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Assemblea in Val Susa: «Resistere alla guerra per pretendere una trasformazione radicale»
Una gruppo di soggetti diversi ha lanciato la proposta di una assemblea nazionale a Venaus il 27 luglio, dal nome “Guerra alla guerra” nell’ambito del tradizionale Festival ad Alta Felicità. Abbiamo intervistato un gruppo di compagnx che hanno scritto il documento di invito per comprendere quali analisi abbiano portato alla convocazione di quella assemblea e quali prospettive immaginino per l’autunno. Qual è stato il percorso che vi ha portat3 a scrivere il documento “Guerra alla guerra” e a convocare l’assemblea in Valsusa per il 27 luglio? L’idea di convocare l’assemblea in Valsusa del 27 luglio è nata all’interno di un dibattito che va avanti da mesi fra i collettivi studenteschi che nelle università, da Cosenza a Torino, da Milano a Roma, hanno animato le intifada studentesche, fra le realtà politiche che si muovono all’interno delle periferie, come quella del Quarticciolo, fra chi fa lavoro politico nelle battaglie territoriali contro le grandi opere e costruisce forme di rifiuto della guerra nelle metropoli lungo tutta la penisola. Ma lo spazio che abbiamo immaginato vuole essere di tutt3 non solo di chi ha pensato di convocare l’assemblea. Vuole essere uno spazio di incontro dove esplicitare degli interrogativi collettivi che in questa fase di accelerazioni internazionali spesso non trovano spazio e tempo per essere dibattuti. Non ce lo nascondiamo. Sarà un incontro tra militanti di organizzazioni politiche. Da questo punto di vista è piuttosto un momento che proverà a individuare le domande giuste e condivise per aprire un percorso più che presentare una ricetta per far fronte all’impotenza collettiva dell’escalation della guerra. Non vogliamo rappresentare la paura che ci assale quando pensiamo allo stato di guerra interna ed esterna ai nostri paesi, non vogliamo rappresentare un movimento e un conflitto che non c’è, non vogliamo essere mossi solo dall’urgenza di cambiare le cose in questa fase storica. L’urgenza/l’emergenza sembra essere una costante da diverso tempo ed è il dispositivo tramite il quale vengono applicate leggi di austerità o che aumentano il controllo sulle persone e i territori. Non vogliamo neanche sostituirci a tutte quelle forze più o meno organizzate che hanno, finora, creato degli spazi di dibattito e mobilitazione contro il riarmo dell’Italia e dell’Europa. > Vogliamo innescare – a partire dalle lotte significative, per quanto parziali, > esistenti oggi in vari territori – un processo di convergenza che metta a > disposizione le capacità e i saperi accumulati per stimolare la partecipazione > collettiva. Come si fa e con quali strumenti a innescare un dibattito pubblico sulla guerra? Quale ruolo possiamo avere noi – collocandoci in un Paese occidentale che è complice e artefice dei conflitti internazionali – nel fermare la guerra e chi produce armi e accumula profitti sulla guerra? E quindi – perché non si può pensare all’uno senza l’altro – come mettere in discussione il capitalismo e le democrazie al suo servizio? Sembra sotteso al vostro documento la necessità di allargare l’orizzonte di mobilitazione anche a chi non è militante politico, ma sente l’urgenza oggi di agire contro la guerra. Come si possono raggiungere queste persone oggi? Con quali strumenti e quali linguaggi? Evitando quali errori del passato? È proprio questo il nodo ma parlare di errori forse è fuorviante. Spesso riproduciamo schemi e proposte che non sono all’altezza della fase storica. Proponiamo ritualità. Se vogliamo essere del tutto onesti anche l’assemblea convocata in Val di Susa potrebbe sembrare una ritualità ma siamo felici di venire accolte e accolti nella valle che resiste, una lotta simbolo che appartiene a tutti e tutte, così di lunga durata che è attraversata da giovani e meno giovani, che ci ha insegnato come metodo la condivisione di un obiettivo comune. Inoltre, è anche l’emblema della guerra a bassa intensità che lo Stato porta avanti sui territori “sacrificabili”. Nonostante la documentata inutilità dell’opera, quello che si vuole piegare è la forza che autorganizza un territorio e che vuole decidere del destino delle montagne e della salute di chi vi abita. Pensiamo ci sia bisogno, quindi, non solo di approfondire un dibattito ma di condividere un metodo. Il paese è cambiato profondamente nel giro di non troppo tempo e quando parliamo di fascistizzazione della società non ci riferiamo solo all’azione politica dell’estrema destra di Governo. Ci riferiamo al fatto che la società civile nell’ipermodernità ha posizione conservatrici, oscurantiste, dietrologiche e la ragione principale di questa postura è che è aumentata vertiginosamente la competizione, l’individualismo, il carrierismo, il consumo di merci e affetti: l’effetto sulle nostre vite del capitalismo avanzato. Eventi tragici così come la pandemia da Covid-19 e il genocidio in Palestina hanno spezzato questa quotidianità e molte persone si chiedono qual è lo scopo della loro messa a valore, per quale motivo, per quale paese e quale società si svegliano la mattina per andare a farsi sfruttare. Per molti, la reazione subito dopo la pandemia è stata quella di fuoriuscire dal mercato del lavoro classico per unirsi a spazi di mutuo aiuto, ad associazioni di solidarietà, per lavorare in organizzazioni internazionali umanitarie, nelle file del cattolicesimo di base. È una militanza anche questa per certi versi. Anche qui la domanda non è «come si fa ad allargare l’orizzonte di mobilitazione anche a chi non è militante politico», perché capiamo il senso ma in parte pecca di presunzione. La domanda è come si fa a individuare un orizzonte comune con le migliaia di persone che già si mobilitano nelle forme e nei luoghi diversi da quelli che attraversiamo noi nelle nostre nicchie residuali. In tanti decidono di mettere a disposizione le proprie capacità là dove hanno la sensazione di poter incidere sul reale. Le mobilitazioni classiche che proponiamo non hanno questo tipo di appeal ormai, questo non vuol dire che non siano necessarie. In questo senso pensiamo che il metodo utilizzato dalle student3 universitari3 sia da approfondire. Mettere in discussione l’utilizzo delle risorse pubbliche per finanziare la ricerca per le industrie delle armi ci sembra una delle poche azioni incisive a sostegno della Palestina che si sono manifestate durante l’anno. Moltissime università hanno aderito al boicottaggio (quindi è stata una lotta riproducibile); molte facoltà hanno deciso di chiudere i rapporti con le università israeliane (è stata una lotta vincente); l’istallazione delle tende ha creato uno spazio di incontro e di dibattito (quindi è stata aggregante). Ovviamente non ci sembra sufficiente. Bisognerebbe, quindi, lavorare su strumenti e pratiche che aprano un dibattito pubblico più che impartire ricette. Pensiamo a chi lotta contro la devastazione dei territori, a chi lotta contro l’occupazione