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Mille splendidi fiori, storie di cura, coraggio e comunità tra Afghanistan e Alto Adige
Martedì 5 agosto 2025 alle ore 21:00 Pavillon di San Vigilio di Marebbe (Provincia autonoma di Bolzano, Alto Adige) Evento organizzato da Costa Family Foundation, Insieme si può, Rawa, Gea, Dolomites San Vigilio Una serata per ascoltare voci spesso invisibili: donne che resistono, custodiscono e si fidano. Dall’Afghanistan dell’Associazione RAWA, dove anche una tisana può diventare gesto politico, all’Alto Adige, dove la violenza di genere si nasconde dietro porte chiuse e silenzi troppo lunghi. Un dialogo aperto tra mondi apparentemente distanti – impresa e sociale, poesia e attivismo – uniti dalla stessa tensione verso la dignità e la trasformazione. Parole, musica, volti e storie si intrecciano in un racconto collettivo. A chiudere, un gesto semplice: una tisana condivisa. Perché far fiorire, in fondo, è un atto rivoluzionario.     Redazione Italia
Afghanistan. Come cambiare la percezione senza cambiare la sostanza
Siamo quasi all’anniversario della presa del potere dei talebani del 15 agosto 2021, che ha portato in Afghanistan a una precipitazione dei diritti delle donne e delle condizioni di democrazia e di vita per tutti per la svolta estremamente fondamentalista che l’interpretazione restrittiva della Sharia dei Talebani ha comportato. In questi giorni il poco interesse che i media esprimono per l’Afghanistan si concretizza in una notizia che rimbalza praticamente uguale in tutti i brevi articoli che la narrano: esiste una nuova possibilità per le donne afghane rappresentata dalla ripresa del turismo, poiché a Kabul si possono fare tour gestiti da donne e rivolti alle donne. In realtà si tratta di un’unica esperienza di questo genere  e riguarda la visita al museo di Kabul  guidata da una giovane donna e fruita da un piccolo gruppo di straniere, tutte con il velo in testa ma, sorprendentemente – e la cosa salta agli occhi nel grigio panorama delle strade frequentate soprattutto da uomini e da poche donne nascoste in lunghi vestiti neri – vestite con abiti colorati, come mostra un servizio di Rai News.it. Significa che sta cambiando qualcosa nel fondamentalista e repressivo Afghanistan dei Talebani? E’ proprio come la racconta il servizio di Rai News, che commenta il suo documentario con un giudizio positivo e quasi entusiasta sulla possibilità di “cambiare, un passo alla volta, la percezione del Paese”? In realtà, l’ingenuo commento non afferra il vero significato di questi tour, e cioè l’interesse dei Talebani di cambiare la percezione negativa che il mondo ha dell’Afghanistan senza cambiare la sostanza delle condizioni di segregazione e privazione dei più elementari diritti delle donne, che continua invece a essere raccontata da innumerevoli testimonianze e dalle più svariate fonti. Permettere a una manciata di donne di usare un briciolo di libertà serve ai Talebani per mostrare il presunto “volto umano” del loro governo, che invogli il resto del mondo al riconoscimento della “normalità” del loro sistema di governo, in realtà fondamentalista, violento, liberticida e di apartheid verso le donne. Non si tratta, quindi, di avere il coraggio di sfidare i divieti, ma invece di essere strumento, più o meno consapevole, di un’operazione pubblicitaria di camuffamento della realtà. Mentre si danno notizie di “novità” come questa, bisognerebbe sempre ricordare il contesto in cui avvengono, se si vuole davvero fare informazione.   CISDA - Coordinamento Italiano Sostegno Donne Afghane
Afghanistan: rimpatri forzati di rifugiati afghani dal Tagikistan
Il governo tagiko ha ufficialmente confermato di aver rimpatriato forzatamente dei rifugiati in Afghanistan, secondo il Times of Central Asia. Questa comunicazione fa seguito alle notizie secondo cui 150 rifugiati afghani, molti dei quali con lo status di rifugiato confermato dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR), sono stati arrestati e rimpatriati con la forza dalle autorità. All’inizio di questo mese, tutti i rifugiati afghani in Tagikistan avevano ricevuto un ultimatum di 15 giorni che intimava loro di lasciare immediatamente il Paese. Si teme che molti si trovino ad affrontare situazioni di estremo pericolo al loro ritorno. Si pensa che tra coloro che rischiano il rimpatrio forzato ci siano diversi cristiani, che in Afghanistan andrebbero incontro al carcere o alla pena di morte. I talebani hanno infatti affermato che uccideranno tutti i cristiani che vivono nel Paese. Nel recente passato hanno organizzato vere e proprie cacce all’uomo, casa per casa, nei confronti di cristiani. In particolare, hanno preso di mira i responsabili di chiesa afghani: molti di loro sono scomparsi, mentre altri sono stati picchiati, torturati e uccisi. Dopo il ritorno al potere dei talebani nel 2021, l’Afghanistan è arrivato a occupare per un anno il primo posto nella World Watch List di Porte Aperte/Open Doors, che classifica i paesi in cui i cristiani affrontano le persecuzioni e le discriminazioni più estreme. Secondo una dichiarazione ufficiale del Comitato di Stato per la Sicurezza Nazionale della Repubblica del Tagikistan: “Un certo numero di cittadini stranieri ha violato gravemente i requisiti stabiliti per il loro soggiorno. Inoltre, durante l’ispezione, sono emerse le seguenti prove di violazioni (…) della legislazione della Repubblica del Tagikistan: traffico illegale di droga, incitamento e propaganda di movimenti estremisti, presentazione di informazioni e documenti falsi per ottenere lo status di rifugiato. In particolare, a questo si deve anche l’espulsione di un certo numero di cittadini afghani dal Paese. A questo proposito, sono attualmente in esame delle misure per espellerli dal territorio del Tagikistan, in