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Come difendersi dai droni
I DRONI SI SONO IMPADRONITI DEI CONFLITTI ARMATI. LA DIFESA DA QUESTI TERRIFICANTI OGGETTI TECNOLOGICI CARICHI PULSIONE DI MORTE CHE POSSONO ESSERE CONTROLLATI A DISTANZA NON PASSA PER STRATEGIE MILITARI O PER BUONE PRATICHE DI INTELLIGENZA ARTIFICIALE. PER PROTEGGERCI IN PROFONDITÀ DALLA CULTURA DI GUERRA E DAGLI ALGORITMI DI DISTRUZIONE UMANIZZATA OCCORRE RIEMPIRE LA VITA DI OGNI GIORNO DI RELAZIONI VERE CON PERSONE IN CARNE E OSSA, RIPORTARE L’UMANITÀ OVUNQUE, IMMAGINARE E PRATICARE MODI DIVERSI DI VIVERE Pixabay.com -------------------------------------------------------------------------------- I droni hanno ormai preso possesso delle notizie dei giornali. Viene considerato un successo il loro abbattimento, vedi i 221 droni ucraini neutralizzati dai russi, sono utilizzati in modo a dir poco incosciente per avvicinare ulteriormente la fiamma alla miccia della temuta fase di non ritorno nel conflitto mondiale, come è accaduto di recente in Polonia, sfruttati per un vile atto terroristico ai danni di iniziative del tutto pacifiche come quella della Global Sumud Flotilla, o addirittura esaltati per le loro potenzialità in tema di consegne rapide e precise. In ogni caso, a quanto si legge, i droni si sono impadroniti dei conflitti per alcune semplici ragioni: costano decisamente di meno rispetto ai tradizionali velivoli da combattimento, hanno un peso altrettanto inferiore e, soprattutto, si dimostrano letalmente efficaci. Dal punto di vista storico, i primi veicoli senza pilota furono sviluppati in Gran Bretagna e negli Stati Uniti durante la prima guerra mondiale. Il prototipo britannico, un piccolo aereo radiocomandato, fu testato per la prima volta nel marzo del 1917, mentre il modello statunitense in pratica era un siluro, noto come Kettering Bug, e volò per la prima volta nell’ottobre del 1918. Anche se entrambi mostrarono risultati promettenti nei test di volo, nessuno dei due fu utilizzato operativamente durante la guerra. Considerando l’esponenziale e, a mio modesto parere, in parte inquietante diffusione di tali ordigni e la loro micidiale pericolosità qualora azionati con intenzioni ostili, mi sorge la seguente domanda: come difendersi dai droni? Da cui, il logico quanto interrogativo corollario: come ci si difende da ciò che non si conosce? Ebbene, facciamo un po’ di chiarezza, a cominciare dalla mia testa: cosa sono i droni? Sono per definizione dei velivoli senza pilota, formalmente noti come veicoli aerei senza equipaggio (dall’acronimo UAV, Unmanned Aerial Vehicle) o anche sistemi di aeromobili senza equipaggio (UAS, Unmanned Aerial System), che possono essere controllati a distanza o volare autonomamente utilizzando piani di volo guidati da software e sensori di bordo. Ora, aprendo una conversazione più approfondita su come proteggerci, o in generale controllare, gestire e contenere qualsiasi innovazione tecnologica, gli studi universitari e i testi letti nel tempo, suggeriscono – oltre che di acquisire consapevolezza dello strumento in sé – di ragionare sul significato più ampio della funzione che essa svolge. Mi riferisco in particolare all’approccio generale che in molti casi indirizza a vario titolo il progresso tecnico, industriale e ovviamente economico, e in seconda battuta quello sociale, e finanche ideologico e politico. Alla luce di ciò – divenuta parte quindi di un disegno assai più vasto – ripeto a me stesso la domanda: cosa sono davvero i droni? Ebbene, credo siano in sintesi macchine, come detto nell’incipit, economiche, leggere e mortali che possono essere azionate a distanza tramite un programma informatico da qualcuno che non vedi e che ignori, che a sua volta sarà in grado di arrecare sofferenza o addirittura causare la morte di qualcun altro che al contrario vede e conosce alla perfezione. O anche no, ed è quest’ultimo a mio umile avviso uno degli aspetti più inquietanti. Anche perché, tenendo conto della velocità, e al contempo l’assenza di un effettivo controllo da parte nostra, con cui l’intelligenza artificiale sta occupando sempre più i ruoli che un tempo erano svolti unicamente dagli esseri umani, dovremo aspettarci un domani – o forse è già realtà – nel quale ad azionare il velivolo robot ci sarà un altro robot. In parole povere, è come se l’umanità stia facendo di tutto pur di eliminare se stessa dall’equazione che regola in ogni campo la sua esistenza. A tal punto, non posso fare a meno di tornare nuovamente alla domanda iniziale: come difendersi dai droni? Ovvero, in generale, come proteggerci dal ben più grande, controverso e ormai inevitabile orientamento che da decenni hanno scelto l’industria e i governi da essa dipendenti, e che sempre più sta investendo nel sopra citato algoritmo di distruzione disumanizzata? Credo che non ci sia migliore alternativa che fare la scelta opposta: puntare sempre più sulle persone in carne e ossa. Riempire il nostro fare e possibilmente la nostra quotidianità di interazioni reali nell’accezione tradizionale. Per dirla in modo altrettanto semplice, sforzandoci di riportare a ogni occasione l’umanità all’interno della suddetta equazione. Mi sbaglierò, ma forse, oltre che la migliore, credo sia l’unica strada che ci resta. Iscriviti per ricevere la Newsletter di Alessandro Ghebreigziabiher -------------------------------------------------------------------------------- 4 OTTOBRE: WORKSHOP TEATRALE E SPETTACOLO DI EDUCAZIONE ALLA PACE Alessandro Ghebreigziabiher, drammaturgo, attore, scrittore, ha studiato presso il Living Theatre di New York ed è autore di oltre venti libri, tra cui fiabe per ragazzi. Il suo ultimo libro è Specchi delle nostre brame (ed. Bette). Sabato 4 ottobre (a partire dalle 14,30), nell’ambito del Festival della lettura “Pezzettini” promosso dall’Associazione AltraMente a Roma (presso l’IC Laparelli, via F. Laparelli 60, Torpignattara), Alessandro Ghebreigziabiher proporrà uno straordinario workshop teatrale con spettacolo di narrazione (gratuito), rivolto a tutte le età, dedicato ai temi della pace. Chi fosse interessato a partecipare al workshop e/o allo spettacolo può scrivere a: carmosino@comune-info.net. L’iniziativa fa parte del ciclo di appuntamenti “Partire dalla speranza e non dalla paura” realizzato dall’Ass. Persone comuni, editore di Comune, in quattro quartieri di Roma, in collaborazione con diverse realtà sociali (tra cui l’Associazione AltraMente). Il progetto, promosso da Roma Capitale – Assessorato alla Cultura, è vincitore dell’Avviso Pubblico Artes et Iubilaeum – 2025, finanziato dall’Unione Europea Next Generation EU per grandi eventi turistici nell’ambito del PNRR sulla misura M1C3 – Investimento 4.3 – Caput Mundi”. -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Come difendersi dai droni proviene da Comune-info.
