Tag - Afghanistan

Trattare con i Talebani per “contrastare” i flussi migratori. Il vero volto della solidarietà europea
A fine ottobre la Commissione Europea ha scritto ai 27 Stati membri per esortarli ad accelerare i rimpatri e implementare gli accordi bilaterali con Paesi extra-Ue, anche con quelli che non rispettano il diritto umanitario, come l’Afghanistan. Una strategia brutale che getta una luce inquietante sugli aiuti umanitari che Bruxelles sta garantendo a Kabul. L’Unione Europea sta rispondendo con prontezza alle richieste delle Nazioni Unite e delle agenzie umanitarie di inviare aiuti all’Afghanistan alle prese con il freddo che avanza, catastrofi naturali, crisi economica e sospensione dei finanziamenti statunitensi. Ma è autentica solidarietà, generosa e disinteressata, o piuttosto un calcolato avvicinamento al governo talebano per convincerlo a riprendersi i “suoi” immigrati in Europa, in risposta alla sempre maggiore pressione delle forze di destra perché si liberino di questo “fardello”? Per provare a rispondere è utile fare un passo indietro e osservare come si sono mossi alcuni Stati europei in questi ultimi mesi. L’isolamento in cui il governo di fatto dell’Afghanistan è stato confinato con le sanzioni comminate nei confronti dei ministri talebani, che impediscono loro di viaggiare, dovrebbe rendergli impossibile incontrare funzionari di Paesi dell’Unione, tanto più in Europa. Invece la Germania già il 21 luglio non solo ha deportato a Kabul 81 migranti con il coordinamento dell’amministrazione talebana e l’aiuto del Qatar, ma ha persino invitato due rappresentanti diplomatici del governo talebano in Europa perché seguissero le pratiche dei respingimenti in futuro. E questi personaggi non sono stati trattati da funzionari con mansioni “tecniche”: sono stati riconosciuti come nuovi portavoce facenti funzioni consolari, dopo che i precedenti della vecchia Repubblica hanno dato le dimissioni proprio per protesta contro l’invito ai “nuovi” delegati. Si è così scavalcato di fatto ogni impegno al non riconoscimento del governo talebano che gli Stati europei e la stessa Germania continuano a ribadire come loro vincolo imperativo, prefigurando un cambio della politica europea nei confronti del governo de facto. La pensano così anche i Talebani, che infatti si sono affrettati a mettere in risalto il loro nuovo ruolo e a occupare tutti gli spazi resi disponibili in questo nuovo contesto, con grande rischio per gli emigrati e per le loro famiglie, perché ora tutta la documentazione relativa ai profughi che vivono in Germania e alle loro famiglie rimaste in Afghanistan è stata ceduta nelle loro mani. Questa decisione di Berlino ha creato un gravissimo precedente, che altri Stati europei si sono affrettati a seguire. Infatti già il 29 luglio funzionari svizzeri hanno chiesto al loro governo un dialogo diretto con i funzionari dell’Emirato islamico dell’Afghanistan per facilitare il processo di rimpatrio forzato dei richiedenti asilo afghani. Il 30 luglio anche la Svezia ha tentato di ricorrere alla burocrazia per rendere la vita difficile agli immigrati afghani e prepararne l’espulsione, dichiarando nulli i documenti di viaggio non regolari, unici documenti di cui sono in possesso i fuggitivi dall’Afghanistan. Intanto i Talebani hanno alzato il tiro: hanno informato la Svizzera che non avrebbero più accettato i rimpatri che non fossero stati firmati da esponenti del proprio governo, imponendo così di fatto i loro funzionari, tanto che il 23 agosto si sono recati a Ginevra per aiutare a identificare chi dovesse essere deportato in Afghanistan. Anche Vienna si è fatta avanti. A metà settembre una delegazione di cinque membri del Ministero degli Esteri talebano si è recata nella capitale austriaca per discutere le missioni diplomatiche e i servizi consolari ai cittadini afghani che vivono in Austria e in altri Paesi europei. Ma la tappa decisiva è stata l’istanza dei 19 Paesi europei che hanno sottoscritto il 19 ottobre di quest’anno una richiesta al Commissario Europeo per gli Affari interni e le migrazioni affinché venga facilitato il rimpatrio, volontario o forzato, dei cittadini extra-europei senza permesso di soggiorno o asilo, chiedendo quindi che le deportazioni siano trattate come una “responsabilità condivisa a livello dell’UE”. A sottoscrivere il documento sono stati i governi di Bulgaria, Cipro, Estonia, Finlandia, Germania, Grecia, Ungheria, Irlanda, Italia, Lituania, Lussemburgo, Malta, Austria, Polonia, Slovacchia, Svezia, Repubblica Ceca e Paesi Bassi. Si è poi aggiunta la Norvegia la quale, pur non essendo membro dell’UE, è un Paese Schengen. Questa stretta migratoria, se è molto grave perché rischia di ripercuotersi pesantemente su tutti i profughi rifugiatisi in Europa, ha una ricaduta ancora più inquietante