conformità con la legislazione della Repubblica“. Secondo l’agenzia di stampa Khamaa Press, questi rimpatri forzati hanno separato le famiglie. Ci sarebbero anche casi di bambini rimpatriati mentre i genitori si trovano ancora in Tagikistan. Alcuni dei rifugiati che si trovavano nel paese avevano domande di asilo attive e alcuni dovevano essere reinsediati in Canada. Il Tagikistan è solo una delle nazioni che ha rimpatriato i rifugiati afghani. Secondo l’UNHCR, più di un milione di afgani sono stati rimpatriati dal Pakistan a seguito del suo “Piano di rimpatrio degli stranieri illegali”. Allo stesso modo, nel 2024 circa un milione di persone sono state forzatamente rimpatriate dall’Iran. Jan de Vries, ricercatore di Porte Aperte/Open Doors per l’Asia Centrale, ha commentato: “Sono molto preoccupato per le donne che sono state deportate: che futuro avranno? E penso anche ai cristiani deportati che dovranno nascondersi ancora più di prima. Il rimpatrio potrebbe mettere a serio rischio la vita dei cristiani, poiché i talebani si oppongono violentemente all’esistenza di cristiani in Afghanistan“. L’Afghanistan si trova alla posizione numero 10 della World Watch List. In questo Paese, abbandonare l’islam è considerato un’onta dalla famiglia e dalla comunità, e la conversione è punibile con la morte secondo la legge islamica, la Sharia, applicata in modo sempre più rigoroso da quando i talebani hanno preso il controllo del paese nel 2021. Fonte CS di Fondazione Porte Aperte ETS Redazione Italia
I Talebani intensificano l’apartheid di genere: decine di donne arrestate per “violazione dell’hijab”
In questi giorni abbiamo ricevuto il racconto affranto delle donne appartenenti alle associazioni afghane che sosteniamo, le quali confermano le notizie allarmanti apprese da alcuni siti circa l’arresto arbitrario di decine di donne da parte della polizia morale, presumibilmente per “violazioni dell’hijab”, trattenute senza accesso a un legale, senza contatti con i familiari e senza assistenza medica. Ci hanno scritto: “Negli ultimi giorni, la situazione per donne e ragazze è tornata ad essere estremamente allarmante. La polizia morale pattuglia le strade, ferma i veicoli e trattiene le donne con la forza. Molte ragazze sono sotto shock e spaventate, hanno paura anche solo di uscire di casa. Secondo quanto riferito, dopo essere state rilasciate, alcune donne sono state rifiutate dalle loro famiglie, come se il peso dell’ingiustizia fosse ancora una volta posto sulle loro spalle. Una ragazza, che per paura aveva inizialmente negato di avere subito un arresto, quando ha compreso il nostro sostegno ha iniziato a piangere e ha detto: ‘Per Dio, ero completamente coperta: indossavo l’hijab, la maschera e il chapan, ma all’improvviso mi hanno circondata come animali selvatici, mi hanno insultata e colpita con una pistola”. Sono svenuta per la paura e il dolore. Quando ho ripreso conoscenza, mi trovavo in uno scantinato buio con decine di altre ragazze assetate e terrorizzate, senza alcun contatto con le nostre famiglie. Quello che abbiamo passato è stato peggio della morte…’.  Con voce tremante, ha aggiunto: ‘La libertà è stata l’inizio di un nuovo dolore. Il comportamento di tutti nei miei confronti è cambiato, come se avessi fatto qualcosa di sbagliato. Vorrei non essere mai uscita di casa’. Questa paura ha colpito profondamente anche le nostre studentesse. In molte, piangendo, hanno confermato quanto amano imparare, ma hanno chiesto di essere esentate dalla frequenza per qualche giorno, finché la situazione non si sarà calmata. Abbiamo deciso di sospendere le lezioni per due settimane. Anche oggi la polizia morale è passata diverse volte davanti al nostro centro e non possiamo mettere a repentaglio la sicurezza delle nostre studentesse. Sono giorni bui e pesanti, ma la vostra presenza e il vostro sostegno sono per noi una luce di speranza e conforto, la vostra solidarietà ci dà la forza per andare avanti”. Nel suo sito, RAWA NEWS informa: In un nuovo e più intenso attacco alle libertà delle donne, i Talebani hanno lanciato un’ondata di arresti arbitrari in tutto l’Afghanistan, prendendo di mira donne e ragazze accusate di aver violato l’interpretazione estremista che il gruppo dà delle regole sull’hijab. Solo nell’ultima settimana, decine di donne sono state arrestate a Kabul, Herat e Mazar-e-Sharif, applicando standard di “modestia” vaghi e mutevoli, senza alcun processo o giustificazione legale. Questi arresti avvengono in strade, centri commerciali, caffè e campus universitari, spazi pubblici dove le donne cercano semplicemente di condurre la propria vita quotidiana. A Kabul, nelle zone di Shahr-e-Naw, Dasht-e-Barchi e Qala-e-Fataullah, i testimoni hanno riferito che in alcuni casi le donne sono state aggredite fisicamente dagli agenti talebani prima di essere costrette a salire sui veicoli. Poi sono state trattenute nei cosiddetti “centri di moralità” – strutture gestite dal Ministero per la Promozione della Virtù e la Prevenzione del Vizio, un’istituzione temuta che ora opera come una forza di polizia religiosa – e rilasciate solo dopo che i loro tutori maschi avevano firmato garanzie scritte che avrebbero “corretto” il loro comportamento. Negli ultimi giorni a Herat sono state arrestate almeno 26 donne, molte delle quali giovani e alcune minorenni; a Mazar-e-Sharif una decina, sempre con l’accusa di non coprirsi completamente il volto. I funzionari talebani hanno confermato gli arresti, sostenendo che le donne erano state avvertite in precedenza. Secondo quanto riferito, le arrestate sono state trattenute senza poter usufruire di assistenza legale, contattare le proprie famiglie o ricevere cure mediche. Alcune famiglie hanno paura di far uscire di casa le proprie figlie, temendo che possano essere arrestate. Non per la religione, ma