PACE E GIUSTIZIA CLIMATICA: SETTIMANA DI AZIONE GLOBALE DAL 15 AL 21 SETTEMBRE 2025
Torna la Settimana di azione globale per la Pace e la Giustizia Climatica. La seconda edizione, in Italia rilanciata dalla Rete Pace Disarmo, si terrà dal 15 al 21 settembre 2025 e si occuperà dei legami tra guerra, militarismo/militarizzazione e ingiustizia sociale, economica e climatica e promuoverà azioni dal basso e richieste di politiche pubbliche volte a fronteggiare sia il genocidio che l’ecocidio — per la pace e una transizione sistemica giusta. Durante questa settimana, movimenti sociali e attivisti di tutto il mondo si mobiliteranno per chiedere un disinvestimento dalle guerre e un impegno concreto per una transizione giusta, che metta al centro la sostenibilità ambientale e l’equità sociale. Presentiamo l’iniziativa, ai microfoni di Radio Onda d’Urto, con Francesco Vignarca, della Rete Pace e Disarmo. Ascolta o scarica.
In un mondo che brucia
-------------------------------------------------------------------------------- Foto Donne in Nero – Reggio Emilia (maggio 2025) -------------------------------------------------------------------------------- Un susseguirsi infinito di notizie, notifiche che non si fermano mai, algoritmi che amplificano rabbia e divisione. Nel 2025 viviamo connessi a tutto e disconnessi da noi stessi. Guerre in tempo reale sui nostri schermi, crisi climatica che avanza, disuguaglianze che si allargano come crepe nel cemento delle nostre città. C’è chi chiude gli occhi, chi si rifugia nell’indifferenza, chi grida più forte per coprire il silenzio che fa paura. Ma c’è un’altra strada. Ce la indica una giovane donna di Amsterdam che ottant’anni fa, nel cuore dell’orrore nazista, scelse di non spegnere la propria luce interiore. Etty Hillesum aveva ventisette anni quando morì ad Auschwitz, ma i suoi diari e le sue lettere parlano ancora oggi a chiunque si chieda come restare umani quando il mondo sembra impazzito. Non era una santa né una filosofa. Era una giovane donna che amava, dubitava, si arrabbiava, cercava se stessa tra libri e relazioni complicate. Quando arrivarono le leggi razziali, quando iniziarono le deportazioni, quando si trovò prima nel campo di transito di Westerbork e poi sul treno per Auschwitz, Etty fece una scelta rivoluzionaria: continuò a coltivare la sua vita interiore come se fosse l’ultima cosa che le rimaneva. E forse lo era davvero. “C’è in me un pozzo molto profondo. E in quel pozzo c’è Dio. A volte riesco a raggiungerlo, più spesso pietre e detriti ne ostruiscono la strada, e Dio è sepolto. Allora bisogna dissotterrarlo di nuovo”. Oggi, nel nostro pozzo, non ci sono solo pietre e detriti. Ci sono le notifiche del telefono, l’ansia per il futuro, la stanchezza di chi si sente sempre in ritardo, sempre inadeguato. Ci sono le polarizzazioni social che trasformano ogni conversazione in battaglia, la velocità che non ci lascia mai il tempo di fermarci davvero. Ma il principio rimane lo stesso: in ognuno di noi c’è un pozzo profondo che merita di essere dissotterrato. Non per fuggire dal mondo, ma per tornarci con gli strumenti giusti. Etty lo chiamava Dio, noi possiamo chiamarlo come vogliamo: umanità, bellezza, amore, senso. Il nome non importa. Importa riconoscere che esiste e che va protetto. Nel 2025 questo significa, ad esempio, spegnere il telefono per ascoltare il silenzio. Significa scegliere cosa leggere invece di farsi trascinare dall’algoritmo. Significa guardare negli occhi chi abbiamo vicino invece di perdere tempo in discussioni sterili online. Significa scrivere a mano, camminare senza meta, cucinare con calma, abbracciare senza fretta… “Quello che mi importa non è sopravvivere a ogni costo, ma il modo in cui sopravvivo”. Etty non sopravvisse fisicamente, ma le sue parole attraversano il tempo e arrivano fino a noi intatte, luminose. Il suo modo di sopravvivere era già una forma di resistenza. Oggi anche noi possiamo scegliere il nostro modo: non solo di sopravvivere alle crisi del presente, ma di attraversarle rimanendo interi, umani, capaci di bellezza. Non è ottimismo ingenuo né fuga dalla realtà. È il contrario: è guardare il mondo esattamente per quello che è – spesso brutale, ingiusto, difficile – e scegliere comunque di non smettere di essere chi siamo nel profondo. È riconoscere che ogni gesto di cura verso noi stessi è già un gesto di cura verso il mondo, perché persone più intere sanno amare meglio, ascoltare di più, costruire invece di distruggere. In un’epoca di accelerazione permanente, la lezione di Etty è radicale: rallenta, scendi nel pozzo, dissotterra quello che è essenziale. Il mondo ha bisogno di persone che sanno ancora accedere alla propria profondità, che non si lasciano travolgere dall’urgenza di tutto e dal senso di niente. Alla fine, forse resistere oggi significa esattamente questo: proteggere spazi di silenzio in un mondo rumoroso, coltivare relazioni vere in un mondo virtuale, scegliere la lentezza in un mondo veloce. Non per nostalgia del passato, ma per costruire un futuro dove l’umano non vada perduto. Etty lo sapeva bene: “La pace deve nascere in noi prima di poter regnare nel mondo”. Nel caos di Westerbork, circondata dalla violenza e dall’odio, continuava a credere che ogni persona che trova la pace dentro di sé diventa un seme di pace per tutti gli altri. Non pace come assenza di conflitto, ma come presenza di equilibrio interiore che si irradia verso l’esterno. Oggi, quando le guerre si moltiplicano e le divisioni sembrano insanabili, questa intuizione di Etty diventa ancora più preziosa. La pace nel mondo comincia da noi: da come parliamo a chi non la pensa come noi, da come trattiamo chi è diverso, da come scegliamo di reagire alla paura e all’incertezza. Ogni volta che scegliamo di non alimentare l’odio, di non cedere alla vendetta, di costruire ponti invece di muri, stiamo già costruendo pace. Il pozzo di cui parlava Etty è ancora lì, in ognuno di noi. E dal fondo di quel pozzo può nascere la pace di cui il mondo ha disperatamente bisogno. Basta avere il coraggio di scendere a cercarlo. -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo In un mondo che brucia proviene da Comune-info.