quando i migranti presi di mira sono cittadini afghani, costretti a tornare a vivere sotto un regime dittatoriale e repressivo dal quale erano fuggiti spesso per salvare la pelle. Ma è ancor più grave per il risvolto internazionale che prefigura, perché si ripercuote sulle relazioni tra Europa e Afghanistan, facendo diventare il governo afghano protagonista di una trattativa che lo riconosce di fatto se non di diritto, secondo una scelta che sembra essere sempre più considerata necessaria anche dai Paesi occidentali, in quanto giustificata da esigenze pragmatiche. Infatti il respingimento degli afghani nel Paese di origine necessita dell’accordo con il governo dei Talebani, fondamentalista e gravemente persecutorio nei confronti delle donne, che nessuno al mondo tranne la Russia ha voluto finora riconoscere. Ma questo governo è disponibile a dare il suo consenso al rientro dei suoi concittadini solo in cambio di un avanzamento del suo posizionamento nel mondo verso il riconoscimento legale. Posizione che rimane sottotraccia nella richiesta di deportazione avanzata degli Stati europei. A estendere la nuova “linea politica” ci ha pensato la presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, inviando il 22 ottobre una lettera a tutti i 27 Stati dell’Unione per esortarli ad accelerare i rimpatri e implementare gli accordi bilaterali con i Paesi extra-Ue, anche con quelli che non rispettano il diritto umanitario, tipo l’Afghanistan. Quindi trattare con il governo talebano, aprendo al dialogo e ai suoi ambasciatori, riconoscendogli di fatto un ruolo ufficiale sebbene ciò contraddica le dichiarazioni che la stessa UE continua a proclamare, è la nuova strategia europea per “ridurre” l’immigrazione. La politica di dialogo dell’UE con il governo talebano è stata del resto ribadita anche dal nuovo rappresentante UE per l’Afghanistan, Gilles Bertrand, che appena eletto si è recato a Kabul per confermare direttamente ai Talebani l’intenzione dell’UE di portare avanti il processo di dialogo stabilito nell’ambito degli accordi di Doha 3 – quelli cioè che escludono qualsiasi trattativa sui diritti delle donne per far piacere ai Talebani – offrendo e chiedendo collaborazione a vari livelli. È quanto del resto ha ribadito il Parlamento Europeo nel suo ultimo comunicato in cui, mentre prende una decisa posizione contro l’apartheid di genere e denuncia le responsabilità dei Talebani, anziché proporre provvedimenti per isolarli stringe i legami attraverso viaggi in Afghanistan e contatti segreti tra diplomatici, giustamente denunciati da alcune deputate europee. In questa ottica, assume una luce più inquietante e interessata l’erogazione di aiuti umanitari che Bruxelles sta garantendo a Kabul sotto varie forme: non appare come un libero impegno dei Paesi europei democratici, solidali nei confronti del popolo afghano affamato, ma invece come un sostegno al governo talebano per avere in cambio la deportazione dei migranti afghani e agevolare il consenso dell’opinione pubblica europea sempre più xenofoba. L’articolo è stato pubblicato su Altreconomia, 18 novembre 2025   Anna Polo
Ancora in fiamme la Mezza Luna Fertile, pur con aliti di pace
Sudan Nonostante avessero annunciato il loro assenso ad una tregua umanitaria temporanea, le milizie “Forze di supporto rapido” hanno bombardato il Kordofan, poche ore dopo gli attacchi dei droni su Atbara e Omdurman. Una commissione di esperti delle Nazioni Unite ha accusato le milizie di aver commesso atrocità contro i civili a El Fasher, nel Darfur settentrionale. Le Forze di Supporto Rapido e il Movimento di Liberazione del Popolo Sudanese del Nord (SPLM-N) hanno bombardato la città di Dilling, importante centro del Kordofan Meridionale. Un drone delle Forze di Supporto Rapido ha bombardato diverse località a El Obeid, nel Kordofan Settentrionale. L’Emergency Lawyers Group, un gruppo per i diritti umani che monitora le violazioni in Sudan, ha riferito che 6 persone sono state uccise e 12 ferite quando un proiettile ha colpito all’interno dell’ospedale di Dilling. Tunisia La famiglia del prigioniero politico tunisino Jawhar Ben Mbarek e i suoi avvocati hanno lanciato un grido d’allarme, avvertendo di un pericolo imminente che potrebbe costargli la vita dopo che 10 giorni fa aveva intrapreso uno sciopero della fame totale e a tempo indeterminato, all’interno del carcere “Belli” nel governatorato di Nabeul (nord). Un gesto di protesta contro l’”ingiustizia politica” e un “processo iniquo”, subiti nel procedimento noto come “cospirazione contro la sicurezza dello Stato 1”. Ben Mbarek, professore di diritto costituzionale, è una delle figure di maggior spicco dell’opposizione al presidente Kais Saied da quando quest’ultimo ha dichiarato lo stato di emergenza il 25 luglio 2021. È una figura di spicco del