per il predominio Le Nazioni Unite e gli osservatori dei diritti umani hanno condannato questi arresti, ritenendoli delle gravi violazioni del diritto internazionale e un chiaro segno di apartheid di genere. Tuttavia, i Talebani non sembrano intenzionati a cedere. Anzi, i funzionari del ministero hanno raddoppiato le loro minacce, annunciando che qualsiasi donna trovata a indossare un “cattivo hijab” sarà punita immediatamente e senza preavviso. Queste azioni non riguardano la religione, ma il predominio: i Talebani usano l’imposizione del hijab come arma politica per mettere a tacere e cancellare le donne. Criminalizzando le normali scelte di abbigliamento, i Talebani inviano un messaggio agghiacciante: le donne non appartengono alla sfera pubblica e qualsiasi tentativo di affermare la propria presenza sarà represso con la forza. Si tratta di un’ulteriore fase del sistematico smantellamento dei diritti delle donne da parte dei Talebani, che include il divieto di istruzione per le ragazze oltre la prima media, il divieto per le donne di lavorare con le ONG e le organizzazioni internazionali e dure restrizioni nella possibilità di movimento  e nell’abbigliamento. Nonostante la crescente repressione, molte donne afghane resistono, rifiutandosi di scomparire, documentando gli abusi e parlando, anche a rischio della propria vita, ma le loro voci sono accolte con indifferenza dalla maggior parte della comunità internazionale. Il tempo delle condanne simboliche è finito. Le azioni dei Talebani equivalgono a una prolungata campagna di persecuzione di genere e devono essere trattate come tali. Senza una pressione internazionale concreta, il regime continuerà senza controllo la sua guerra contro le donne, incoraggiato dal silenzio di un mondo che un tempo aveva promesso di stare dalla parte del popolo afghano. Appello urgente: richiesta di aiuto per profughi afghani espulsi dall’Iran CISDA - Coordinamento Italiano Sostegno Donne Afghane
Sport femminile in Afghanistan: un altro diritto negato, un’altra resistenza
Difficilmente si sente parlare di Afghanistan senza che vengano citate le donne afghane, tirate in ballo da un lato dalla feroce ideologia patriarcale dei talebani, che con un tratto di gomma le cancella dalla vita sociale, e dall’altro dalla propaganda occidentale, del tutto strumentale alla legittimazione dell’intervento militare nel Paese del 2001, il quale avrebbe avuto tra i suoi fini la liberazione della donna dalla soggiogazione talebana. Delle donne afghane si parla quasi sempre sospinti da un istinto compassionevole che le getta con poca cura e attenzione in una categoria umana che potremmo definire come quella delle “poverine”. In questa considerazione però c’è tutta la forza negativa della rassegnazione, come se in fondo la loro condizione di oppressione fosse scritta nel loro destino. Tuttavia, la resistenza che le donne esercitano ci ammonisce perché la rassegnazione non porta a nulla di buono, anzi, lascia uno spazio vuoto che i talebani e altri sapranno come occupare. La lotta delle donne afghane per cambiare il loro Paese va avanti, faticosamente e lentamente, certo, ma senza sosta. Lo dimostrano le tante esperienze di clandestinità che le afghane vivono per far studiare le bambine e le ragazze affinché non rinuncino ai loro sogni e prendano coscienza della loro condizione e il coraggio di rivoluzionare la storia. Da quando i talebani sono tornati a comandare il 15 agosto 2021 i provvedimenti che hanno emanato e che colpiscono le donne sono più di cento. Minky Worden, Direttrice del Global Initiatives di Human Rights Watch, in una lettera del 3 febbraio 2025 indirizzata al Comitato Internazionale del Cricket (ICC) ha scritto che “dalla presa del potere nell’agosto del 2021, i talebani hanno imposto una crescente lista di regole e politiche sulle donne e sulle ragazze proibendo loro di frequentare le scuole secondarie e l’università e restringendo pesantemente l’accesso al lavoro, la libertà di espressione e di movimento, così come vietando lo sport e le altre attività all’aperto”. Infatti, non era ancora passato un mese dall’insediamento dei talebani che l’8 settembre del 2021 il Vice-presidente della Commissione culturale dei talebani, Ahmadullah Wasiq, aveva dichiarato che la pratica sportiva non era necessaria per le donne. Sollecitato proprio sulla questione relativa al cricket, sport che a livello internazionale deve sottostare a delle regole che prevedono la parità di diritti e opportunità tra i due sessi, obbligando ogni federazione nazionale per poter essere membro di quella internazionale ad avere tanto la squadra nazionale maschile quanto quella femminile, Ahmadullah Wasiq aveva risposto che le ragazze “potrebbero trovarsi nella situazione in cui la loro faccia e il loro corpo non siano coperti. L’islam non permette che le donne siano viste in questa maniera. È l’era dei media e ci sarebbero foto e video che potrebbero essere visti dalle persone. L’islam e l’Emirato islamico (Afghanistan) non consentono alle donne di giocare a cricket o di praticare quegli sport che le vedano esposte”. Da quel momento le atlete di ogni sport e le loro famiglie avevano iniziato a sbarazzarsi di tutto ciò che avrebbe potuto costituire una prova dell’attività sportiva praticata. Così le foto che ritraevano momenti sportivi erano state strappate e cancellate dai social mentre le medaglie vinte, le divise e le attrezzature erano state portate via dalle abitazioni. Nessuno osava più parlare di sport femminile fuori dalle mura domestiche. Alcune atlete, note per far parte della nazionale, si erano nascoste nell’attesa e nella speranza di poter lasciare il Paese e salvarsi dalla persecuzione che sarebbe caduta su di loro. Avevano fatto parlare di sé le giocatrici della nazionale di cricket, aiutate a fuggire in