e l’ampliamento delle basi militari, a chi occupa le fabbriche per ottenere una riconversione in senso ecologico, a chi resiste al Dl Caivano e al Dl Sicurezza nelle periferie, a chi costruisce battaglie per l’aumento dei salari e la riduzione delle ore di lavoro nel comparto della logistica e nelle campagne, a chi organizza gli scioperi, a chi si siede per strada per denunciare le decisioni scellerate dei governi che aumentano le problematiche relative al cambiamento climatico, chi da dieci anni, ormai, scende in piazza come marea contro la violenza di genere. Tutto questo è guerra interna che ha la stessa matrice della guerra esplicita sul territorio russo/ucraino, palestinese, iraniano, pakistano, congolese, purtroppo l’elenco potrebbe continuare. Se il nemico è comune «abbiamo amici dappertutto». Corteo 21 giugno a Roma – di Jacopo Clemenzi Nel corso di quest’anno ci sono stati soggetti che hanno sottolineato la centralità del nodo della guerra: la Rete Reset che ha organizzato una tre giorni a marzo, la coalizione Stop Rearm Europe che ha convocato il corteo del 21 giugno e la stessa Non Una di Meno che ha posto il tema della guerra come focus di molti cortei nell’ultimo anno. Come immaginate una collaborazione con questi soggetti a partire dai molti punti in comune di analisi? Immaginate di essere all’interno della serie televisiva Andor, uno spin off di Star Wars, da cui abbiamo estrapolato uno degli slogan per chiamare questa assemblea del 27 luglio. Siamo in una galassia sterminata con centinaia di pianeti. Alcuni di questi hanno già individuato il problema, alcuni resistono all’estrattivismo delle risorse naturali, alcuni si rivoltano nelle carceri, altri utilizzano metodi classici della partecipazione politica, altri fuggono dai loro pianeti in cerca di fortuna, altri vivono nel cuore della bestia. Come facciamo a mettere a sistema i saperi e le capacità di ognuna e ognuno, individui e collettività? Come si fa a scambiare saperi, pratiche, strumenti che spesso rimangono rilegati all’interno di lotte specifiche o di cerchie ristrette? Come si costruisce una radio interplanetaria, come si coinvolge il mondo dello spettacolo in crisi, come si dà voce a chi voce non ha? Come si trovano gli schemi della “morte nera”? Come si coinvolgono le maestranze che li sanno leggere? Come si coinvolgono i piloti che sono in grado di distruggere l’arma che con un solo click può far implodere un pianeta? Più che di collaborazione si tratta di mettere a disposizione strumenti e capacità che già ognuno sperimenta, per un obiettivo comune. Non crediamo che oggi si possa pensare in termini di dirigenze che guidino o rappresentino qualcuno se questo qualcuno è oggettivamente assente o disperso. > Oggi si tratta di costruire delle infrastrutture che siano in grado di > riprodurre saperi e pratiche, che siano in grado di sapere e saper fare, > distribuire questo sapere piuttosto che saper dirigere assemblee. Convergere, > secondo noi, vuol dire condividere saperi e pratiche piuttosto che generare > una sommatoria delle debolezze esistenti oppure creare l’ennesima sigla contro > la guerra. Crediamo che la Rete Reset, Stop Rearm Europe e Non Una di Meno come altri pezzi che si sono mobilitati in questo ultimo anno abbiano diverse di queste caratteristiche da poter condividere senza perdere la propria specificità e la programmazione che già si è data dopo la mobilitazione del 21 giugno. Nel documento sottolineate quanto il regime di guerra oggi connette un campo di azioni vasto che va dalle Indicazioni nazionali di Valditara fino ai Decreti Sicurezza e all’aumento di spesa per il riarmo. Come si può riuscire, a vostro parere, a evidenziare questa connessione che potenzialmente genera una ampia convergenza tra movimenti? Come dicevamo pensiamo ci sia una guerra ad alta intensità su alcuni territori del pianeta e una guerra a bassa intensità all’interno dei nostri Paesi che ci aiuta in primis a capire che il capitalismo ciclicamente alterna periodi di pace e di guerra e che questo si esplica su vari livelli e con diversi livelli di intensità nel tempo e nello spazio; in secundis che individuare la radice del problema ci costringe a pensare a un internazionalismo che non è fatto di “solidarietà” ai popoli oppressi ma da pratiche che mirano alla messa in discussione di un unico regime economico e sociale. Noi non dobbiamo scendere in piazza perché ci dispiace per i morti in Palestina, certo anche, è ovvio, ma perché, come si diceva un tempo, il «Vietnam è qui!». Le deportazioni forzate dell’ICE negli Stati Uniti, le migliaia di morti sulle nostre coste, la violenza che si dispiega nelle nostre strade, la riduzione drastica di servizi sanitari di qualità, lo svuotamento delle strutture educative, la devastazione di intere regioni per metterle al servizio delle basi militari o per estrarre risorse, la turistificazione selvaggia delle città, tutto questo è reale e non è una proiezione. È qui, è oggi. Le e gli zapatisti ci dicono sempre di non chiedergli come sostenere la loro lotta ma di chiederci come si fa alle nostre latitudini, come si fa a rompere la nostra stessa oppressione nei luoghi in cui viviamo. Questa è la migliore forma di sostegno alle popolazioni oppresse e a quelle che resistono. Poi, come detto nel seguito dell’intervista, vorremmo soffermarci su un altro aspetto. Pensiamo che parlare di resistenza senza affiancargli un’idea di mondo sia problematico perché il mondo com’era prima dell’arrivo della guerra, prima dell’arrivo delle linee guida sulla scuola, prima delle ruspe che devastano la Val di Susa, prima del Dl Sicurezza e del Dl Caivano non ci piaceva così com’era. Si tratta di resistere ma anche di pretendere una trasformazione radicale. E allora dobbiamo costruire un piano, come ci insegna il movimento transfemminista, e avere però anche l’ambizione di applicarlo per poter forgiare saperi e pratiche e poter vincere delle battaglie. L’azione collettiva deve poter avere dei risultati perché la partecipazione di ognuno non possa essere vana, sul piano materiale e quello immateriale e anche se fosse un piccolo, parziale, microscopico cambiamento rimane un avanzamento. Da questo punto di vista bisognerebbe evitare di cadere nell’errore dei posizionamenti a cui ci costringono. Prima di tutto sono state spesi fiumi di parole sull’uso strumentale della parola terrorismo su cui non ritorneremo qui. In seconda battuta, dovremmo fare attenzione durante le lotte di resistenza e di avanzamento a chiederci che mondo vorremmo costruire, cosa che nel nichilismo dell’impotenza che ha prodotto e ipotizzato la “fine del mondo” ci siamo dimenticati di curare. Ci limitiamo a scegliere in che fazione stare come se avesse un peso nell’economia del mondo la nostra opinione. Forse è il momento di superare queste semplificazioni e queste posture. Corteo in Val di Susa – di Riccardo Carraro Alla fine del documento accennate alla possibilitá di un momento di mobilitazione comune in autunno, e che il percorso per arrivarci si