Fronte di Salvezza Nazionale, una coalizione di personalità politiche e partiti di opposizione, in particolare il partito islamista Ennahda. Inizialmente è stato condannato in un processo farsa a 18 anni di carcere. Turchia /Israele La giustizia turca ha emesso mandati di arresto per genocidio contro il primo ministro israeliano Netanyahu e diversi politici e militari israeliani, tra cui il ministro della guerra Katz e il ministro della Sicurezza nazionale Itamar Ben Gvir. I mandati di arresto riguardano un totale di 37 sospetti. Tra questi, figura anche il capo di Stato Maggiore israeliano, Eyal Zamir, secondo quanto riferito dalla procura di Istanbul, che denuncia il “genocidio e i crimini contro l’umanità perpetrati in modo sistematico da Israele a Gaza”. La giustizia turca cita anche il caso dell’Ospedale dell’amicizia turco-palestinese nella Striscia di Gaza – costruito dalla Turchia – colpito e completamente distrutto a marzo dall’esercito israeliano. Turchia/Kurdistan Ankara sta vagliando un progetto per far rientrare i combattenti e i civili curdi rifugiati in Iraq. Una legge è allo studio ed è oggetto di discussioni in una commissione parlamentare che coinvolge anche deputati curdi. Secondo una fonte di Ankara, la proposta prevede prima il ritorno dei civili e poi l’amnistia per i combattenti che consegnano all’esercito iracheno le loro armi. Alcuni capi del movimento della guerriglia non saranno ammessi al rientro ma otterranno asilo politico in altri paesi. La proposta di legge dovrebbe essere discussa in parlamento entro novembre. Di seguito un’intervista all’avvocato di Ocalan, sul processo di pacificazione: LA PACE INCERTA TRA CURDI E TURCHI: UN PERCORSO DIFFICILE, CORAGGIOSO E DI SPERANZA PER I CURDI. – Anbamed Pakistan/Afghanistan Il secondo round di trattative a Istanbul è fallito. Lo ha ammesso il ministro della guerra di Islamabad, Assif, che ha però assicurato che gli scontri di frontiera non riprenderanno se non ci saranno attacchi da parte dei Talebani pakistani rifugiati in territorio afghano. La crisi tra i due paesi è arrivata al culmine in seguito ad una serie di attacchi di guerriglieri a postazioni di confine in Pakistan, con decine di vittime: l’aeronautica di Islamabad ha bombardato la stessa capitale afghana Kabul. Le mediazioni di Doha prima e adesso di Ankara non sono riuscite ad avvicinare le posizioni dei due paesi. ANBAMED
Terremoto in Afghanistan: servono aiuti
Un potente terremoto di magnitudo 6,3 ha colpito le regioni settentrionali dell’Afghanistan, in particolare le province di Samangan e Balkh, nelle prime ore di lunedì 12 Aqrab (3 novembre). Secondo le prime stime, più di 50 persone hanno perso la vita e oltre 550 sono rimaste ferite. Questo tragico evento ha causato un grave disagio psicologico ed emotivo tra le comunità colpite. Il numero di feriti è molto elevato, mentre i servizi medici rimangono insufficienti. Molte famiglie hanno perso le loro case di fango e argilla e attualmente affrontano il gelo senza alcun riparo. Testimoni riferiscono che i bambini rischiano di morire di freddo. Il nostro rappresentante sul campo è riuscito a raggiungere la zona con grande difficoltà, poiché le strade sono state danneggiate dal terremoto. Ci ha riferito che le persone, soprattutto donne e bambini, hanno urgente bisogno di indumenti caldi, rifugi temporanei, medicine, cibo e acqua potabile. Fonti locali indicano che il governo non è stato finora in grado di adottare misure efficaci, poiché le attrezzature necessarie per la pulizia delle strade non sono disponibili. Inoltre, l’elettricità importata è stata interrotta e persino l’ospedale provinciale di Samangan ha subito danni, con gravi ripercussioni sui servizi sanitari. In queste difficili circostanze, senza un’assistenza immediata per donne e bambini, si prevede che il numero delle vittime aumenterà drasticamente. Invitiamo sinceramente la comunità internazionale, le organizzazioni umanitarie e i nostri partner ad agire con urgenza e a fornire supporto per soddisfare i bisogni immediati della popolazione colpita. Il vostro sostegno e la vostra solidarietà sono la speranza per la sopravvivenza di queste persone colpite dal disastro. Team di Hawca Per aiutare le popolazioni colpite dal terremoto fai un bonifico bancario a Cisda Beneficiario: COORDINAMENTO ITALIANO SOSTEGNO DONNEAFGHANE ONLUS* BANCA POPOLARE ETICA – Filiale di Milano IBAN: IT74Y0501801600000011136660 Causale: terremoto Afghanistan *Attenzione: in base alle nuove normative bancarie il nome del beneficiario del bonifico deve corrispondere esattamente all’intestatario del conto per cui va scritto come indicato sopra (donneafghane tutto attaccato e onlus invece di ETS)   CISDA - Coordinamento Italiano Sostegno Donne Afghane
Stop Apartheid di genere, incontro a Roma