Dall’Alaska a piccoli passi
Difficile dare un quadro realistico del vertice in Alaska quando i protagonisti restano blindati sul merito della discussione e chi dovrebbe resocontare – i media occidentali in genere, quelli europei in particolare – è impegnato in modo visibilissimo nell’avvolgere “l’evento” in impasto di allusioni, pettegolezzi, mistificazioni. Se dovessimo stare alle […] L'articolo Dall’Alaska a piccoli passi su Contropiano.
Il “vertice degli esclusi” si dichiara vincitore
C’è qualcosa di patetico nella postura militaresca dei nanerottoli europei riuniti ieri per cercare di condizionare, all’ultimo minuto, l’incontro tra Trump e Putin ad Anchorage, in Alaska. Zelensky (mai così dimesso e farfugliante, nei video), Macron, Starmer, Merz, Meloni, Tusk per la Polonia, Stubb per la Finlandia, von Der Leyen […] L'articolo Il “vertice degli esclusi” si dichiara vincitore su Contropiano.
Assemblea in Val Susa: «Resistere alla guerra per pretendere una trasformazione radicale»
Una gruppo di soggetti diversi ha lanciato la proposta di una assemblea nazionale a Venaus il 27 luglio, dal nome “Guerra alla guerra” nell’ambito del tradizionale Festival ad Alta Felicità. Abbiamo intervistato un gruppo di compagnx che hanno scritto il documento di invito per comprendere quali analisi abbiano portato alla convocazione di quella assemblea e quali prospettive immaginino per l’autunno. Qual è stato il percorso che vi ha portat3 a scrivere il documento “Guerra alla guerra” e a convocare l’assemblea in Valsusa per il 27 luglio? L’idea di convocare l’assemblea in Valsusa del 27 luglio è nata all’interno di un dibattito che va avanti da mesi fra i collettivi studenteschi che nelle università, da Cosenza a Torino, da Milano a Roma, hanno animato le intifada studentesche, fra le realtà politiche che si muovono all’interno delle periferie, come quella del Quarticciolo, fra chi fa lavoro politico nelle battaglie territoriali contro le grandi opere e costruisce forme di rifiuto della guerra nelle metropoli lungo tutta la penisola. Ma lo spazio che abbiamo immaginato vuole essere di tutt3 non solo di chi ha pensato di convocare l’assemblea. Vuole essere uno spazio di incontro dove esplicitare degli interrogativi collettivi che in questa fase di accelerazioni internazionali spesso non trovano spazio e tempo per essere dibattuti. Non ce lo nascondiamo. Sarà un incontro tra militanti di organizzazioni politiche. Da questo punto di vista è piuttosto un momento che proverà a individuare le domande giuste e condivise per aprire un percorso più che presentare una ricetta per far fronte all’impotenza collettiva dell’escalation della guerra. Non vogliamo rappresentare la paura che ci assale quando pensiamo allo stato di guerra interna ed esterna ai nostri paesi, non vogliamo rappresentare un movimento e un conflitto che non c’è, non vogliamo essere mossi solo dall’urgenza di cambiare le cose in questa fase storica. L’urgenza/l’emergenza sembra essere una costante da diverso tempo ed è il dispositivo tramite il quale vengono applicate leggi di austerità o che aumentano il controllo sulle persone e i territori. Non vogliamo neanche sostituirci a tutte quelle forze più o meno organizzate che hanno, finora, creato degli spazi di dibattito e mobilitazione contro il riarmo dell’Italia e dell’Europa. > Vogliamo innescare – a partire dalle lotte significative, per quanto parziali, > esistenti oggi in vari territori – un processo di convergenza che metta a > disposizione le capacità e i saperi accumulati per stimolare la partecipazione > collettiva. Come si fa e con quali strumenti a innescare un dibattito pubblico sulla guerra? Quale ruolo possiamo avere noi – collocandoci in un Paese occidentale che è complice e artefice dei conflitti internazionali – nel fermare la guerra e chi produce armi e accumula profitti sulla guerra? E quindi – perché non si può pensare all’uno senza l’altro – come mettere in discussione il capitalismo e le democrazie al suo servizio? Sembra sotteso al vostro documento la necessità di allargare l’orizzonte di mobilitazione anche a chi non è militante politico, ma sente l’urgenza oggi di agire contro la guerra. Come si possono raggiungere queste persone oggi? Con quali strumenti e quali linguaggi? Evitando quali errori del passato? È proprio questo il nodo ma parlare di errori forse è fuorviante. Spesso riproduciamo schemi e proposte che non sono all’altezza della fase storica. Proponiamo ritualità. Se vogliamo essere del tutto onesti anche l’assemblea convocata in Val di Susa potrebbe sembrare una ritualità ma siamo felici di venire accolte e accolti nella valle che resiste, una lotta simbolo che appartiene a tutti e tutte, così di lunga durata che è attraversata da giovani e meno giovani, che ci ha insegnato come metodo la condivisione di un obiettivo comune. Inoltre, è anche l’emblema della guerra a bassa intensità che lo Stato porta avanti sui territori “sacrificabili”. Nonostante la documentata inutilità dell’opera, quello che si vuole piegare è la forza che autorganizza