deciderà assieme, ci sono già idee in tal senso? Superare la frammentazione che abbiamo visto in questi anni è fondamentale. Non perché quello che muove è un desiderio di unità, piuttosto evitare che questa frammentazione possa essere un tappo alla mobilitazione piuttosto che uno stimolo. Il desiderio di unità come quello di organizzazione politica ci sembra fuorviante in questa fase storica. Cosa unisci? Cosa organizzi di fronte a un paese pacificato, dove il conflitto si dispiega in linea orizzontale? Non sappiamo se il 27 sarà la sede giusta dove innescare un dibattito pubblico proficuo, facciamo un tentativo. Rompere gli schemi può essere un buon punto di partenza. È necessario un momento di mobilitazione comune in autunno? Crediamo di sì. Questo corrisponde a un corteo? A una mobilitazione comune in ogni città? All’istallazione di presidi di discussione nelle università? Non lo sappiamo. Non possiamo però pensarci su un periodo così breve. Se c’è effettivamente qualcosa su cui scommettere nel nostro paese per portare avanti una trasformazione radicale ha bisogno di essere pensata sul lungo periodo, non nell’arco di uno spazio limitato che ricade nella ritualità e nell’emergenzialità di cui sopra. Ci metteremo degli anni per ottenere i risultati che speriamo? Non importa. Oggi è il tempo di curare gli spazi di partecipazione, di aprire un dibattito pubblico serio, di diffondere saperi e pratiche organizzative, di contaminare la società. Fissiamo degli obiettivi comuni su cui lavorare. Sicuramente, pensiamo sia importante contrapporre al riarmo dell’Europa il disarmo dei paesi che possiedono la bomba nucleare, ribadire l’importanza di revocare il memorandum d’intesa per la collaborazione militare tra l’Unione europea e Israele a partire dall’Italia. Pretendere invece che le risorse pubbliche vengano utilizzate per mettere in sicurezza i territori, pensare a una conversione ecologica delle industrie, investire su educazione, salute e abitare. Immagine di copertina dal corteo del 21 giugno a Roma, foto Jacopo Clemenzi SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress si può donare sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo Assemblea in Val Susa: «Resistere alla guerra per pretendere una trasformazione radicale» proviene da DINAMOpress.
Le nuove forme della guerra e la pace che verrà: prospettive dalla Colombia
Le nuove forme della guerra, come le definisce l’antropologa argentina Rita Segato, non si limitano alle dispute territoriali o alle risorse, ma si concentrano sul controllo di popolazioni, corpi e soggettività: la guerra è, quindi, il linguaggio della dominazione assoluta. In queste nuove guerre, la crudeltà assume un valore simbolico e comunicativo, o come dice Segato, «espressivo», che produce effetti concreti nel contesto dell’occupazione territoriale. Con la privatizzazione dell’uso della violenza, gli effetti delle azioni di guerra restano al di fuori dei limiti della legge e questo spostamento consente agli attori armati di usare questa spettacolarità come una finestra privilegiata all’interno del campo che intendono occupare. L’impiego di droni pilotati a distanza e le riprese video dei loro risultati diventano azioni congiunte per instillare la paura: l’aria trema in un’atmosfera rarefatta. > La guerra si trasforma così in un’industria che combina i progressi della > conoscenza scientifica con l’esercizio del potere per occupare un territorio. > I suoi attori contemporanei hanno trasformato la violenza armata in una merce > in vendita nella quale i corpi, soprattutto quelli dei giovani marginalizzati, > sono sacrificabili (la necropolitica). Nel quadro della cosiddetta “guerra alla droga”, i cartelli del narcotraffico operano come multinazionali che subappaltano a piccole agenzie criminali i loro lavori più sporchi: dagli omicidi mirati alle operazioni logistiche, tutto è affidato a giovani precari che scelgono la violenza come un ordine dall’alto. Le trame della guerra si intrecciano con le rendite fondiarie e in questa logica la forza motrice è l’accumulazione: un desiderio che oggi sembra inesauribile e che contraddice la finitezza della vita stessa. In Colombia, possiamo vedere chiaramente come la violenza armata, un tempo considerata motivata politicamente, sia stata sostituita da nuovi sistemi di guerra locale in cui attori armati hanno creato una serie di frontiere interne nelle quali si regolamentano corpi, si confinano popolazioni e si compiono omicidi mirati. Allo stesso tempo, l’economia della rendita del narcotraffico permea la maggior parte delle attività quotidiane e il controllo sui corpi è imposto tramite rigidi codici della strada. I territori occupati dagli attori armati funzionano come governi privati indiretti, governati dalla forza e dal controllo dei profitti derivanti da attività legali e illegali, operando come filiali del grande capitale che nasconde i propri profitti tra il sistema bancario e i nuovi fenomeni di investimento di capitali. > Il governo di Gustavo Petro ha ragione a proporre una strategia per far fronte > alla dinamica di queste nuove forme di guerra. La pace totale, con i suoi > successi e fallimenti, deve consolidarsi come politica statale che affronti > queste dinamiche di frontiere interne e di scontro per il controllo dei > proventi illeciti. La pace che verrà deve interrompere la circolazione di questi proventi, trasformando le condizioni di queste migliaia di giovani assoldati per combattere una guerra che avvantaggia solo i grandi narcotrafficanti. Per consolidare questa pace, è necessario pacificare e ridurre le violenze, trasformare i territori in modo che nessun giovane scelga la guerra e consolidare la collaborazione tra istituzioni statali e organizzazioni della società civile per destabilizzare le economie che il narcotraffico ha costituito nel corso di decenni. La sicurezza territoriale è un elemento fondamentale del futuro processo di pace e non può limitarsi alla presenza di forze militari nei territori. Piuttosto, deve essere concepita all’interno delle trasformazioni che rendano possibile la pace come risultato di azioni concrete e durature. Per garantire che queste trasformazioni siano sentite dalla cittadinanza, è necessario consolidare un orizzonte futuro in cui nessuna vita sia sacrificabile. Il prossimo processo di pace deve essere concreto e può essere promosso soltanto sotto l’egida di una società civile che comprenda la natura complessa di questi nuovi regimi di guerra. Articolo pubblicato dall’autore, dottore in Filosofia, Universidad de los Andes, co-fondatore di REC-America Latina, professore universitario e consulente, sul sito del Centro Ciam. Ringraziamo per la disponibilità alla traduzione e pubblicazione in italiano. Traduzione a cura di Michele Fazioli per Dinamopress. Immagine di copertina di Alioscia Castronovo (Street art di Colectivo Dexpierte, Casa de La Paz La Trocha, Bogotá) L'articolo Le nuove forme della guerra e la pace che verrà: prospettive dalla Colombia proviene da DINAMOpress.