Australia grazie all’iniziativa di tre donne australiane, una di loro ex giocatrice della nazionale di cricket, Mel Jones, ma anche quelle della nazionale di calcio e di pallavolo che si erano nascoste, nell’attesa e nella speranza di riuscire a fuggire dal Paese. Molte di queste atlete ce l’hanno fatta a espatriare e hanno ripreso ad allenarsi su altri campi e in altre palestre, dovendo spesso lasciare tutta la propria famiglia in Afghanistan. Va detto però che durante il periodo dell’occupazione non era tutto rose e fiori, perché il governo non sempre permetteva alle squadre nazionali femminili di disputare le competizioni all’estero, motivando la decisione con minacce derivanti dai talebani. Ma c’era una tendenza dei politici che dirigevano il Paese a lasciare che la pratica sportiva si svolgesse perché, grazie alle innumerevoli Ong presenti sul territorio che investivano in progetti sportivi, i soldi provenienti dall’estero facevano gola. In occasione dei Giochi Olimpici di Parigi dell’anno scorso, l’ex judoka afghana Friba Rezayee, che aveva partecipato alle Olimpiadi del 2004, si era espressa in modo contrario alla partecipazione della squadra nazionale afghana, nonostante avesse una rappresentanza paritaria tra i due sessi, tre uomini e tre donne, quest’ultime però non riconosciute dal governo afghano. Il Comitato Olimpico Internazionale (CIO) aveva ammesso la squadra, ma negato gli inviti ai rappresentanti istituzionali dell’Afghanistan. Secondo Rezayee permettere al suo Paese di essere rappresentato con tanto di bandiera era un errore perché, sebbene involontariamente, finiva con il concedere legittimità a “un regime che punisce le donne per la partecipazione agli sport”. L’ex judoka offriva un’alternativa, ossia la partecipazione degli atleti e delle atlete afghane nella squadra Refugees team, composta da sole rifugiate e rifugiati politici (alle Olimpiadi di Parigi tre atleti afghani e un’atleta afghana hanno fatto parte del Refugees Team). La negazione del riconoscimento del governo talebano è il cuore della battaglia delle attiviste afghane perché è un passo obbligatorio se si vuole tentare di smantellare il sistema di “apartheid di genere” costruito dai talebani, così definito anche dal Segretario Generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres. Ma lo sport non è solo agonismo, è molto di più. La sua messa al bando ha avuto delle ricadute importanti sulla vita sociale e personale delle donne. La socializzazione nella società afghana, rimasta profondamente patriarcale persino durante il periodo dell’occupazione, era possibile anche attraverso la frequentazione dei centri sportivi dove, oltre a tentare di recuperare la linea dopo tante gravidanze (più di 5 figli per donna), si ricercava un benessere fisico e psicologico. Il castigo inflitto alle donne in quanto donne non ha soppresso definitivamente la loro voglia di riscatto e, sebbene sappiano di correre rischi serissimi, alcune di loro ancora oggi continuano a praticare lo sport in forma clandestina. I controlli da parte delle autorità sono però continui. A febbraio del 2023 i talebani hanno chiuso un altro centro sportivo, un club di karate femminile che era rimasto aperto, nonostante il divieto, nella provincia di Farah. Il diritto allo sport, dato il suo peso e la sua importanza, non ha nemmeno bisogno di ottenere un riconoscimento, sebbene vi siano trattati internazionali che lo esplicitino, perché è inalienabile e appartiene a ogni individuo in quanto essere umano. Non può essere negato. Le azioni politiche devono però creare le condizioni perché questo diritto possa essere esercitato, pertanto la scelta del Comitato Internazionale del Cricket di porre il vincolo alle federazioni nazionali di avere sia la squadra maschile sia quella femminile per poter partecipare alle competizioni internazionali dovrebbe essere un esempio per tutte le altre Federazioni sportive internazionali. Ma non basta, occorre cancellare dai Comitati quelle federazioni che non rispettano la disposizione. Questo è quello che le giocatrici di cricket afghane in esilio chiedono da tempo all’ICC, supportate in questa battaglia da Human Rights Watch, perché fino ad oggi la squadra di cricket maschile afghana continua ad essere membro del Comitato Internazionale nonostante il governo afghano si rifiuti di ricostituire quella femminile. Nell’estenuante attesa che la politica sportiva internazionale faccia la sua parte per sostenere le afghane nella battaglia per la realizzazione del diritto fondamentale delle donne alla pratica sportiva, migliaia di bambine, ragazze e donne in Afghanistan continuano a soffocare sotto il peso dei divieti e del controllo totale delle loro vite e sono costrette a decidere se rinunciare a praticare lo sport per non incorrere in punizioni severissime, oppure al contrario praticarlo clandestinamente e rischiare di pagare un caro prezzo. CISDA - Coordinamento Italiano Sostegno Donne Afghane
Afghanistan, MSF: “Cresce il numero dei pazienti pediatrici negli ospedali”