un territorio e che vuole decidere del destino delle montagne e della salute di chi vi abita. Pensiamo ci sia bisogno, quindi, non solo di approfondire un dibattito ma di condividere un metodo. Il paese è cambiato profondamente nel giro di non troppo tempo e quando parliamo di fascistizzazione della società non ci riferiamo solo all’azione politica dell’estrema destra di Governo. Ci riferiamo al fatto che la società civile nell’ipermodernità ha posizione conservatrici, oscurantiste, dietrologiche e la ragione principale di questa postura è che è aumentata vertiginosamente la competizione, l’individualismo, il carrierismo, il consumo di merci e affetti: l’effetto sulle nostre vite del capitalismo avanzato. Eventi tragici così come la pandemia da Covid-19 e il genocidio in Palestina hanno spezzato questa quotidianità e molte persone si chiedono qual è lo scopo della loro messa a valore, per quale motivo, per quale paese e quale società si svegliano la mattina per andare a farsi sfruttare. Per molti, la reazione subito dopo la pandemia è stata quella di fuoriuscire dal mercato del lavoro classico per unirsi a spazi di mutuo aiuto, ad associazioni di solidarietà, per lavorare in organizzazioni internazionali umanitarie, nelle file del cattolicesimo di base. È una militanza anche questa per certi versi. Anche qui la domanda non è «come si fa ad allargare l’orizzonte di mobilitazione anche a chi non è militante politico», perché capiamo il senso ma in parte pecca di presunzione. La domanda è come si fa a individuare un orizzonte comune con le migliaia di persone che già si mobilitano nelle forme e nei luoghi diversi da quelli che attraversiamo noi nelle nostre nicchie residuali. In tanti decidono di mettere a disposizione le proprie capacità là dove hanno la sensazione di poter incidere sul reale. Le mobilitazioni classiche che proponiamo non hanno questo tipo di appeal ormai, questo non vuol dire che non siano necessarie. In questo senso pensiamo che il metodo utilizzato dalle student3 universitari3 sia da approfondire. Mettere in discussione l’utilizzo delle risorse pubbliche per finanziare la ricerca per le industrie delle armi ci sembra una delle poche azioni incisive a sostegno della Palestina che si sono manifestate durante l’anno. Moltissime università hanno aderito al boicottaggio (quindi è stata una lotta riproducibile); molte facoltà hanno deciso di chiudere i rapporti con le università israeliane (è stata una lotta vincente); l’istallazione delle tende ha creato uno spazio di incontro e di dibattito (quindi è stata aggregante). Ovviamente non ci sembra sufficiente. Bisognerebbe, quindi, lavorare su strumenti e pratiche che aprano un dibattito pubblico più che impartire ricette. Pensiamo a chi lotta contro la devastazione dei territori, a chi lotta contro l’occupazione e l’ampliamento delle basi militari, a chi occupa le fabbriche per ottenere una riconversione in senso ecologico, a chi resiste al Dl Caivano e al Dl Sicurezza nelle periferie, a chi costruisce battaglie per l’aumento dei salari e la riduzione delle ore di lavoro nel comparto della logistica e nelle campagne, a chi organizza gli scioperi, a chi si siede per strada per denunciare le decisioni scellerate dei governi che aumentano le problematiche relative al cambiamento climatico, chi da dieci anni, ormai, scende in piazza come marea contro la violenza di genere. Tutto questo è guerra interna che ha la stessa matrice della guerra esplicita sul territorio russo/ucraino, palestinese, iraniano, pakistano, congolese, purtroppo l’elenco potrebbe continuare. Se il nemico è comune «abbiamo amici dappertutto». Corteo 21 giugno a Roma – di Jacopo Clemenzi Nel corso di quest’anno ci sono stati soggetti che hanno sottolineato la centralità del nodo della guerra: la Rete Reset che ha organizzato una tre giorni a marzo, la coalizione Stop Rearm Europe che ha convocato il corteo del 21 giugno e la stessa Non Una di Meno che ha posto il tema della guerra come focus di molti cortei nell’ultimo anno. Come immaginate una collaborazione con questi soggetti a partire dai molti punti in comune di analisi? Immaginate di essere all’interno della serie televisiva Andor, uno spin off di Star Wars, da cui abbiamo estrapolato uno degli slogan per chiamare questa assemblea del 27 luglio. Siamo in una galassia sterminata con centinaia di pianeti. Alcuni di questi hanno già individuato il problema, alcuni resistono all’estrattivismo delle risorse naturali, alcuni si rivoltano nelle carceri, altri utilizzano metodi classici della partecipazione politica, altri fuggono dai loro pianeti in cerca di fortuna, altri vivono nel cuore della bestia. Come facciamo a mettere a sistema i saperi e le capacità di ognuna e ognuno, individui e collettività? Come si fa a scambiare saperi, pratiche, strumenti che spesso rimangono rilegati all’interno di lotte specifiche o di cerchie ristrette? Come si costruisce una radio interplanetaria, come si coinvolge il mondo dello spettacolo in crisi, come si dà voce a chi voce non ha? Come si trovano gli schemi della “morte nera”? Come si coinvolgono le maestranze che li sanno leggere? Come si coinvolgono i piloti che sono in grado di distruggere l’arma che con un solo click può far implodere un pianeta? Più che di collaborazione si tratta di mettere a disposizione strumenti e capacità che già ognuno sperimenta, per un obiettivo comune. Non crediamo che oggi si possa pensare in termini di dirigenze che guidino o rappresentino qualcuno se questo qualcuno è oggettivamente assente o disperso. > Oggi si tratta di costruire delle infrastrutture che siano in grado di > riprodurre saperi e pratiche, che siano in grado di sapere e saper fare, > distribuire questo sapere piuttosto che saper dirigere assemblee. Convergere, > secondo noi, vuol dire condividere saperi e pratiche piuttosto che generare > una sommatoria delle debolezze esistenti oppure creare l’ennesima sigla contro > la guerra. Crediamo che la Rete Reset, Stop Rearm Europe e Non Una di Meno come altri pezzi che si sono mobilitati in questo ultimo anno abbiano diverse di queste caratteristiche da poter condividere senza perdere la propria specificità e la programmazione che già si è data dopo la mobilitazione del 21 giugno. Nel documento sottolineate quanto il regime di guerra oggi connette un campo di azioni vasto che va dalle Indicazioni nazionali di Valditara fino ai Decreti Sicurezza e all’aumento di spesa per il riarmo. Come si può riuscire, a vostro parere, a evidenziare questa connessione che potenzialmente genera una ampia convergenza tra movimenti? Come dicevamo pensiamo ci sia una guerra ad alta intensità su alcuni territori del pianeta e una guerra a bassa intensità all’interno dei nostri Paesi che ci aiuta in primis a capire che il capitalismo ciclicamente alterna periodi di pace e di guerra e che questo si esplica su vari livelli e con diversi livelli di intensità nel tempo e nello spazio; in secundis che individuare la radice del problema ci costringe a pensare a un internazionalismo che non è fatto di “solidarietà” ai popoli oppressi ma da pratiche che mirano alla messa in discussione di un unico regime economico e sociale. Noi non dobbiamo scendere in piazza perché ci dispiace per i morti in Palestina, certo anche, è ovvio, ma perché, come si diceva un tempo, il «Vietnam è qui!». Le deportazioni forzate dell’ICE negli Stati Uniti, le migliaia di morti sulle nostre coste, la violenza che si dispiega nelle nostre strade, la riduzione drastica di servizi sanitari di qualità, lo svuotamento delle strutture educative, la devastazione di intere regioni per metterle al servizio delle basi militari o per estrarre risorse, la turistificazione selvaggia delle città, tutto questo è reale e non è una proiezione. È qui, è oggi. Le e gli zapatisti ci dicono sempre di non chiedergli come sostenere la loro lotta ma di chiederci come si fa alle nostre latitudini, come si fa a rompere la nostra stessa oppressione nei luoghi in cui viviamo. Questa è la migliore forma di sostegno alle popolazioni oppresse e a quelle che resistono. Poi, come detto nel seguito dell’intervista, vorremmo soffermarci su un altro aspetto. Pensiamo che parlare di resistenza senza affiancargli un’idea di mondo sia problematico perché il mondo com’era prima dell’arrivo della guerra, prima dell’arrivo delle linee guida sulla scuola, prima delle ruspe che devastano la Val di Susa, prima del Dl Sicurezza e del Dl Caivano non ci piaceva così com’era. Si tratta di resistere ma anche di pretendere una trasformazione radicale. E allora dobbiamo costruire un piano, come ci insegna il movimento transfemminista, e avere però anche l’ambizione di applicarlo per poter forgiare saperi e pratiche e poter vincere delle battaglie. L’azione collettiva deve poter avere dei risultati perché la partecipazione di ognuno non possa essere vana, sul piano materiale e quello immateriale e anche se fosse un piccolo, parziale, microscopico cambiamento rimane un avanzamento. Da questo punto di vista bisognerebbe evitare di cadere nell’errore dei posizionamenti a cui ci costringono. Prima di tutto sono state spesi fiumi di parole sull’uso strumentale della parola terrorismo su cui non ritorneremo qui. In seconda battuta, dovremmo fare attenzione durante le lotte di resistenza e di avanzamento a chiederci che mondo vorremmo costruire, cosa che nel nichilismo dell’impotenza che ha prodotto e ipotizzato la “fine del mondo” ci siamo dimenticati di curare. Ci limitiamo a scegliere in che fazione stare come se avesse un peso nell’economia del mondo la nostra opinione. Forse è il momento di superare queste semplificazioni e queste posture. Corteo in Val di Susa – di Riccardo Carraro Alla fine del documento accennate alla possibilitá di un momento di mobilitazione comune in autunno, e che il percorso per arrivarci si deciderà assieme, ci sono già idee in tal senso? Superare la frammentazione che abbiamo visto in questi anni è fondamentale. Non perché quello che muove è un desiderio di unità, piuttosto evitare che questa frammentazione possa essere un tappo alla mobilitazione piuttosto che uno stimolo. Il desiderio di unità come quello di organizzazione politica ci sembra fuorviante in questa fase storica. Cosa unisci? Cosa organizzi di fronte a un paese pacificato, dove il conflitto si dispiega in linea orizzontale? Non sappiamo se il 27 sarà la sede giusta dove innescare un dibattito pubblico proficuo, facciamo un tentativo. Rompere gli schemi può essere un buon punto di partenza. È necessario un momento di mobilitazione comune in autunno? Crediamo di sì. Questo corrisponde a un corteo? A una mobilitazione comune in ogni città? All’istallazione di presidi di discussione nelle università? Non lo sappiamo. Non possiamo però pensarci su un periodo così breve. Se c’è effettivamente qualcosa su cui scommettere nel nostro paese per portare avanti una trasformazione radicale ha bisogno di essere pensata sul lungo periodo, non nell’arco di uno spazio limitato che ricade nella ritualità e nell’emergenzialità di cui sopra. Ci metteremo degli anni per ottenere i risultati che speriamo? Non importa. Oggi è il tempo di curare gli spazi di partecipazione, di aprire un dibattito pubblico serio, di diffondere