Le foto della manifestazione del 21 giugno
Migliaia e migliaia di persone hanno attraversato Roma sabato 21 giugno contro la politica di riarmo europeo. Dalle 14.00 tantissime persone, comitati collettivi, reti provenienti da tutta Italia hanno attraversato la città per dire no al genocidio, no alle politiche belliche, no alla guerra. In contemporanea e in rete con decine di città europee, anche a Roma si è costruita una mobilitazione contro il regime di guerra, che sembra sempre più trascinarci verso violenza senza fine. L’alternativa c’è ed è stata ribadita: uno sciopero sociale europeo contro la guerra e il suo meccanismo di denaro e morte. LE FOTO DI JACOPO CLEMENZI * * * * * * * * LE FOTO DI RENATO FERRANTINI * * * * LE FOTO DI MILOS SKAKAL * * * * * * * * * L’immagine di copertina è di Jacopo Clemenzi SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress si può donare sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo Le foto della manifestazione del 21 giugno proviene da DINAMOpress.
Quel nodo alla gola
L’ORRORE IN PALESTINA SEMBRA INFINITO. MA C’È UN FILO CHE LEGA LE GRANDI PROTESTE CONTRO LA GUERRA IN VIETNAM ALLE MANIFESTAZIONI E ALLE INIZIATIVE CONTRO LA FEROCE AGGRESSIONE IN PALESTINA DI QUESTI GIORNI, DI CUI VEDIAMO BEN POCO. QUEL FILO CI DICE ALMENO DUE COSE. LA PRIMA: LA FOTOGRAFIA, LA PROTESTA E IL RACCONTO, ALLORA COME OGGI, ROMPONO IL SILENZIO. LA SECONDA: NESSUNO È IN GRADO DI FAR SCOMPARIRE PER SEMPRE IL DESIDERIO E IL CORAGGIO DI LOTTARE, OVUNQUE E IN TANTI MODI, PER UN MONDO DIVERSO E SENZA GUERRE Foto di Donne in nero Parma -------------------------------------------------------------------------------- Un nodo mi rende afasica nella parola ma non nei sentimenti e nei pensieri. Ogni giorno l’aggressione di Netanyahu si fa sempre più cruenta, estesa e pericolosa anche dopo l’attacco all’Iran ma questo non basta ancora ai governi europei per chiudere ogni trattato commerciale e militare con Israele chiedendosi ancora ipocritamente se Netanyahu stia violando i diritti umani dopo aver ucciso, ferito e affamato 50.000 bambini e altri 54.000 civili, distrutto villaggi, case e ospedali, affamato tutto il popolo palestinese, bloccato gli aiuti umanitari, ucciso più di 200 giornalisti e distrutto infine l’ultima linea in fibra ottica con l’obiettivo finale di non mostrare questo eccidio agli occhi del mondo e isolare, ridurre a macerie Gaza per costringere poi il popolo palestinese sopravvissuto a emigrare. Noi di questa guerra vediamo ben poco, vediamo le immagini delle scie Iron Dome, “cupole di ferro” e non vediamo il volto e i corpicini dei bambini uccisi e racchiusi dentro il sudario. Il loro nome rimane scritto con il sangue. Anche quando non conosciamo i loro nomi, quando non vediamo i loro volti, le loro ferite sanguinanti, le loro mutilazioni e cicatrici, noi vediamo l’orrore e la disumanità perpetrata da Israele. Non vediamo quando bevono acqua contaminata, quando mangiano pane ammuffito, quando un bambino si contorce perché affamato. Aya Ashour, 24 anni, impegnata a difendere i diritti dei bambini e delle donne palestinesi, ha provato a raccontare ciò che rimane sotterrato nel silenzio. Gli anni Settanta non sono poi così lontani Non so bene perché ma il riferimento agli anni Settanta mi insegue spesso. Forse è inevitabile per la mia età. Non è per dire come eravamo quanto piuttosto per non disorientarmi nel presente e nel come saremo. Mi sembra difficile mantenere viva una coscienza se non si tiene agganciata al passato come per afferrare temporalmente e politicamente il senso ampio della metafora “ciò che accade a valle ha inizio a monte”. Il legame, non quello retorico, tra passato e presente è ciò che ci consente di comprendere il nesso, le correlazioni tra gli avvenimenti e quale possibile futuro disegneranno. La guerra in Vietnam è ancora nei nostri ricordi. Mostrò tutta la violenza e il suo orrore – ricordiamo tuttə la foto “Napalm girl” di Nick Ut – e sollevò proteste e movimenti ovunque con manifestazioni di solidarietà per il popolo vietnamita e al contempo di opposizione verso l’intervento statunitense. La questione guerra e pace entrò in ogni contestazione mettendo in discussione il sistema capitalistico e ogni forma di potere e di autoritarismo. E credo che le manifestazioni di protesta di questi giorni negli Usa contro il pugno di ferro trumpista abbiano delle ragioni che discendono da allora. -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE > Primavera americana? -------------------------------------------------------------------------------- Nel 2006 uscì in Italia un libro del giornalista Gianluigi Ricuperati dal titolo Fucked Up. Nel libro furono pubblicate fotografie dei soldati statunitensi in Iraq e Afghanistan e che erano state raccolte da un sito in rete di un cittadino americano C. Wilson. Quando gli Stati Uniti entrarono in guerra, Wilson offrì ai soldati la possibilità di accedere gratuitamente alle sue pagine di pornografia web in cambio dell’invio di foto scattate sui campi di battaglia. L’operazione fu un successo(macabro) fino a quando la polizia statunitense chiuse il sito. Ma l’orrore e la brutalità della guerra andò comunque in scena appoggiandosi a un server olandese. La fotografia, la protesta e il racconto, allora come oggi, rompono il silenzio, la censura e le regole complici dei giochi di guerra. La memoria ha una carica antagonista Mario Tronti, tra i fondatori del movimento marxista operaista, riferendosi al movimento operaio diceva che “Quella storia è morta. A che serve politicamente riesumarla