Lunedì 13 ottobre a Roma presso Spazio Europa – gestito dall’Ufficio del Parlamento Europeo in Italia – in collaborazione con la Commissione Pari Opportunità e l’Ufficio Politiche Diritti LGBT+ di Roma Capitale, il Cisda ha organizzato l’incontro “Stop Apartheid di genere”, con il contributo dell’associazione Costituente Terra e con la partecipazione di Michela Cicculli, Marilena Grassadonia, Laura Guercio e Luigi Ferrajoli. In collegamento un’attivista afghana, che ha descritto la situazione di completo isolamento e annullamento che le donne afghane sono costrette a vivere nel loro Paese. Interessata anche la partecipazione del pubblico, che ha potuto porre questioni e fare proposte sul tema. Ringraziamo le Istituzioni di Roma Capitale per il loro contributo e gli esperti intervenuti. Il CISDA continua la propria azione di denuncia affinché gli organismi internazionali preposti riconoscano il reato di Apartheid di genere come crimine contro l’umanità.   CISDA - Coordinamento Italiano Sostegno Donne Afghane
Emmaus Cuneo a favore delle donne afghane
Una vendita straordinaria di solidarietà a favore del progetto Shelter del CISDA (Comitato Italiano Sostegno Donne Afghane) si terrà sabato 18 ottobre presso i mercatini Emmaus di Boves (nell’occasione anche sconti fino al 50% in alcuni settori), Cuneo e Mondovì. Nell’attuale Afghanistan la violenza domestica sulle donne è aumentata esponenzialmente e il progetto sostiene le donne più esposte, dando loro un minimo di rifugio e competenze per cercare di favorire, per quanto possibile, la loro protezione e autonomia.   CISDA - Coordinamento Italiano Sostegno Donne Afghane
Cagliari: il Love Sharing è un arcipelago di pace
Il Love Sharing, l’ormai collaudato festival teatrale e culturale dell’autunno cagliaritano, giunge quest’anno alla sua decima edizione e propone un calendario molto fitto di presentazioni di libri e di spettacoli teatrali. La rassegna, organizzata dall’associazione Theandric-Teatro Nonviolento, presieduta dall’attrice e regista Virginia Siriu, è sempre stata caratterizzata dall’interesse per il pensiero creativo e divergente, con l’obiettivo di contribuire all’arricchimento di una cultura nonviolenta nella società. Da due anni sembra essersi stabilizzato al Teatro di Sant’Eulalia, dietro la chiesa omonima, nello storico quartiere della Marina, dove si svolgeranno anche quest’anno i vari eventi. Proprio in questo contesto, venerdì 3 ottobre è stato presentato il programma, che avrà le sue iniziative estese all’intero autunno. Lo psicanalista Diego Miscioscia, socio fondatore dell’Istituto Minotauro, ha presentato il suo ultimo libro: “La guerra è finita. Psicopatologia della guerra e sviluppo delle competenze mentali di pace”. Sabato 24 c’è stato l’incontro con Alfredo Panerai, attivista e formatore, sul suo libro “Apprendere attraverso la nonviolenza”, seguito dall’intervento di Giulio Marcon, Segretario del Servizio Civile Internazionale, sul suo libro “L’arena che ci fa tanto feroci”. Entrambe le serate si sono poi concluse con lo spettacolo teatrale, svolto all’aperto nel piazzale della chiesa, Paradise Now, del gruppo Theatre en vol. La partecipazione è stata in qualche modo limitata dalle tante iniziative ravvicinate o in contemporanea, con lo sciopero generale ed altre manifestazioni per la Palestina. I prossimi appuntamenti saranno per sabato 18 ottobre con inizio alle 18, con la presentazione del libro “Combattenti per la pace”, curato da Daniela Bezzi e pubblicato da Multimage. A presentarlo sarà Olivier Turquet, giornalista, attivista e molto altro. Il libro è frutto di una serie di interviste con i protagonisti di questa associazione mista di palestinesi e israeliani, con un passato nell’esercito o fra i miliziani, che hanno deciso di spezzare il fucile e confrontarsi. Subito dopo ci sarà Enrico Peyretti, storico rappresentante del pensiero nonviolento, con il suo libro “Fino alla liberazione dalla guerra – Pensieri, azioni, speranze di pace”. Infine, alle 20,30 l’incontro con Monica Lanfranco, con il libro “Donne che disarmano. Perché e come la nonviolenza riguarda il femminismo”. A completare questa tappa, venerdì 24 ottobre la compagnia Bocheteatro presenta lo spettacolo teatrale “Bachisio Spanu. L’epopea di un sardo alla grande guerra”. Altri appuntamenti importanti sono previsti nei mesi di novembre, con la presentazione del libro di Noam Chomsky “Ultima fermata Gaza: dove ci porta la guerra di Israele contro i palestinesi”, a cura di Valentina Nicolì. Mentre il 6 dicembre si concluderà con l’incontro con Marianella Sclavi: arte di ascoltare e mondi possibili. Oltre alle serate al teatro di Sant’Eulalia, il Love Sharing presenta nel suo programma anche delle attività mirate per le scuole, con esperti di pace e disarmo del calibro di Francesco Vignarca e Gabriella Falcicchio. Un’offerta importante quindi sia per gli studenti che per il pubblico cagliaritano, che avranno l’occasione di approfondire tematiche oggi sempre più essenziali per poter leggere la complessità del mondo contemporaneo.     Carlo Bellisai