saperi e pratiche organizzative, di contaminare la società. Fissiamo degli obiettivi comuni su cui lavorare. Sicuramente, pensiamo sia importante contrapporre al riarmo dell’Europa il disarmo dei paesi che possiedono la bomba nucleare, ribadire l’importanza di revocare il memorandum d’intesa per la collaborazione militare tra l’Unione europea e Israele a partire dall’Italia. Pretendere invece che le risorse pubbliche vengano utilizzate per mettere in sicurezza i territori, pensare a una conversione ecologica delle industrie, investire su educazione, salute e abitare. Immagine di copertina dal corteo del 21 giugno a Roma, foto Jacopo Clemenzi SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress si può donare sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo Assemblea in Val Susa: «Resistere alla guerra per pretendere una trasformazione radicale» proviene da DINAMOpress.
Le nuove forme della guerra e la pace che verrà: prospettive dalla Colombia
Le nuove forme della guerra, come le definisce l’antropologa argentina Rita Segato, non si limitano alle dispute territoriali o alle risorse, ma si concentrano sul controllo di popolazioni, corpi e soggettività: la guerra è, quindi, il linguaggio della dominazione assoluta. In queste nuove guerre, la crudeltà assume un valore simbolico e comunicativo, o come dice Segato, «espressivo», che produce effetti concreti nel contesto dell’occupazione territoriale. Con la privatizzazione dell’uso della violenza, gli effetti delle azioni di guerra restano al di fuori dei limiti della legge e questo spostamento consente agli attori armati di usare questa spettacolarità come una finestra privilegiata all’interno del campo che intendono occupare. L’impiego di droni pilotati a distanza e le riprese video dei loro risultati diventano azioni congiunte per instillare la paura: l’aria trema in un’atmosfera rarefatta. > La guerra si trasforma così in un’industria che combina i progressi della > conoscenza scientifica con l’esercizio del potere per occupare un territorio. > I suoi attori contemporanei hanno trasformato la violenza armata in una merce > in vendita nella quale i corpi, soprattutto quelli dei giovani marginalizzati, > sono sacrificabili (la necropolitica). Nel quadro della cosiddetta “guerra alla droga”, i cartelli del narcotraffico operano come multinazionali che subappaltano a piccole agenzie criminali i loro lavori più sporchi: dagli omicidi mirati alle operazioni logistiche, tutto è affidato a giovani precari che scelgono la violenza come un ordine dall’alto. Le trame della guerra si intrecciano con le rendite fondiarie e in questa logica la forza motrice è l’accumulazione: un desiderio che oggi sembra inesauribile e che contraddice la finitezza della vita stessa. In Colombia, possiamo vedere chiaramente come la violenza armata, un tempo considerata motivata politicamente, sia stata sostituita da nuovi sistemi di guerra locale in cui attori armati hanno creato una serie di frontiere interne nelle quali si regolamentano corpi, si confinano popolazioni e si compiono omicidi mirati. Allo stesso tempo, l’economia della rendita del narcotraffico permea la maggior parte delle attività quotidiane e il controllo sui corpi è imposto tramite rigidi codici della strada. I territori occupati dagli attori armati funzionano come governi privati indiretti, governati dalla forza e dal controllo dei profitti derivanti da attività legali e illegali, operando come filiali del grande capitale che nasconde i propri profitti tra il sistema bancario e i nuovi fenomeni di investimento di capitali. > Il governo di Gustavo Petro ha ragione a proporre una strategia per far fronte > alla dinamica di queste nuove forme di guerra. La pace totale, con i suoi > successi e fallimenti, deve consolidarsi come politica statale che affronti > queste dinamiche di frontiere interne e di scontro per il controllo dei > proventi illeciti. La pace che verrà deve interrompere la circolazione di questi proventi, trasformando le condizioni di queste migliaia di giovani assoldati per combattere una guerra che avvantaggia solo i grandi narcotrafficanti. Per consolidare questa pace, è necessario pacificare e ridurre le violenze, trasformare i territori in modo che nessun giovane scelga la guerra e consolidare la collaborazione tra istituzioni statali e organizzazioni della società civile per destabilizzare le economie che il narcotraffico ha costituito nel corso di decenni. La sicurezza territoriale è un elemento fondamentale del futuro processo di pace e non può limitarsi alla presenza di forze militari nei territori. Piuttosto, deve essere concepita all’interno delle trasformazioni che rendano possibile la pace come risultato di azioni concrete e durature. Per garantire che queste trasformazioni siano sentite dalla cittadinanza, è necessario consolidare un orizzonte futuro in cui nessuna vita sia sacrificabile. Il prossimo processo di pace deve essere concreto e può essere promosso soltanto sotto l’egida di una società civile che comprenda la natura complessa di questi nuovi regimi di guerra. Articolo pubblicato dall’autore, dottore in Filosofia, Universidad de los Andes, co-fondatore di REC-America Latina, professore universitario e consulente, sul sito del Centro Ciam. Ringraziamo per la disponibilità alla traduzione e pubblicazione in italiano. Traduzione a cura di Michele Fazioli per Dinamopress. Immagine di copertina di Alioscia Castronovo (Street art di Colectivo Dexpierte, Casa de La Paz La Trocha, Bogotá) L'articolo Le nuove forme della guerra e la pace che verrà: prospettive dalla Colombia proviene da DINAMOpress.