in un tempo che non la riconosce? Serve intanto per imparare come si lotta. Non solo. La memoria è un’arma. La memoria ha una carica antagonista, una potenza dirompente”. Il passaggio dagli anni Settanta ad oggi è stato veloce per me ma non è stato mai un vuoto. “Lasciamo libero il passaggio” (come nella foto di Mario Piselli) dove le identità vecchie e nuove di questo mondo si ri-compongono, dove le nostre identità costruite come in un puzzle continuano a comporsi tra passato e presente nel timore di un futuro che già si rivela per ciò che sarà. Tra ciò che siamo riusciti ad essere nonostante quello che abbiamo scoperto come verità tenute ben nascoste e ciò che le verità stanno mostrando oggi dentro questa destabilizzante insicurezza mondiale di “chi combatte chi“ ogni giorno e nelle diverse forme di oppressione, repressione, di un bellicismo patologico militare, finanziario e politico che allunga le sue mani sul mondo (il film” Trama Fenicia” di Wes Anderson lo mette in mostra tra satira e realismo anche se il suo realismo oltrepassa la satira) mentre si fa modello di un bellicismo sociale. Tempo fa ho visto la mostra fotografica con il libro di Mario Piselli: ”Padroni di niente Servi di nessuno”. Ero lì ferma davanti a quelle foto che ripercorrevano, fermandolo, quella sana ribellione piena di speranza che erano già per noi certezze presenti nelle nostre lotte degli anni Settanta. Non so se oggi il capitalismo sia in crisi, dopo questo lungo tempo nel quale abbiamo vissuto giorno dopo giorno il significato, il valore e la forza delle lotte, dell’impegno sociale, delle conquiste e dei movimenti. Lo pensavo in crisi, pensavo che stesse grattando le sue unghie sul vetro, certo con più ferocia, ma come se fosse arrivata la fine del suo tempo. Non sono più certa di questo ma continuo a credere in ciò che è stato il tempo di quella storia personale e collettiva, continuo a credere che il tempo si stringe di volta in volta le mani in una sorta di patto reciproco tra passato e presente, si stringe nell’abbraccio, come fanno i buoni amici e le buone amiche, consegna sempre qualcosa al tempo successivo, quel valore assoluto in ciò che abbiamo di umano, nella nostra ricerca continua di uno spazio e di un tempo che riconosca il significato del diritto in sé e con lui riconosca il senso del vivere, dignitoso e libero per tuttə, per ogni popolo in ogni parte del mondo. Oggi come ieri scriviamo un nuovo inizio ogni volta che mettiamo in campo quella nostra speranza unita alla consapevolezza, insieme all’affermazione e determinazione ad esserci come collettività civica e politica, proprio in quella nostra capacità di sentirci comunità aperta e che continua ad appartenere al nostro agire quotidiano, a quella visione che da allora e ancora oggi guida le nostre vite, il nostro fare con la mia ferma convinzione di credere che continueremo a farlo affinché nessun capo di governo, nessun potere tecnologico/militare o nessun Musk o P. Thiel o Karp possa dire alle nuove generazioni e a quelle future “scordatevi la pace, scordatevi la democrazia”. -------------------------------------------------------------------------------- Ambra Pastore, educatrice e pedagogista, ha lavorato come istruttrice amministrativa nell’ambito dell’Area Tecnico Educativa del Comune di Roma. Oggi, tra le altre cose, fa parte delle rete Arce. Altri suoi articoli sono leggibili qui. Ha aderito alla campagna Partire dalla speranza e non dalla paura -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Quel nodo alla gola proviene da Comune-info.
A Pisa “Nessuna Base per Nessuna Guerra”: un report
Tanta gente e soprattutto tante e tanti giovani a Pisa per l’importante iniziativa Scelte disarmanti, al Centro Espositivo delle Piagge. Al convegno, organizzato dai ragazzi e dalle ragazze del collettivo Movimento No Base – Né a Coltano né altrove,… Leggi tutto L'articolo A Pisa “Nessuna Base per Nessuna Guerra”: un report sembra essere il primo su La Città invisibile | perUnaltracittà | Firenze.
Il comunicato del Partito per la vita libera del Kurdistan (iraniano) sulla guerra
Il PJAK ha rilasciato sabato 14 giugno la seguente dichiarazione in merito al conflitto in corso tra Israele e Iran. «Dal 13 giugno 2025, Israele ha lanciato pesanti attacchi contro i centri nucleari, militari e di comando della Repubblica Islamica dell’Iran, prendendo di mira strutture e figure associate al Corpo delle Guardie della Rivoluzione islamica (IRGC). I successivi attacchi di ritorsione della Repubblica Islamica contro Israele non sono stati sufficienti a scoraggiare i suoi attacchi mortali. Questa guerra è un ultimatum del sistema di potere globale al regime iraniano e continuerà fino a quando il regime non sarà completamente ristrutturato e neutralizzato. Questo non è indubbiamente un processo a breve termine, ma piuttosto una parte cruciale dell’attuazione del progetto “Nuovo Medio Oriente”, che è una conseguenza delle politiche di esecuzione, repressione, discriminazione, corruzione, impoverimento e disperazione della Repubblica Islamica. > Queste politiche hanno provocato un profondo risentimento pubblico in Iran, > spingendo la società iraniana verso una posizione radicalmente di opposizione > e di rifiuto nei confronti dell’attuale regime. La gioia del popolo iraniano per l’indebolimento del regime non significa che riponga tutte le sue speranze nell’esito della guerra. Questa è una guerra di potere e di interessi contrastanti, non una guerra di liberazione per popoli e nazioni. È scoppiata a causa delle politiche espansionistiche