Afghani deportati in Iran: non dimentichiamoli
Una delle associazioni afghane più accreditate nelle attività di soccorso umanitario, che CISDA sostiene da più di 20 anni, si è attivata per portare aiuto ai migranti afghani deportati forzatamente dall’Iran ed espulsi senza alcun giusto processo o considerazione umanitaria (vedi il nostro appello). Pubblichiamo una sintesi del Report della Missione Sanitaria Mobile che, per motivi di sicurezza, non può essere divulgato integralmente. Il report evidenzia che la situazione al confine del Paese permane critica per il caldo estremo, la mancanza di acqua e riparo e l’assenza di servizi sanitari di base, che creano alti rischi di epidemie di malattie infettive, malnutrizione e decessi. Molti deportati erano originariamente fuggiti dall’Afghanistan a causa del crollo del precedente governo, del timore della persecuzione dei Talebani o di gravi difficoltà economiche. Ora sono stati costretti a tornare senza nulla, spesso solo un cambio di vestiti e con il morale a pezzi. Ripristinare dignità e speranza Il Team Sanitario Mobile attivato era composto da 2 medici (un uomo e una donna), 2 infermieri (un uomo e una donna), un’ostetrica, un consulente nutrizionale e ha fornito servizi per 10 giorni a Islam Qala, e ha raggiunto 1.810 persone: 685 donne (≈%37,9), 675 bambini (≈%37,3) e 450 uomini (≈%24,9). I servizi hanno incluso visite generali, trattamento di malattie comuni (diarrea, infezioni respiratorie, colpo di calore, problemi della pelle, ipertensione), consulenza per le donne (igiene mestruale, pianificazione familiare, anemia), visite pediatriche e sensibilizzazione nutrizionale. 17 pazienti (≈%0,9) sono state indirizzate all’Ospedale Pubblico di Herat. I generi di supporto sono stati così distribuiti: • 298 donne hanno ricevuto kit igienici. • 356 donne e bambini hanno ricevuto abiti (prodotti dai corsi di sartoria). • 100 famiglie hanno ricevuto pacchi alimentari. Questo intervento non solo ha ridotto malattie e sofferenze, ma ha anche contribuito a ripristinare dignità e speranza per le famiglie in crisi. Le voci della sofferenza: alcune testimonianze Shabnam – Una madre sull’orlo della disperazione Shabnam, una madre di 25 anni, teneva in braccio il suo bambino febbricitante sotto il sole cocente. Ha detto: “Per due notti abbiamo dormito al confine. Niente medicine, niente dottori. Pensavo di perdere mio figlio.” Dopo aver ricevuto le cure, la febbre del bambino si è abbassata nel giro di poche ore. Con le lacrime agli occhi, Shabnam ha sussurrato: “Non dimenticherò mai che avete salvato la vita del mio bambino. Oggi, per la prima volta, sento di nuovo la speranza.” Freshta – Una donna che lotta per la vita Freshta, 30 anni, è entrata barcollando nella tenda, debole e pallida. Aveva avuto un aborto spontaneo e sanguinava copiosamente. Tremando ha detto: “Pensavo che nessuno mi avrebbe aiutato qui. In Iran mi è stata negata l’assistenza ospedaliera. Temevo di morire.” La nostra ostetrica le ha immediatamente prestato le cure d’urgenza, ha stabilizzato le sue condizioni e l’ha indirizzata all’ospedale. Tenendo la mano dell’ostetrica, Freshta ha gridato: “Mi hai salvato. Mi hai trattato come un essere umano, non come un peso.”  Milad – Un bambino che voleva tornare a giocare Milad, di dieci anni, è entrato con il braccio fasciato in modo rozzo. Suo padre ha spiegato: “È caduto da un camion mentre tornava. Si è rotto il braccio, ma non avevamo soldi per un medico. Ha pianto tutta la notte per il dolore.” La nostra équipe ha stabilizzato il braccio di Milad e lo ha indirizzato a ulteriori cure. Mentre se ne andava, Milad ha sorriso e ha chiesto: “Ora non fa più così male. Pensi che possa tornare a giocare a calcio?” Quel piccolo sorriso è stata la più grande ricompensa per la nostra squadra. Non dimentichiamoli Le condizioni dei rifugiati deportati rimangono disastrose. I rifugiati sono entrati in Afghanistan con paura e spirito distrutto. Molti hanno riferito che i loro familiari sono stati arrestati dai Talebani subito dopo l’arrivo e che i loro corpi sono stati successivamente restituiti privi di vita. Alcune famiglie non hanno informazioni sui loro cari. Un tragico incidente stradale ha causato inoltre quasi 100 vittime accrescendo ulteriormente dolore e shock. Famiglie rimaste senza casa, senza reddito, costrette a lasciare l’Iran con nient’altro che un singolo cambio di vestiti. L’associazione conclude: “In mezzo a queste enormi difficoltà, con il supporto dei nostri fedeli partner – Frontline Women, CISDA e i sostenitori giapponesi – siamo riusciti ad alleviare in parte la sofferenza di molte persone e famiglie. Questo è stato incoraggiante e significativo per il team di assistenza. Speriamo di mobilitare un maggiore supporto nel prossimo inverno e di garantire che queste famiglie non vengano dimenticate”. CISDA ringrazia tutti coloro che hanno inviato e vogliono inviare fondi per sostenere le attività delle Associazioni in favore della popolazione afghana. COORDINAMENTO ITALIANO SOSTEGNO DONNE AFGHANE ETS (C.I.S.D.A) BANCA POPOLARE ETICA – Filiale di Milano IBAN: IT74Y0501801600000011136660 CISDA - Coordinamento Italiano Sostegno Donne Afghane