In Afghanistan cresce sempre di più la pressione sui reparti pediatrici supportati da Medici Senza Frontiere (MSF) in diversi ospedali nelle province di Helmand, Balkh ed Herat. Il numero di bambini che necessitano di cure d’emergenza nelle unità di terapia intensiva pediatrica e neonatale è in crescita, e spesso 2 o anche 3 bambini devono condividere lo stesso letto. Da inizio anno fino al 10 giugno scorso, a causa dei tagli dei finanziamenti statunitensi, circa 422 strutture sanitarie in Afghanistan hanno sospeso le loro attività o hanno chiuso, pregiudicando l’accesso all’assistenza sanitaria per oltre 3 milioni di persone, secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità. Inoltre, la situazione nel paese era già grave prima dell’interruzione degli aiuti statunitensi e del taglio di oltre 1 miliardo di dollari di finanziamenti per i progetti USAID in Afghanistan stimato dell’Ispettorato generale per la ricostruzione dell’Afghanistan (Sigar). “Le famiglie hanno difficoltà ad ottenere l’assistenza sanitaria di cui hanno bisogno. Molte strutture sanitarie, a tutti i livelli, non hanno personale sufficiente né farmaci di base e attrezzature diagnostiche. La chiusura di molte strutture sanitarie o la riduzione delle loro attività avrà un impatto molto pesante sulla disponibilità dei servizi sanitari di base in particolare per donne e bambini, che dovranno aspettare più a lungo o fare viaggi più lunghi solo per ricevere le cure” afferma Julie Paquereau, coordinatrice medica di MSF in Afghanistan. “Questo spingerà più neonati e bambini in pericolo di vita verso ospedali provinciali e regionali già sovraccarichi, compresi quelli supportati da MSF. E alcuni potrebbero non accedere mai alle cure, per l’impossibilità di raggiungere una struttura sanitaria”. Trovare lo spazio, il tempo e le risorse necessarie per curare il crescente numero di pazienti pediatrici è una sfida, perché decine di bambini e neonati che arrivano nei reparti pediatrici richiedono cure mediche immediate per problemi come insufficienza respiratoria, sepsi e grave malnutrizione. “È appena iniziato il turno di notte e tutti i letti del reparto pediatrico sono pieni, spesso sono condivisi da 2 pazienti. Ho 17 pazienti in attesa di essere ricoverati, ma non c’è posto dove metterli” afferma il dottor Ahmed*, medico del pronto soccorso di MSF nel reparto pediatrico del Boost Hospital nella provincia di Helmand. In questo ospedale il numero dei bambini sotto i 5 anni nel pronto soccorso è più che raddoppiato dal 2020 al 2024, passando da 53.923 a 122.335 pazienti. Solo ad aprile di quest’anno sono stati visitati 13.738 bambini, il numero più alto di visite mensili dal 2020. Nell’ospedale regionale di Herat, supportato da MSF, il numero di famiglie che affluiscono al triage pediatrico è in crescita da anni. Solo nel 2025 in una giornata media, gli infermieri del triage visitano 1.300 pazienti e alcuni giorni arrivano più di 2.000 neonati e bambini, in attesa di essere visitati. Nei primi 5 mesi del 2025, ogni giorno in media sono stati visitati al pronto soccorso 354 bambini con un aumento del 27% rispetto allo stesso periodo del 2024. “Molte famiglie ci dicono che non hanno soldi per il trasporto in ospedale, aspettano di vedere se il loro bambino guarisce o se riescono a trovare i soldi. Il risultato è un ritardo nelle cure e un peggioramento delle condizioni” afferma Jameela*, infermiera di MSF che lavora nel triage pediatrico dell’ospedale di Herat. Dall’altra parte del paese, nel reparto pediatrico dell’ospedale regionale di Mazar-i-Sharif, nella provincia settentrionale afghana di Balkh, solo a maggio ogni giorno sono arrivati in media 51 pazienti in condizioni molto critiche, che necessitavano di cure immediate. Le previsioni purtroppo non sono positive visto che il numero di bambini in condizioni critiche è destinato ad aumentare nelle prossime settimane, poiché i casi di malnutrizione inizieranno a raggiungere il picco stagionale a luglio.   Cure pediatriche di MSF in Afghanistan Dal 2009, MSF collabora con il Ministero della salute per supportare il Boost Hospital di Helmand, principale centro di riferimento per le strutture sanitarie della provincia e dei distretti limitrofi. Nel 2024, le équipe mediche di MSF e del Ministero della salute hanno ricevuto 273.976 pazienti al pronto soccorso. Presso l’ospedale regionale di Herat, MSF gestisce i servizi di assistenza pediatrica, tra cui il pronto soccorso, l’unità di terapia intensiva, il reparto di isolamento del morbillo e il trattamento della malnutrizione. Nel 2024, le équipe di MSF hanno effettuato 101.455 visite di pronto soccorso pediatrico. Dall’agosto 2023, MSF supporta il dipartimento pediatrico dell’ospedale regionale di Mazar-i-Sharif nella provincia di Balkh e solo nel 2024 ha fornito 52.408 visite al pronto soccorso per pazienti pediatrici e neonatali.   *Nomi cambiati per proteggere l’identità.   Medecins sans Frontieres
Afghanistan: nuovo rapporto di Emergency
A due anni dalla pubblicazione del suo primo report sulle barriere di accesso alle cure in Afghanistan, EMERGENCY lancia il nuovo rapporto Accesso alle cure d’urgenza, critiche e chirurgiche in Afghanistan. Prospettive del popolo afgano e degli operatori sanitari di 11 province, dedicato al Paese in cui è presente dal 1999. La ricerca, costruita raccogliendo proprio le voci degli afgani, si concentra sull’accesso della popolazione ai servizi di emergenza, intensivi e chirurgici (Emergency, Critical and Operative – ECO) che includono anche la ginecologica e l’ostetricia. Il quadro che emerge dall’analisi condotta da EMERGENCY e CRIMEDIM (Centro Interdipartimentale di Ricerca e Formazione in Medicina dei Disastri, Assistenza Umanitaria e Salute Globale) è quello di un Afghanistan dove 22.9 milioni di persone, metà della popolazione[1], necessitano di aiuti umanitari e oltre 14 milioni di cure sanitarie. Dove la crisi economica e l’indebolimento del sistema sanitario dopo decenni di guerra hanno reso difficile l’accesso alle cure per la popolazione che affronta oggi nuovi bisogni sanitari tra i quali le malattie non trasmissibili[2], non adeguatamente affrontate. Nel report Accesso alle cure in Afghanistan: la voce degli afgani in 10 province pubblicato nel 2023 l’ong aveva sottolineato la difficoltà degli afgani ad accedere alle cure nel Paese rilevando numeri che mostravano chiaramente come barriere geografiche, economiche e sociali rendessero complicato il raggiungimento delle strutture soprattutto dalle aree più remote del Paese, l’acquisto di medicinali, lo svolgimento di esami diagnostici e