e guerrafondaie della Repubblica Islamica, che non hanno mostrato alcun riguardo per le sofferenze del popolo iraniano. I governanti hanno avviato questa guerra e i costi sono sostenuti da una popolazione già alle prese con crisi sociali ed economiche. L’elevato numero di vittime civili, soprattutto donne e bambini, in Iran e Israele durante questi attacchi evidenzia la triste realtà che gli Stati attribuiscono scarso valore alla vita delle persone. Il popolo iraniano non dovrebbe essere costretto a scegliere tra la guerra e l’accettazione di un regime dittatoriale. Il Partito per la Vita Libera del Kurdistan (PJAK), che si oppone all’imposizione della guerra al popolo iraniano, sottolinea il principio della lotta democratica. > Sono la lotta democratica del popolo e l’eccezionale rivoluzione “Jin, Jiyan, > Azadi” (Donna, Vita, Libertà) che porteranno la libertà all’Iran. Il raggiungimento degli obiettivi della nostra rivoluzione democratica richiede indubbiamente unità e collaborazione tra i sostenitori della libertà, le forze democratiche, i combattenti nazionali, le donne e i movimenti identitari. In questa fase critica e decisiva, consideriamo la cooperazione dei partiti curdi e la transizione dal governo di partito all’autogoverno popolare in Kurdistan un dovere storico. Invitiamo tutte le forze, i partiti e le organizzazioni della società civile – con le donne iraniane in prima linea – a lanciare una nuova fase della rivoluzione “Jin, Jiyan, Azadi”. Dichiariamo la nostra disponibilità a contribuire all’avvio di tale processo. > Crediamo che la transizione verso una Repubblica Democratica dell’Iran > richieda un cambiamento di prospettiva e l’abbandono della ricerca del potere, > del nazionalismo, del patriarcato e del centralismo. Affermiamo il nostro dovere di difendere il nostro popolo e gli altri popoli dell’Iran da qualsiasi forma di repressione o minaccia di massacro. Adempiremo a questo dovere nel quadro della legittima autodifesa dei nostri diritti e della nostra esistenza. Invitiamo tutto il popolo iraniano, in particolare quello del Kurdistan, a organizzarsi all’interno di strutture democratiche e popolari. Attraverso la completa solidarietà, possono minimizzare l’impatto distruttivo della guerra gli uni sugli altri. Passi vitali verso la costruzione di una società democratica e autogestita includono la creazione di gruppi di sostegno per le vittime di guerra, l’istituzione di comitati di soccorso locali e di comitati di cooperazione finanziaria e la prevenzione dell’infiltrazione di mercenari statali tra la popolazione. A questo proposito, invitiamo tutti i patrioti, i sostenitori della libertà e i membri del nostro partito a unirsi a noi». Immagine di copertina di Ostendfaxpost (wikimediacommons) SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress si può donare sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388. Tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare le redattrici e i redattori, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo Il comunicato del Partito per la vita libera del Kurdistan (iraniano) sulla guerra proviene da DINAMOpress.
[2025-06-13] Regime di guerra e blocco reazionario al governo del mondo: quali prospettive per la pace e la giustizia- DINAMICA, FESTIVAL ITINERANTE NELLA CITTA' @ Casale Garibaldi autogestito
REGIME DI GUERRA E BLOCCO REAZIONARIO AL GOVERNO DEL MONDO: QUALI PROSPETTIVE PER LA PACE E LA GIUSTIZIA- DINAMICA, FESTIVAL ITINERANTE NELLA CITTA' Casale Garibaldi autogestito - Via Romolo Balzani, 87, Roma (venerdì, 13 giugno 18:30) La spesa militare mondiale ha raggiunto i 2718 miliardi di dollari nel 2024, con un aumento del 9,4% in termini reali rispetto al 2023 e l’incremento più consistente su base annua almeno dalla fine della guerra fredda (Sipri data). La guerra torna ad essere la nuova prospettiva dominante nelle relazioni internazionali mondiali: ma quello che agli occhi occidentali sembra (quasi) una novità, in alcuni luoghi della Terra è una realtà consolidata da decenni. Il conflitto in Ucraina ha segnato il ritorno di una guerra offensiva in Europa, ma è il genocidio in Palestina a segnare un punto di non ritorno per l’umanità, il crinale dove si compie l’ultimo capitolo del colonialismo di insediamento moderno, del suprematismo e razzismo occidentale. Il regime di guerra consolida governi di destra e autoritari in tutto il mondo, un nuovo blocco reazionario gloable, che prova a ridefinire l’ordine mondiale dal punto di vista economico, sociale, ambientale, intrecciando le linee di sfruttamento tra razza, classe e genere. Di fronte a questo cosa significa oggi affermare una politica di pace, giustizia e libertà? Ne discutiamo con: Vanessa Bilancetti (Dinamopress, moderatrice), Giuliano Battiston (Giornalista Lettera 22), Raffaela Bolini (Arci e campagna no Re-Arm Europe), Chiara Cruciati (Giornalista Manifesto), Eddi Marcucci (Attivista), Francesco Raparelli (Ricercatore in filosofia e attivista). A seguire: aperitivo a sostegno di DinamoPress e Casale Garibaldi e selezione musicale a cura di Shendi Veli
Tenda per la Palestina: a Firenze dall’11 al 18 giugno
Firenze per la Palestina annuncia l’organizzazione di una settimana di mobilitazione in solidarietà con la Palestina e con la resistenza palestinese, con la collaborazione di numerosi gruppi attivi nel territorio su questo tema. Il genocidio portato avanti dallo Stato coloniale … Leggi tutto L'articolo Tenda per la Palestina: a Firenze dall’11 al 18 giugno sembra essere il primo su La Città invisibile | perUnaltracittà | Firenze.