Afghanistan, il terremoto che colpisce due volte: macerie e diritti negati
Un boato nella notte. Le case di fango e pietra che tremano e si sbriciolano come sabbia. Le famiglie che scavano a mani nude, tra il silenzio rotto solo dai lamenti. È l’immagine che arriva dall’Afghanistan orientale, colpita il 31 agosto da un terremoto di magnitudo 6.0 che ha devastato la provincia di Kunar, vicino al confine con il Pakistan. Secondo i dati ufficiali forniti dalle autorità e confermati da fonti internazionali, il sisma ha provocato oltre 1.400 morti e circa 3.500 feriti. Migliaia di case sono crollate all’istante, inghiottendo interi villaggi. Le frane hanno isolato strade e comunità già fragili. In alcune aree, i corpi sono stati sepolti in fosse comuni improvvisate: troppo alto il numero delle vittime, troppo scarse le risorse per dare a ciascuno una sepoltura dignitosa. Il disastro ha colpito un paese già in ginocchio. I finanziamenti internazionali, in particolare quelli americani, sono stati ridotti dopo il ritorno al potere dei talebani. Cliniche e ospedali hanno chiuso per mancanza di fondi, elicotteri e mezzi di soccorso restano a terra, e la macchina dei soccorsi, in una situazione simile, parte già mutilata. Il governo talebano ha lanciato un appello per aiuti internazionali, e alcune agenzie hanno risposto, ma la diffidenza resta alta: la comunità internazionale si interroga su come portare soccorso senza legittimare un regime che nega i diritti fondamentali a metà della sua popolazione. Il terremoto ha mostrato con spietata chiarezza un altro volto della tragedia: quello delle donne. Non solo colpite dai crolli come tutti, ma vittime due volte, del sisma e delle leggi che le imprigionano. In Afghanistan oggi una donna non può essere curata da un medico uomo senza la presenza di un accompagnatore maschile. Nelle zone più remote non sempre un familiare è disponibile, e la carenza di medici donna, conseguenza del divieto imposto alle ragazze di studiare medicina, rende l’accesso alle cure quasi impossibile. Così molte ferite sono rimaste a casa, curate alla meglio con rimedi locali, mentre le ore scorrevano decisive. Una condizione che trasforma un evento naturale in una catastrofe sociale, dove le discriminazioni pesano come macerie invisibili. Questa tragedia non è solo afghana. È uno specchio crudele per il mondo intero: mostra cosa significa affrontare una catastrofe senza diritti, senza libertà, senza voce. Ricorda che in un contesto di oppressione, un terremoto non scuote solo le case, ma le fondamenta stesse della dignità umana. Secondo le Nazioni Unite, oltre 23 milioni di afghani, quasi la metà della popolazione, vivono oggi in condizioni di grave insicurezza alimentare. Dopo il sisma del 31 agosto, l’ONU e la Croce Rossa hanno denunciato la mancanza di risorse adeguate per portare soccorso: molte cliniche sono state chiuse, i tagli internazionali hanno bloccato le forniture mediche e intere comunità restano isolate. In questo scenario disperato, ogni aiuto diventa questione di vita o di morte. Ma come inviare aiuti senza diventare complici? È la domanda che attraversa le cancellerie ei movimenti civili di tutto il mondo. Perché se da un lato è urgente garantire acqua, cura e ripari a chi ha perso tutto, dall’altro c’è il rischio che gli aiuti diventino strumenti nelle mani di chi nega i diritti fondamentali. La risposta non può che passare dalla comunità internazionale, dalle Nazioni Unite e dalle grandi organizzazioni umanitarie, che devono pretendere trasparenza, accesso diretto e garanzie per le donne ei più vulnerabili. Ogni pacco di viveri, ogni farmaco, ogni tenda consegnata agli sfollati sarà allora non solo un gesto di solidarietà, ma anche un atto politico di resistenza alla disumanizzazione. In Afghanistan, il terremoto ha distrutto villaggi e vite, ma il sisma più profondo resta quello dei diritti negati. Ecco perché la vera ricostruzione non sarà solo fatta di mattoni: comincerà quando il mondo troverà il coraggio di aiutare senza chiudere gli occhi, di tendere la mano senza rafforzare le catene. Fonti Washington Post, 2 settembre 2025 – I talebani chiedono aiuti internazionali mentre il bilancio delle vittime del terremoto in Afghanistan supera le 1.400 WSJ, 31 agosto 2025 – L’Afghanistan è stato colpito da un mortale terremoto di magnitudo 6.0 RFE/RL, 1 settembre 2025 – Le donne afghane subiscono le conseguenze del terremoto a causa delle restrizioni imposte dai talebani   Lucia Montanaro
