono da allora.

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Primavera americana?

Nel 2006 uscì in Italia un libro del giornalista Gianluigi Ricuperati dal titolo Fucked Up. Nel libro furono pubblicate fotografie dei soldati statunitensi in Iraq e Afghanistan e che erano state raccolte da un sito in rete di un cittadino americano C. Wilson. Quando gli Stati Uniti entrarono in guerra, Wilson offrì ai soldati la possibilità di accedere gratuitamente alle sue pagine di pornografia web in cambio dell’invio di foto scattate sui campi di battaglia. L’operazione fu un successo(macabro) fino a quando la polizia statunitense chiuse il sito. Ma l’orrore e la brutalità della guerra andò comunque in scena appoggiandosi a un server olandese.

La fotografia, la protesta e il racconto, allora come oggi, rompono il silenzio, la censura e le regole complici dei giochi di guerra.

La memoria ha una carica antagonista

Mario Tronti, tra i fondatori del movimento marxista operaista, riferendosi al movimento operaio diceva che “Quella storia è morta. A che serve politicamente riesumarla in un tempo che non la riconosce? Serve intanto per imparare come si lotta. Non solo. La memoria è un’arma. La memoria ha una carica antagonista, una potenza dirompente”.

Il passaggio dagli anni Settanta ad oggi è stato veloce per me ma non è stato mai un vuoto. “Lasciamo libero il passaggio” (come nella foto di Mario Piselli) dove le identità vecchie e nuove di questo mondo si ri-compongono, dove le nostre identità costruite come in un puzzle continuano a comporsi tra passato e presente nel timore di un futuro che già si rivela per ciò che sarà. Tra ciò che siamo riusciti ad essere nonostante quello che abbiamo scoperto come verità tenute ben nascoste e ciò che le verità stanno mostrando oggi dentro questa destabilizzante insicurezza mondiale di “chi combatte chi“ ogni giorno e nelle diverse forme di oppressione, repressione, di un bellicismo patologico militare, finanziario e politico che allunga le sue mani sul mondo (il film” Trama Fenicia” di Wes Anderson lo mette in mostra tra satira e realismo anche se il suo realismo oltrepassa la satira) mentre si fa modello di un bellicismo sociale.

Tempo fa ho visto la mostra fotografica con il libro di Mario Piselli: ”Padroni di niente Servi di nessuno”. Ero lì ferma davanti a quelle foto che ripercorrevano, fermandolo, quella sana ribellione piena di speranza che erano già per noi certezze presenti nelle nostre lotte degli anni Settanta. Non so se oggi il capitalismo sia in crisi, dopo questo lungo tempo nel quale abbiamo vissuto giorno dopo giorno il significato, il valore e la forza delle lotte, dell’impegno sociale, delle conquiste e dei movimenti. Lo pensavo in crisi, pensavo che stesse grattando le sue unghie sul vetro, certo con più ferocia, ma come se fosse arrivata la fine del suo tempo. Non sono più certa di questo ma continuo a credere in ciò che è stato il tempo di quella storia personale e collettiva, continuo a credere che il tempo si stringe di volta in volta le mani in una sorta di patto reciproco tra passato e presente, si stringe nell’abbraccio, come fanno i buoni amici e le buone amiche, consegna sempre qualcosa al tempo successivo, quel valore assoluto in ciò che abbiamo di umano, nella nostra ricerca continua di uno spazio e di un tempo che riconosca il significato del diritto in sé e con lui riconosca il senso del vivere, dignitoso e libero per tuttə, per ogni popolo in ogni parte del mondo.

Oggi come ieri scriviamo un nuovo inizio ogni volta che mettiamo in campo quella nostra speranza unita alla consapevolezza, insieme all’affermazione e determinazione ad esserci come collettività civica e politica, proprio in quella nostra capacità di sentirci comunità aperta e che continua ad appartenere al nostro agire quotidiano, a quella visione che da allora e ancora oggi guida le nostre vite, il nostro fare con la mia ferma convinzione di credere che continueremo a farlo affinché nessun capo di governo, nessun potere tecnologico/militare o nessun Musk o P. Thiel o Karp possa dire alle nuove generazioni e a quelle future “scordatevi la pace, scordatevi la democrazia”.

Ambra Pastore, educatrice e pedagogista, ha lavorato come istruttrice amministrativa nell’ambito dell’Area Tecnico Educativa del Comune di Roma. Oggi, tra le altre cose, fa parte delle rete Arce. Altri suoi articoli sono leggibili qui. Ha aderito alla campagna Partire dalla speranza e non dalla paura

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