il reperimento di personale formato adeguatamente. Il nuovo rapporto 2025 conferma le tendenze emerse precedentemente: se già l’accesso all’assistenza sanitaria di base è complicato, ancora di più lo è quello ai servizi ECO che richiedono infrastrutture ed equipaggiamenti dedicati e maggiore specializzazione e formazione per lo staff. Il campione di analisi ha compreso 11 strutture ospedaliere governative oltre ai centri di EMERGENCY nel Paese (i Centri chirurgici per vittime di guerra a Kabul e Lashkar-gah, il Centro chirurgico ad Anabah in Panshir, i centri pediatrico e di maternità ad Anabah, oltre 40 posti di primo soccorso e centri di sanità di base sparsi nel Paese). Sono state considerate le 11 province dove EMERGENCY lavora, che ospitano quasi 16 milioni di afgani (il 39% della popolazione totale). La metodologia di ricerca ha previsto la somministrazione di 1.551 questionari anonimi a pazienti e accompagnatori in 20 strutture di EMERGENCY, 32 questionari compilati da informatori qualificati tra il personale di EMERGENCY, la compilazione di uno strumento di valutazione approvato dall’OMS e 11 interviste semi-strutturate negli ospedali pubblici con i direttori degli ospedali provinciali, i primari di chirurgia e di ginecologia. Tra le necessità che emergono con più forza da parte degli intervistati: disporre di un maggior numero di strutture sanitarie e di migliore qualità[3]; diminuire il costo delle cure e dei mezzi di trasporto per ricevere l’assistenza necessaria; aumentare la presenza di personale femminile. Anche i fattori socioculturali, infatti, limitano l’accesso alle cure. Essere donna è un indicatore di maggiore vulnerabilità nell’accesso alle cure in Afghanistan, soprattutto per quanto riguarda la gravidanza e l’assistenza materna. “Tra le restrizioni principali, a donne e ragazze è stato impedito di frequentare scuole secondarie e università – racconta Keren Picucci, ginecologa del Cento di maternità di EMERGENCY ad Anabah –. Inoltre, per ragioni culturali e sociali, le donne spesso esitano a rivelare i propri problemi di salute fino a quando la situazione non diventa grave e la preferenza o l’obbligo di essere trattate da personale medico femminile riduce ulteriormente le opzioni disponibili.” La crisi economica protratta da anni aggrava ulteriormente la situazione: l’80% degli intervistati lamenta costi troppo elevati dei servizi e la conseguenza diretta è che un paziente su quattro è stato costretto a rimandare almeno una volta un intervento chirurgico, mentre uno su cinque ha mancato un appuntamento di controllo. Tre su cinque hanno chiesto denaro in prestito o venduto beni personali per permettersi il pagamento delle cure. Ciò porta spesso a peggioramenti della salute, spesso fatali: oltre il 33% degli intervistati ha riportato una disabilità o un decesso dovuti al mancato accesso alle cure. Le barriere fisiche, poi, si rivelano una delle più difficili da superare per i pazienti: poco più del 2% degli intervistati ha dichiarato di essere in grado di utilizzare un’ambulanza pubblica per accedere ai servizi sanitari, mentre quasi la metà – la maggioranza della popolazione vive in aree rurali e montuose – ha dovuto spostarsi a piedi. Il 79% degli intervistati ha dovuto viaggiare in un’altra città, provincia o persino un altro Paese per ricevere cure chirurgiche. Due terzi delle donne intervistate sono state costrette a spostarsi per accedere ai servizi di cui hanno bisogno. Quando le strutture vengono raggiunte, poi, spesso non dispongono del personale o delle attrezzature necessarie per fornire cure in sicurezza. Sulla base dei suggerimenti raccolti tra pazienti, familiari e operatori sanitari, il rapporto si conclude con 10 raccomandazioni chiave alla comunità internazionale e alle autorità afgane per migliorare il sistema sanitario del Paese. “A quattro anni dall’abbandono delle forze internazionali e l’instaurazione del nuovo governo il 15 agosto 2021 l’Afghanistan non è più una priorità della comunità internazionale [4] – sottolinea Dejan Panic, direttore programma EMERGENCY in Afghanistan –. EMERGENCY resta al fianco della popolazione afgana perché i bisogni di cure di base e specialistiche persistono e sono i pazienti e i colleghi a chiederlo ancora, 30 anni dopo l’inizio del suo impegno nel Paese. Ma è fondamentale per garantire un futuro alla popolazione che la comunità internazionale e il governo afgano facciano la propria parte, come sottolineato nelle raccomandazioni finali di questo report la cui voce è la voce degli afgani.”   Emergency
Afghanistan, torna in libertà il regista Sayed Rahim Saidi
Sayed Rahim Saidi, 57 anni, regista, direttore e produttore del canale YouTube Anar Media, è tornato in libertà dopo 11 dei 36 mesi a cui era stato condannato per aver “diffuso propaganda” contro i talebani. Prima del ritorno al potere di questi ultimi, Saidi aveva lavorato per oltre 20 anni alla tv nazionale dell’Afghanistan e, dal 2005, per Ariana Tv. In precedenza aveva diretto documentari e cortometraggi aventi per tema la discriminazione e la necessità di un cambiamento sociale.  Su YouTube pubblicava programmi culturali, sociali e religiosi. Arrestato il 14 luglio 2024 dai servizi di sicurezza afgani, dopo oltre cinque mesi di detenzione in isolamento e di interrogatori sotto tortura era stato condannato a tre anni di carcere a partire dal giorno dell’arresto, al termine di un processo svoltosi in assenza di un avvocato difensore. Amnesty International aveva lanciato un’azione urgente in suo favore, lamentando l’illegalità dell’arresto e della condanna di Saidi e sottolineando le sue gravi condizioni di salute – a causa di un’ernia del disco e di una prostatite – e l’assenza di cure mediche adeguate.   Riccardo Noury
Non dimentichiamo le donne afghane. Stop all’Apartheid di genere!