Richiesta di aiuto per il terremoto in Afghanistan
Il cuore si spezza nel raccontarvi la tragedia che si sta consumando nelle province afgane di Kunar e Nangarhar. Dopo il terribile terremoto che ha raso al suolo interi villaggi, si contano oltre 1500 vite spezzate e più di 2500 feriti, tra cui innocenti bambini e donne. Le immagini di dolore sono strazianti: lacrime che si mescolano alla polvere, famiglie distrutte dal lutto, sopravvissuti intrappolati sotto le macerie, ancora in attesa di un aiuto che potrebbe arrivare troppo tardi. L’associazione FAWN, insieme alle altre organizzazioni locali, è sul campo, cercando disperatamente di salvare chi si può, di asciugare quelle lacrime e di scavare tra le macerie per trovare ancora qualche anima da salvare. Ma il bisogno è immenso, e il tempo è contro di noi. Tanti sono ancora intrappolati, tanti altri hanno perso tutto, e le ferite, visibili e invisibili, sono profonde. In questo momento di immensa sofferenza, abbiamo urgente bisogno del vostro aiuto. Una piccola donazione può fare la differenza tra la vita e la morte, tra la speranza e la disperazione. Vi chiediamo di unirvi a noi, di tendere una mano a chi non ha più niente, di diventare parte di questa lotta per la vita. Aiutateci a salvare vite, a portare conforto e speranza in un momento di dolore inimmaginabile. Perché anche nel buio più profondo, la luce della solidarietà può fare la differenza. Vi ringraziamo con tutto il cuore. https://www.gofundme.com/f/aiutaci-ora-la-speranza-ha-bisogno-di-te?utm_campaign=man_sharesheet_dash&utm_medium=customer&utm_source=copy_link&lang=it_IT&attribution_id=sl%3Abbd33f15-2835-4b84-8088-bd10ae10d10a Walimohammad Atai
Afghanistan, quattro anni di ingiustizia e impunità
 “Le autorità talebane devono ripristinare un quadro giuridico formale e lo stato di diritto” In occasione del quarto anniversario della presa del potere da parte dei talebani in Afghanistan, Amnesty International ha sollecitato le autorità di fatto talebane a porre immediatamente fine all’amministrazione arbitraria e iniqua della giustizia, ripristinando un quadro costituzionale e giuridico formale e lo stato di diritto, in conformità agli obblighi dello stato ai sensi del diritto internazionale dei diritti umani. Da quando nell’agosto 2021 i talebani hanno assunto il potere, l’intero sistema giuridico afgano è stato smantellato e sostituito da un assetto normativo basato sulla religione, plasmato secondo un’interpretazione estremamente rigida della legge islamica (shari’a): un sistema segnato da profonde incoerenze, impunità dilagante e mancanza di assunzione di responsabilità, processi arbitrari, iniqui e non pubblici nonché punizioni inflitte sulla base di pregiudizi personali, comprese frustate pubbliche, maltrattamenti e torture. “Dopo quattro anni dalla presa del potere dei talebani ciò che rimane è un ordine giuridico profondamente nebuloso e coercitivo, che dà priorità all’obbedienza invece che ai diritti umani, al silenzio anziché alla verità”, ha dichiarato Samira Hamidi dell’ufficio campagne per l’Asia meridionale di Amnesty International. “Il sistema giudiziario dei talebani sta causando evidenti errori giudiziari. Non solo si è allontanato dagli standard internazionali sui diritti umani, ma ha anche annullato quasi due decenni di progressi”, ha aggiunto Hamidi. “Non c’è una legge alla quale appellarsi” Prima dell’agosto 2021 la legislazione afgana si basava su una Costituzione scritta e veniva adottata da organi parlamentari elettivi, grazie ad alcune riforme avviate nel 2001 che avevano portato a diversi miglioramenti. I tribunali operavano su più livelli (tribunali di primo grado, d’appello e corte suprema) e si avvalevano di pubblici ministeri indipendenti e di strutture autonome per la difesa legale. Le sentenze erano in genere documentate, soggette ad appello e sottoposte a controllo pubblico. Sotto il controllo dei talebani, i procedimenti giudiziari si svolgono generalmente davanti a un singolo giudice (qazi), affiancato da un esperto di diritto religioso (mufti), il quale esprime pareri sull’emissione di verdetti religiosi (fatwa) sulla base dell’interpretazione personale dei testi sacri. Un ex giudice ha spiegato ad Amnesty International le forti discrepanze nelle sentenze, dovute al ricorso a diverse scuole di pensiero islamico (fiqh) e orientamenti giuridici: “In alcune zone le decisioni si basano sul manuale Bada’i al-Sana’i, mentre in altre si fa riferimento al Fatawa-i Qazi Khan. Lo stesso