Se vuoi la pace…
DIECI AZIONI CHE LE ISTITUZIONI LOCALI POSSONO METTERE IN CAMPO CONTRO LA GUERRA. UNO: SOSTENERE I PERCORSI DI RICONVERSIONE CIVILE DELLE ATTIVITÀ INDUSTRIALI LEGATE ALLA PRODUZIONE DI ARMI. DUE: ISTITUIRE FONDI, DI CONCERTO CON I SINDACATI, PER SUPPORTARE I LAVORATORI CHE DECIDESSERO DI FARE OBIEZIONE DI COSCIENZA ALL’INDUSTRIA BELLICA. TRE: ADOTTARE CODICI ETICI WAR FREE PER GLI APPALTI PUBBLICI, LE SPONSORIZZAZIONI E LE COLLABORAZIONI. QUATTRO: ADERIRE ALLE CAMPAGNE NAZIONALI PER IL DISARMO E L’ECONOMIA DI PACE PROMUOVENDOLE SUI TERRITORI. CINQUE: SOTTOSCRIVERE PROTOCOLLI CON GLI UFFICI SCOLASTICI REGIONALI PER ARGINARE IL PROCESSO DI MILITARIZZAZIONE DELLA FORMAZIONE. SEI: PROMUOVERE E FINANZIARE PERCORSI DI EDUCAZIONE ALLA PACE NELLE SCUOLE E DI FORMAZIONE ALLA NONVIOLENZA PER GLI INSEGNANTI. SETTE: ORGANIZZARE NEI LUOGHI DELLA MEMORIA TRAGICA DELLA GUERRA – DA MONTE SOLE A SANT’ANNA DI STAZZEMA – SOGGIORNI ESTIVI DI TRAINING PER LA RISOLUZIONE NONVIOLENTA DEI CONFLITTI CON GRUPPI MISTI DI RAGAZZI PROVENIENTI DAI PAESI IN GUERRA. OTTO: PROMUOVERE SCUOLE E ACCADEMIE DI PACE E RICERCHE SULLA RISOLUZIONE NONVIOLENTA DEI CONFLITTI IN COLLABORAZIONE CON LA RETE DELLE UNIVERSITÀ PER LA PACE. NOVE: CONTRIBUIRE A COSTITUIRE CORRIDOI UMANITARI PER I PROFUGHI DAI PAESI IN GUERRA. DIECI: PREVEDERE PERCORSI DI SUPPORTO NELL’ACCOGLIENZA DEI RIFUGIATI. IL PUNTO DI PARTENZA? SMETTERE DI PENSARE CHE LA GUERRA SIA UNA FOLLIA E CONSIDERARLA INVECE COME UNA STRATEGIA RAZIONALMENTE PERSEGUITA. SMETTERE DI PENSARE LA PACE COME MERA ASSENZA DI GUERRA Bologna, 25 Aprile 2025 -------------------------------------------------------------------------------- “Se vuoi la pace, prepara istituzioni di pace. Ci rendiamo sempre più conto che non si tratta solo di istituzioni politiche, nazionali o internazionali, ma è l’insieme delle istituzioni – educative, economiche, sociali – ad essere chiamato in causa”, è uno dei passaggi più significativi del discorso di papa Leone XIV nell’incontro dello scorso 30 maggio con i movimenti per la pace e il disarmo ad un anno dall’Arena di pace, voluta da papa Francesco a Verona. Affermazione che non solo ribalta l’obsoleto, falso e illusorio mantra del se vis pacem para bellum, del quale sono fanatici fondamentalisti i decisori nazionali e internazionali, e i loro chierici mediatici, ma riconduce alla responsabilità di tutti la costruzione di prassi di pace per il superamento dei sistema di guerra. Ed è di questi giorni anche l’inedito attivismo per la pace di diversi amministratori locali: dalla convocazione della Marcia Save Gaza, da Marzabotto a Monte Sole, significativamente nei luoghi dell’eccidio nazista, voluta dalla sindaca Valentina Cuppi per il prossimo 15 giugno, alle dichiarazioni di “interruzione delle relazioni istituzionali” con il governo israeliano espresse dai presidenti delle regioni Puglia, Michele Emiliano, ed Emilia Romagna, Michele De Pascale, seguiti da diversi sindaci dei rispettivi territori. Mentre parteciperemo alla marcia Save Gaza e vedremo come si declineranno concretamente i boicottaggi delle Regioni al governo genocida di Israele, è utile qui evidenziare il ruolo strutturale e continuativo che anche le istituzioni locali possono mettere in campo per preparare la pace, esattamente sui piani educativo, economico e sociale esplicitati da Prevost. Il punto di partenza è considerare la pace non come mera assenza di guerra (pace negativa), ma come costruzione delle condizioni per la sua preparazione e manutenzione (pace positiva). La degenerazione bellica dei conflitti è solo la punta dell’iceberg di un sistema di guerra che prepara e legittima questo esito: è il punto di esplosione di una lunga e articolata filiera di guerra. Rispetto alla quale se le Regioni e le altre istituzioni locali non possono fermare direttamente la violenza una volta avviata, possono invece contribuire attivamente a decostruirne la filiera, non sull’onda dell’emozione temporanea ma strutturalmente e culturalmente, ed a costruirne le alternative. Non solo, peraltro, nell’interesse generale della pace, ma anche di quello specifico dei propri cittadini, visti i numerosi tagli ai trasferimenti dallo Stato agli Enti Locali per alimentare le crescenti spese militari. Le azioni che le istituzioni locali possono mettere in campo, in modalità non occasionale ma continuativa, sono molte, sia a livello di Comuni che di Regioni e possono dare sostanza e coerenza alle diverse “deleghe alla pace” che si vanno diffondendo. Sul piano economico, per esempio, si possono monitorare le attività industriali che nei diversi distretti contribuiscono alla produzione, diretta o indiretta, di armi e sostenerne i percorsi di riconversione civile – ostacolandone quelli contrari – con l’istituzione di peace list virtuose e premianti; istituire fondi locali, di concerto con i sindacati, per supportare i lavoratori che decidessero di fare obiezione di coscienza all’industria bellica; adottare codici etici war free per gli appalti pubblici, le sponsorizzazioni e le collaborazioni, sotto qualunque forma. Oltre che aderire alle campagne nazionali per il disarmo e l’economia di pace, anziché per il riarmo e l’economia di guerra, promuovendole sui territori. E poi sono molte le azioni possibili e necessarie sui piani culturale e formativo. Per citarne solo alcune: sottoscrivere protocolli con gli Uffici scolastici regionali per arginare il processo di militarizzazione della formazione e, invece, promuovere e finanziare percorsi di educazione alla pace nelle scuole di ogni ordine e grado e di formazione alla nonviolenza per gli insegnanti; organizzare nei luoghi della memoria tragica della guerra del nostro Paese – da Monte Sole a Sant’Anna di Stazzema – soggiorni estivi di training per la risoluzione nonviolenta dei conflitti con gruppi misti di ragazzi provenienti dai paesi in guerra. Inoltre, Comuni e Regioni potrebbero farsi direttamente promotori di Scuole e Accademie di pace, anche in collaborazione con la Rete delle Università per la Pace (Runipace), per promuovere la ricerca e la formazione alla trasformazione nonviolenta dei conflitti, su tutte le scale: dal locale all’internazionale. Infine, contribuire a costituire corridoi umanitari per i profughi dai paesi in guerra e strumenti di protezione delle vittime, prevedere percorsi di supporto nell’accoglienza dei rifugiati che ne portano il trauma, favorire nei territori esperienze di dialogo tra comunità originarie da paesi in conflitto armato e adoperarsi per il riconoscimento dello status di rifugiati ad obiettori di coscienza e disertori di tutti i fronti. Si tratta solo di alcuni, ma fondamentali, esempi di come le istituzioni locali, che volessero davvero mettere in campo non retoriche ma politiche attive di pace, potrebbero agire pratiche di nonviolenza secondo il nuovo principio, razionale, realistico e universale: se vuoi la pace, prepara la pace. Ovunque. -------------------------------------------------------------------------------- Pubblicato su un blog del fattoquotidiano.it (qui con il consenso dell’autore che ha aderito alla campagna Partire dalla speranza e non dalla paura) -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE: > I portuali, la città e il traffico delle armi del genocidio -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Se vuoi la pace… proviene da Comune-info.