Le foto della manifestazione del 21 giugno
Migliaia e migliaia di persone hanno attraversato Roma sabato 21 giugno contro la politica di riarmo europeo. Dalle 14.00 tantissime persone, comitati collettivi, reti provenienti da tutta Italia hanno attraversato la città per dire no al genocidio, no alle politiche belliche, no alla guerra. In contemporanea e in rete con decine di città europee, anche a Roma si è costruita una mobilitazione contro il regime di guerra, che sembra sempre più trascinarci verso violenza senza fine. L’alternativa c’è ed è stata ribadita: uno sciopero sociale europeo contro la guerra e il suo meccanismo di denaro e morte. LE FOTO DI JACOPO CLEMENZI * * * * * * * * LE FOTO DI RENATO FERRANTINI * * * * LE FOTO DI MILOS SKAKAL * * * * * * * * * L’immagine di copertina è di Jacopo Clemenzi SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress si può donare sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo Le foto della manifestazione del 21 giugno proviene da DINAMOpress.
Quel nodo alla gola
L’ORRORE IN PALESTINA SEMBRA INFINITO. MA C’È UN FILO CHE LEGA LE GRANDI PROTESTE CONTRO LA GUERRA IN VIETNAM ALLE MANIFESTAZIONI E ALLE INIZIATIVE CONTRO LA FEROCE AGGRESSIONE IN PALESTINA DI QUESTI GIORNI, DI CUI VEDIAMO BEN POCO. QUEL FILO CI DICE ALMENO DUE COSE. LA PRIMA: LA FOTOGRAFIA, LA PROTESTA E IL RACCONTO, ALLORA COME OGGI, ROMPONO IL SILENZIO. LA SECONDA: NESSUNO È IN GRADO DI FAR SCOMPARIRE PER SEMPRE IL DESIDERIO E IL CORAGGIO DI LOTTARE, OVUNQUE E IN TANTI MODI, PER UN MONDO DIVERSO E SENZA GUERRE Foto di Donne in nero Parma -------------------------------------------------------------------------------- Un nodo mi rende afasica nella parola ma non nei sentimenti e nei pensieri. Ogni giorno l’aggressione di Netanyahu si fa sempre più cruenta, estesa e pericolosa anche dopo l’attacco all’Iran ma questo non basta ancora ai governi europei per chiudere ogni trattato commerciale e militare con Israele chiedendosi ancora ipocritamente se Netanyahu stia violando i diritti umani dopo aver ucciso, ferito e affamato 50.000 bambini e altri 54.000 civili, distrutto villaggi, case e ospedali, affamato tutto il popolo palestinese, bloccato gli aiuti umanitari, ucciso più di 200 giornalisti e distrutto infine l’ultima linea in fibra ottica con l’obiettivo finale di non mostrare questo eccidio agli occhi del mondo e isolare, ridurre a macerie Gaza per costringere poi il popolo palestinese sopravvissuto a emigrare. Noi di questa guerra vediamo ben poco, vediamo le immagini delle scie Iron Dome, “cupole di ferro” e non vediamo il volto e i corpicini dei bambini uccisi e racchiusi dentro il sudario. Il loro nome rimane scritto con il sangue. Anche quando non conosciamo i loro nomi, quando non vediamo i loro volti, le loro ferite sanguinanti, le loro mutilazioni e cicatrici, noi vediamo l’orrore e la disumanità perpetrata da Israele. Non vediamo quando bevono acqua contaminata, quando mangiano pane ammuffito, quando un bambino si contorce perché affamato. Aya Ashour, 24 anni, impegnata a difendere i diritti dei bambini e delle donne palestinesi, ha provato a raccontare ciò che rimane sotterrato nel silenzio. Gli anni Settanta non sono poi così lontani Non so bene perché ma il riferimento agli anni Settanta mi insegue spesso. Forse è inevitabile per la mia età. Non è per dire come eravamo quanto piuttosto per non disorientarmi nel presente e nel come saremo. Mi sembra difficile mantenere viva una coscienza se non si tiene agganciata al passato come per afferrare temporalmente e politicamente il senso ampio della metafora “ciò che accade a valle ha inizio a monte”. Il legame, non quello retorico, tra passato e presente è ciò che ci consente di comprendere il nesso, le correlazioni tra gli avvenimenti e quale possibile futuro disegneranno. La guerra in Vietnam è ancora nei nostri ricordi. Mostrò tutta la violenza e il suo orrore – ricordiamo tuttə la foto “Napalm girl” di Nick Ut – e sollevò proteste e movimenti ovunque con manifestazioni di solidarietà per il popolo vietnamita e al contempo di opposizione verso l’intervento statunitense. La questione guerra e pace entrò in ogni contestazione mettendo in discussione il sistema capitalistico e ogni forma di potere e di autoritarismo. E credo che le manifestazioni di protesta di questi giorni negli Usa contro il pugno di ferro trumpista abbiano delle ragioni che discendono da allora. -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE > Primavera americana? -------------------------------------------------------------------------------- Nel 2006 uscì in Italia un libro del giornalista Gianluigi Ricuperati dal titolo Fucked Up. Nel libro furono pubblicate fotografie dei soldati statunitensi in Iraq e Afghanistan e che erano state raccolte da un sito