Nella lotta contro l’Apartheid di Genere, in difesa dei diritti delle donne in Afghanistan e ovunque nel mondo siano in atto sistemi di governo o apparati che operano continuativamente la segregazione delle donne e la privazione dei loro diritti fondamentali, il CISDA (Coordinamento italiano sostegno donne afghane) ha un nuovo ulteriore alleato: la Commissione Pari Opportunità di Roma Capitale. Il 12 giugno, a seguito all’audizione del Cisda in merito, la commissione ha approvato all’unanimità il sostegno alle richieste contenute nella Campagna STOP APARTHEID DI GENERE – STOP FONDAMENTALISMI così espresso in una nota dalla presidente della commissione Michela Cicculli: … sono orgogliosa di registrare l’appoggio trasversale, emerso nella seduta odierna, all’attività del Cisda-Coordinamento italiano sostegno donne afghane impegnato nella campagna Stop Fondamentalismi per il riconoscimento come crimine contro l’umanità dell’apartheid di genere e il deferimento dell’Afghanistan alla Corte di Giustizia internazionale e alla Corte penale internazionale. Un sostegno su cui lavoreremo nelle prossime settimane per contribuire come amministrazione e portare all’attenzione del Governo e della cittadinanza la gravità delle discriminazioni sistematiche compiute dal regime talebano nei confronti delle donne, ragazze e persone Lgbt nel Paese” perché “è importante che si continui a parlare di una situazione giunta all’apice della violazione dei diritti fondamentali sistematizzata e normalizzata a livello normativo e politico e si supporti l’attività svolta dal Cisda, dalle forze democratiche e associazioni che nel Paese, in maniera clandestina, portano avanti attività in ambito sanitario e di istruzione come pure lavorativo per aiutare chi viene discriminato”. Anche Marilena Grassadonia, Coordinatrice politiche diritti Lgbt+ di Roma Capitale, in una nota dichiara: “Accendere i riflettori su una questione che rischia di rimanere nell’ombra è compito delle istituzioni democratiche del nostro Paese. Grazie alla discussione di oggi in Commissione Pari opportunità, Roma Capitale non intende sottrarsi a questa responsabilità: sosterrà con una prossima iniziativa il lavoro del Cisda impegnato nella campagna ‘Stop Fondamentalismi, per il riconoscimento come crimine contro l’umanità dell’apartheid di genere e per il deferimento dell’Afghanistan alla Corte di Giustizia internazionale e alla Corte penale internazionale”. Il Cisda ringrazia e spera in una proficua collaborazione. Prossimo appuntamento a settembre! Beatrice Biliato     CISDA - Coordinamento Italiano Sostegno Donne Afghane
Missioni di pace?
Tra le tante proposte in cartellone nel ricco programma del Critical Wine di quest’anno (24-25 maggio a Bussoleno, ne abbiamo già parlato qui) è passata inosservata una mostra fotografica, nei locali dell’Ass.ne Culturale “La Credenza” dal titolo Missioni di Pace? con chiarissimo punto interrogativo. Documentazione di un’esperienza molto ‘particolare’ di cui il fotografo Diego Fulcheri – che i lettori di questo sito ben conoscono come ‘front line reporter’ circa i fatti e misfatti che succedono in Val Susa – è stato in più riprese protagonista nel ruolo di pilota elicotterista, nell’ambito di cosiddette ‘missioni di pace’, prima in Libano con l’UNIFIL e poi in Bosnia, Kosovo, Afghanistan. Un’esperienza che ha generato in lui parecchie domande, sullo sfondo di interessi economici e tornaconti anche personali che di ‘umanitario’ non avevano proprio niente, come sintetizzato in questo testo che accompagnava la mostra e che vi riproponiamo. (ndr) L’accusa d’ipocrisia rivolta alle ‘missioni di pace’ in genere verte principalmente sul fatto che, pur essendo state istituite per garantire la pace, non hanno quasi mai raggiunto gli obiettivi prefissati, spesso mostrando un approccio superficiale e inadeguato alla risoluzione dei conflitti, se non addirittura connivente con i signori della droga, delle armi o del petrolio: strumento insomma delle manovre di geopolitica, con i più deboli, soprattutto i bambini, a pagare le conseguenze maggiori. Come ho avuto modo di capire prestando servizio in Afghanistan e a Sarajevo, in Bosnia Erzegovina. Afghanistan, una guerra per l’oppio e a favore delle case farmaceutiche “Venti anni di guerra in Afghanistan in sintesi”: questo l’incipit di un articolo a firma di Lorenzo Poli su Invictapalestina, in data 24.8.2021. Bilancio: 240.000 morti tra gli afgani di cui 71.000 civili, oltre ai 4.000 morti per la NATO tra cui 54 militari italiani. 2.000 miliardi di dollari sparati contro l’umanità, contro i ”solo 55” spesi in investimenti (dati di Fabrizio Tonello, Il Manifesto). Tutto questo, a detta di Joe Biden, per vendicare l’11 settembre ed eliminare Osama Bin Laden. In realtà la guerra ha soprattutto incrementato il mercato della droga, se pensiamo che nel 2001 la produzione di oppio non superava i 180 kg, mentre solo quindici anni dopo (cfr Massimo Fini su Il Fatto Quotidiano del 7.5.2016: “Afghanistan 2001-2016, l’unica ‘liberazione’ è quella dell’oppio”) si toccavano picchi di 5.000, 6.000, 7.000 tonnellate l’anno, qualificando l’Afghanistan come produttore del 93% dell’oppio a livello mondiale mondiale. “Facendo un bilancio, la guerra in Afghanistan è stata un beneficio non per gli afghani, ma per le case farmaceutiche occidentali, i produttori di armi, le società di mercenari, le mafie anche italiane, le organizzazioni terroristiche islamiche, ma soprattutto gli Stati capitalisti”. (Lorenzo Poli nell’articolo già citato). Foto di Diego Fulcheri Enrico Piovesana, giornalista di grande esperienza, ha scritto un libro dal titolo Afghanistan 2001-2016, La nuova guerra dell’oppio (Arianna Edizioni): un libro coraggioso, sufficientemente piccolo per passare quasi inosservato, ma ricco di informazioni che dovrebbero far arrossire di