Quel deserto chiamato pace
DETERRENZA, LO DICE LA PAROLA, SIGNIFICA TENERE A BADA IL NEMICO CON IL TERRORE. L’UNICA VERA DETERRENZA DOVREBBE ESSERE L’ORRORE PER QUELLO CHE È GIÀ SUCCESSO: LA SHOAH, HIROSHIMA. LA PACE VERA È IL CONTRARIO DI TUTTO CIÒ CHE IL “PREPARARSI ALLA GUERRA” TRASCINA CON SÉ. È INNANZITUTTO PACE CON LA TERRA MA ANCHE POTENZIAMENTO DELLE MEDIAZIONI E CREAZIONE DI CORPI DI PACE. «CI TROVIAMO NEL BEL MEZZO DI UNO SCONTRO DI CIVILTÀ – SCRIVE GUIDO VIALE – NON TRA CAPITALISMO E COMUNISMO O TRA PROGRESSO E STAGNAZIONE; NON TRA ILLUMINISMO E OSCURANTISMO O TRA CRISTIANESIMO E ISLAM; E MENO CHE MAI TRA OCCIDENTE E ORIENTE O TRA DEMOCRAZIA E AUTOCRAZIE; BENSÌ TRA CIVILTÀ DELLA CURA E CULTURA DELLA DISTRUZIONE. BISOGNA SAPER RIPARTIRE DA QUI: DAGLI “ELEMENTARI”…» Pisa, 2 giugno 2025. Foto di Casa delle donne di Pisa -------------------------------------------------------------------------------- Si vis pacem para bellum: se vuoi la pace prepara la guerra. La pace di chi la persegue in questo modo non è altro che guerra. In questa sequenza: riarmo, guerra, vittoria, imposizione delle proprie condizioni al nemico vinto, oppure sterminio. Anche questo è uno dei tanti modi di chiamare la pace: Solitudinem faciunt, pacem appellant (Tacito), fanno un deserto e lo chiamano pace. Questo modo di perseguire la pace si chiama anche deterrenza: armarsi fino ai denti per essere più forti del “nemico”. Il quale si armerà anche lui di più per sentirsi più forte: una spirale senza fine. O meglio: con una fine scontata: la guerra, la messa alla prova delle armi di cui ci si è dotati. Deterrenza, lo dice la parola, significa tenere a bada il nemico con il terrore. Gli Stati che promuovono o praticano questa “dottrina” sono, per forza di cose, terroristi: usano le armi per terrorizzare il nemico: costruiscono un mondo fondato sul reciproco terrore. L’altro “terrorismo”, quello messo al bando dagli Stati, ne è solo una parziale imitazione. L’unica vera deterrenza dovrebbe essere l’orrore per quello che è già successo: la Shoah, Hiroshima. «È successo, potrebbe succedere di nuovo!». Sta succedendo. La pace perseguita preparando la guerra, la stiamo vivendo: innanzitutto con lo spostamento di risorse dal welfare alle armi, violando quello che fino a poco fa era la linea rossa invalicabile per tutti gli Stati dell’Unione europea: finanziare il welfare a debito. Contando sul fatto che chi “ha dichiarato guerra all’Europa” (la Russia, per Readiness 2030, documento approvato dal Parlamento europeo), prima di attaccarci aspetterà comunque che noi si sia pronti. Anche la deterrenza ha le sue regole… Ma c’è di peggio, a cominciare dal clima asfissiante di ostilità, bellicosità, paura, insicurezza, militarismo promosso per sostenere quei preparativi, dove si ritrovano tutti gli stereotipi di una retorica grottesca che la guerra in Ucraina ha riportato in auge: gloria, eroismo, valore, onore, sacrificio; tutto ovviamente ricondotto all’ambito militare. Un’aggressività e uno spirito di competizione, un disprezzo per “il nemico”, che mette fuori gioco ogni desiderio e aspirazione alla solidarietà, alla fratellanza, alla sorellanza, alla cooperazione, alla condivisione. Ma il risultato è l’abbandono definitivo della lotta per il clima, degli obiettivi del vertice di Parigi, della conversione ecologica, del green deal – o di quello che ne era rimasto dopo il suo spolpamento – del rispetto e della cura quotidiana del proprio territorio. Perché la guerra è un’aggressione diretta non solo contro “il nemico”, ma anche, e soprattutto, contro le basi stesse della nostra esistenza: l’integrità del pianeta, la sua e la nostra vita. La pace, invece, quella vera, quella che tutti vorrebbero, soprattutto dopo aver sperimentato la guerra – come dimostra il reclutamento dei soldati in Ucraina, passato in pochi anni da uno slancio generoso e volontario a una caccia feroce; ma, pur sapendone poco, il rifiuto di arruolarsi non è certo minore in Russia – la pace vera è il contrario di tutto ciò che il “prepararsi alla guerra” trascina con sé. È innanzitutto pace con la Terra, con il suolo, l’aria, le acque, la “natura”, l’insieme di tutte le cose di cui anche noi siamo fatti. E dentro questo approccio, che è vero amore di sé inteso come amore della vita e di tutto ciò e di tutti coloro che ne partecipano, c’è posto per tutto ciò che ne costituisce gli ingredienti indispensabili e che la guerra risucchia nel suo vortice: l’umiltà di chi si riconosce parte di un tutto; la solidarietà (che una volta si chiamava internazionalismo proletario); la condivisione; la fratellanza e la sorellanza; la cura di sé e del prossimo attraverso cooperazione, lotta contro le diseguaglianze, rispetto delle differenze; e poi bellezza, cultura, istruzione, talento, salute, casa, mobilità; e tempo da dedicare a figli e figlie, mogli e mariti, genitori e nonni, compagni e compagne, amici e amiche. Ci troviamo nel bel mezzo di uno scontro di civiltà: non tra capitalismo e comunismo o tra progresso e stagnazione; non tra illuminismo e oscurantismo o tra cristianesimo e islam; e meno che mai tra Occidente e Oriente o tra democrazia e autocrazie; bensì tra civiltà della cura e cultura della distruzione. Bisogna saper ripartire da qui: dagli “elementari”. La pace di chi la persegue con le “armi della pace” è invece la valorizzazione di ciò che accomuna avversari e contendenti e la messa al bando non delle differenze, ma di ciò che esclude e che contrappone; è il potenziamento delle mediazioni, della diplomazia, della cooperazione, la creazione di corpi di pace: una strumentazione che richiederebbe almeno tante risorse quante ne vengono oggi dissipate per produrre o comprare armi. -------------------------------------------------------------------------------- Pubblicato anche sul manifesto -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Quel deserto chiamato pace proviene da Comune-info.