in rete di un cittadino americano C. Wilson. Quando gli Stati Uniti entrarono in guerra, Wilson offrì ai soldati la possibilità di accedere gratuitamente alle sue pagine di pornografia web in cambio dell’invio di foto scattate sui campi di battaglia. L’operazione fu un successo(macabro) fino a quando la polizia statunitense chiuse il sito. Ma l’orrore e la brutalità della guerra andò comunque in scena appoggiandosi a un server olandese. La fotografia, la protesta e il racconto, allora come oggi, rompono il silenzio, la censura e le regole complici dei giochi di guerra. La memoria ha una carica antagonista Mario Tronti, tra i fondatori del movimento marxista operaista, riferendosi al movimento operaio diceva che “Quella storia è morta. A che serve politicamente riesumarla in un tempo che non la riconosce? Serve intanto per imparare come si lotta. Non solo. La memoria è un’arma. La memoria ha una carica antagonista, una potenza dirompente”. Il passaggio dagli anni Settanta ad oggi è stato veloce per me ma non è stato mai un vuoto. “Lasciamo libero il passaggio” (come nella foto di Mario Piselli) dove le identità vecchie e nuove di questo mondo si ri-compongono, dove le nostre identità costruite come in un puzzle continuano a comporsi tra passato e presente nel timore di un futuro che già si rivela per ciò che sarà. Tra ciò che siamo riusciti ad essere nonostante quello che abbiamo scoperto come verità tenute ben nascoste e ciò che le verità stanno mostrando oggi dentro questa destabilizzante insicurezza mondiale di “chi combatte chi“ ogni giorno e nelle diverse forme di oppressione, repressione, di un bellicismo patologico militare, finanziario e politico che allunga le sue mani sul mondo (il film” Trama Fenicia” di Wes Anderson lo mette in mostra tra satira e realismo anche se il suo realismo oltrepassa la satira) mentre si fa modello di un bellicismo sociale. Tempo fa ho visto la mostra fotografica con il libro di Mario Piselli: ”Padroni di niente Servi di nessuno”. Ero lì ferma davanti a quelle foto che ripercorrevano, fermandolo, quella sana ribellione piena di speranza che erano già per noi certezze presenti nelle nostre lotte degli anni Settanta. Non so se oggi il capitalismo sia in crisi, dopo questo lungo tempo nel quale abbiamo vissuto giorno dopo giorno il significato, il valore e la forza delle lotte, dell’impegno sociale, delle conquiste e dei movimenti. Lo pensavo in crisi, pensavo che stesse grattando le sue unghie sul vetro, certo con più ferocia, ma come se fosse arrivata la fine del suo tempo. Non sono più certa di questo ma continuo a credere in ciò che è stato il tempo di quella storia personale e collettiva, continuo a credere che il tempo si stringe di volta in volta le mani in una sorta di patto reciproco tra passato e presente, si stringe nell’abbraccio, come fanno i buoni amici e le buone amiche, consegna sempre qualcosa al tempo successivo, quel valore assoluto in ciò che abbiamo di umano, nella nostra ricerca continua di uno spazio e di un tempo che riconosca il significato del diritto in sé e con lui riconosca il senso del vivere, dignitoso e libero per tuttə, per ogni popolo in ogni parte del mondo. Oggi come ieri scriviamo un nuovo inizio ogni volta che mettiamo in campo quella nostra speranza unita alla consapevolezza, insieme all’affermazione e determinazione ad esserci come collettività civica e politica, proprio in quella nostra capacità di sentirci comunità aperta e che continua ad appartenere al nostro agire quotidiano, a quella visione che da allora e ancora oggi guida le nostre vite, il nostro fare con la mia ferma convinzione di credere che continueremo a farlo affinché nessun capo di governo, nessun potere tecnologico/militare o nessun Musk o P. Thiel o Karp possa dire alle nuove generazioni e a quelle future “scordatevi la pace, scordatevi la democrazia”. -------------------------------------------------------------------------------- Ambra Pastore, educatrice e pedagogista, ha lavorato come istruttrice amministrativa nell’ambito dell’Area Tecnico Educativa del Comune di Roma. Oggi, tra le altre cose, fa parte delle rete Arce. Altri suoi articoli sono leggibili qui. Ha aderito alla campagna Partire dalla speranza e non dalla paura -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Quel nodo alla gola proviene da Comune-info.
A Pisa “Nessuna Base per Nessuna Guerra”: un report
Tanta gente e soprattutto tante e tanti giovani a Pisa per l’importante iniziativa Scelte disarmanti, al Centro Espositivo delle Piagge. Al convegno, organizzato dai ragazzi e dalle ragazze del collettivo Movimento No Base – Né a Coltano né altrove,… Leggi tutto L'articolo A Pisa “Nessuna Base per Nessuna Guerra”: un report sembra essere il primo su La Città invisibile | perUnaltracittà | Firenze.