reato può portare a verdetti completamente differenti”. Per un’accusa come il furto le sanzioni possono variare dalle frustate pubbliche alla detenzione di breve durata, a seconda delle interpretazioni individuali. Questa mancata uniformità ha reso il sistema giudiziario instabile, imprevedibile e arbitrario. Un ex pubblico ministero ha riferito che in alcuni tribunali rurali i giudici venivano visti consultare testi religiosi durante i processi alla ricerca di riferimenti ritenuti adeguati, con conseguenti lunghi ritardi e risultati incoerenti. L’assenza di leggi nazionali codificate ha privato le persone, tanto quelle comuni quanto quelle che praticano la professione legale, di qualsiasi certezza e chiarezza riguardo ai propri diritti e responsabilità. L’eliminazione delle donne dal sistema giuridico Prima della presa del potere da parte dei talebani, le donne ricoprivano attivamente il ruolo di giudice, magistrata e avvocata. Rappresentavano tra l’otto e il dieci per cento della magistratura e quasi 1500 erano registrate come avvocate e consulenti legali presso l’Ordine indipendente degli avvocati dell’Afghanistan, circa un quarto della sua intera composizione. Oggi la maggior parte di loro è costretta a nascondersi o a fuggire, dopo essere stata allontanata dal proprio incarico in seguito all’ascesa al potere dei talebani. Le istituzioni che un tempo offrivano tutela ai diritti delle donne, come i tribunali per la famiglia o i dipartimenti di giustizia minorile e contro la violenza sulle donne, sono state smantellati, lasciando le donne prive di un reale accesso alla giustizia e a rimedi effettivi. Come ha affermato un ex giudice: “Nei tribunali dei talebani la voce di una donna non viene ascoltata, non perché non abbia nulla da dire ma perché non è rimasto nessuno disposto ad ascoltarla”. “Viviamo tutti nella paura” Una ex giudice, che aveva prestato servizio presso un tribunale per la famiglia a Kabul e oggi vive in esilio, ha dichiarato: “Non esistono indipendenza del potere giudiziario né processi equi e non c’è accesso alla difesa legale. Avevamo costruito un sistema giuridico con delle regole e da un giorno all’altro [i talebani] lo hanno trasformato in qualcosa di spaventoso e imprevedibile”. Sotto il controllo dei talebani i processi si svolgono spesso in segreto. Non esiste un sistema di controllo pubblico e le sentenze non sono documentate né motivate. Le persone vengono arrestate senza mandato di cattura, detenute senza processo e, in alcuni casi, sottoposte a sparizione forzata. Un ex pubblico ministero ha raccontato: “Prima dell’agosto 2021 dovevamo giustificare ogni arresto con prove documentate e indagini. Ora qualunque persona può essere fermata per come si veste o per aver espresso un’opinione e nessuno chiederà il motivo”. Le condanne pronunciate in assenza di un processo equo o di un adeguato riesame legale consistono spesso in pene corporali come le frustate o in esecuzioni capitali, che hanno luogo nelle piazze cittadine o negli stadi. Tali atti violano il diritto alla dignità e alla protezione contro la tortura e le esecuzioni extragiudiziali. Diverse testimonianze hanno riferito di frustate in pubblico ai danni di giovani uomini per aver ascoltato musica o di donne per non essersi completamente coperte. Queste azioni pubbliche non sono solo punizioni: sono strumenti di paura e controllo. L’ex pubblico ministero ha aggiunto: “Viviamo tutti con il timore di essere il prossimo esempio”. “Il sistema giudiziario dei talebani mina i principi fondamentali di equità, trasparenza, assunzione di responsabilità e dignità. Non è costruito sulla tutela dei diritti umani ma sulla paura e sul controllo. Per molte persone in Afghanistan, soprattutto per le donne, la giustizia non è più qualcosa a cui aspirare, ma qualcosa senza la quale bisogna imparare a sopravvivere”, ha concluso Samira Hamidi. I talebani devono revocare immediatamente le loro leggi repressive, porre fine alle pene corporali e rispettare i diritti umani di tutte le persone. Devono inoltre rispettare, proteggere e garantire in modo attivo ed efficace l’indipendenza del potere giudiziario e lo stato di diritto, anche attraverso una riforma del sistema giudiziario e assicurando che giudici, avvocate e avvocati, magistrate e magistrati e altre figure giuridiche possano fornire servizi alla popolazione afgana in conformità agli obblighi assunti dal paese ai sensi del diritto internazionale dei diritti umani. Amnesty International ha esortato la comunità internazionale ad agire senza indugio, esercitando pressioni diplomatiche e avviando un confronto fermo e basato su princìpi con le autorità di fatto talebane, per esigere il ripristino di un sistema legale formale, la protezione dei diritti umani e lo stato di diritto in Afghanistan. Amnesty International