vergogna i Paesi che hanno invaso l’Afghanistan e hanno continuato ad occuparlo fino al 2021. Nel luglio del 2001 il Mullah Omar aveva proibito la coltivazione del papavero, da cui si ricava l’oppio e, una volta raffinato, l’eroina. Decisione difficile perché colpiva soprattutto la base del regime di Omar, cioè i contadini, cui andava peraltro solo l’1 per cento dei ricavi. Fatto sta che nel 2002 la produzione di oppio in Afghanistan era crollata a 185 tonnellate. Quindici anni dopo (come appunto documentava Massimo Fini nel succitato articolo) la produzione raggiungeva le 5.000, 6.000, 7.000 tonnellate l’anno, e l’Afghanistan diventava il maggior produttore d’oppio a livello mondiale. Come mai, visto che fra gli obiettivi della coalizione ISAF (International Security Assistance Force), oltre a portare la democrazia, “liberare” le donne eccetera, c’era anche quello di sradicare il traffico di stupefacenti, cosa a cui peraltro aveva già provveduto il Mullah Omar? Foto di Diego Fulcheri Le ragioni sono principalmente due. La prima è che per combattere i talebani i contingenti NATO (soprattutto americani, inglesi, canadesi), benché forti d’indiscussa superiorità militare (aerei, droni, bombe all’uranio impoverito e sofisticatissimi strumenti tecnologici), sono stati costretti ad allearsi con i “signori della droga” che il governo di Omar aveva cacciato dal Paese. La seconda, anche più grave, è che gli stessi militari NATO, insieme ai soldati del cosiddetto esercito “regolare” e la quanto mai corrotta polizia, diventarono protagonisti di buona parte del traffico di droga. La guerra in Afghanistan tanto voluta dagli USA è stato un business enorme per Big Pharma: la maggior parte dei farmaci è a base di oppio e solo nel 2017 le case farmaceutiche americane hanno potuto contare su circa 500.000 kg di oppio a prezzi ‘agevolati’. Un’inchiesta del giornalista e scrittore Franco Fracassi ha rivelato che la maggior parte dei generali NATO in Afghanistan non si occupavano solo di guerra, ma di lobbismo per le case farmaceutiche, delegati a trattare il prezzo dell’oppio per loro conto. “Oltre 90 miliardi di dollari l’anno è il fatturato che le case farmaceutiche totalizzano dalla vendita di farmaci a base di oppiacei, di cui una buona parte proviene dall’Afghanistan e la cui produzione è aumentata del 5.000.000% dall’inizio della guerra nei primi anni 2000” scriveva infatti nell’agosto del 2021 Lorenzo Poli nel suo articolo per Invictapalestina. “Non è un caso infatti che tra il 1991 e il 2011 le prescrizioni negli Usa si sono triplicate, da 76 milioni a 219 milioni di ricette l’anno, per poi arrivare a 289 milioni di ricette nel 2016.” Foto di Diego Fulcheri Dopo 14 anni di guerra, suonano crude le conclusioni del giornalista americano Eric Margolis per The Huffington Post citato anche da Massimo Fini: “Quando verrà scritta la storia di questa guerra in Afghanistan, il sordido coinvolgimento di Washington nel traffico di eroina e la sua alleanza con i signori della droga sarà uno dei capitoli più vergognosi”. Nulla è mai come sembra “In Bosnia ed Erzegovina viene condotta una guerra mondiale nascosta, che vede implicate direttamente o indirettamente tutte le forze mondiali: sulla Bosnia ed Erzegovina si spezzano tutte le essenziali contraddizioni di questo e del terzo millennio”, parola di Kofi Annan, nel Report of the UN Secretary-General. La guerra in Bosnia ed Erzegovina si è combattuta tra i primi di marzo del 1992 e il 14.12.1995, fino alla stipula dell’accordo di Dayton (Ohio), che pose ufficialmente fine alle ostilità. L’intervento della comunità internazionale fu per gran parte del conflitto piuttosto blando, limitandosi a promuovere sterili trattative di pace. Del tutto insufficiente si rivelò anche l’invio di un contingente ONU, l’UNPROFOR, che non impedì il perpetrarsi di massacri contro la popolazione civile. La tragedia danneggiò profondamente la legittimità dell’ONU: “Tra gli attori internazionali, nessuno più delle Nazioni Unite ha perso credibilità a causa del crollo della Bosnia”. Si stima che l’assedio di Sarajevo (dal 5.4.1992 al 29.2.1996, il più lungo assedio nella storia bellica del XX° secolo) abbia registrato 12.000 morti oltre ai 50.000 feriti, l’85% dei quali tra i civili. A causa dell’elevato numero di morti e della migrazione forzata, nel 1995 la popolazione si ridusse a 334.664 unità, il 64% della popolazione precedente allo scoppio della guerra. E allora perché  l’intervento della NATO, si è chiesto l’economista Sean Gervasi? Decisiva sulle decisioni politiche e militari (come l’intervento della NATO) soprattutto in Occidente, fu l’influenza della copertura giornalistica televisiva in Bosnia, in particolare della CNN, ma le cose potrebbero essere andate diversamente. Un articolo dell’economista Sean Gervasi, pubblicato sul sito del Comitato unitario contro la guerra alla Jugoslavia il 14.1.1996 motiva l’intervento occidentale nella penisola balcanica come “il risultato delle enormi pressioni per un’estensione generale della NATO verso est (…) in vista di un allargamento in tempi relativamente rapidi anche alla Polonia, alla Repubblica Ceca e all’Ungheria (…) in ragione di una scelta strategica finalizzata al controllo delle risorse della regione intorno al Mar Caspio e per ‘stabilizzare’ i paesi dell’Europa Orientale e in ultima analisi la stessa Russia e i paesi della Comunità degli Stati Indipendenti…” Notare la data: siamo solo nel 1996! C’era sostanzialmente, secondo Gervasi, un piano occidentale “per far implodere la Jugoslavia che rappresentava l’ultimo ostacolo…” Inquietante, col senno di poi, la comparsa di un trafiletto su La Stampa di Torino, che in data 29.11.1990 così recitava: “La Jugoslavia si disintegrerà entro il 1992”, parola della CIA! MISSIONI DI PACE O PER LA GUERRA PERMANENTE?   Centro Sereno Regis